Mare grosso - Casa editrice Le Lettere

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Mare grosso - Casa editrice Le Lettere
Antonio Giusti
Mare grosso
e altri racconti
Le Lettere
La traversata
12 aprile 1978 (4° giorno)
Sono già in pieno Atlantico.
Una settimana fa ero ancora a Milano, a cena dal mio
amico Achille.
«La mia barca è nei Caraibi» mi ha detto mentre ci cambiavano i piatti per il dolce. «Debbo farla rientrare in Italia
e salperà tra pochi giorni».
«Non ne approfitti?». Ero incredulo. «La lasci traversare senza te?». Spesso mi aveva confidato i suoi sogni, i magnifici viaggi che avrebbe fatto al comando della sua bella
barca, lontano dall’ufficio e dai telefoni, ma avevo notato
che poi, con una scusa o l’altra, non si decideva mai. «Non
ho tempo» diceva.
L’ho preso in giro. Credo se ne sia risentito.
«Perché non ci vai tu?». Era quasi una sfida… E io ho
raccolto la sfida.
Da buon milanese che le cose le fa sul serio, ha telefonato subito alla Guadalupe per chiedere al suo Skipper di
aspettarmi e, dopo avergli parlato, mi ha pregato di sbrigarmi a partire perché quello non voleva rischiare di perdere gli alisei.
Due giorni dopo, non da solo, ma con mio figlio Matteo
di diciotto anni, eravamo in volo per la Guadalupe, l’isola
dei Caraibi dove ci attendeva il due alberi a vela di Achille.
Anche se il porto della Guadalupe è grande e pieno di
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barche ormeggiate disordinatamente lungo le banchine, non
abbiamo avuto difficoltà a trovare la nostra che, per la sua
mole, spiccava tra le altre.
Lo Skipper ci ha atteso in banchina e ci ha accolti con calore. Gli ho portato i saluti del suo armatore e lui ha chinato il capo in segno di rispetto. Ma dopo averci aiutato a portare a bordo le valigie ha fatto la faccia mesta e si è scusato.
Il pilota automatico era guasto, non era ancora riuscito a trovare il tecnico e, fino a quando non fosse stato riparato, non
avremmo potuto salpare. Ci ha pregato di aver pazienza.
Abbiamo dondolato per tre giorni nel porto della Guadalupe ad aspettare il tecnico che non veniva mai e poi siamo partiti per St. Martin, isola duty free dove si possono acquistare vettovaglie spendendo meno.
Tutto bene. Sia io che mio figlio ne abbiamo approfittato per fare amicizia con l’equipaggio e soprattutto per familiarizzarci con questa grossa barca a vela.
Ma, appena in alto mare, ho subito imparato una cosa:
non farsi mai progettare una barca da ingegneri navali alle
prime armi, perché c’è il rischio di andare a fondo. Questa
è stata progettata da Giannetti e Grasselli, magari famosi in
patria, ma che, dopo quello che ho visto, andrebbero affogati con una pietra al collo.
Quante ne hanno combinate! Per cominciare, questa
barca, lunga venti metri, è dotata di due motori da centosessanta cavalli ciascuno, così potenti che debbono sempre
girare al minimo altrimenti spaccano tutto. Lo so che i motori debbono abbondare in potenza perché non sforzino, ma
non debbono neppure girare sempre al minimo perché allora si sciupano.
Muovono due eliche dal diametro di ottanta centimetri
che però, quando sono ferme perché andiamo a vela, frenano la barca. Le lasciamo girare in folle, ma gli ingranaggi del
cambio sono lubrificati dall’olio pompato dal motore e, per
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non lasciarli a secco e rischiare di ingripparli, ogni mezz’ora
siamo costretti a rimettere in moto i trecentoventi cavalli.
La barca, che in porto ha una linea bella e filante, in navigazione affonda di prua. Così il ponte anteriore è sempre
ricoperto d’acqua e chi dorme nelle cabine davanti non può
mai aprire i boccaporti.
Oltre ad avere due motori, è anche dotata di un enorme
generatore, ma le batterie non sono adeguate e a bordo non
c’è mai corrente a sufficienza a meno di non tenere quel
rompiscatole di generatore costantemente acceso.
