LO STRANO CASO DEL DR. MCLUHAN

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LO STRANO CASO DEL DR. MCLUHAN
Marshall McLuhan
LO STRANO CASO
DEL DR. MCLUHAN
Viaggio sulle rotte perdute
della mediologia
a cura di
Nicola Pentecoste
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione di NICOLA PENTECOSTE
Elogio del fallimento: il sogno infinito della mediologia
7
Capitolo primo
Il bias è il messaggio
Tecnologia e mutamento politico
L’ultimo Innis
Innis e la comunicazione
19
23
32
43
Capitolo secondo
Verso una teoria del sensorio
Cultura senza alfabetizzazione
Radio e Tv vs. la mente distratta dall’alfabeto
Lo spazio acustico
55
59
75
86
Capitolo terzo
Media Experiment
L’esperimento sui media
95
97
Capitolo quarto
I media come aula
Un approccio storico ai media
Effetti educativi dei mezzi di comunicazione di massa
Aule senza mura
115
117
129
136
Capitolo quinto
Ai confini della galassia
Gli effetti dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione
L’elettronica e la trasformazione del ruolo della stampa
139
140
154
Nota sul Curatore
173
Introduzione
Elogio del fallimento:
il sogno infinito della mediologia
di NICOLA PENTECOSTE
Condividere la gloria altrui, anche se solo in sogno, da
adulto o da ragazzo, è una cosa impossibile […]. Invece
abbracciare il tuo eroe nella sua distruzione, lasciare che
la vita del tuo eroe si sviluppi dentro di te quando tutto sta
cercando di annientarlo, vederti vittima della sua sfortuna,
coinvolgerti non nella sua noncurante supremazia, quando
è il punto fisso della tua adulazione, ma nello smarrimento
della sua tragica caduta… Beh, questo è qualcosa su cui
riflettere.
Philip Roth, Pastorale Americana
«Il successo di un paradigma – scrive Thomas Kuhn – è all’inizio, in gran parte, una promessa di successo che si può intravedere
in alcuni esempi scelti e ancora incompleti»1. Ma una promessa di
successo non è di per sé garanzia di successo. Non bastano i buoni
propositi, né la convinzione, né la volizione di chi la esprime. Anche quando è mossa, come quasi sempre avviene, dalle più nobili
intenzioni, una promessa rimane pur sempre una promessa. Anzi,
spesso quanto più alto è il suo principio ispiratore, quanto più vasto il suo scopo, tanto maggiore è la disillusione che segue il suo
mancato inveramento e la dimensione stessa del suo fallimento.
Da grandi promesse misere rivelazioni.
In effetti, per tornare all’affermazione di Kuhn, spetterebbe alla
scienza normale realizzare la promessa, «estendendo la conoscen1
T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, Chicago University Press, 19692; trad. it., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino,
Einaudi, 1999, p. 44.
7
za di quei fatti che il paradigma indica come particolarmente rilevatori, accrescendo la misura in cui questi fatti si accordano con
le previsioni del paradigma, e articolando il paradigma stesso»2.
Ora, se volgiamo il nostro sguardo ai media studies, quanto detto
non può che generare una certa perplessità, non priva di un effetto
a suo modo drammatico e inquietante. È quello che resta alla fine
di una storia che si dipana come in un brutto film senza trama, ma
con molti colpi di scena e spettacolari effetti speciali: una catena
continua di rivoluzioni più annunciate che compiute, effimeri sovvertimenti epistemici, rifondazioni di fragili ordini dottrinali, sotto
l’influenza di una strana sindrome da gioco d’azzardo3. Lo stato
dell’arte oggi, sua logica conseguenza, è una variegata galassia di
approcci, metodi, sistemi teoretici tra loro diversi, spesso in opposizione reciproca. Un miscuglio di paradigmi la cui coesistenza ha
neutralizzato ogni tentativo di affermazione di una scienza autonoma nello studio dei media, ne ha compromesso la legittimazione
di fronte al resto della comunità scientifica, contribuendo alla ratifica sociale dell’appellativo dispregiativo e – bisogna ammetterlo
– decisamente umiliante, di “scienza inutile” anche nella pubblica
opinione.
2
Ibidem.
