una cattedra dove e per quanto tempo?

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una cattedra dove e per quanto tempo?
RIFORMA SCUOLA
una cattedra dove
e per quanto tempo?
ROCCA 1 MAGGIO 2015
Fiorella
Farinelli
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atta l’autonomia scolastica (nel lontano 2000), si sapeva che ne sarebbe derivato un rafforzamento dei
poteri dei capi d’istituto. Non a caso,
è in quella stagione che ai presidi
venne attribuito lo status di dirigente. Che nell’impiego pubblico significa responsabilità molto precise. Ma il nuovo ordinamento non prefigurava affatto quello
che si vuole introdurre oggi con la «buona
scuola». Non si prevedevano cioè presidi
«sceriffo», e neppure si azzardavano improprie analogie con la figura del sindaco.
La nuova leadership dei dirigenti scolastici, insomma, non autorizzava in alcun
modo l’idea di «un uomo solo al comando», tant’è che l’elaborazione normativa
seguita all’autonomia sanciva l’istituzione
di figure stabili di staff con compiti organizzativo-gestionali («i quadri dell’autonomia»), e poi anche di insegnanti responsabili di una serie di funzioni essenziali alla
scuola di oggi. Dal coordinamento della
didattica alla promozione dei rapporti con
il territorio, dall’organizzazione della formazione continua alle attività di orientamento, dalla costruzione delle azioni di
contrasto della dispersione scolastica alla
promozione dei rapporti con il lavoro. Figure legittimate da competenze accertabili
e da curricula coerenti, perciò autorevoli
nei confronti sia del capo di istituto che dei
colleghi. Figure, esperienze professionali,
specialismi su cui incardinare diversificazioni retributive e di carriera. Una nuova
leadership del dirigente scolastico, dunque,
ma anche una comunità professionale corresponsabile della proposta formativa, della sua realizzazione, dei suoi risultati.
Anche a proposito della valutazione degli
istituti scolastici, il regolamento varato due
anni fa prevedeva la costituzione di appositi nuclei tecnici, formato oltre che dal preside da un certo numero di insegnanti specialisti, con il supporto di esperti esterni.
Perché la verifica della qualità delle scuole
F
è un’operazione che deve tener conto di un
insieme complesso di variabili, che obbliga alla definizione di indicatori con cui monitorare processi ed esiti, che deve essere
condivisa tra tutti gli attori dei processi formativi. E che, per di più, non coincide affatto con la valutazione del lavoro del singolo insegnante. Meriti e qualità del lavoro
docente, si sarebbero prima o poi dovuti
riconoscere, ma non attivando dispositivi
premiali a disposizione dei capi di istituto,
attrezzando piuttosto percorsi di carriera
coerenti con l’effettivo impegno professionale.
le resistenze
Intendiamoci, non c’è mai stata, nella scuola e fuori, una piena convinzione di questo
modello. E infatti, nei quindici anni dall’approvazione dell’autonomia, i passi in questa direzione sono stati lenti, parziali, ostacolati da contrarietà dilatorie. In primo luogo dei sindacati, per lo più ostili al superamento della «funzione unica docente», e
quindi a quadri e specialisti, in nome di un
egualitarismo che in verità non ha riscontro né nell’estrema varietà dei comportamenti professionali del corpo docente né
nell’aspirazione di molti tra i migliori a vedersi riconosciuto ciò che altri non sanno
o non vogliono fare.
Ma resistenze più o meno esplicite sono venute anche da associazioni di dirigenti scolastici che hanno sempre diffidato di figure
e funzioni che, se concepite come stabili e
se scelte in base a titoli oggettivi, potrebbero togliere l’acqua a navigazioni gestionali
spesso massimamente discrezionali.
Quanto alla politica, quella di sinistra è stata sempre così cauta da sconfinare in inerzia, quella di destra ha invece tentato senza riuscirci di introdurre un modello diverso da quello della «leadership condivisa».