Ora la più bella. I due ingegneri hanno inventato di scaricare i gabinetti, che sono quattro, in due contenitori che,
quando sono colmi, mettono in moto delle pompe che svuotano la roba da buchi posti nella fiancata sopra la linea di
galleggiamento. Anche di questi buchi ve ne sono due, uno
a tribordo per le acque nere (che qui chiamano «Grasselli»)
e uno a babordo per acque chiare (che qui chiamano «Giannetti»). Pare però che i due progettisti non abbiano tenuto
conto che una barca non sta mai in pari, ma si inclina col
vento che allora soffia dritto in uno di quei buchi e così sul
ponte c’è sempre puzzo di bottino.
Ma udite quello che succede in porto! Le pompe di scarico sono automatiche e inarrestabili. Alla Guadalupe avevo
appena fatto amicizia con un inglese molto chic, vestito di
bianco, che mi aveva invitato a saltare sul suo yacht per un
“drinchino” al tramonto, quand’ecco che è scattata una delle pompe, per quindici minuti il mio veliero gli ha vomitato
addosso getti di roba, e intorno a noi il mare è diventato tutto solido e marrone. Ho cercato di migliorare l’atmosfera
sfoggiando il mio migliore accento inglese e intanto da quel
tubo malefico non smetteva di uscire un getto che gli inzaccherava la barca e i parabordi. Molto imbarazzante. La sera
stessa il signore inglese ha tolto gli ormeggi ed è andato ad
ancorarsi in una altra parte del porto.
Ora che siamo in navigazione, a seconda delle mura e del-
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l’odore, i miei compagni gridano: «È partito Grasselli!» oppure: «È partito Giannetti!» e ci facciamo delle gran risate.
Ma questi sono scherzetti. Avreste mai creduto che le rotaie delle scotte del genoa fossero fissate alla tolda di teak e
non a una orditura di metallo? Ho visto la tolda alzarsi e abbassarsi come se respirasse e, a scanso di brutte sorprese, lo
Skipper mi ha chiesto di infilare le scotte dentro due pulegge avvitate ai piedi delle sartie. Anche le rotaie dello stralletto sono imbullonate al legno e, se la vela tirerà a strappo,
salterà via tutto.
Il pilota automatico (che prima di partire è stato riparato) è la cosa più comoda del mondo, ma succhia corrente. Se
andiamo a motore pensa lui a guidare la barca, ma a vela
non si può adoperare. Da dimenticare sono i verricelli elettrici che, se ne azioni uno, anche solo una volta, si ferma il
frigo. I relais dei comandi sono allineati su un cruscotto in
plancia, sono esposti a spruzzi e saltano uno dopo l’altro.
La radio a onde corte non trasmette perché ha le antenne mal installate. Riceviamo, ma credo che non ci senta nessuno. Perfino il barometro di ottone avvitato alla parete mi
insospettisce: è fisso su 1013 millibar e non si muove.
Il nostro Skipper ogni tanto guarda la barca con occhio
meditabondo e scuote la testa. A me non importa, si naviga
anche senza pilota automatico e con gli alisei che puzzano di
bottino, ma confesso che quel metro cubo di radio muta mi
dà un po’ sui nervi.
St. Martin è un’isola divisa in due da una frontiera simbolica. Al di qua di una collinetta è colonia francese, al di
là, olandese.
Per semplificarsi la vita, i suoi abitanti hanno adottato il
dollaro americano per tutta l’isola. Nella parte francese accettano anche i franchi, ma con riluttanza. Percorsi cento
metri e raggiunta la cima della collinetta, si sconfina in territorio olandese e i franchi non li vogliono più.
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Nella parte francese vendono le crêpes e insistono nel
parlare francese. In quella olandese cucinano bistecche e rispondono solo in inglese. Come in tutte le zone franche vi
sono sfilate di negozi con vetrine piene di radio e macchine
fotografiche a prezzi stracciati. Si fanno ottimi affari, ma St.
Martin non mi è parsa l’isola dove tornerò per una vacanza.