Sull’idea di una rivoluzione continua nei media studies vale la pena leggere le considerazioni di Andrea Miconi (Una scienza normale: Proposte di
metodo per la ricerca sui media, Roma, Meltemi, 2005, p. 19): «Adorno e
Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, 1944-47; Barthes, Miti d’oggi,
1957; Morin, Lo spirito del tempo, 1962; Eco, Apocalittici e integrati, 1964;
McLuhan, Understanding Media, 1964; Debord, La società dello spettacolo,
1967; Abruzzese, Arte e pubblico nell’età del capitalismo, 1973; Williams, Televisione, 1974; Hall, La riscoperta dell’ideologia, 1982. Grandi lavori teorici,
quasi sempre, e magari un po’ sopravvalutati, e intrisi dello spirito del tempo,
in qualche caso: ma che, nel loro insieme, ben definiscono una tendenza degli
studi sull’industria culturale – quello di affidarsi non a un sistematico lavoro di
ricerca, quanto all’urto della nuova proposta, al radicalismo della rifondazione.
Non un processo continuo di accumulazione e di verifica del sapere, ma una
serie di strappi, uno a breve distanza dagli altri […]. La teoria critica; la svolta
semiotica; la scuola francese dell’immaginario; i modelli deterministi di Toronto; gli approcci culturalisti “integrati”; i cultural studies angloamericani – cinquant’anni e almeno sei strappi: se c’è una metafora che si addice alla riflessione sull’industria culturale, è davvero quella del mutamento di paradigma».
3
8
La consolazione delle discipline umanistiche, costruita sulla presunzione un po’ arrogante di una propria speciale condizione essenziale nell’universo del sapere – e per questo tanto più necessaria e
inevitabile – di considerarsi naturalmente a-paradigmatiche o multi-paradigmatiche, ha significato la condanna senza appello a una
fase continuata e indefinita di rivoluzione o, meglio, alla perpetuazione di una condizione pre-paradigmatica4. E pure il mito dell’interdisciplinarità, che poggia sull’idea che ci si debba muovere negli
spazi interstiziali del sapere, si dimostra alla fine essere l’effetto
collaterale dell’assenza di un paradigma forte, piuttosto che l’assunzione consapevole di un principio di indagine, di una progettualità.
Lo stesso dicasi del più ragionevole appello alla multidisciplinarità,
che nella maggior parte dei casi però ha funzionato come un alibi al
saccheggio scriteriato delle più diverse aree del sapere. È così che
le scienze della comunicazione, i media studies sono ancora oggi un
plurale da cui non ci si riesce proprio a liberare.
Quanto detto permette di centrare subito la nostra riflessione
sul significato profondo dell’opera di McLuhan, e per almeno due
motivi. Per prima cosa tra tutti gli eroi della rivoluzione lo studioso canadese è quello che più di ogni altro ha spostato in alto
l’asta del limite. La sua promessa non si è ridotta al disvelamento
di un nuovo modo di vedere le cose, un nuovo punto di vista, ma
si è spinta fino a una totale riconfigurazione dello stesso oggetto
di studio che non ammette compromessi. E il massimalismo della sua proposta si esprime tanto nei contenuti quanto nei toni del
messaggio, in cui è presente un’urgenza di carattere intellettuale
e morale, sovente carica di pathos apocalittico. Sono i media che
fanno la storia delle civiltà. Ogni altra sfera dell’attività umana,
interiore ed esteriore, può essere ridotta a suo mero epifenomeno:
dall’economia alla cultura, dalla politica alla società in tutte le sue
dimensioni, che siano le istituzioni o i gruppi primari, financo gli
stessi processi psico-cognitivi dell’individuo.
Gli incessanti appelli alla consapevolezza (awareness) – il vero
4
P. Corbetta, La ricerca sociale: Metodologie e tecniche, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 11-18.
9
core concept di tutto il messaggio mcluhaniano, il punto di fuga
della sua visione – sono la più ovvia testimonianza di una presa di coscienza personale. McLuhan è consapevole innanzitutto
dell’assenza di strumenti idonei per una ricerca sugli effetti dei
media, e che le istituzioni del sapere sono esse stesse ignare di
un problema che non riescono in realtà neanche a definire. Anzi,
si può dire sia proprio questo fatto in sé a costituire il problema,
che trascende peraltro l’ambito stretto dell’accademia, assumendo
una dimensione esistenziale: è il torpore indotto dalle nostre stesse
estensioni tecniche che fornisce loro margine di azione, è il nostro sonnambulismo che fornisce loro un potere occulto sull’essere
umano. Solo la “conoscenza”, ovvero una “presa di coscienza”
può “restringere il dominio del determinismo”, e questo suona in
tutta l’opera del canadese come un imperativo categorico, “giacché è assurdo e ignobile essere plasmati da simili strumenti”5.
