LO STRANO CASO DEL DR. MCLUHAN
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LO STRANO CASO DEL DR. MCLUHAN
Marshall McLuhan LO STRANO CASO DEL DR. MCLUHAN Viaggio sulle rotte perdute della mediologia a cura di Nicola Pentecoste ARMANDO EDITORE Sommario Introduzione di NICOLA PENTECOSTE Elogio del fallimento: il sogno infinito della mediologia 7 Capitolo primo Il bias è il messaggio Tecnologia e mutamento politico L’ultimo Innis Innis e la comunicazione 19 23 32 43 Capitolo secondo Verso una teoria del sensorio Cultura senza alfabetizzazione Radio e Tv vs. la mente distratta dall’alfabeto Lo spazio acustico 55 59 75 86 Capitolo terzo Media Experiment L’esperimento sui media 95 97 Capitolo quarto I media come aula Un approccio storico ai media Effetti educativi dei mezzi di comunicazione di massa Aule senza mura 115 117 129 136 Capitolo quinto Ai confini della galassia Gli effetti dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione L’elettronica e la trasformazione del ruolo della stampa 139 140 154 Nota sul Curatore 173 Introduzione Elogio del fallimento: il sogno infinito della mediologia di NICOLA PENTECOSTE Condividere la gloria altrui, anche se solo in sogno, da adulto o da ragazzo, è una cosa impossibile […]. Invece abbracciare il tuo eroe nella sua distruzione, lasciare che la vita del tuo eroe si sviluppi dentro di te quando tutto sta cercando di annientarlo, vederti vittima della sua sfortuna, coinvolgerti non nella sua noncurante supremazia, quando è il punto fisso della tua adulazione, ma nello smarrimento della sua tragica caduta… Beh, questo è qualcosa su cui riflettere. Philip Roth, Pastorale Americana «Il successo di un paradigma – scrive Thomas Kuhn – è all’inizio, in gran parte, una promessa di successo che si può intravedere in alcuni esempi scelti e ancora incompleti»1. Ma una promessa di successo non è di per sé garanzia di successo. Non bastano i buoni propositi, né la convinzione, né la volizione di chi la esprime. Anche quando è mossa, come quasi sempre avviene, dalle più nobili intenzioni, una promessa rimane pur sempre una promessa. Anzi, spesso quanto più alto è il suo principio ispiratore, quanto più vasto il suo scopo, tanto maggiore è la disillusione che segue il suo mancato inveramento e la dimensione stessa del suo fallimento. Da grandi promesse misere rivelazioni. In effetti, per tornare all’affermazione di Kuhn, spetterebbe alla scienza normale realizzare la promessa, «estendendo la conoscen1 T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, Chicago University Press, 19692; trad. it., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1999, p. 44. 7 za di quei fatti che il paradigma indica come particolarmente rilevatori, accrescendo la misura in cui questi fatti si accordano con le previsioni del paradigma, e articolando il paradigma stesso»2. Ora, se volgiamo il nostro sguardo ai media studies, quanto detto non può che generare una certa perplessità, non priva di un effetto a suo modo drammatico e inquietante. È quello che resta alla fine di una storia che si dipana come in un brutto film senza trama, ma con molti colpi di scena e spettacolari effetti speciali: una catena continua di rivoluzioni più annunciate che compiute, effimeri sovvertimenti epistemici, rifondazioni di fragili ordini dottrinali, sotto l’influenza di una strana sindrome da gioco d’azzardo3. Lo stato dell’arte oggi, sua logica conseguenza, è una variegata galassia di approcci, metodi, sistemi teoretici tra loro diversi, spesso in opposizione reciproca. Un miscuglio di paradigmi la cui coesistenza ha neutralizzato ogni tentativo di affermazione di una scienza autonoma nello studio dei media, ne ha compromesso la legittimazione di fronte al resto della comunità scientifica, contribuendo alla ratifica sociale dell’appellativo dispregiativo e – bisogna ammetterlo – decisamente umiliante, di “scienza inutile” anche nella pubblica opinione. 