L`ALTRA GIoconDA DI LEonARDo

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L`ALTRA GIoconDA DI LEonARDo
Silvano Vinceti
L’altra Gioconda
di Leonardo
I misteri di un capolavoro
ritrovato
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Capitolo primo: Il primo viaggio a San Pietroburgo
La telefonata
La decisione e la partenza per San Pietroburgo
L’incontro con la Gioconda con le Colonne
L’incontro con la Flora
La Gioconda con le colonne dischiude i primi tesori
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Capitolo secondo: Il ritorno a Roma
Inizia la ricerca storica
Sulla possibile seconda Gioconda di Leonardo
La “H”: un cartiglio inaspettato sul verso della Gioconda?
Chi era Lisa Gherardini?
Lisa Gherardini è stata la prima modella, il Salai il secondo?
L’esame critico delle variegate teorie sulla identità della Gioconda
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Capitolo terzo: La possibile seconda Gioconda
Era ora di affrontare la caotica matassa della possibile seconda
Gioconda di Leonardo
Lo studio preparatorio fondamentale nella perizia sulla
Monna Lisa russa
Il secondo viaggio a San Pietroburgo
La ricerca dei resti mortali nel convento di Sant’Orsola
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Capitolo quarto: Riprende la perizia sulla Gioconda russa
Leonardo o non Leonardo?
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Bibliografia
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Un ringraziamento particolare alla Vittoria
per il suo prezioso contributo umano offerto.
Ringrazio anche la Stefania Romano per il ruolo di coordinamento
e raccolta della documentazione storica;
il prof. Giorgio Gruppioni della Università di Bologna,
l’Architetto Gianfranco Romandetti di Firenze
e la dott. Patrizia Maselli di Reggio Emilia .
Capitolo primo
Il primo viaggio a San Pietroburgo
La telefonata
Uno squillo di telefono ha un potere ambiguo: suscitare una ridda
di variegate emozioni. Spesso telefonate dai contenuti luminosi e solari
precedono e seguono altre telefonate dal sapore grigio e tetro.
Era una giornata di un dicembre morbido, dai colori vellutati e tenuti.
Roma, quando è avvolta da questo scialle pittorico, assume un fascino
discreto e intimo. Nel mio studiolo collocato nella ridente e seducente
Trastevere, il pomeriggio era dedicato allo studio e alla scrittura. Nella
caotica e agitata capitale d’Italia, se non ci si ritaglia un tempo per lo
spirito, si corre il serio pericolo di cadere in una specie d’appiattimento
intellettuale causato dal suo dispersivo stile di vita.
Il mio studio è molto spartano, pile di libri sono disordinatamente
accatastati vicino ad una piccola libreria dove ogni spazio è occupato da
una pubblicazione. Sulla scrivania di noce massiccia, oltre ad un computer
e una stampante, fogli sparsi, articoli di giornale, bigliettini da visita,
compongono un mosaico surrealista; insomma formano caoticamente un
insieme dove ogni elemento è collocato in quel personale e singolare
spazio fisico-spirituale. Le pareti di un giallino chiaro offrono un tocco di
rustica eleganza alla stanza. Alcuni quadri spezzano il dominio di questo
delicato colore e sprigionano un calore intimo che riverbera una parte
della mia interiorità. Ognuno di noi personalizza il luogo dove trascorre
quotidianamente parte del suo tempo di vita. In quello spazio fisico, gli
oggetti, le cose che lo compongono, le modalità della loro disposizione,
rispondono a un indefinibile e impalpabile folletto interiore che traduce
fisicamente certe nostre tendenze di cui non sempre siamo consapevoli.
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Io non sfuggivo a questa legge, difatti il mio studiolo era la mia piccola
tana dove ritrovavo una famigliarità, un riverbero d’interiorità, la
soddisfazione di alcuni bisogni.
Quel giovedì pomeriggio stavo approfondendo alcuni temi legati alle
concezioni della pittura sviluppate da Leonardo nel corso degli anni. Ero
immerso nelle mie letture e riflessioni quando squilla il telefonino, una
voce metallica e lontana mi chiede se ero il dott. Vinceti; ovviamente
rispondo di sì. La voce dai toni bassi parlava in un italiano striminzito
con una pronuncia non certo nostrana. La persona, di cui percepivo solo
il suo discorrere, m’informava che stava chiamando da Mosca per conto
di un collezionista d’arte. Con modi garbati e con un tono suadente mi
chiedeva un appuntamento dato che il collezionista russo, di cui era
portavoce, era interessato ad alcuni miei pareri su dei quadri in suo
possesso. Essendo di natura diffidente, per esperienza cauto e guardingo,
chiesi come mai si era rivolto proprio a me. Il misterioso personaggio
rispose che il suo mandatario era a conoscenza delle mie scoperte di lettere
e numeri nella Gioconda. Aveva seguito sui giornali e sulle televisioni
russe la mia conferenza stampa – tenutasi alla sala della stampa estera a
Roma – sulle mie ipotesi dei due modelli di cui si era avvalso Leonardo
nella realizzazione della Gioconda. Venire a conoscenza che anche nella
lontana Russia le mie iniziative avevano avuto una vasta eco mi riempiva
d’ebbrezza e gioia. Alla richiesta di un incontro risposi quindi di sì. A tale
immediata positiva risposta contribuì il mio amor proprio che il russo,
con le sue parole, aveva stimolato, alimentato e soddisfatto. Fissammo di
vederci la settimana seguente, precisamente il 16 dicembre. Il misterioso
russo sarebbe giunto all’aeroporto di Fiumicino accompagnato da un suo
connazionale che viveva a Roma e che qui era il suo punto di riferimento.
Terminata la telefonata, come mio costume, mi soffermai a pensare
ai contenuti della stessa. Il primo interrogativo ruotava su cosa questo
amante dell’arte, sicuramente ammiratore di Leonardo, poteva volere da
me. In questi casi l’immaginazione galoppa rapidamente e liberamente,
componendo intrecci strani e bizzarri, spesso vestendosi delle forme
del gioco, anticipando possibili eventi rispondenti a desideri o sogni, o
addobbandosi dei perturbanti colori d’intrecci dal sapore d’avventura.
Attesi questo incontro con una discreta apprensione. Il mio
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interlocutore era stato parco d’informazioni. Io, per una mia tendenza alla
discrezione, non avevo fatto domande, lasciando che quella vaghezza
e indeterminatezza legittimassero un ventaglio di ipotesi, anche le più
originali.
Il 16 dicembre alle 11 in punto, secondo l’orario concordato, suona il
citofono. Erano i russi. Li feci accomodare nel mio caotico studiolo. Il
primo ad entrare fu un uomo sulla quarantina, alto e massiccio, con uno
sguardo freddo e penetrante; dietro di lui una donna dal sorriso gentile e
accogliente, con una espressione arguta e profonda. Li sistemai alla meglio
dato che il mio studio è stretto e lungo e le cataste di libri e documenti
lasciano veramente poco spazio all’ospitalità. Dopo alcune parole di
rito, il russo dal corpo atletico, che aveva collocato sulla mia scrivania
la pesante cartella densa di documenti che portava con sé, mi informava
che la persona per cui operava aveva faticato a recuperare il numero e
il mio indirizzo. Comprendevo bene le difficoltà incontrate visto la mia
avversione all’uso di certi strumenti del web. L’uomo venuto dalla Russia
si manifestò di natura pratica, entrò subito nel merito, mi chiese conferma
del mio interesse per alcune opere in possesso del misterioso russo e
ovviamente gli risposi affermativamente. Trovavo affascinante ascoltare
attentamente il modo di parlare di questo uomo dagli occhi grigio-verdi.
Il suo italiano era passabile, maneggiava bene nomi, aggettivi e verbi, ma
la pronuncia era pessima. La cadenza russa, la durezza della lingua russa,
avvolgeva come una manto deformante le nostre melodiche intonazioni,
la ricchezza delle sfumature tonali e ortofoniche delle nostre vocali e
sillabe, le variegate declinazioni che caratterizzano le nostre parole e frasi.
Le mie elucubrazioni furono rapidamente interrotte dall’apertura della
macilente cartella che il russo compì con una certa pesantezza atletica.
La prima fotografia che mi mostrò era un quadro con un ritratto di donna
dai tratti orientaleggianti, con arabeschi barocchi; la seconda fotografia
mostrava un ritratto di donna elegante e raffinato, dai tratti dolci e soavi
che richiamava lo stile leonardesco. Poi venne la terza riproduzione e
alla sua vista rimasi basito e attraversato da uno stupore fibrillante. Si
trattava di una Gioconda con le Colonne di altissima fattura pittorica,
più giovane rispetto a quella del Louvre, ma di grande suggestione. Il
russo colse la mia forte manifestazione emotiva ma fu molto discreto,
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anzi quasi imperturbabile. Dopo alcuni secondi di silenzio, la sua robusta
voce si diffuse nel mio studiolo roteando per lo spazio fisico. Mi chiese
se ero disponibile a recarmi a San Pietroburgo per una diretta visione di
questa opera. Il proprietario del dipinto avrebbe pagato il disturbo e il
suo messaggero mi domandò quale fosse il compenso da me richiesto.