McLuhan è anche strenuamente convinto del carattere innovativo e rivoluzionario delle sue idee, e non ne fa mistero; semmai se
ne compiace spesso senza alcuna modestia, come accade nell’introduzione di Understanding Media6. Questa profonda consapevolezza, cosa assai rara nella storia del sapere, segna la misura
della differenza, lo scarto tra il genio e gli altri.
McLuhan, è chiaro, non si è mai espresso nei termini di una
mediologia, intesa come disciplina autonoma. D’altronde è rinomata la sua allergia verso ogni forma di specialismo, anzi verso
qualsiasi tipo di separazione tra settori scientifici e tra le scienze
stesse e le arti. Ma è altrettanto vero che le ossessioni maggiori
di McLuhan, come testimoniano la sua biografia e lo stesso figlio
Eric nel lavoro postumo Laws of Media (1988), derivino proprio
da una strenua ricerca di una versione scientifica delle sue idee. È
evidente, anche alla luce di questo – ma non solo, è ovvio – come
la sua posizione di rifiuto dello specialismo sia solo il frutto di un
5
H.M. McLuhan, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic
Man, Toronto, University of Toronto Press, 1962; trad. it., La galassia Gutenberg: Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando Editore, 2004, p. 324.
6 H.M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, New
York, McGraw-Hill, 1964; trad. it., Gli strumenti del comunicare, Milano, Il
Saggiatore, 2002, p. 10.
10
pregiudizio – uno dei tanti, a dire il vero – e di una visione sostanzialmente errata sul ruolo e la funzione della scienza. Nel precetto
più importante che ci lascia lo studioso canadese, “il medium è il
messaggio”, risiede davvero il nucleo di un paradigma scientifico,
l’enunciazione di una promessa che molti di noi definiscono mediologia, ma che a vedere con maggiore attenzione può ben essere
una tecnologia, nel suo significato etimologico di “studio teorico
dei problemi generali della tecnica”.
Ora, sarebbe fin troppo facile parlare di McLuhan, ricapitolarne i successi, esaltandone la portata rivoluzionaria attraverso una
ripetizione degli slogan più fortunati. Tutti noi, ma proprio tutti,
ci siamo persi, in un modo o in un altro, nella fascinazione delle
sue provocazioni finendo per fare dell’uomo e del suo messaggio
degli autentici feticci. Ci siamo fatti coinvolgere nella sua noncurante supremazia, nella misura in cui è diventato il punto fisso
della nostra adulazione. Fin troppo facile e fin troppo comodo.
Più difficile è parlare della sua sostanziale sconfitta, personale,
ma anche intellettuale, comprenderne la portata e nello stesso
tempo trarne un insegnamento. O forse sarebbe intanto sufficiente riconoscere la sua tragica caduta, ammettere che su tante cose
McLuhan si è sbagliato di grosso, e finire una volta per tutte di
pesare il suo valore su fantomatiche profezie. E su questo, probabilmente, è il caso di trovare il coraggio di ammettere, senza
tanta vergogna, che McLuhan non ha preconizzato né il Web, né
tantomeno la telefonia cellulare. Non ha previsto, per inciso, neanche la diffusione domestica del computer. E, d’altronde, come
avrebbe potuto? McLuhan viene a mancare pochi mesi prima della commercializzazione del primo PC, il 5150 della IBM. Peraltro
è risaputo che lo stesso presidente della IBM, Thomas Watson,
nel 1943 pensava che non ci sarebbe stato mercato nel mondo per
più di cinque computer. Ma senza indugiare troppo in tali banali
considerazioni, né in altre e più sofisticate congetture, sarebbe
sufficiente leggere le stesse osservazioni dello studioso canadese
in merito alla possibilità concreta di una previsione:
C’è […] una semplice massima nello studio della comunicazione,
che ogni cambiamento nei mezzi di comunicazione produrrà una
11
catena di conseguenze rivoluzionarie a ogni livello della cultura
e della politica. E a causa della complessità delle componenti di
questo processo, la predizione e il controllo non sono possibili.