Il disegno di legge di Valentina Aprea (Forza Italia), in effetti, prevedeva – proprio
zio, l’on. Aprea rispondeva infatti con una
proposta che, seppure non del tutto convincente, non si traduceva affatto in una premialità affidata ai dirigenti scolastici. C’erano funzioni da svolgere, processi formativi
da superare, concorsi da vincere, e poi incrementi retributivi stabili (e pensionabili).
Un’ipotesi ben più strutturata, insomma, dei
200 milioni con cui i presidi dovrebbero
gratificare ogni anno il 5% degli insegnanti. Tutt’altro, insomma, da un bonus che un
anno può esserci e un altro no, che viene
erogato senza riferimento a criteri validi per
tutte le scuole, e senza il supporto/controllo di alcun organo, sindacale, professionale, o tecnico. Parlare di aziendalismo, come
fanno le associazioni degli studenti, sarebbe fuori luogo. L’odore che si avverte è piuttosto quello di un paternalismo antico, prima del diritto del lavoro, e prima delle relazioni tra le parti sociali. Quindi di una
subordinazione di fatto dei docenti ai placet dei dirigenti. Suona perciò a dir poco
strano che la stessa parte politica che non
molto tempo fa ha tenacemente impedito
ogni mediazione parlamentare sulla proposta Aprea oggi sembri sottovalutare la portata dell’introduzione di un potere monocratico dei dirigenti scolastici. Si tratta di
conformismo politico? O per il momento
si sta tacendo perché si conta su interventi
fortemente correttivi da introdurre nel percorso parlamentare?
tempo indeterminato
se il dirigente è d’accordo
È un fatto, comunque, che il Consiglio dei
ministri ha varato senza visibili turbamenti un provvedimento che fa del dirigente
scolastico il fulcro della conduzione degli
istituti scolastici, del cambiamento del sistema educativo, della gestione del personale. Un potere monocratico, esposto ai rischi dell’arbitrio e del clientelismo. I presidi scelgono dai nuovi albi provinciali (oggi
fatti dai soli «stabilizzati» delle graduatorie, domani comprensivi anche di chiun29
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come ora la «buona scuola» – l’assunzione
degli insegnanti per «chiamata diretta» dei
presidi, in un’interpretazione di tipo aziendalistico dell’istituto scolastico e del ruolo
dei capi di istituto. Un’impostazione analoga c’era anche nelle proposte di revisione delle modalità di governo delle scuole
così come nell’affidamento agli istituti, o a
«reti» di istituti, del reclutamento del personale.
C’era invece una differenza importante rispetto al provvedimento oggi in parlamento. All’esigenza di predisporre un percorso
di carriera degli insegnanti basato su criteri diversi da quello dell’anzianità di servi-
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que chieda trasferimento in altra scuola,
dopodomani chissà...) gli insegnanti da assegnare al nuovo «organico dell’autonomia» e attribuiscono loro incarichi triennali. Propongono incarichi a personale di
ruolo in servizio presso altre scuole. Elaborano il piano triennale dell’offerta formativa, «sentiti «collegio dei docenti e consiglio di istituto. Erogano annualmente «premi» al 5% degli insegnanti. Valutano il personale in periodo di prova. Confermano o
meno gli incarichi alla fine dei tre anni. Solo
chi non sa che le «buone» scuole sono quelle
in cui prevale un modello collaborativo tra
gli insegnanti – e tra insegnanti e dirigente
scolastico – può sottovalutare gli effetti negativi di un così vistoso squilibrio di responsabilità tra dirigenza e docenti.
Solo chi non conosce il livello professionale medio dell’attuale dirigenza scolastica –
come è stata reclutata, come viene formata, come è successo che a presidi di istituti
relativamente «facili» come quelli del primo ciclo siano stati affidati senza preparazione alcuna istituti complessi come i tecnici, i professionali, i centri provinciali per
l’educazione degli adulti, le scuole ad alta
presenza di stranieri, quelle con dieci sedi
diverse, quelle dove l’alternanza studio-lavoro coinvolge centinaia di studenti e decine di aziende l’anno – può ipotizzare che
sia in grado di gestire da sola e con efficienza il carico dei nuovi poteri che le vengono tutti insieme assegnati. Solo chi non
conosce la normativa scolastica può credere che un piano di questo tipo non rischi di
essere azzoppato da una miriade di cause
presso i tribunali amministrativi e i giudici
del lavoro.