Rimasi per alcuni attimi in imbarazzo, che terminarono quando gli dissi
che avrei riflettutto sulla proposta e che in brevissimo tempo gli avrei
dato una risposta.
Durante la nostra breve conversazione la donna, dai capelli di un
morbido colore castano, rimase in silenzio, annuiva, ascoltava con la
massima attenzione, mutava le proprie espressioni facciali, sfoggiava
fugaci sorrisi accattivanti, muoveva il capo in sintonia con le altre parti
del suo corpo, esprimeva un linguaggio del corpo manifestante sensibilità
e attenzione alle piccole sfumature dialogiche.
Ci salutammo con il mio impegno di chiamarlo a breve giro di tempo.
La decisione e la partenza per San Pietroburgo
Rimasto solo, un intreccio di pensieri ed emozioni iniziarono a
vorticare nel mio animo cangiando rapidamente contenuti, luce e forme,
come le nubi in un cielo primaverile. Quella fotografia appena vista
aveva suscitato in me un inevitabile turbinio di pensieri, una Gioconda
con le Colonne completamente sconosciuta. Le immagini delle varie
Gioconde in giro per il mondo si dispiegarono nella mia memoria con
una rapidità soffocante. Nessuna di esse aveva le caratteristiche di
quella appena osservata; poche raffiguravano una donna più giovane
di quella del Louvre e altrettanto pochine erano quelle che avevano le
colonne. Mi chiesi se era possibile che un tale dipinto fosse stato, se
non nascosto, tenuto in qualche collezione privata senza che di esso
fosse apparsa una pur minima traccia? Vari dubbi solcarono il mio
cielo interiore: si poteva trattare di una copia recente, di un’opera di
un abile falsario, di una riproduzione avvenuta qualche secolo fa o in
un periodo collocabile nell’arco di tempo che la Gioconda di Leonardo
soggiornò a Fontainebleau, in Francia, presso la residenza estiva dei
Re. Per alcuni decenni il dipinto fu occasione di riproduzioni da parte
di giovani pittori provetti e con doti pittoriche elevate. Si trattava di una
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cerchia ristrettissima di promesse artistiche che venivano rigorosamente
selezionate e avevano l’avallo, se non del Re di Francia, di uno dei
suoi fidati uomini di corte. Le domande che mi attanagliavano erano
accompagnate da robusti dubbi, nel frattempo, si rafforzava la curiosità
di poter osservare il dipinto dal vivo. Non potevo scartare la possibilità,
forse remota, che il dipinto poteva essere un’opera a cui il grande genio
toscano aveva dato la sua indelebile impronta, realizzandolo in toto o
con l’ausilio di un suo allievo. Questa ultima eventualità, un’opera
realizzata a quattro mani, aveva un’antecedente nella Monna Vanna o
Monna Nuda, dove Leonardo e, forse il suo allievo prediletto, il Salai,
avevano intrecciato sensibilità e dita, come in una suonata di pianoforte
realizzata da due musicisti in contemporanea. Immediatamente sorse un
interrogativo problematico, un quesito che attraversava da secoli la storia
della Gioconda: Leonardo poteva avere realizzato due Gioconde come
dipinse due Vergini delle Rocce?
Si trattava di un quesito fondamentale a cui gli storici non erano
riusciti a dare risposte convincenti, fondate e oggettive. La possibilità
che il pittore Vinciano potesse avere realizzato due Gioconde nello
scorrere del tempo assunse le sembianze di un fiume carsico che emerge
e si nasconde, riemerge e si ri-nasconde, ma prosegue la sua corsa per
fondersi con un altro fiume o abbracciare e perdersi nel materno mare.
Questo rebus si cristallizzò immediatamente nella coscienza e da quel
momento mi avrebbe accompagnato per parecchio tempo.
Non so per quali arcani motivi ma la decisione di compiere questo
viaggio a San Pietroburgo non suscitava un entusiasmo frizzante e
vigoroso. Vi erano remore, vortici contrari che non riuscivo a spiegarmi;
forse l’idea che il proprietario del quadro potesse essere un oligarca russo
non mi esaltava. Benché fossi attratto dalla cultura russa e da alcuni suoi
insigni esponenti letterari e artistici, il modello politico era lontano dalle
mie idee. Probabilmente i motivi erano più banali, avevo paura di volare
e l’idea di rimanere chiuso in quella scatola viaggiante per alcune ore
mi atterriva. Per mio vizio di ricercatore volli rivedere le immagini di
tutte le gioconde sparse fra i vari musei del mondo. Volevo verificare in
modo più rigoroso se la Gioconda appena vista avesse qualche sorella
gemella fra le riproduzioni conosciute. La memoria è un grande dono
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dell’evoluzione naturale ma difetta un po’, era indispensabile, pertanto,
rivedere con attenzione tutte le immagini fotografiche delle altre.
Costatai che nessuna aveva le peculiarità di quella russa, anzi, quella
che il macilento cosacco mi aveva mostrato aveva tratti e caratteri che
le donavano una grazia, una perfezione, un’anima che non coglievo in
quelle che stavo esaminando. Fu così che i fattori psicologici contrari
alla mia partenza si attenuarono e un terso e luminoso cielo interiore,
riscaldato da un sole accecante, lasciò il posto ad un cielo solcato da
grigie e plumbee nubi.
Chiamai il russo informandolo che avevo maturato la mia decisione:
sarei andato in Russia. In pochi giorni il solerte russo procedette a
disbrigare le pratiche burocratiche e, dopo poco, mi chiamò informandomi
che la partenza sarebbe avvenuta intorno al dieci di gennaio, sempre se
la data mi fosse andata bene. Per questo mio consulto chiesi una certa
somma, utile a finanziare le ricerche del nostro Comitato, costituito anni
addietro e di cui facevano parte vari ricercatori accademici e non. Il russo
dagli occhi grigio-verde assentì alla richiesta immediatamente.
Dato che ritenevo utile realizzare una serie di fotografie in alta
definizione, indispensabili per un esame attento del dipinto nel suo insieme e
nei particolari più significativi, chiamai un mio caro amico documentarista,
Marco Visalberghi. Ho molta stima di questo colto e forbito produttore e
regista. Un uomo mosso da una grande passione per l’arte e la cultura in
generale, di poche parole, profondo, riflessivo, esperto di fotografia. Non
ero sicuro che avrebbe accettato di accompagnarmi in Russia ma dato che
lui, come me, era mosso da un focosa curiosità, sentivo che la proposta
lo avrebbe esaltato. Così accadde, avvisai l’atletico russo che sarei stato
accompagnato da un esperto in fotografia e gli ricordai che la frugalità
era il mio stile di vita. Avrei desiderato albergare in un semplice hotel e
anche per il viaggio non volevo trattamenti particolari; insomma la seconda
classe era preferita.
La partenza venne fissata il 10 di gennaio, l’appuntamento era davanti
al mio studio in viale Trastevere a Roma. Il russo fu molto puntuale,
come lo stesso Visalberghi. Giunse con una macchina che non si poteva
descrivere modesta e contenuta. Arrivati in aeroporto e sbrigate le pratiche
d’imbarco, salimmo su un aereo della compagnia di bandiera russa. Il
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nostro accompagnatore ci fece da guida e ci fece accomodare in prima
classe. Eravamo solo noi tre. A quanto sembrava non avevano seguito le
mie indicazioni. Chiesi spiegazioni e lui, con un discreto imbarazzo, mi
informò che il suo datore di lavoro aveva insistito perché viaggiassimo
in prima classe. Gli chiesi come mai tutte le poltrone attorno a noi erano
vuote mentre, in seconda classe, dominava la ressa. Candidamente,
con un sorriso sardonico, rispose che il proprietario del dipinto aveva
acquistato tutti i biglietti della prima classe per farci viaggiare comodi
e sereni. Sia io che Visalberghi rimanemmo smarriti da questa risposta.
Ricordo molto bene lo sguardo che ci attraversò ma dato che non si
poteva fare diversamente, accettammo la situazione. Durante il viaggio
il nostro prodigo magnate aveva pensato che metterci a disposizione due
hostess, solamente per noi, avrebbe reso il volo più gioioso. Ricordo che
ci venne offerto il meglio che la compagnia aerea poteva offrire, io mi
limitai a poche cose dato che i miei flussi emotivi erano molto intensi, e
per via della mia alimentazione, spartana e controllata.