2 Ibidem. Sull’idea di una rivoluzione continua nei media studies vale la pena leggere le considerazioni di Andrea Miconi (Una scienza normale: Proposte di metodo per la ricerca sui media, Roma, Meltemi, 2005, p. 19): «Adorno e Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, 1944-47; Barthes, Miti d’oggi, 1957; Morin, Lo spirito del tempo, 1962; Eco, Apocalittici e integrati, 1964; McLuhan, Understanding Media, 1964; Debord, La società dello spettacolo, 1967; Abruzzese, Arte e pubblico nell’età del capitalismo, 1973; Williams, Televisione, 1974; Hall, La riscoperta dell’ideologia, 1982. Grandi lavori teorici, quasi sempre, e magari un po’ sopravvalutati, e intrisi dello spirito del tempo, in qualche caso: ma che, nel loro insieme, ben definiscono una tendenza degli studi sull’industria culturale – quello di affidarsi non a un sistematico lavoro di ricerca, quanto all’urto della nuova proposta, al radicalismo della rifondazione. Non un processo continuo di accumulazione e di verifica del sapere, ma una serie di strappi, uno a breve distanza dagli altri […]. La teoria critica; la svolta semiotica; la scuola francese dell’immaginario; i modelli deterministi di Toronto; gli approcci culturalisti “integrati”; i cultural studies angloamericani – cinquant’anni e almeno sei strappi: se c’è una metafora che si addice alla riflessione sull’industria culturale, è davvero quella del mutamento di paradigma». 3 8 La consolazione delle discipline umanistiche, costruita sulla presunzione un po’ arrogante di una propria speciale condizione essenziale nell’universo del sapere – e per questo tanto più necessaria e inevitabile – di considerarsi naturalmente a-paradigmatiche o multi-paradigmatiche, ha significato la condanna senza appello a una fase continuata e indefinita di rivoluzione o, meglio, alla perpetuazione di una condizione pre-paradigmatica4. E pure il mito dell’interdisciplinarità, che poggia sull’idea che ci si debba muovere negli spazi interstiziali del sapere, si dimostra alla fine essere l’effetto collaterale dell’assenza di un paradigma forte, piuttosto che l’assunzione consapevole di un principio di indagine, di una progettualità. Lo stesso dicasi del più ragionevole appello alla multidisciplinarità, che nella maggior parte dei casi però ha funzionato come un alibi al saccheggio scriteriato delle più diverse aree del sapere. È così che le scienze della comunicazione, i media studies sono ancora oggi un plurale da cui non ci si riesce proprio a liberare. Quanto detto permette di centrare subito la nostra riflessione sul significato profondo dell’opera di McLuhan, e per almeno due motivi. Per prima cosa tra tutti gli eroi della rivoluzione lo studioso canadese è quello che più di ogni altro ha spostato in alto l’asta del limite. La sua promessa non si è ridotta al disvelamento di un nuovo modo di vedere le cose, un nuovo punto di vista, ma si è spinta fino a una totale riconfigurazione dello stesso oggetto di studio che non ammette compromessi. E il massimalismo della sua proposta si esprime tanto nei contenuti quanto nei toni del messaggio, in cui è presente un’urgenza di carattere intellettuale e morale, sovente carica di pathos apocalittico. Sono i media che fanno la storia delle civiltà. Ogni altra sfera dell’attività umana, interiore ed esteriore, può essere ridotta a suo mero epifenomeno: dall’economia alla cultura, dalla politica alla società in tutte le sue dimensioni, che siano le istituzioni o i gruppi primari, financo gli stessi processi psico-cognitivi dell’individuo. Gli incessanti appelli alla consapevolezza (awareness) – il vero 4 P. Corbetta, La ricerca sociale: Metodologie e tecniche, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 11-18. 