È piccola, brulla, e non riuscirei a trascorrerci quindici giorni solo a comperare radio e macchine fotografiche!
In serata lo Skipper ci ha radunato nel quadrato.
«Tra un’ora salpiamo» ha annunciato con tono solenne.
Fine della trasmissione.
Per diminuire il peso a prua, abbiamo smontato l’ancora e l’abbiamo riposta insieme alla catena sotto il tavolato al
centro della barca. La stessa fine ha fatto la passerella che è
stata sistemata, insieme ai parabordi, sotto il materasso di
una cuccetta inutilizzata. Abbiamo staccato la moquette dai
pavimenti e ora si cammina sul legno. Mi hanno spiegato
che, per tre settimane, di tutte queste cose non avremo bisogno, e che la barca navigherà meglio con i pesi al centro.
Facciamo rotta Nord, per l’esattezza venti gradi, che sono quasi Nord, e andiamo praticamente a motore. L’idea è
che tra cinque giorni troveremo l’aliseo che ci spingerà verso Est col vento in poppa. Insomma, una gigantesca e unica
bordata.
Per ora il mare è un olio. Dieci nodi di vento, sempre di
prua, e se non fosse per l’onda lunga che caratterizza l’oceano, potrei credermi al largo di Viareggio.
Ieri sera lo Skipper ci ha mostrato un foglio che poi ha
appeso vicino alla radio. Vi erano indicati i turni. Non sapevo cosa fossero e lui me lo ha spiegato. Sono gli orari in cui
si deve montare la guardia e non si può dormire. Me lo ha
detto con gentilezza, ma guardandomi negli occhi, e ho capito che sono una cosa seria.
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A bordo siamo in otto di cui due sono donne. Noi maschi facciamo i turni di guardia appaiati. A me hanno assegnato quello dalle 04 alle 08 e dalle 16 alle 20. Vedrò le albe
e i tramonti.
Invece mio figlio ha avuto il turno successivo al mio, appaiato allo Skipper. Con lui lo Skipper è gentile, ma non
scherza. Ho visto che lo rimproverava duramente per soli
due minuti di ritardo.
A bordo non c’è assolutamente nulla da fare. Il cielo è celeste, senza nuvole e la notte è piena di stelle. In quattro giorni di navigazione non abbiamo incontrato nessuno, sebbene
il radar di bordo veda fino a trentasei miglia (e per ora pare
funzioni).
Percorriamo circa centottanta miglia al giorno e ogni
mattina il nostro Skipper fa il punto col sestante. Gli ho chiesto se mi insegnava ad adoperarlo, ma mi ha risposto che un
marinaio ha due cose che non presta a nessuno: il sestante e
la moglie. Caso mai la moglie. Non ho insistito.
13 aprile (5° giorno)
Finalmente andiamo a vela. Un venticello al traverso ci ha
permesso di tenere le vele aperte e corriamo a sette nodi. Il
mare è calmo e il cielo sereno. Però la barca rolla molto.
Stanotte ho avvistato tre cargo. Si fa per dire, perché sono miope e non li ho visti, ma li ha visti il radar e anche lo
Skipper che ha gli occhi buoni. Abbiamo cercato di contattarli via radio e con uno ci siamo riusciti: ma il marinaio che
ci ha risposto era ubriaco e ce lo ha detto francamente. Gli
abbiamo chiesto informazioni sul meteo, ma lui proprio non
capiva. Non sapeva neppure di essere nell’Atlantico. Quando glielo abbiamo ricordato, ha detto di sì, che era vero, e ha
riagganciato.
A bordo tutti hanno traversato l’Atlantico più di una vol-
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ta fuorché mio figlio, Rosina ed io. Per la verità io l’ho già traversato, ma sul Queen Mary e quello non conta. Sono tutti
francesi a eccezione di José che è spagnolo e simpaticissimo.
José ha ventotto anni. Credo sia il figlio di un industriale che, invece di sciupare il suo tempo a lavorare in fabbrica, preferisce godersela e andar per mare.