Dopo circa tre ore di viaggio – tranquillo – giungemmo nell’aeroporto
di San Pietroburgo, nevicava, faceva un freddo pungente. Vi furono
le solite operazioni di recupero bagagli e la solita attesa che si stava
prolungando eccessivamente. Senza dire nulla al nostro accompagnatore
decisi di uscire dalla sala di attesa per fumarmi una sigaretta. Appena
aperta la porta si dischiudeva un altro salone dove amici e familiari
attendevano le persone appena giunte da destinazione disseminate in
ogni angolo di mondo. Trovandomi in un ambiente nuovo ero attratto
e colpito da molte cose, una in particolare mi incuriosì: la presenza di
circa una decina di giovani con le teste quasi rasate, corpi atletici, giubbe
in pelle e dalla espressione tipica delle guardie del corpo. Pensai che
fra i passeggeri arrivati doveva esserci un personaggio importante e
che gli atletici giovani dovevano svolgere il loro compito di guardie del
corpo o addetti alla sicurezza del personaggio autorevole. Mentre stavo
gustando la mia sigaretta il nostro accompagnatore mi venne incontro
trafelato, agitato, con un tono un pochino forte, con una spruzzata di
minacciosità, mi disse che avrei dovuto stare vicino a lui, aspettare nel
salone dove erano in arrivo i nostri bagagli. Data la situazione, vista la
sua espressione irritata, sfoggiai una serie di scuse. Comprendevo bene
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che fra le sue mansioni vi era anche quella di vigilare su di noi, fare sì che
tutto procedesse nel migliore dei modi. Stavo rientrando con lui allorché
un uomo, di alta statura, dai capelli biondicci, con due occhi azzurri,
proferì ad alta voce il mio nome e cognome. Mi voltai e spontaneamente
risposi, pur se quella persona era per me un perfetto estraneo, non certo
per il nostro accompagnatore che si avvicinò a lui, lo abbraccio e lo
salutò calorosamente. Forse avevo di fronte il proprietario del quadro che
dovevo esaminare. Mi si avvicinò, mi strinse fortemente la mano, e con
entusiasmo mi disse, con le poche parole che sapeva di italiano, che era
onorato di fare la mia conoscenza.
Mi raggiunse anche Visalberghi, arrivati i bagagli stavo per acchiappare
i miei quando vidi alcuni di quei giovani centurioni romani avvicinarsi
con premura, per alleggerirmi di questo piccolo sforzo. Ivan, così si
chiamava il gigante dagli intensi occhi azzurri, diede delle indicazioni
in russo e la task-force che credevo fosse in attesa di una personalità
politica e istituzionale, si mosse sincronicamente verso di noi, con noi,
in direzione di tre macchine collocate nella piazzuola vicino alla uscita
dall’aeroporto. Ora era chiaro, il gruppo d’assalto era lì per noi, questa
costatazione sortì l’immediato effetto di un sottile e penetrante brivido
che zigzagò per il corpo. Ebbi un pensiero corsaro: ma dove sono giunto,
chi è questo Ivan, sogno o son desto? Le sorprese non erano ancora finite,
anzi. Ci stavano aspettando tre autisti su macchine nere, con i vetri dello
stesso manto: due super Range Rover ultimo modello e una Mercedes,
sempre nera, con i vetri oscurati. Ivan mi accompagnò alla Mercedes
assieme a Marco Visalberghi, le guardie del corpo montarono sulle due
Range Rover. Partimmo alla volta del centro città dato che l’aeroporto era
distante circa 10 chilometri. Comodamente seduto su questa bellissima
Mercedes, con il nostro accompagnatore che traduceva Ivan e ritraduceva
noi a Ivan, osservavo le grandi strade che stavamo percorrendo. Sbirciavo,
davanti e dietro si stagliavano le due super macchine che ci scortavano,
regolarmente poste a breve distanza da noi. Di fronte a tali immagini
sorsero spontanee delle sequenze fotografiche di film visti dove certi
personaggi erano scortati in modo non dissimile dal nostro. Tra quei
certi personaggi collocavo importanti uomini politici, d’affari e anche
altri, non certo commendevoli. Chissà forse era tutto un sogno, presto mi
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sarei svegliato nel mio lettone di viale Trastevere e tali rappresentazioni,
sarebbero rimaste figure sfocate e sfuggenti, come accade quando ci si
sveglia dopo un sogno intensamente vissuto. Sfrecciammo per le grandi
e accoglienti strade che portano nel cuore della città voluta da Pietro il
Grande avvalendosi dell’arte architettonica di molti italiani. Penetravamo
in questo incantevole centro storico, il gioco magico delle luci serali, il
tocco di grazia offerto da una bianca neve, vestiva di uno strato di bello
palazzi seicenteschi, arzigogolate chiese ortodosse, variegati facciate
di case dai colori tenui e morbidi. Giungemmo ad un hotel di gran
lusso dove ci fermammo. Ivan si fece tradurre poche parole dal nostro
accompagnatore. Si augurava che la sistemazione scelta rispondesse
alle nostre aspettative. Dato il trattamento di riguardo avuto in aereo, il
ricevimento all’aeroporto, il modo in cui eravamo stati accolti e scortati,
avevo accantonato la mia idea di frugalità, cominciavo a comprender
come ragionavano questi ricchi personaggi sovietici. Ti mettono a
disposizione il meglio che hanno e, se non accetti con piacere il dono, si
offendono. Si trattava di un Paese che non conoscevo, di una mentalità
che mi era estranea, di un modo di porsi verso chi ritengono importante
molto diverso dal nostro. Nel mio intimo, forse abbandonandomi ad una
certa vanità, l’essere trattato con un tale riguardo mi dava gioia, non
tanto per le comodità offerte, ma per la stima e la valorizzazione di cui
era fatto oggetto; attenzioni che non conoscevo nella mia bella e triste
Italia. L’albergo era uno splendore e la stanzina che avevo auspicato si
era trasformata in una suite talmente grande, da perdermi. Non mancava
nulla, dall’idromassaggio, allo studiolo.
Dopo circa due ore, il nostro accompagnatore mi citofonò per avvisarmi
che Ivan e la sua scorta ci stavano aspettando nella hall dell’albergo.
Scendemmo e venimmo di nuovo caricati sulla Mercedes super-lusso e
portati in uno dei migliori ristoranti di San Pietroburgo. La cena fu ricca
e abbondante, conforme alla tradizione della cucina sanpietroburghese.
Venne servita una miriade di antipasti, fra cui del pesce crudo di indicibile
bontà. Anche in questo caso dovetti accantonare le mie abitudini alimentari
ispirate alla semplicità e alla leggerezza. Sincerità per sincerità, non fu
un grande sacrificio. Non potevo nascondere a me stesso che il piacere
di una buona tavola è, e rimane, una di quelle delizie di cui, ogni tanto,
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conviene approfittare; d’altra parte potevo offendere i miei ospiti. Fu
così che con qualche pseudo-argomentazione risolsi alcune delle mie
apparenti incoerenze. Durante la parca mensa vi furono alcuni brindisi a
base di vodka, si tratta di un costume molto radicato e diffuso in Russia.
Io volevo esimermi dall’ingerire liquori ma il mio accompagnatore mi
suggerì caldamente la partecipazione a questi momenti che hanno il
sapore di sacralità per i russi, quindi per l’uomo che mi aveva scelto e
invitato nella sua città per una possibile perizia a quella Gioconda con le
colonne. Data l’importanza che rivestiva questo dipinto ero disponibile
anche ad ubriacarmi. Non nascondo che quando ci alzammo da tavola
per raggiungere la macchina ebbi alcuni piccoli problemi di equilibrio.
Chissà, forse sarà stato il fondo ghiacciato o la stanchezza.
L’incontro con la Gioconda con le Colonne
Fu una notte insonne, non so se per effetto dell’alcol o per la trepidante
attesa dell’incontro con il dipinto. L’appuntamento era per le nove. Ci
trovammo nella hall dell’albergo. Quando Visalberghi ed io giungemmo
nel fastoso salone dell’albergo, il nostro ligio accompagnatore ci stava
aspettando in compagnia del nostro autista. Uscimmo immersi in un buio
pesto, un freddo micidiale mi avvolse il corpo. Rimasi per un attimo
interdetto e guardai l’orologio, mi sembrava paradossale che alle nove
del mattino fosse ancora buio. Non avevo calcolato che a San Pietroburgo
in inverno il sole sorge verso le 12. Trovai questa particolare condizione
atmosferica bizzarra e smarrente. Le abitudini fisiche, oltre alle mentali,
sono fortemente radicate e quando vengono spezzate provi un senso di
vuoto e di momentaneo stordimento. L’esperienza che stavo vivendo ne
era una prova incontrovertibile. Dopo circa trenta minuti percorrendo
grandi e ariose strade, altre più minute e riservate, giungemmo davanti ad
un palazzo dallo stile architettonico tipicamente settecentesco e con una
forte impronta estetico-italica. Ci venne incontro Ivan. Dopo aver aperto
un massiccio portone di rovere si dischiuse ai nostri occhi l’interno del
palazzo di bella fattura estetica, una lunga scala saliva verso l’alto. Noi
ci dirigemmo verso una specie di guardiola collocata a sinistra della
scala. Due guardie giurate dall’aspetto pacifico e tranquillo svolgevano
la loro funzione di controllo. Dato che eravamo in presenza di Ivan si
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limitarono ad un saluto dai tratti reverenziali. Entrato mi trovai di fronte
un grande salone dove erano collocati in modo disordinato varie opere
d’arte: sculture, mosaici di natura ortodossa, dipinti sempre di matrice
ortodossa, piccole vetrine colme di paramenti sacri, calici, ostensori
sempre ortodossi. Ivan ci fece segno di seguirlo, attraversammo buona
parte del salone e giungemmo davanti ad un grande dipinto di sgocciolante
bellezza. Coglievo nel suo stile e nella raffigurazione un riverbero
italiano; di fatto Ivan puntò il dito verso il dipinto e pronunciò il nome
di Raffaello. Sia io che Visalberghi rimanemmo colpiti dalla presenza
di un dipinto di Raffaello collocato, alla bene e meglio, assieme ad altre
opere disordinatamente sistemate. Giungemmo ad un piccolo ufficio che
si trovava alla fine del salone, ci venne offerto del caffè con pasticcini
da una signora dai tratti aristocratici, elegante, con un viso armonico e
di bella fattura. Ivan iniziò a parlare e il fido traduttore ci esponeva il
suo pensiero. L’opera che dovevo visionare si trovava al piano superiore,
assieme ad altri due dipinti, le cui fotografie avevo visionato a Roma.