Anche supponendo che McLuhan avesse una straordinaria capacità di immaginare il futuro, non credo che questo aggiungerebbe molto al valore del suo messaggio, così come il contrario non
lo sminuirebbe. Non è su questo terreno che possiamo valutare la
portata delle sue idee.
Riconoscere la tragica caduta di McLuhan è solo il primo passo
doloroso e necessario per stabilire la giusta distanza che ci permetta di osservare e giudicare con maggiore lucidità il suo lavoro.
Perché non esiste un lieto fine nella storia di McLuhan alla ricerca
di una mediologia, a meno di non prendere sul serio – e ce ne
vuole – tutto quello che segue nella sua produzione dopo Understanding Media. Il che ci porta al secondo motivo che giustifica
questa introduzione. Il percorso di ricerca di McLuhan sembra
riepilogare come nel più emblematico degli esempi la storia dei
media studies, avviatisi su un percorso di affrancamento dai metodi della critica letteraria e della filosofia estetica, e ricaduti troppo
presto nelle sue braccia con il cordone ombelicale ancora intonso.
E la colpa ricade su McLuhan quanto sui suoi epigoni. Sul primo
perché per quanto il valore delle sue idee sia senza dubbio inestimabile, la loro divulgazione, la forma in cui sono state impacchettate, ha costituito per lo più un ostacolo alla loro comprensione. Ai
secondi va imputato l’errore di non essersi dotati di un adeguato
metro di misurazione con cui valutare quanto di buono e di meno
buono vi fosse nell’immenso materiale lasciatoci dal canadese.
Motivo per cui si è speso tanto tempo e tante parole, termometro
alla mano, a stabilire se la televisione fosse fredda, calda o tiepida, prima di rendersi conto che non era nella “teoria particolareggiata” di McLuhan che dovevamo indagare, quanto nella sua più
ampia “prospettiva”7.
7 J. Meyrowitz, No Sense of Place: The Impact of Electronic Media on
Social Behavior, New York, Oxford University Press, 1985; trad. it., Oltre il
senso del luogo: L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale,
Bologna, Baskerville, 1995, p. 35.
12
Altrove ho già avuto modo di discutere la tesi secondo cui possiamo distinguere almeno tre fasi nella ricerca dello studioso di
Toronto8. Non voglio entrare nel merito delle argomentazioni più
minute, che il lettore troverà lì esposte con maggior dettaglio di
analisi; tuttavia è doveroso ricapitolarne brevemente alcuni punti
essenziali, dacché solo all’interno di questa tesi si comprende il
significato del presente lavoro, a partire in primo luogo dai criteri
che hanno guidato la scelta dei materiali presentati, che intercettano un periodo ben preciso dell’opera mcluhaniana.
E, allora, ritorniamo alla nostra tesi iniziale, tutt’altro che banale. Se difatti la distinzione tra un primo e un secondo McLuhan è un
dato abbondantemente acquisito dalla letteratura, meno condivisa
è l’idea di una maggiore articolazione del suo pensiero, che però
trova qualche riscontro, in particolar modo nel commento di uno
dei più autorevoli esegeti italiani, il padre gesuita Enrico Baragli9.
Per come la vedo io è possibile distinguere, come si è detto, almeno tre fasi distinte nel percorso di ricerca dello studioso canadese:
una fase iniziale che copre gli anni della sua lunga formazione sulla letteratura anglosassone e si conclude con la pubblicazione della
Sposa meccanica (1951); una seconda fase, che abbraccia tutti gli
anni ’50 e metà dei ’60 e comprende le sue due opere più famose,
Galassia Gutenberg (1962) e Understanding Media (1964), in cui
McLuhan abbandona progressivamente i suoi studi letterari per
abbracciare quelli sulla comunicazione e sui media; e un’ultima
fase che si protrae fino alla sua morte (1980) e lo vede impegnato
in una complessa rivisitazione speculativa delle sue tesi con esiti
alquanto discutibili sul piano teoretico. Senza molti azzardi intellettuali e con scarsa fantasia – va ammesso – ho definito queste fasi
rispettivamente del poeta, dello scienziato e del filosofo.