9 core concept di tutto il messaggio mcluhaniano, il punto di fuga della sua visione – sono la più ovvia testimonianza di una presa di coscienza personale. McLuhan è consapevole innanzitutto dell’assenza di strumenti idonei per una ricerca sugli effetti dei media, e che le istituzioni del sapere sono esse stesse ignare di un problema che non riescono in realtà neanche a definire. Anzi, si può dire sia proprio questo fatto in sé a costituire il problema, che trascende peraltro l’ambito stretto dell’accademia, assumendo una dimensione esistenziale: è il torpore indotto dalle nostre stesse estensioni tecniche che fornisce loro margine di azione, è il nostro sonnambulismo che fornisce loro un potere occulto sull’essere umano. Solo la “conoscenza”, ovvero una “presa di coscienza” può “restringere il dominio del determinismo”, e questo suona in tutta l’opera del canadese come un imperativo categorico, “giacché è assurdo e ignobile essere plasmati da simili strumenti”5. McLuhan è anche strenuamente convinto del carattere innovativo e rivoluzionario delle sue idee, e non ne fa mistero; semmai se ne compiace spesso senza alcuna modestia, come accade nell’introduzione di Understanding Media6. Questa profonda consapevolezza, cosa assai rara nella storia del sapere, segna la misura della differenza, lo scarto tra il genio e gli altri. McLuhan, è chiaro, non si è mai espresso nei termini di una mediologia, intesa come disciplina autonoma. D’altronde è rinomata la sua allergia verso ogni forma di specialismo, anzi verso qualsiasi tipo di separazione tra settori scientifici e tra le scienze stesse e le arti. Ma è altrettanto vero che le ossessioni maggiori di McLuhan, come testimoniano la sua biografia e lo stesso figlio Eric nel lavoro postumo Laws of Media (1988), derivino proprio da una strenua ricerca di una versione scientifica delle sue idee. È evidente, anche alla luce di questo – ma non solo, è ovvio – come la sua posizione di rifiuto dello specialismo sia solo il frutto di un 5 H.M. McLuhan, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man, Toronto, University of Toronto Press, 1962; trad. it., La galassia Gutenberg: Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando Editore, 2004, p. 324. 6 H.M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, New York, McGraw-Hill, 1964; trad. it., Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 2002, p. 10. 10 pregiudizio – uno dei tanti, a dire il vero – e di una visione sostanzialmente errata sul ruolo e la funzione della scienza. Nel precetto più importante che ci lascia lo studioso canadese, “il medium è il messaggio”, risiede davvero il nucleo di un paradigma scientifico, l’enunciazione di una promessa che molti di noi definiscono mediologia, ma che a vedere con maggiore attenzione può ben essere una tecnologia, nel suo significato etimologico di “studio teorico dei problemi generali della tecnica”. Ora, sarebbe fin troppo facile parlare di McLuhan, ricapitolarne i successi, esaltandone la portata rivoluzionaria attraverso una ripetizione degli slogan più fortunati. Tutti noi, ma proprio tutti, ci siamo persi, in un modo o in un altro, nella fascinazione delle sue provocazioni finendo per fare dell’uomo e del suo messaggio degli autentici feticci. Ci siamo fatti coinvolgere nella sua noncurante supremazia, nella misura in cui è diventato il punto fisso della nostra adulazione. Fin troppo facile e fin troppo comodo. Più difficile è parlare della sua sostanziale sconfitta, personale, ma anche intellettuale, comprenderne la portata e nello stesso tempo trarne un insegnamento. O forse sarebbe intanto sufficiente riconoscere la sua tragica caduta, ammettere che su tante cose McLuhan si è sbagliato di grosso, e finire una volta per tutte di pesare il suo valore su fantomatiche profezie. E su questo, probabilmente, è il caso di trovare il coraggio di ammettere, senza tanta vergogna, che McLuhan non ha preconizzato né il Web, né tantomeno la telefonia cellulare. Non ha previsto, per inciso, neanche la diffusione domestica del computer. E, d’altronde, come avrebbe potuto? McLuhan viene a mancare pochi mesi prima della commercializzazione del primo PC, il 5150 della IBM. Peraltro è risaputo che lo stesso presidente della IBM, Thomas Watson, nel 1943 pensava che non ci sarebbe stato mercato nel mondo per più di cinque computer. Ma senza indugiare troppo in tali banali considerazioni, né in altre e più sofisticate congetture, sarebbe sufficiente leggere le stesse osservazioni dello studioso canadese