Ivan, durante il suo discorso, si soffermò più volte in apprezzamenti di
stima e di ammirazione per le mie scoperte, sperava che potessi assumere
la perizia di questa opera a cui teneva molto.
Poi accadde un fatto che mi lasciò confuso e, nello stesso tempo,
meravigliato. Ivan mi donò un orologio d’oro con quadrante costellato
di rubini che portava il simbolo della repubblica sovietica, riprodotto in
cinquanta esemplari e, la cosa più incredibile, firmati da Putin. Ma ciò
che scatenò la mia ilarità, mista ad una buona dose di vanità, fu il sapere
che l’orologio donatomi portava il numero due della serie, Berlusconi
ne possiede uno che riporta il numero cinque. Fu lo stesso Ivan con un
sorriso intrecciato di compiacimento, un pizzico di ironia, una spruzzata
di ilarità, a riferirmi questo aneddoto sottolineando che era una gioia
farmi questo omaggio. Emergeva un altro segno di questa mentalità
russa, quando valutano molto positivamente una persona sono di una
generosità infinita, pratica poco diffusa nel nostro Paese. Pensavo che il
regalo ricevuto fosse fin troppo ma ecco che il gigante dagli occhi azzurri
mi pose una elegante confezione a cui seguì un cenno ad aprirla. Rimasi
di nuovo colpito nel vedere uno splendido cucchiaio in oro massiccio,
adornato da piccoli diamanti, che riproduceva una delle tante opere del
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famoso Fabergé. Fui colto da forte imbarazzo, i due doni assieme mi
sembravano eccessivi e incredibilmente preziosi, ero tentato di rifiutare
il secondo regalo; anzi stavo per ridarlo ad Ivan quando il nostro fedele
russo italico mi guardò con una espressione molto eloquente e chiara: se
lo avessi fatto si sarebbe offeso. Per un attimo non sapevo che fare, poi
mosso anche dal valore del regalo, volendo evitare una increspatura nel
rapporto con Ivan, optai per tenere il generoso dono.
Nel frattempo si intensificava l’eccitazione per la vista alla Gioconda
con le colonne. I secondi scorrevano, si dilatavano, sembravano
interminabili. Stavo vivendo la dimensione soggettiva del tempo che
spezza la sequenza lineare di attimi sempre uguali e convenzionalmente
quantificati. Quei secondi che scorrevano, si dilatavano, assumevano le
vesti di ore e giorni e tale vissuto mi richiamò alla mente una serie di
sculture sul tempo di Dalì che vidi a Venezia molti anni fa. Si trattava
di sculture di orologi dove, alcune parti del quadrante che indicava ore e
minuti, erano dilatati, formavano una composizione scultorea irregolare
e bizzarra. Allora mi limitai a una esperienza estetica, ora avevo colto
il senso profondo di quelle opere di Dalì: traduceva nei deformati e
allungati orologi, il suo vissuto interiore del tempo.
Finalmente ci incamminammo verso le scale che portavano al piano
superiore. Salendo ebbi occasione d’ammirare una serie di mosaici di
chiara impronta bizantina che rimandavano a Ravenna, patria di quell’arte.
Giungemmo su un pianerottolo, al centro si trovava il quadro coperto
da un raffinato panno dal colore amaranto. Ivan mi fece cenno di pormi
di fronte al dipinto coperto e, dopo un breve silenzio, tolse il manto rosso.
Il dipinto che vidi mi scatenò un vorticare di emozioni forti e sanguigne.
Vissi un’esperienza forse irripetibile, a cui aveva contribuito la lunga
attesa, le fantasie di giorni e giorni e l’idea che quell’opera potesse
veramente essere stata partorita dal genio creativo di Leonardo. Rimasi
per circa un minuto ammutolito, se avessi potuto tradurre in suoni e parole
la marea di sensazioni che scorrevano dentro di me, sarebbe emerso un
boato, un urlo primordiale.
Ivan mi guardava con uno scrupolo quasi maniacale, Visalberghi
aveva gli occhi spalancati, il nostro fido accompagnatore manteneva il
suo imperturbabile atteggiamento. Passato il momento di estasi estetica
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chiesi a Ivan di poter rimanere qualche minuto da solo con il dipinto,
assentì, si allontanò portando sottobraccio Visalberghi e il fedele servitore.
Difficile tradurre in parole il flusso di immagini e di flutti fisiologici
che mi attraversarono. Si trattava di una esperienza indefinibile dove
l’immedesimazione, l’intuizione, la partecipazione empatica e una specie
di fusione misticheggiante, s’accavallavano, s’intrecciavano tra loro.
Ero sospinto entro il quadro, oltre esso, in una specie di metamorfosi
trasfigurativa, una trascendenza corporea e sentimentale che volava oltre
il dipinto, un viaggio a ritroso nel tempo in cui, a sprazzi, mi apparivano
immagini in cui l’artista era intento a dipingere la sua opera. Un fenomeno
apparentemente irrazionale ma ben conosciuto dagli artisti nella fase più
acuta dei loro processi creativi. Un accostare a cose concrete percepite
– qui e adesso – fuori di noi un altro mondo proveniente dalla memoria,
costituito da intrecci d’immagini di eventi umani, forse sperimentate, o
in parte composte con diversi frammenti di percezioni realizzate. Non si
trattava di un semplice esercizio di auto-ascoltazione interiore, né tanto
meno di una pratica di soggettivo scavamento psicoanalitico. Piuttosto
si trattava di tentare di descrivere se quanto mi stava accadendo potesse
essere riconducibile ad un inusuale modo di cogliere tracce di un passato
che il dipinto suscitava e che poteva rivelarsi utile nel caso in cui avessi
deciso d’assumere la perizia. Non si sa mai per quali strade psicologiche si
può far levitare nuove conoscenze. Sicuramente esistono diversi percorsi
che ci portano al vero. Quello scientifico, razionale è uno ma non l’unico.
Dopo circa dieci minuti chiamai il nostro interprete per informarlo
che il momento di singolare intimità con il dipinto era terminato. Ivan
cominciò a pormi una serie di domande: che cosa ne pensavo del dipinto,
dello stile, della realizzazione, del modo in cui il pittore aveva sfruttato
lo spazio pittorico, se poteva esserci l’impronta di Leonardo o di un suo
allievo. Infine, dopo una lunga pausa, mi chiese se ero intenzionato ad
assumere l’incarico per una expertise del dipinto. Gli risposi che per quanto
riguardava la decisione in merito alla perizia, mi riservavo di osservare,
con attenzione e cura, le fotografie in alta-definizione che Visalberghi
avrebbe fatto. Risposi alle altre domande: il dipinto era bellissimo, di
altissima fattura, il gioco del chiaro-scuro era mirabile. Lo stile era in
armonia con il carattere della realizzazione dell’opera. Anche il modo in
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cui l’opera era stata tradotta su tela era all’altezza dello stile, dell’insieme
degli elementi che componevano il quadro. Per quanto concerneva lo
spazio pittorico, chi aveva realizzato l’opera, lo padroneggiava con
abilità e fermezza, constatato che ogni parte del dipinto occupava spazio
e collocazione in modo equilibrato e con finezza di visione d’insieme.
La vista della Gioconda con le Colonne sconosciuta aveva fortemente
lievitato la mia intenzione di accettare la perizia. Per il momento, la
decisione rimaneva chiusa nella mia coscienza. Nel frattempo informai
Ivan della nostra intenzione di procedere la mattina successiva a
realizzare le fotografie in alta definizione. Si trattava di un lavoro che
doveva essere eseguito scientificamente, ripartendo il dipinto in una serie
di quadretti, grazie all’ausilio di una struttura composta con piccole corde
razionalmente predisposte. L’operazione ci avrebbe impegnato per tutta
la mattinata e parte del pomeriggio.
Ivan nel frattempo non cessava di manifestarsi pieno di piacevoli
sorprese e aveva organizzato un incontro con il governatore di San
Pietroburgo e poi una visita al museo dell’Ermitage, con relativa
presentazione del direttore del museo. Forse era anche un modo tutto
russo per farci comprendere la sua influenza nella città, i legami altolocati
che aveva. Non solo aveva programmato questi due incontri ma, per il
giorno seguente, terminato il nostro impegno fotografico, vi era un invito
alla Dacia del governatore di San Pietroburgo. Si trattava di un atto di
alto valore per i costumi russi: essere invitati nella Dacia di un politico
importante è segno di grande considerazione. Insomma l’uomo dai
capelli biondo-argentati, dalla statura alta e massiccia, dagli occhi freddi
e azzurri intensi, era uno che contava molto. Ci teneva a farlo capire in
modo chiaro, diretto e nello stesso tempo, era sintomo di grande rispetto
e valorizzazione Visalberghi e della mia persona.