Sono tutti pratici di vela fuorché Rosina, una specie di
servetta con la faccia lunga, che è a bordo per non aver voluto separarsi da Daniel, il suo amore.
Di Daniel a bordo ce ne sono due. Uno piccolo, magro
e riccioluto, che ama Rosina e che noi chiamiamo Dan, e un
altro grosso con i capelli rossi, che a casa fa l’agente immobiliare e che a bordo ha la mania di fare il verso della gallina. Quando mi vuol dire qualcosa, non mi chiama per nome,
ma mi fa «coccodè». Lo fa bene, ma continuamente, e alla
lunga è fastidioso.
Rosina non fa niente. Cerca di tenere compagnia a Dan
durante i turni di guardia, ma si addormenta sempre. Qualche volta lava i piatti e Dan glieli asciuga. A tavola litiga perché dice che lo Skipper lesina il mangiare a Dan. Dan ne è
imbarazzato, cerca di calmarla, gli altri fanno finta di nulla
e ammiccano fra loro. Però, appena Rosina torna in cabina,
si mettono a palpeggiarlo per vedere se è dimagrito e lo inseguono con pezzi di pane secco per incoraggiarlo a nutrirsi. Dan, che è un buon ragazzo, sta allo scherzo e non se la
prende.
Poi c’è France, anche lei francese. Trentenne, alta, brutta e molto brava. Non mi è sembrata la donna di alcuno e ho
sentito dire che gira il mondo facendo il “barca-stop”. In altre parole, si piazza nei porti e cerca un passaggio finché non
trova qualche barca che la carica. È una brava cuoca, non
da confidenza e soprattutto non parla delle sue avventure in
“barca-stop”. Non è antipatica e a bordo ci sa stare.
La sera mangiamo seduti a tavola e a turno diamo una
mano a sparecchiare. Mio figlio non lo vedo mai. Ha i turni
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successivi ai miei. Quando sono sveglio lui dorme, quando
ceno lui è di guardia e quando dormo, lui sta seduto nel salotto.
La barca è molto grande, così ognuno fa ciò che vuole.
Se mi pare di stare sul ponte, sto sul ponte, altrimenti mi siedo nel salotto che qui chiamano quadrato, o mi chiudo in
cabina a leggere e dormire.
Il primo giorno avevo un po’ di mal di mare, ma adesso
è passato. Posso anche scrivere, che è la cosa più “maldimarante” che ci sia.
Il vento è aumentato, ma la velocità della barca è sempre
la stessa. Chissà che sette nodi non siano il suo massimo?
14 aprile (6° giorno)
Stanotte è cambiato tutto. Per prima cosa (era di guardia
mio figlio) la barca ha urtato la prua contro qualcosa. Un legno? Una balena? La botta ci ha fatto saltare dal letto. Ispezionate le sentine, non abbiamo trovato falle e così è finita
l’avventura.
A me però è rimasta la voglia di sapere cosa era successo. L’ho chiesto a Daniel che mi ha risposto facendo «coccodè». L’ho chiesto a Josè che si è stretto nelle spalle dicendo «Sono cose che capitano!». Prima di tornare in cuccetta
l’ho chiesto anche allo Skipper che era di guardia con mio figlio e lui mi ha solo detto di non preoccuparmi, che non era
successo niente. Va bene, non è successo niente, ma contro
cosa abbiamo urtato? Credo che non lo saprò mai!
Poi stamani si è alzato il vento vero e con quello anche
onde che hanno iniziato ad avere la forma oceanica, come
vengono descritte nei manuali di navigazione. Sono alte tre,
quattro metri, lunghe e con i riccioli bianchi sulla cresta. Il
vento ora soffia a venticinque nodi e viene da poppa. Non
avendo lo spinnaker, che si è strappato nel viaggio di anda-
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ta, abbiamo ammainato il genoa e issato sopravento uno
“yankee” tangonato. La randa è tutta aperta e la vela di mezzana ammainata perché, dice lo Skipper, non ha più scopo,
ingombra e basta. Filiamo a nove, dieci nodi, con punte di
tredici quando l’onda ci solleva la poppa. Disgraziatamente
siamo costretti a tenere frenate le eliche, perché a questa velocità dovremmo accendere troppo spesso i motori per lubrificare, e questo ci fa perdere un nodo (abbiamo fatto la
prova).