in merito alla possibilità concreta di una previsione: C’è […] una semplice massima nello studio della comunicazione, che ogni cambiamento nei mezzi di comunicazione produrrà una 11 catena di conseguenze rivoluzionarie a ogni livello della cultura e della politica. E a causa della complessità delle componenti di questo processo, la predizione e il controllo non sono possibili. Anche supponendo che McLuhan avesse una straordinaria capacità di immaginare il futuro, non credo che questo aggiungerebbe molto al valore del suo messaggio, così come il contrario non lo sminuirebbe. Non è su questo terreno che possiamo valutare la portata delle sue idee. Riconoscere la tragica caduta di McLuhan è solo il primo passo doloroso e necessario per stabilire la giusta distanza che ci permetta di osservare e giudicare con maggiore lucidità il suo lavoro. Perché non esiste un lieto fine nella storia di McLuhan alla ricerca di una mediologia, a meno di non prendere sul serio – e ce ne vuole – tutto quello che segue nella sua produzione dopo Understanding Media. Il che ci porta al secondo motivo che giustifica questa introduzione. Il percorso di ricerca di McLuhan sembra riepilogare come nel più emblematico degli esempi la storia dei media studies, avviatisi su un percorso di affrancamento dai metodi della critica letteraria e della filosofia estetica, e ricaduti troppo presto nelle sue braccia con il cordone ombelicale ancora intonso. E la colpa ricade su McLuhan quanto sui suoi epigoni. Sul primo perché per quanto il valore delle sue idee sia senza dubbio inestimabile, la loro divulgazione, la forma in cui sono state impacchettate, ha costituito per lo più un ostacolo alla loro comprensione. Ai secondi va imputato l’errore di non essersi dotati di un adeguato metro di misurazione con cui valutare quanto di buono e di meno buono vi fosse nell’immenso materiale lasciatoci dal canadese. Motivo per cui si è speso tanto tempo e tante parole, termometro alla mano, a stabilire se la televisione fosse fredda, calda o tiepida, prima di rendersi conto che non era nella “teoria particolareggiata” di McLuhan che dovevamo indagare, quanto nella sua più ampia “prospettiva”7. 7 J. Meyrowitz, No Sense of Place: The Impact of Electronic Media on Social Behavior, New York, Oxford University Press, 1985; trad. it., Oltre il senso del luogo: L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Bologna, Baskerville, 1995, p. 35. 12 Altrove ho già avuto modo di discutere la tesi secondo cui possiamo distinguere almeno tre fasi nella ricerca dello studioso di Toronto8. Non voglio entrare nel merito delle argomentazioni più minute, che il lettore troverà lì esposte con maggior dettaglio di analisi; tuttavia è doveroso ricapitolarne brevemente alcuni punti essenziali, dacché solo all’interno di questa tesi si comprende il significato del presente lavoro, a partire in primo luogo dai criteri che hanno guidato la scelta dei materiali presentati, che intercettano un periodo ben preciso dell’opera mcluhaniana. E, allora, ritorniamo alla nostra tesi iniziale, tutt’altro che banale. Se difatti la distinzione tra un primo e un secondo McLuhan è un dato abbondantemente acquisito dalla letteratura, meno condivisa è l’idea di una maggiore articolazione del suo pensiero, che però trova qualche riscontro, in particolar modo nel commento di uno dei più autorevoli esegeti italiani, il padre gesuita Enrico Baragli9. Per come la vedo io è possibile distinguere, come si è detto, almeno tre fasi distinte nel percorso di ricerca dello studioso canadese: una fase iniziale che copre gli anni della sua lunga formazione sulla letteratura anglosassone e si conclude con la pubblicazione della Sposa meccanica (1951); una seconda fase, che abbraccia tutti gli anni ’50 e metà dei ’60 e comprende le sue due opere più famose, Galassia Gutenberg (1962) e Understanding Media (1964), in cui McLuhan abbandona progressivamente i suoi studi letterari per abbracciare quelli sulla comunicazione e sui media; e un’ultima fase che si protrae fino alla sua morte (1980) e lo vede impegnato in una complessa rivisitazione speculativa delle sue tesi con esiti alquanto discutibili sul piano teoretico. Senza molti azzardi intellettuali e con scarsa fantasia – va ammesso – ho definito queste fasi rispettivamente del poeta, dello scienziato e del filosofo. I saggi qui proposti intercettano la prima mutazione di McLuhan, e coprono precisamente il periodo che va dal 1952 – anno del suo primo articolo interamente focalizzato sui media, Technology and 8 N. Pentecoste, Marshall McLuhan tra scienza e filosofia: La tentazione postmoderna, Milano, Bevivino, 2012. 