Tutti questi eventi che si susseguivano stimolavano la mia curiosità
per un popolo che non conoscevo. Erano piccole losanghe di un mosaico,
antropologico, psicologico e di costumi che emergeva gradualmente per
comporre un’immagine d’insieme sulla cultura e anima di un russo che
incarnava tratti comuni e diffusi di un certo ceto sovietico. Senza che
lui lo se ne rendesse conto gli ero molto grato anche per il materiale
umano che mi offriva, assimilavo, elaboravo. Oltre al mio interesse
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umano, psicologico ed esistenziale per un altro mondo e per una società
extra-europea, vi era la personale esigenza di comprendere la persona
che avevo di fronte, capire come pensava, i valori che la muovevano, gli
ideali che l’attraversavano e, infine, tentare di ricostruire gli scopi che la
muovevano; in particolare, per il quadro che possedeva.
Ivan dopo aver guardato l’orologio ci sollecitò a sbrigarci, il
governatore della città ci stava aspettando per un saluto e per un doveroso
atto di accoglienza. Dopo pochi minuti eravamo in macchina alla volta
della sede del municipio di San Pietroburgo collocato al centro della città
in un vecchio palazzo dai colori morbidi e dallo stile settecentesco, come
buona parte dei palazzi di questa città, sorta dal nulla fra il Seicento e il
Settecento. Entrammo in un ampio cortile ciottolato, abbellito da un fine
colonnato che lo cingeva dandogli una forma architettonica, aggraziata,
misurata e accogliente. Salimmo una lunga scalinata posta al centro del
cortile, al suo interno, collocate in specifiche nicchie, facevano bella
mostra di sé una serie di sculture in marmo richiamanti personaggi legati
alla storia della città. Alle pareti grandi dipinti, raffiguranti battaglie
campali e iconografie agresti, occupavano, riempiendo di forme e
colori intensi, il grande spazio che sovrastava la scalinata a semicerchio
che portava al primo piano del palazzo dove si trovava l’ufficio del
primo cittadino di San Pietroburgo. Ad attenderci sul pianerottolo una
giovane donna molto bella, slanciata, di buone maniere che ci invitava
a seguirla per raggiungere il governatore che ci stava aspettando. Dopo
aver attraversato tre enormi stanze con scrivanie e persone al lavoro,
giungemmo davanti alla porta della sede del governatore. Stavamo per
entrare quando ci apparve un uomo dai folti baffi, di altezza media, con
collo taurino, fisico robusto e muscoloso, dagli occhi marroni intensi e
un sorriso cordiale e giocoso. Ivan abbracciò calorosamente l’uomo e
poi gli fece le presentazioni. Si trattava del governatore, il quale con fare
amichevole si presentò stingendomi la mano con decisione. Dopo di che
ci invitò ad entrare nel suo studio. Si trattava di una stanza in cui poteva
stare una intera scolaresca, con una mastodontica e compatta scrivania
in noce massiccia, dal sapore barocco. Alle pareti alcuni arazzi di grande
fattura e dai colori sgargianti e vivi, alcuni dipinti raffiguranti notabili
e personaggi illustri, nell’angolo destro della stanza la bandiera di San
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Pietroburgo e quella della Repubblica Sovietica. Nell’angolo sinistro
una serie di vecchie spade e lance che potevano risalire al periodo della
fondazione della città o poco dopo. Il soffitto della stanza era decorato
con motivi floreali e al centro del soffitto si stagliava un’altra scena di
guerra che probabilmente ricordava un significativo evento bellico della
storia della città.
Il governatore era un uomo molto gioviale, ci accolse con grande
calore e sincero entusiasmo. Mi fece molte domande sulla mia attività
di ricercatore e mi stupì molto constatare che conosceva le mie ricerche
compiute su Caravaggio e in particolare sulla Gioconda e Leonardo.
Ebbi un fulmineo pensiero cattivello, ma vero: avevo di fronte il primo
cittadino di una città molto più grande di Roma che mi apprezzava,
sapeva molte cose del nostro operato e in Italia; al contrario, nel mio
Paese natale, pochi sapevano quello che stava facendo, tanto meno,
credo, il Sindaco.
Il colloquio proseguì in modo amabile e cordiale. Il governatore
aveva un senso sottile dell’ironia e del gioco, virtù che non avevo ancora
incontrato nella mia presenza in terra straniera. Ricordo vividamente il
suo racconto sulla sua origine cosacca, il coraggio, la forza militare che
nella narrazione ebbe occasione di rivelare. La visita fu breve anche
per l’incombere dell’altro appuntamento con il direttore del museo
dell’Ermitage. Ero molto interessato a visitare questo grande contenitore
di magnifiche opere d’arte, fra cui si annoverano le creazioni artistiche
dei più grandi geni italiani, da Michelangelo, a Leonardo, da Raffaello al
Canova. Ero ansioso di vedere le tre grazie che si trovavano nel padiglione
dedicato agli italiani. Ma la presenza dei raffinati e creativi artisti italiani
non si esauriva con questi nomi. L’elenco era lungo e tale da inorgoglirmi.
Era un’ulteriore prova che l’Italia ha dato i natali a molti, pittori, scultori,
architetti che hanno ubriacato di bellezza il mondo.
Con una certa fretta partimmo alla volta dell’importante museo,
nel frattempo la luce solare e un discreto sole cospargevano la città di
magico incanto, un’atmosfera particolare ricopriva i suoi palazzi, le sue
chiese, le sue vie e i suoi canali. Dopo circa venti minuti giungemmo
davanti all’Ermitage, rimasi meravigliato dalla sua armonica bellezza
architettonica, dalla sua mole maestosa, dal verde che spiccava qua e là,
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dall’intreccio sapiente di orpelli architettonici che conferivano all’insieme,
una grazia speciale. Entrammo da una porta secondaria che si affaccia sul
maestoso fiume Neva. Era uno spettacolo della natura osservare questo
grande corso d’acqua interamente ghiacciato, il bianco lucido a contatto
con il sole sprigionava una sottile scia di accecante argento misto a un
rosa riservato. Il lato nord-est del grande museo era accarezzato e lambito
morbidamente da questo gigante d’acqua. La vista di due ponti aggraziati
e forse riconducibili a qualche secolo fa rendevano la visione d’insieme
gradevole, unita al palazzo museale, formavano un complesso di rara
bellezza, ove natura e arte architettonica, si danno la mano per offrirci
emozioni calde, gioiose e autentiche.
Appena entrati venimmo accolti da un uomo egregiamente vestito,
dal portamento marziale, ben curato in ogni suo dettaglio, con una folta
capigliatura dal color nero corvino. Parlò con Ivan e ci invitò a seguirlo.
Salimmo per una scala ampia e semplice, attraversammo due saloni
finemente curati, decorati con raffigurazioni agresti e fluviali, giungemmo
in una saletta d’attesa dove ci accolse una signora di mezza età con capelli
di un color rosso zigano, portava due grossi occhiali che facevano da
vetrina a due occhi di un vivo color verde mare. Ci chiese se volevamo un
caffè per addolcire la breve attesa, il direttore stava finendo un incontro
con una delegazione culturale proveniente dalla Cecoslovacchia.
Sorseggiato il caffè, dal gusto decisamente lontano da quello nostrano,
la donna dai capelli rossi ci invitò a seguirla. Entrammo nella stanza del
direttore del museo. Ci si presentò un uomo sulla sessantina, con pochi
capelli, di statura piccola e mingherlina, dalla voce sottile e penetrante.
Terminati i saluti di rito ci sedemmo e anche in questo caso fui colpito
dalle conoscenze acquisite sul mio operato e del Comitato che guidavo.
Aprì una cartella in cui erano riportati molti articoli di stampa sulla
ricerca dei resti mortali di Caravaggio, la scoperta delle lettere e del 72
nel quadro della Gioconda del Louvre. Non so per quale arcano motivo,
ma l’insieme delle informazioni che avevano raccolto sul di me invece di
far leva sulla mia vanità, insinuarono un repentino e guizzante sospetto.
Un tarlo che ebbe una fugace presenza che si sarebbe ripresentato in
forme più marcate e pressanti dopo il lungo pranzo avuto nella Dacia
del governatore di San Pietroburgo. Ivan conosceva bene il direttore
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del museo, si davano del tu, avevano un modo di rapportarsi tipico di
chi condivide una certa intimità. Il direttore ci avrebbe accompagnato
a visitare qualche padiglione del museo, mi chiese quali erano le nostre
preferenze. Personalmente, gli risposi risolutamente che avrei gradito
visitare il padiglione italiano costatato l’impensabilità di compiere
una visita all’intero museo; tutti erano d’accordo. Ci incamminammo e
rimasi colpito dalla scia di persone che, nel frattempo, si erano aggiunte
al nostro gruppo e che avevano un ruolo più estetico che utile. Ci sono
poche parole per descrivere minuziosamente l’interno di questo palazzo,
anzi insieme di palazzi, dato che fa parte del complesso museale anche
il mitico Palazzo d’inverno. Giunti al reparto italiano si dischiuse un
lungo e ampio salone con un soffitto in stile barocco, finemente decorato
con arabeschi vari e dispiegante un luccicante color oro. Alle ampie e
alte pareti erano collocati dipinti di rara magnificenza, al centro vi
erano alcune sculture, fra cui una di Michelangelo. Dentro di me ero
principalmente attratto dalla Tre Grazie del Canova, forse perché non
le avevo mai gustate dal vivo. Il direttore, con un certo orgoglio e una
punta di enfasi, ci accompagnò a vedere le due piccole madonne di
Leonardo che si trovano nel museo: la Madonna Litta e la Madonna di
Bevoire. Anche in questo caso conoscevo queste due opere vinciane solo
fotograficamente e la loro diretta percezione fu occasione di delicate e
ariose emozioni. A pochi metri dal grande toscano ecco spuntare un altro
genio fiorentino, Michelangelo Buonarroti. La sua traccia indelebile,
la sua inimitabile mano nella lavorazione del marmo s’incarnava nel
Ragazzo accovacciato. Un’opera di grande fascino, pur se sussistono
alcuni problemi d’attribuzione. Altri grandi pittori italiani riempirono di
delizia le mie pupille, poi ci spostammo in un altro salone, più piccolo
e lungo e qui, finalmente, mi apparsero come un’araba fenice, un sogno
di mezza estate, le Tre Grazie del Canova. Un complesso scultoreo
e marmoreo grondante di una delicatezza danzante, di una finezza
musicale, di una forma melodica e sublime, di una eleganza straziante.