I saggi qui proposti intercettano la prima mutazione di McLuhan,
e coprono precisamente il periodo che va dal 1952 – anno del suo
primo articolo interamente focalizzato sui media, Technology and
8 N. Pentecoste, Marshall McLuhan tra scienza e filosofia: La tentazione
postmoderna, Milano, Bevivino, 2012.
9 E. Baragli, Più prassi che dottrina, 1981, in G. Gamaleri (a cura di),
Understanding McLuhan: L’uomo del villaggio globale, Roma, Kappa, 2006,
p. 197.
13
Political Change, che apre la nostra antologia – fino al 1960, quando presenterà il Report on Project in Understanding New Media.
Quest’ultimo, da cui abbiamo estratto il Media Experiment e il
saggio che chiude il volume, Electronics and the Changing Role of
Print, suggella l’omonimo progetto finanziato dalla National Association of Educational Broadcasters (NAEB) e dall’U.S. Office
of Education, e può considerarsi a tutti gli effetti una prima bozza
del suo libro più famoso, Understanding Media.
L’esito di questo percorso, ancorché incompiuto, può essere riassunto nell’incipit di un brevissimo saggio tra i tanti che compongono il suo famoso Report, intitolato in modo emblematico What I
Learned on the Project in cui McLuhan interviene esplicitamente
nel dibattito sulla disciplina:
Una correzione alla formula di Lasswell: non chi sta parlando a
chi, ma che cosa sta parlando a chi. Lasswell ignora i media, ad
eccezione del linguaggio orale; ma è ovvio che se una persona sta
parlando attraverso un impianto di amplificazione o il microfono
di una radio, ecc., il chi e il che cosa risultano profondamente
trasformati10.
Ma all’inizio degli anni ’50, il nostro autore è solo un giovane
ed eccentrico professore di letteratura inglese. McLuhan è un fiore
che sboccia tardivamente. La sua formazione è lunghissima e il
primo libro arriva all’età di quarant’anni, quando già la maggior
parte dei suoi colleghi ha già messo in archivio più di una monografia. E poi, dalla Sposa Meccanica alla Galassia un “buco nero”
che dura dodici anni. Per molti, infatti, questo periodo rimane avvolto nel mistero, ma la semplice comparazione dei suoi due primi
libri sta lì a testimoniare una grande trasformazione.
Gli anni ’50, insomma, sono anni di febbrile attività di McLuhan.
Si tratta di una fase decisiva nella formazione del mediologo, ovvero dello scienziato, secondo la nostra tassonomia, anche se la
produzione di saggi di critica letteraria continua a rappresentare
10
H.M. McLuhan, “What I Learned on the Project (1959-1960)”, in Report
on Project in Understanding New Media, Urbana (IL), National Association of
Educational Broadcasters, 1960, part V, p. 1.
14
ancora una parte importante del suo lavoro. Possiamo definirlo, in
effetti, come il periodo delle “esplorazioni”, se non altro perché
coincide con la pubblicazione della rivista Explorations: Studies
in Culture and Communication, co-diretta con l’antropologo Edmund (Ted) Carpenter. I segni evidenti di questa svolta scientifica
sono almeno tre. Il primo è nel tentativo di costruire una comunità
scientifica multidisciplinare, attraverso collaborazioni dirette alla
rivista e l’istituzione di un ciclo di seminari a cadenza settimanale
rivolto anche agli studenti dell’università di Toronto. Il secondo
è nello sviluppo di un primo apparato concettuale che confluirà
più tardi in forma compiuta nella sua cosiddetta sensorium theory.
L’ultimo è nel perseguimento di una verifica empirica, sebbene
rimanga circoscritta in sostanza agli esperimenti del ’54 condotti
negli studi della CBC (Canadian Broadcasting Corporation) e al
Ryerson Institute.