9 E. Baragli, Più prassi che dottrina, 1981, in G. Gamaleri (a cura di), Understanding McLuhan: L’uomo del villaggio globale, Roma, Kappa, 2006, p. 197. 13 Political Change, che apre la nostra antologia – fino al 1960, quando presenterà il Report on Project in Understanding New Media. Quest’ultimo, da cui abbiamo estratto il Media Experiment e il saggio che chiude il volume, Electronics and the Changing Role of Print, suggella l’omonimo progetto finanziato dalla National Association of Educational Broadcasters (NAEB) e dall’U.S. Office of Education, e può considerarsi a tutti gli effetti una prima bozza del suo libro più famoso, Understanding Media. L’esito di questo percorso, ancorché incompiuto, può essere riassunto nell’incipit di un brevissimo saggio tra i tanti che compongono il suo famoso Report, intitolato in modo emblematico What I Learned on the Project in cui McLuhan interviene esplicitamente nel dibattito sulla disciplina: Una correzione alla formula di Lasswell: non chi sta parlando a chi, ma che cosa sta parlando a chi. Lasswell ignora i media, ad eccezione del linguaggio orale; ma è ovvio che se una persona sta parlando attraverso un impianto di amplificazione o il microfono di una radio, ecc., il chi e il che cosa risultano profondamente trasformati10. Ma all’inizio degli anni ’50, il nostro autore è solo un giovane ed eccentrico professore di letteratura inglese. McLuhan è un fiore che sboccia tardivamente. La sua formazione è lunghissima e il primo libro arriva all’età di quarant’anni, quando già la maggior parte dei suoi colleghi ha già messo in archivio più di una monografia. E poi, dalla Sposa Meccanica alla Galassia un “buco nero” che dura dodici anni. Per molti, infatti, questo periodo rimane avvolto nel mistero, ma la semplice comparazione dei suoi due primi libri sta lì a testimoniare una grande trasformazione. Gli anni ’50, insomma, sono anni di febbrile attività di McLuhan. Si tratta di una fase decisiva nella formazione del mediologo, ovvero dello scienziato, secondo la nostra tassonomia, anche se la produzione di saggi di critica letteraria continua a rappresentare 10 H.M. McLuhan, “What I Learned on the Project (1959-1960)”, in Report on Project in Understanding New Media, Urbana (IL), National Association of Educational Broadcasters, 1960, part V, p. 1. 14 ancora una parte importante del suo lavoro. Possiamo definirlo, in effetti, come il periodo delle “esplorazioni”, se non altro perché coincide con la pubblicazione della rivista Explorations: Studies in Culture and Communication, co-diretta con l’antropologo Edmund (Ted) Carpenter. I segni evidenti di questa svolta scientifica sono almeno tre. Il primo è nel tentativo di costruire una comunità scientifica multidisciplinare, attraverso collaborazioni dirette alla rivista e l’istituzione di un ciclo di seminari a cadenza settimanale rivolto anche agli studenti dell’università di Toronto. Il secondo è nello sviluppo di un primo apparato concettuale che confluirà più tardi in forma compiuta nella sua cosiddetta sensorium theory. L’ultimo è nel perseguimento di una verifica empirica, sebbene rimanga circoscritta in sostanza agli esperimenti del ’54 condotti negli studi della CBC (Canadian Broadcasting Corporation) e al Ryerson Institute. Questi tre elementi corrispondono a quei requisiti per così dire essenziali – restando ancorati al modello di Kuhn – per la costruzione di un paradigma. McLuhan, alla fine, fallirà di fatto nel