Rimasi estasiato, sballottato, smarrito da questa opera che si stagliava
davanti ai miei occhi quasi volesse entrare in me, accogliermi dentro di
sé, farmi toccare, respirare la sua indicibile sensualità spiritualizzata.
Una fisicità marmorea che si veste della leggerezza, della soavità, di
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un movimento che si può percepire, un sottile e profondo spirito. I miei
occhi, del corpo e dello spirito, fissarono per alcuni minuti il capolavoro
del Canova, si nutrirono di quel bene immateriale, etereo, sfuggente e
imbrigliabile che risponde al nome di sublimità. Poco vicino, con mia
stupore, mi trovai un’altra opera del Canova che per mia ignoranza non
pensavo fosse in questo museo: Amore e Psiche. L’effetto della sua vista
fu forte ma non smarrente dato che, anni fa, avevo avuto occasione di
ammirare questo suo altro capolavoro sul Lago di Garda. Non ricordo
più in quale cittadina e il periodo preciso ma portavo dentro di me
quell’incontro che lasciò un’impressione indelebile. La percezione attuale
aveva prepotentemente risvegliato quei sonnecchianti ma vivi ricordi
del passato, creando uno strano effetto arcobaleno, un arco variopinto
a forma di ponte che univa i due periodi, l’adesso e il già stato, che in
me si fondevano insieme riscaldandomi il corpo e riempiendo di dolce
nettare lo spirito. Alcune impressioni di Amore e Psiche sono sempre
danzanti e vivaci in me: l’intreccio di primitiva sensualità, di un spirituale
e puro sentimento d’amore che si dipana nei due corpi, avvolti su di loro,
dove le loro membra sprigionano l’amor profano e l’amor celeste. I due
amori sorgono dal freddo marmo, si vestono di rosso sangue, di bianco
spirito per dipanarsi in un moto che sparge irripetibili emozioni dove, il
carnale e lo spirituale si uniscono per elevare il fruitore dell’opera d’arte
nell’ambigua e smarrente dimensione del superamento del contrasto fra
piacere corporeo e piacere dell’anima. Avrei voluto soffermarmi ancora
ma dovevamo rispettare i tempi, lo compresi molto bene da un certo
nervosismo di Ivan e dalla sollecitazione di Vladimir.
L’incontro con la Flora
Stavamo percorrendo a ritroso lo stesso percorso che avevamo seguito
in precedenza, quando il direttore mi si avvicina, con gesto significativo
mi invita a seguirlo. Poi si rivolge a Vladimir che solertemente mi riferì
che stavamo andando ad ammirare un dipinto di un allievo di Leonardo:
Francesco Melzi. Non ero a conoscenza che il Melsi avesse un’opera in
questo museo. In un angolo del grande salone, quasi semi-nascosto ecco
sorgere dall’ombra un dipinto d’una delicatezza e dolcezza disarmante. Si
trattava della Flora un’opera di cui avevo letto nelle mie prime ricerche
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su Leonardo. Un nome che viene pronunciato da un certo Lomazzo,
un poeta seicentesco che sosteneva la tesi secondo la quale Leonardo
aveva dipinto due Gioconde, una di queste aveva preso il nome di Flora.
Questo scampolo di ricordo impennò il mio interesse per quest’opera.
Dedicai molta attenzione alla pittura, provai una subitanea emozione
estetica soffusa, ricca di nuance, quasi riverberante la composizione
artistica ove gli elementi floreali sono raffigurati, con una precisione,
un’attenzione ai dettagli, una fedeltà di riproduzione incredibili. Il Melzi
era uno degli allievi prediletti del maestro, aveva seguito il Vinciano
nel suo ultimo viaggio in Francia, a Clos, chiamato dal Re di Francia,
Francesco I. Era stato vicino al genio italiano con una amabilità e una
disponibilità immensa. Leonardo si fidava ciecamente del suo allievo,
tanto è che nel suo testamento, redatto poco prima di morire, al giovane
lombardo lasciò i suoi preziosi manoscritti e tutte le opere che portava
con sé. Sicuramente il Melzi era un valido pittore, un allievo molto
promettente, ma la conoscenza che avevo di lui era di altro genere; in
particolare, rivestì una grande valenza il suo riordino di tutti i fogli di
Leonardo e della sistematizzazione del Trattato di pittura. Forse, ebbe
un ruolo significativo nella vendita della Gioconda al Re di Francia. Su
questa vendita sussistono varie ipotesi storiche e sembra che non vi sia
un documento certo della cessione e della cifra pagata. Il Melzi pittore
veniva oscurato dale mansioni svolte. Trovarmi di fronte ad un suo
dipinto, di cotale fattura, fu una piacevole sorpresa, resa ancor più intensa
dall’enigma che accompagna la Gioconda: la possibile sua gemella, anche
se si trattava di un’ipotesi tutta da verificare. Oltre a questi pensieri che
solcavano il mio interiore cielo mnemonico mi soffermai ad esaminare il
quadro nella sua interezza, quindi nei suoi particolari. Il viso aggraziato,
con riverberi efebi, riproponeva il tipico stile del maestro che ritroviamo
in molti suoi ritratti. Visi, espressioni, felicemente ambigue dove il
confine fra i delicati caratteri femminili e quelli maschili si stempera, si
perde in un vortice pittorico fascinoso e perturbante. Se il romanziere Dan
Brown ha potuto costruire la sua fantastica narrazione incentrata su Maria
Maddalena, amante di Cristo e donatrice di un figlio nato in Inghilterra,
è grazie alle sembianze effeminate del viso di Giovanni realizzato da
Leonardo. Una raffigurazione pittorica dove si perdono le differenze
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fisiognomiche fra il femmine e il maschile. Il Melzi, fedele a questa
creazione e stile pittorico, aveva riproposto nella persona di Flora alcune
di queste androgene caratteristiche anche se la componente femminea
trionfava su quella maschile, grazie ad un nudo seno che fuoriusciva
dolcemente e pacatamente da una camicetta ricca di morbide pieghe.
Altro particolare di grande valenza era rappresentato dalla geometrica
e dinamica forma impressa alle braccia e alle mani che richiamavano un
frammento di una dinamica onda marina, un pizzico di circolarità in via di
scomposizione, un delicato atto di tenera accoglienza di un piccolo ramo
forse di campanula. Rametto dipinto con estrema precisione e raffinatezza
che, la bella giovane, osserva con uno sguardo oscillante fra l’estasi
mistica, l’incanto della natura, il rapimento emotivo che le pervadono
di pathos e lirismo il viso. Sullo sfondo scuro si stagliano un insieme di
composizioni floreali, tra rami di felce e di ciliegio, vestiti di un argento
serale e di altre tenui nuance che danzano sincronicamente con lo sfondo.
Una composizione di un’efficacia tale da far sgorgare l’illusione dello
sbocciare d’un vortice di verde scuro, marrone, con gocce di blu notte.
Particolari, non meno eccitanti, il colore della veste di un blu marino,
della camicetta, di un morbido ambra delicato e fibrillante di richiami
grigi nostalgici. L’insieme dell’opera zampilla di un variegato moto di
sensazioni. Leonardo sceglieva con cura i suoi allievi, a differenza di
molte botteghe artistiche fiorentine e toscane, la sua non riceveva soldi
per l’educazione artistica; anzi era lui a mantenere gli allievi come il
Salai, il Boltraffio e pochi altri.
Dopo questa imprevista esperienza estetica, con forti connotati storicodocumentari rinvianti alla possibile seconda Gioconda di Leonardo,
salutammo e ringraziammo il direttore del museo, ci accomiatammo da
lui e dalle persone che avevano fatto da silenzioso e inoperante seguito,
riprendemmo il nostro il nostro viaggio automobilistico che ci portò in un
altro famoso ristorante di San Pietroburgo. Erano circa le 13 ore italiane
che corrispondevano alle 16 circa di San Pietroburgo. Il nostro anfitrione
Ivan era abituato a pranzare ad un orario insolito ma il ristorante dove
andammo fece un’eccezione per questo influente personaggio. Terminata
l’abbondante pranzo-cena, tornammo al luogo dove ci attendeva il
dipinto. Passammo qualche ora a sistemare il telaio che ci sarebbe servito
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per le fotografie il giorno dopo. La sera aveva di nuovo avvolto la città
in un fascino discreto. Era ora di tornare nel nostro hotel per riposarci e
riordinare le idee.