Questi tre elementi corrispondono a quei requisiti per così dire
essenziali – restando ancorati al modello di Kuhn – per la costruzione di un paradigma. McLuhan, alla fine, fallirà di fatto nel perseguimento di un vero e proprio modello teoretico operativo – che
sia la “teoria del sensorio” o la “tetrade” delle “Leggi dei media”
– e nella verifica empirica – per l’insufficienza di un metodo specifico di indagine e per la scarsità ed eterogeneità delle prove portate a sostegno delle sue tesi. Fallirà anche nella creazione di una
vera e propria comunità scientifica. L’inter-disciplinarità, perseguita come autentico ideale dallo studioso canadese, si rivelerà un
ostacolo fin dalle prime riunioni seminariali a Toronto in cui si fa
subito evidente la difficoltà di far interagire studiosi di materie
diverse. McLuhan avrà sempre i suoi sostenitori, ma continuerà
per lo più in modo autarchico nei suoi studi, finendo gli ultimi
anni di carriera nel quasi più completo isolamento, incompreso e
abbandonato in primo luogo dai colleghi di accademia, e via via
anche dai suoi studenti che già all’inizio degli anni ’70 cominceranno a disertare le riunioni settimanali al Center for Culture
and Technology dell’Università di Toronto. Anche la cosiddetta
“Scuola di Comunicazione di Toronto”, in effetti, può essere relegata al mondo del mito. Ma il successo del paradigma va letto
oltre certi elementi fattuali e biografici. Tra i meriti di McLuhan va
15
riconosciuto quello di aver catalizzato, attraverso un perseverante
lavoro di divulgazione, l’attenzione su un territorio sconosciuto
nell’ecosistema del sapere e della conoscenza e di aver orientato
«lo sguardo su un primo nucleo di autori, di ricerche e di studi
fino a quel momento condotti separatamente, fuori da una cornice
di senso riconoscibile»11. McLuhan, in tal senso, è l’indiscusso
iniziatore del mito della Scuola di Toronto e la riabilitazione dei lavori dell’ultimo Innis costituisce il suo primo vero atto fondativo,
la rivelazione di una profezia che si autoavvera, o anche, appunto,
la promessa di un paradigma mediologico. E i prodromi sono tutti
qui, negli anni ’50, un momento di grande sperimentazione in cui
sono tracciate le rotte verso territori nuovi e inesplorati.
La lettura dei saggi prodotti in questo periodo, per utilizzare
un’immagine con cui lo stesso McLuhan rappresentava gli effetti del giornale sulla nostra cultura, ci rende spettatori privilegiati
di “un laboratorio in cui [possiamo] vedere le fasi di un esperimento”. Se all’inizio si può avere legittimamente l’impressione di
un’eccessiva ridondanza nei contenuti, andando avanti nella lettura si prende coscienza di un continuo processo di stratificazione in
cui idee germinali e vaghe intuizioni si inspessiscono, acquistano
corpo e diventano per noi sempre più familiari. Non la stessa idea,
ma rivisitata ogni volta con aggiunte, precisazioni, limature, riformulazioni. Il lavoro di McLuhan assomiglia, in tal senso, a quello
di uno scultore alle prese con un materiale plastico particolarmente malleabile. E noi possiamo qui osservarlo, per la prima volta in
Italia, nel pieno dell’atto creativo.
Note di traduzione
Sulle traduzioni e sui traduttori di McLuhan si sono spese molte parole, quasi mai lusinghiere. Non si può dar torto ad Amleto
Lorenzini quando afferma che prima di chiederci se vale la pena
o meno di leggere McLuhan, sarebbe quantomeno “doveroso tra-
11
16
N. Pentecoste, op. cit., p. 89.
durlo bene”12. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. I testi
di McLuhan pongono molti problemi, non sempre ascrivibili alle
competenze linguistiche del traduttore. Semmai sono le conoscenze specifiche sull’autore che possono fare la differenza tra una
buona o cattiva traduzione. A volte la fantasia, o forse ragioni meramente commerciali, hanno avuto la meglio sulla fedeltà al testo e
alle intenzioni dello studioso canadese. Il caso più noto ed eclatante è quello di Understanding Media, tradotto con Gli strumenti del
comunicare, su cui è stato già detto tutto, motivo in sé sufficiente
per glissare e passare a questioni più importanti. Mi permetto però
una riflessione: se nel 1967, anno della prima edizione italiana,
il termine “media” era appannaggio di pochi specialisti, tanto da
giustificare un tale stravolgimento, ha ancora senso nel 2008, anno
dell’ultima edizione del Saggiatore, riproporre lo stesso titolo? E
cosa pensare della ristampa del 2011? In questa finalmente si è
deciso di ripristinare il titolo originario – “Capire i media” – ma è
mancato tuttavia il coraggio di rinunciare all’identico mis-understanding anche se declassato a sottotitolo. Sembra quasi che si sia
messo all’opera un giudice dall’estro un po’ bizzarro e con grande
senso dell’umorismo, capace di un atto pur tardivo di giustizia, ma
solo a fronte di un altro torto, condotto stavolta nei confronti del
sottotitolo inglese: The Extensions of Man.