perseguimento di un vero e proprio modello teoretico operativo – che sia la “teoria del sensorio” o la “tetrade” delle “Leggi dei media” – e nella verifica empirica – per l’insufficienza di un metodo specifico di indagine e per la scarsità ed eterogeneità delle prove portate a sostegno delle sue tesi. Fallirà anche nella creazione di una vera e propria comunità scientifica. L’inter-disciplinarità, perseguita come autentico ideale dallo studioso canadese, si rivelerà un ostacolo fin dalle prime riunioni seminariali a Toronto in cui si fa subito evidente la difficoltà di far interagire studiosi di materie diverse. McLuhan avrà sempre i suoi sostenitori, ma continuerà per lo più in modo autarchico nei suoi studi, finendo gli ultimi anni di carriera nel quasi più completo isolamento, incompreso e abbandonato in primo luogo dai colleghi di accademia, e via via anche dai suoi studenti che già all’inizio degli anni ’70 cominceranno a disertare le riunioni settimanali al Center for Culture and Technology dell’Università di Toronto. Anche la cosiddetta “Scuola di Comunicazione di Toronto”, in effetti, può essere relegata al mondo del mito. Ma il successo del paradigma va letto oltre certi elementi fattuali e biografici. Tra i meriti di McLuhan va 15 riconosciuto quello di aver catalizzato, attraverso un perseverante lavoro di divulgazione, l’attenzione su un territorio sconosciuto nell’ecosistema del sapere e della conoscenza e di aver orientato «lo sguardo su un primo nucleo di autori, di ricerche e di studi fino a quel momento condotti separatamente, fuori da una cornice di senso riconoscibile»11. McLuhan, in tal senso, è l’indiscusso iniziatore del mito della Scuola di Toronto e la riabilitazione dei lavori dell’ultimo Innis costituisce il suo primo vero atto fondativo, la rivelazione di una profezia che si autoavvera, o anche, appunto, la promessa di un paradigma mediologico. E i prodromi sono tutti qui, negli anni ’50, un momento di grande sperimentazione in cui sono tracciate le rotte verso territori nuovi e inesplorati. La lettura dei saggi prodotti in questo periodo, per utilizzare un’immagine con cui lo stesso McLuhan rappresentava gli effetti del giornale sulla nostra cultura, ci rende spettatori privilegiati di “un laboratorio in cui [possiamo] vedere le fasi di un esperimento”. Se all’inizio si può avere legittimamente l’impressione di un’eccessiva ridondanza nei contenuti, andando avanti nella lettura si prende coscienza di un continuo processo di stratificazione in cui idee germinali e vaghe intuizioni si inspessiscono, acquistano corpo e diventano per noi sempre più familiari. Non la stessa idea, ma rivisitata ogni volta con aggiunte, precisazioni, limature, riformulazioni. Il lavoro di McLuhan assomiglia, in tal senso, a quello di uno scultore alle prese con un materiale plastico particolarmente malleabile. E noi possiamo qui osservarlo, per la prima volta in Italia, nel pieno dell’atto creativo. Note di traduzione Sulle traduzioni e sui traduttori di McLuhan si sono spese molte parole, quasi mai lusinghiere. Non si può dar torto ad Amleto Lorenzini quando afferma che prima di chiederci se vale la pena o meno di leggere McLuhan, sarebbe quantomeno “doveroso tra- 11 16 N. Pentecoste, op. cit., p. 89. durlo bene”12. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente. I testi di McLuhan pongono molti problemi, non sempre ascrivibili alle competenze linguistiche del traduttore. Semmai sono le conoscenze specifiche sull’autore che possono fare la differenza tra una buona o cattiva traduzione. A volte la fantasia, o forse ragioni meramente commerciali, hanno avuto la meglio sulla fedeltà al testo e alle intenzioni dello studioso canadese. Il caso più noto ed eclatante è quello di Understanding Media, tradotto con Gli strumenti del comunicare, su cui è stato già detto tutto, motivo in sé sufficiente per glissare e passare a questioni più importanti. Mi permetto però una riflessione: se nel 1967, anno della prima edizione italiana, il termine “media” era appannaggio di pochi