La Gioconda con le colonne dischiude i primi tesori
Il giorno dopo ci vennero a prendere al solito orario, le nove. Nella
mattinata dovevamo dedicarci alle riproduzioni fotografiche evitando
d’essere distratti o disturbati. Giungemmo nell’edificio dove Ivan avrebbe
dovuto realizzare un sorta di museo in cui avrebbe esposto alcune delle
sue opere al pubblico. Una delle tante stranezze di quel luogo era la chiesa
ortodossa di proprietà dello stesso Ivan che si trovava al piano superiore
e che era aperta al culto. Al nostro arrivo Ivan non era ancora lì. Salimmo
al piano superiore dove era custodito il bel dipinto. Visalberghi aveva
portato con sé le macchine fotografiche e stava completando il telaio che
sarebbe servito per scattare in modo razionale ed ordinato le fotografie. Io
iniziai un primo esame di questa Gioconda con le Colonne. La prima
cosa che mi colpì fu l’età della modella raffigurata. Il viso sembrava di
qualche anno più giovane rispetto a quello della sorella gemella del
Louvre. Si trattava di un particolare che si sarebbe rivelato molto
importante nell’elenco dei tratti peculiari di quel misterioso dipinto.
Mentre era assorto nella scrupolosa osservazione del quadro e dei suoi
particolari, mi ricordai di avere letto di uno studio compiuto dal grande
storico leonardesco, Carlo Pedertti, una di quelle notizie a cui non si dà
molta importanza sul momento. Ora che, stavo per iniziare una perizia
che fin dall’inizio si presentava con i tratti di un’affascinante avventura
scientifica, le poche righe lette assumevano nuova luce. Lo studio a cui si
era dedicato con professionalità e competenza Pedretti riguardava la
probabile scoperta dello studio preparatorio della Gioconda, rinvenimento
avvenuto in una collezione privata di un facoltoso francese. Come accade
di sovente, una notizia rimbomba, si amplifica dentro di te solo quando si
lega ad un problema o ad un quesito a cui bisogna dare risposta. Se ben
rammentavo, nello studio che aveva scorto rapidamente, vi era inserita la
fotografia del presunto studio preparatorio attribuibile a Leonardo. La
fotografia riportava una Gioconda più giovane di quella francese, con le
colonne ma il ricordo era sfocato, incompleto e quindi non molto
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attendibile. Appena tornato in Italia mi ero ripromesso di recuperare la
ricerca compiuta da Pedretti. L’Inizio di un’indagine di questa rilevanza
richiede di seguire tutte le possibili piste al fine di non trascurarne
nessuna. Comporta un certosino lavoro di analisi, studio e acquisizione di
dati utili allo scopo. Si doveva applicare un metodo flessibile e articolato
che permettesse di non trascurare nessun percorso indagativo portatore di
informazioni utili per la perizia. Mentre Marco era quasi pronto per
iniziare la serie di fotografie, io avevo notato un altro particolare che si
rivelava di grande significatività: le mani del dipinto erano più scure del
viso. Anche in questo caso dovevo avvalermi dei risultati raggiunti dal
massimo esperto di Leonardo in cinquanta e più anni di ricerca e studi.
Ricordavo con nitidezza che Pedretti scrisse in una delle varie opere
dedicate a Leonardo e alla Gioconda che tutte le copie della Gioconda, di
cui abbiamo conoscenza, compresa l’ultima scoperta nei sotterranei del
museo del Prado a Madrid, hanno una caratteristica inconfondibile; mani
e viso sono dello stesso colore. Solo la Gioconda del Louvre ha il viso più
chiaro delle mani. Sorprendente coincidenza, anche il dipinto che stavo
esaminando aveva le mani più scure del viso. Allo stato della mia ricerca
si trattava solo di una coincidenza, forse casuale, ciò che dovevo evitare
era di trarre delle conclusioni, pervenire a delle convinzioni non
supportate da nessun elemento storico-documentario e tecnico-scientifico.
Personalmente per evitare di innamorarmi delle mie ipotesi, cerare solo
argomenti che le confermino, trascurando altri confutanti, rifacendomi al
metodo falsificazionista di un grande filoso, Karl Popper. Il fine e
profondo pensatore aveva dato un saggio consiglio ai ricercatori: per
evitare di cadere in errore, di essere abbagliati dalle proprie attese, di
innamorarsi delle iniziali convinzioni si deve sottoporre a falsificazione
la propria ipotesi, se regge a tale verifica, si rafforzerà, diversamente va
accantonata o si richiede un supplemento di ricerca per superare la sua
debolezza e contraddittorietà. Ritenevo questa invenzione metodologica
ineccepibile e la seguivo da anni. Quanto sostenuto da Pederetti, rientrato
in Italia, doveva essere vagliato attentamente, sottoposto a verifiche
rigorose, per farlo avrei dovuto rileggermi attentamente le sue asserzioni,
compiere una dettagliata e completa ricerca storica su tutte le copie di
questo celebre dipinto. Accertarmi se nei suoi studi di scienza ottica
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Leonardo avesse esposto una tesi che potesse giustificare le mani più
scure del viso. Sapevo della esistenza di un’opera di Leonardo, De luci ed
ombre, andata persa anche se molte parti di essa si ritrovavano nel suo
trattato di pittura. Ero consapevole che la mia conoscenza di Leonardo
non era profonda, avevo iniziato ad interessarmi di lui da pochi mesi,
dopo aver felicemente concluso la ricerca sui resti mortali del grande
Caravaggio. Il primo attento esame del dipinto si era rivelato fertile,
aveva evidenziato due aspetti che si annunciavano di grande utilità e mi
avevano permesso di impostare una prima bozza di ricerca che avrebbe
seguito due strade, quella dello studio preparatorio e l’altra delle
osservazioni e considerazioni di Leonardo sull’effetto della luce del sole
o di altra luce sui corpi umani, sulle cose materiali, artificiali o naturali
che fossero. Era un buon inizio, e questo mi rese baldanzoso e felice. Nel
frattempo Visalberghi mi annunciò che era pronto per le fotografie, mi
chiedeva cosa doveva fotografare e con quale ordine. Siccome disponevo
di un tablet, nuovo di zecca, recuperai la migliore riproduzione della
Gioconda francese come guida per riprodurre tutti i particolari che avrei
esaminato con tutta calma ritornato a Roma. Gli domandai di fare alcune
fotografie dove figurasse tutto il dipinto, dal momento che osservai una
differenza nella mano sinistra rispetto alla riproduzione della Gioconda
francese. Lo invitai a scattare alcune fotografie di quel particolare. Altro
elemento, non secondario, riguardava il viso. Raccomandai a Visalberghi
una particolare cura per i suo dettagli. Il particolare che la donna
raffigurata era più giovane della francese rivestiva una valenza
fondamentale nella procedura periziale. Notai un’altra differenza che si
presentò subito fertile, i contorni del labbro superiore della Gioconda
russa erano più ondeggianti di quella del Louvre. In apparenza poteva
apparire un elemento trascurabile ma, in questo tipo di ricerca, le piccole
differenze, possono riservare belle sorprese. Per la prima volta stava
applicando un metodo lentamente elaborato ove, lo storico dell’arte, non
era più l’unica autorità designata e riconosciuta per attribuire un dipinto
a quello o a quell’altro pittore. Avevo dedicato energie e tempo di vita per
approfondire la questione. Mi ero avvalso della esperienza di molti
ricercatori che avevo contattato e ascoltato in religioso silenzio. Ero
informato che in varie università italiane e in centro privato di diagnostica
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di opere d’arte da qualche anno si utilizzavano sofisticate tecniche di
accertamento come l’esame del carbonio 14 per accertare il periodo
storico dove collocare l’esame compiuto sulle tele. L’utilizzo degli esami
a raggi ultravioletti, la riflettografia a raggi infrarossi, gli accertamenti a
raggi X, il complesso esame dei componenti dei colori usati dai pittori,
l’accertamento stratigrafico che serviva a verificare il tipo di preparazione
e la base usata dal pittore nella realizzazione della sua opera. Tutti questi
esami rientravano nel metodo che avevo ideato e che avrei affinato e
arricchito direttamente sul campo, grazie anche a questa perizia. Il nostro
comitato aveva già compiuto i primi passi in questo settore di ricerca e il
ritrovamento delle lettere S ed L e del 72 nella Gioconda francese era
stato occasione di arricchimento, di studio e di elaborazione di un nuovo
metodo d’indagine. Un grande filosofo aveva scritto che molte delle più
importanti innovazioni in diversi settori avvengono per il merito di
persone che, non essendo addentro a quella specifica specializzazione o
branca del sapere, sono più liberi, meno condizionati da sovrastrutture
concettuali, da stereotipi radicati. Io ho sempre creduto a tali parole
avendo direttamente sperimentato nella vita quanto da lui scritto. Se non
erro si tratta di Durkheim, uno dei padri, del positivismo sociale. Immerso
in questi pensieri mi ero distratto e il mio amico Visalberghi aveva
ripetutamente chiesto a quali altri elementi doveva dedicare il suo occhio
fotografico.