Ora, quando ho accettato di tradurre gli articoli del presente
volume ero consapevole di imbattermi in un’impresa tutt’altro che
facile. Il vantaggio di possedere una certa conoscenza dei contenuti e dell’autore è stato sufficiente a evitare – almeno spero – maldestri scivoloni semantici. Più complicato è stato confrontarsi con
il suo stile. Non possiedo grandi competenze specialistiche in materia di traduzione, né tantomeno l’esperienza, e quindi non so dire
se certe difficoltà siano dovute alle origini canadesi di McLuhan,
12
A. Lorenzini, Le radici letterarie di McLuhan, 1981, in G. Gamaleri,
2006, op. cit., p. 149. Lorenzini ha avuto il merito di tradurre in italiano due
lavori di McLuhan, City as Classroom: Understanding Language and Media
(La città come aula: Per capire il linguaggio e i media) e la raccolta di saggi e
interviste D’Oeil à L’Oreille (Dall’occhio all’orecchio) per Armando Editore,
nonché The Bias of Communications (Le tendenze della comunicazione) di
Harold Innis per SugarCo.
17
alla datazione storica dei documenti in oggetto, o al cosiddetto
mosaico, con il suo metodo circolare dell’argomentazione. Probabilmente tutte queste cose insieme concorrono a determinare un
quadro generale di complessità. Altri elementi distintivi dello stile
mcluhaniano vanno ricercati nella sintassi, che a volte richiama il
linguaggio poetico, come l’anteposizione del rema rispetto al tema,
per esempio – condizione abbastanza inusuale per la lingua inglese – l’elisione del predicato o l’iterazione del soggetto. Più noto è
l’uso di espedienti retorici, degli aforismi, dei giochi di parole in
cui si manifesta l’ironia e a volte il sarcasmo mcluhaniano.
Tuttavia, non sempre, a mio avviso, l’effetto finale è perseguito
in modo consapevole. Il mosaico, ad esempio, su cui la critica si
è prodigata alacremente, nel bene e nel male, è con molta probabilità – anche se non sempre – un effetto collaterale dell’estrema
prolificità di McLuhan. Molti testi sembrano tirati via, c’è da dire,
senza molta cura. Il caso più evidente è dato dalla stessa Galassia
Gutenberg, costruita per circa metà del suo contenuto da citazioni,
come rileva per primo Baragli13. Lo stesso motivo è certamente
alla base della «noncuranza con cui McLuhan cita le sue fonti,
talvolta facendo errori di nome, talaltra di titolo, quasi mai dando
le esatte indicazioni bibliografiche»14. A conti fatti credo che il
tempo dedicato alla stesura di questo volume – escluse le mie parti
autografe – possa dividersi in egual misura tra la traduzione vera
e propria e la ricerca bibliografica. Nel nostro caso, sia per le citazioni che per i riferimenti bibliografici, si è optato per una brutale
uniformizzazione stilistica rispetto alle norme redazionali dettate
dall’editore. Questo ha significato anche sopperire alle mancanze
dell’autore con non poche integrazioni in nota.
Vorrei infine spendere qualche parola per Laura Giacalone, traduttrice di grande esperienza e professionalità, che mi ha aiutato
a sciogliere i nodi più intricati dei testi. A lei va tutta la mia riconoscenza per l’immensa disponibilità, il supporto tecnico e morale
durante la fase di traduzione e quella di revisione.
13
E. Baragli, Il caso McLuhan, Roma, La Civiltà Cattolica, 1980, p. 71.
S. Rizzo, Nota del traduttore, in Galassia Gutenberg: Nascita dell’uomo
tipografico, Roma, Armando Editore, 2004, p. 19.
14
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