specialisti, tanto da giustificare un tale stravolgimento, ha ancora senso nel 2008, anno dell’ultima edizione del Saggiatore, riproporre lo stesso titolo? E cosa pensare della ristampa del 2011? In questa finalmente si è deciso di ripristinare il titolo originario – “Capire i media” – ma è mancato tuttavia il coraggio di rinunciare all’identico mis-understanding anche se declassato a sottotitolo. Sembra quasi che si sia messo all’opera un giudice dall’estro un po’ bizzarro e con grande senso dell’umorismo, capace di un atto pur tardivo di giustizia, ma solo a fronte di un altro torto, condotto stavolta nei confronti del sottotitolo inglese: The Extensions of Man. Ora, quando ho accettato di tradurre gli articoli del presente volume ero consapevole di imbattermi in un’impresa tutt’altro che facile. Il vantaggio di possedere una certa conoscenza dei contenuti e dell’autore è stato sufficiente a evitare – almeno spero – maldestri scivoloni semantici. Più complicato è stato confrontarsi con il suo stile. Non possiedo grandi competenze specialistiche in materia di traduzione, né tantomeno l’esperienza, e quindi non so dire se certe difficoltà siano dovute alle origini canadesi di McLuhan, 12 A. Lorenzini, Le radici letterarie di McLuhan, 1981, in G. Gamaleri, 2006, op. cit., p. 149. Lorenzini ha avuto il merito di tradurre in italiano due lavori di McLuhan, City as Classroom: Understanding Language and Media (La città come aula: Per capire il linguaggio e i media) e la raccolta di saggi e interviste D’Oeil à L’Oreille (Dall’occhio all’orecchio) per Armando Editore, nonché The Bias of Communications (Le tendenze della comunicazione) di Harold Innis per SugarCo. 17 alla datazione storica dei documenti in oggetto, o al cosiddetto mosaico, con il suo metodo circolare dell’argomentazione. Probabilmente tutte queste cose insieme concorrono a determinare un quadro generale di complessità. Altri elementi distintivi dello stile mcluhaniano vanno ricercati nella sintassi, che a volte richiama il linguaggio poetico, come l’anteposizione del rema rispetto al tema, per esempio – condizione abbastanza inusuale per la lingua inglese – l’elisione del predicato o l’iterazione del soggetto. Più noto è l’uso di espedienti retorici, degli aforismi, dei giochi di parole in cui si manifesta l’ironia e a volte il sarcasmo mcluhaniano. Tuttavia, non sempre, a mio avviso, l’effetto finale è perseguito in modo consapevole. Il mosaico, ad esempio, su cui la critica si è prodigata alacremente, nel bene e nel male, è con molta probabilità – anche se non sempre – un effetto collaterale dell’estrema prolificità di McLuhan. Molti testi sembrano tirati via, c’è da dire, senza molta cura. Il caso più evidente è dato dalla stessa Galassia Gutenberg, costruita per circa metà del suo contenuto da citazioni, come rileva per primo Baragli13. Lo stesso motivo è certamente alla base della «noncuranza con cui McLuhan cita le sue fonti, talvolta facendo errori di nome, talaltra di titolo, quasi mai dando le esatte indicazioni bibliografiche»14. A conti fatti credo che il tempo dedicato alla stesura di questo volume – escluse le mie parti autografe – possa dividersi in egual misura tra la traduzione vera e propria e la ricerca bibliografica. Nel nostro caso, sia per le citazioni che per i riferimenti bibliografici, si è optato per una brutale uniformizzazione stilistica rispetto alle norme redazionali dettate dall’editore. Questo ha significato anche sopperire alle mancanze dell’autore con non poche integrazioni in nota. Vorrei infine spendere qualche parola per Laura Giacalone, traduttrice di grande esperienza e professionalità, che mi ha aiutato a sciogliere i nodi più intricati dei testi. A lei va tutta la mia riconoscenza per l’immensa disponibilità, il supporto tecnico e morale durante la fase di traduzione e quella di revisione. 13 E. Baragli, Il caso McLuhan, Roma, La Civiltà Cattolica, 1980, p. 71. S. Rizzo, Nota del traduttore, in Galassia Gutenberg: Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando Editore, 2004, p. 19. 14 18