Gli indicai la balaustrata facente da cornice alla donna dipinta, il
ponte collocato nella parte destra del dipinto, tutta una serie di tratti del
paesaggio sfumato e marziano che fa da sfondo alla donna, probabilmente,
fiorentina. Gli chiesi una particolare attenzione per il sorriso, i capelli,
il colore del viso e delle mani. Ritenevo che l’insieme delle fotografie
potessero essere sufficienti per uno primo esame del dipinto. Nel frattempo
arrivò Ivan, si scusò per il ritardo, era stato trattenuto per affari urgenti.
Sempre avvalendosi della traduzione di Vladimir ci chiese quanto tempo
ci serviva per completare la prima fase di pre-esame, gli risposi che, entro
un’ora circa, avremmo terminato il nostro ufficio. Guardò l’orologio e
ci fece comunicare dall’interprete che andava bene. Il governatore ci
stava attendendo con dei suoi amici, nella sua Dacia, fuori città. Era
domenica giorno di riposo e sarebbe stata una buona occasione per
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rafforzare la nostra reciproca conoscenza. Completati i preziosi scatti,
ci preparammo e con la super Mercedes e la scorta, partimmo alla volta
della Dacia del primo cittadino di San Pietroburgo. Lasciammo il centro
e imboccammo una strada di campagna, attraversammo piccoli paesi
e da lontano intravidi uno splendido bosco di betulle, una pianta che
amo moltissimo, poco presente in Italia. Il forte affetto per le betulle
nasce dalla loro somiglianza con i pioppi bianchi che crescono vicino a
corsi d’acqua. Le betulle, però, regine del freddo, hanno un fascino, un
portamento, un tratto di aristocratica natura che manca agli amati pioppi
bianchi. Mano a mano che mi avvicinavo al bosco di betulle, immerso in
un manto bianco di candida neve, la pianta mostrava tutta la grandeur, il
carattere, la sua magnificenza. Giungemmo in un ameno luogo abbellito
da una serie di eleganti e sontuose dacie, una di queste apparteneva al
nostro politico. Lasciammo la macchina in una piccola piazzola innevata
e, come una allegra compagnia, ci incamminammo verso una Dacia di
grande dimensioni dove si fondeva il color marrone del legno con un
verde chiaro delle finestre che zigzagava con altri richiami nella porta
d’entrata e in alcune lunettine ricavate in pareti esterne dove brillavano
vasi di ottima fattura, di color terra. Davanti alla porta d’entrata ci
stava aspettando il padrone di casa abbigliato sportivamente, con un
copricapo di lana grigio. Entrati trovammo la presenza di altri tre ospiti,
amici del governatore, oltre alla moglie e due figlie di bel aspetto.
Dopo i convenevoli, simili a quelli italiani, a me e al Visalberghi venne
proposta una sauna, un rito tipicamente russo prima di un ricco pranzo.
Accettammo, scendemmo al piano di sotto dove v’era una specie di
spogliatoio. Qui si aprivano due stanze: una, con una porta in legno
massiccia e con un robusto vetro, era la sauna vera e propria, l’altra,
faceva intravedere una piccola piscina divisa fra acqua calda e acqua
fredda. La porta della sauna si aprì e si presentò un energumeno che
portava un asciugamano allacciato alla bene e meglio nel basso vita; era
il fuochista. Dal sudore che sgocciolava dal corpo, dal colore infiammato
della pelle, potrei arguire che, la dentro, in quell’antro infernale, faceva
molto, molto, caldo. Cominciai a preoccuparmi e chiesi a Vladimir a
quale temperatura veniva fatta la sauna, rispose con un ghignetto, per
nulla rassicurante. Un attimo di silenzio, poi disse solo che la temperatura
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era molto alta, senza specificare di quanti gradi. Iniziò la spogliazione,
essendo tutti uomini, rimanemmo come madre natura ci aveva creato.
Chissà perché mai fui colto da un adolescenziale pudore alleggerito da
una scena che mi apparve un tantino ridicola. Il governatore portava al
collo sei collane con crocifissi ortodossi. Ogni collana che si toglieva
era accompagnata da un sonoro bacio al crocefisso, alcuni erano piccoli,
altri di massiccia fattura. A fatica trattenni una risata, non credo che il
politico sarebbe stato contento della ilarità su un tema delicato di sapore
religioso. Visalberghi era eccitato dall’idea della sauna, io, al contrario,
preoccupato. Lasciai entrare il gruppo di saunisti, mi riservai d’entrare
per ultimo. Appena solcata la porta che mi introduceva nel forno, venni
avvolto e strangolato da un folata di caldo e mi mancò il respiro. Ebbi
un attimo di panico, poi tentati di farmi forza per evitare una figuraccia
da donnicciola. Durai circa 30 secondi, poi chiesi, prima con tono
garbato, poi con un tono perentorio d’uscire. I presenti mi guardarono
perplessi e Vladimir che sedeva in una specie di panca vicina a me,
insistette perché godessi della sauna rigenerante. Lo guardai in cagnesco
e confermai la ferma volontà di uscire da quella bolgia infernale. Venni
immediatamente accontentato, nel frattempo Visalberghi sembrava
aver riscoperto la fiammeggiante età adolescenziale, era ridente, aitante
sprigionava un forte godimento per l’arrostimento programmato. Mi
consolai con un bagnetto nell’acqua calda, ma non troppo, presi atto che
la sauna non faceva per me. Dopo l’esperienza, ci rivestimmo, salimmo
al piano superiore, ci attendeva una lunga tavola riccamente imbandita
di ogni ben di Dio.
Lì, sprofondato in una ampia poltrona marrone, stava una persona
d’età avanzata, dalla testa rasata. Portava un paio di piccoli occhiali
da vista, tondi, tipici di certi intellettuali, rimasi perturbato dal suo
sguardo, pungente, indagatorio, sprezzante. Notai che tutti gli astanti,
compreso Ivan e il governatore, mostravano una grassa referenza verso
l’uomo. Prima di sedersi al lungo tavolo, pronunciò poche parole in
russo, tutti lo ascoltarono senza fiatare. Pensai subito che si trattava
di una persona importante e influente. Iniziò un pranzo che etichettare
luculliano sarebbe riduttivo. Non so per quanto tempo rimanemmo a
tavola, ricordo molto bene la bontà dei piatti serviti a partire da uno
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speciale pesce crudo del baltico, una primizia appositamente scelta per
noi. Sopra la tavola epicurea facevano bella mostra di sé vini pregiati,
fra cui un Chianti d’annata, bottiglie di Vodka, la forte bevanda
nazionale, Cognac invecchiato, altri prelibati vini francesi e italiani.
Non ricordo quanti furono i primi e i secondi, ma non avrei dimenticato
molto presto i brindisi a base di vodka che, si susseguivano, con una
rapidità eccessiva. In alcune occasioni evitai di bere, in altre non potevo
esimermi, con il risultato che a circa metà del pranzo iniziavo ad avere
alcuni problemini di perduta sobrietà. Questi russi sono dei bevitori
incredibili, oltre ad essere dei buon gustai. Durante l’interminabile
pranzo si parlacchiava, si rideva, si compivano gesti buffi e ci si
abbandonava ad alcuni gorgheggi, per me incomprensibili. L’atmosfera
era spumeggiante, calda e gioiosa, come se vecchi commilitoni si
fossero ritrovati dopo parecchi anni. Sembrava all’opera una sapiente
regia per rendere questo convivio ben riuscito ma alcuni accadimenti mi
fecero sorgere delle perplessità. Il russo dalla testa rasa, dallo sguardo
da inquisitore, era collocato a capo-tavola dalla parte opposta del tavolo
dove ci trovavamo io e Visalberghi. Era, laconico, compiva pochi gesti,
l’espressione non lasciva trasparire emozioni, ascoltava le chiacchiere
ma, sembrava distratto, appariva chiuso in un altro mondo. Il personaggio
mi interessava e, nonostante la presenza eccessiva di alcol nel sangue, fui
molto attento ad alcuni comportamenti dell’ambiguo commensale che
intervallavano la seduta culinaria e amicale. Ogni qualvolta l’ermetico
personaggio pronunciava qualche parola, pur se a bassa voce, nella
stanza scendeva un silenzio impressionante. Non vi erano stonature,
tutti i commensali, come se fossero diretti da un maestro d’orchestra,
si silenziavano con una sincronia invidiabile. Quell’uomo era oggetto
o di grande rispetto o era temuto dai presenti, che di certo non erano di
basso rango sociale. Oltre al padrone di casa e famiglia, Ivan e Vladimir
vi erano altre due persone, un bonaccione, simpatico, casinaro, l’altro,
che masticava un po’ d’italiano, si mostrava colto, riflessivo e profondo,
eppure, tutti sembravano comandati a bacchetta dal personaggio dallo
sguardo perturbante e scrutatore. Pensai che la mia curiosità non potesse
rimanere inappagata e l’indomani mattina, durante il viaggio di ritorno,
avrei chiesto lumi al nostro accompagnatore.
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