Cosa succederà agli insegnanti degli albi
professionali – tutti a tempo indeterminato – che non dovessero essere «scelti» da
nessuna scuola, o a quelli a cui non dovesse venire rinnovato l’incarico? Si tratta di
insegnanti a tempo indeterminato, non di
collaboratori temporanei. Quale scuola sceglierà o confermerà l’insegnante disabile,
quello in carrozzella, il non vedente, quello
che usufruisce dei permessi della legge 104,
quella di cui si sa che è mamma di tre figli?
Sarà l’amministrazione, si dice, a decidere
le assegnazioni, ma con effetti, comunque,
di mortificazione personale e professionale.
Con quali incentivi – tranne la promessa al
buio del bonus – un dirigente scolastico può
portare nella sua scuola un insegnante incardinato in un’altra, e – se succede – chi
sarà a sostituirlo? Quali scuole sceglieranno per prime gli insegnanti iscritti negli albi
professionali, e quali insegnanti resteranno da scegliere a quelle che lo faranno per
ultime? Su questi e molti altri punti non
proprio di dettaglio per il momento il disegno di legge non definisce priorità, non stabilisce regole, non individua criteri. Ci sarà
in parlamento il tempo di colmare i vuoti,
o sarà poi l’immarcescibile burocrazia di
viale Trastevere a doverci mettere le pezze?
È comunque stupefacente l’approssimazione tecnica che caratterizza alcune parti del
testo.
decisioni al buio
In questi giorni nelle scuole si guarda con
preoccupazione a tutto ciò, e anche ad altro. Se ci sono incertezze sugli insegnanti
delle graduatorie che saranno stabilizzati
(100mila, 60mila, 50mila? di quali classi di
concorso, per quali funzioni? neanche sugli esodati della Fornero c’è stata mai una
tale babele), l’attenzione massima si concentra sul nuovo ruolo dei capi di istituto.
Se c’è chi teme che l’assunzione diretta dagli albi sarà un’autostrada per favoritismi e
clientele, c’è anche chi ha lo sguardo più
lungo e quindi paventa i rischi di un indebolimento radicale del ruolo e dello status
di tutti gli insegnanti, anche di quelli che
per il momento non fanno parte degli albi.
Non saranno più gli insegnanti, in prospettiva, a cercare di approdare alla scuola preferita tramite i trasferimenti a domanda,
ma i presidi a scegliere gli insegnanti. Lo
faranno in base al curricolo o a che altro?
Quanto conterà la fama di conformista e,
viceversa, quella di testa libera? E dove va
a finire, in questo quadro, la libertà di insegnamento? Difficile, inoltre, fidarsi di una
premialità affidata interamente ai presidi,
dato che sono proprio loro che da anni sabotano ogni dispositivo di valutazione del
loro operato. E che c’è probabilmente il loro
niet dietro alla non comparsa del dispositivo valutativo che Invalsi doveva rendere
noto entro la fine del 2014.
Il cambiamento di cui si parla non convince, ed anzi preoccupa. Tra i più inquieti,
come ovvio, gli insegnanti migliori, quelli
in questi anni in prima fila nei processi di
miglioramento della qualità scolastica, con
o senza il sostegno attivo dei loro presidi.
Non sarà un gran male se il parlamento si
prenderà il tempo che occorre per discutere di tutto ciò, e delle tante deleghe pressoché in bianco del disegno di legge. Significherebbe il rinvio al 2016 di una parte della stabilizzazione occupazionale promessa,
ma sono troppi i temi su cui sarebbero colpevoli le decisioni al buio.
Fiorella Farinelli