Anche la rotta è cambiata. Non è più Nord, ma sessantacinque gradi e puntiamo sulle Azzorre. Il vento che cercavamo è stato trovato e lo Skipper mi ha detto che si chiama
Anticiclone Atlantico. È un nome che non mi piace perché
sa di ciclone. Il vento continua ad aumentare e stanotte dovremo indossare le cerate. A seconda dell’abilità del timoniere, la barca ogni tanto si china da una parte e allora vola
tutto, sedie, piatti, bicchieri, cibo, occhiali, sigarette. Sono
terrorizzato dalla pentola dell’acqua bollente, quella per
cuocere le patate, ma i miei compagni ridono come pazzi e,
più la barca balla, più sono allegri.
Non soffro il mare, ma non ho ancora scoperto come si
fa a dormire in cuccetta senza rotolare. Mi ancoro con dei
cuscini, ma rotolo lo stesso. In queste condizioni il tempo
passa velocissimo. Peccato che il cielo sia coperto e che ogni
tanto piova a scrosci.
All’alba, quando finalmente il sole rischiara il ponte, trovo sempre due o tre pesci volanti che durante la notte hanno sbagliato traiettoria. Lo Skipper ha decretato che non sono buoni da mangiare e ce li fa buttare in mare. Ha certamente ragione, ma io li terrei come esche per la lenza a traino che teniamo a poppa.
Ieri il campanello della lenza ha suonato: aveva abboccato un grosso pesce verde lungo quasi un metro che loro
hanno chiamato orata. Non avevo mai mangiato orate lunghe un metro. Era buona, morbida e senza lische. Hanno
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pescato anche dei pesci più piccoli, ma li hanno snobbati e
ributtati in mare.
Anche la spazzatura vola in mare in barba a tutte le buone regole dell’ecologia. Effettivamente, se penso a quanto è
grande l’oceano, non sarà certo la buccia delle nostre patate a inquinarlo. Immancabilmente, invece, ogni quindici minuti arriva la spaventosa puzza «Grasselli». Ci tappiamo il
naso e mandiamo a quell’architetto degli insulti elaboratissimi.
16 aprile (8° giorno)
Ieri è stata una giornataccia e ho sofferto il mal di mare. Mi
assaliva a tratti e l’unico rimedio era di salire in coperta e timonare anche se non era il mio turno. È un trucco che ho
imparato leggendo il Glenand, un libro di nautica trovato a
bordo, e debbo dire che funziona. Al timone il mal di mare
passa, ma non si può timonare tutto il giorno.
Del mio mal di mare ho accusato tre cose: aver mangiato troppo, aver preso freddo e dormito male. Così ieri sera
non ho bevuto vino, ho mangiato il più sano possibile e, prima di andare a letto, mi sono organizzato la cuccetta come
avrebbe fatto una mamma con la culla del suo neonato. Ho
puntellato il materasso con tutto ciò che ho trovato, biancheria sporca, giacconi, coperte, in modo da renderlo concavo e non rotolarci dentro. Vi ho dormito come un sasso.
Stamani ero guarito, prova ne sia che sto scrivendo.
Il vento, che aveva raggiunto forza cinque, all’alba è sparito lasciando un mare lungo e ondoso che ci ha costretto ad
accendere i motori. Di questo passo raggiungeremo le Azzorre tra dodici giorni che, sommati agli otto già trascorsi,
non ci faranno certo battere il record della traversata.
Nel primo pomeriggio mio figlio ha avvistato una petroliera. Ha acceso la radio e fischiettato una canzoncina nel
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microfono. Dopo poco un arrabbiatissimo inglese gli ha urlato che quello non era il modo di sporcare l’etere e ha chiesto di svelare la nostra identità. Quando però ha saputo che
eravamo uno yacht a vela, ci ha subito mostrato rispetto e si
è fatto in quattro per darci la posizione e le ultime notizie
meteo. La posizione corrispondeva a quella rilevata col sestante, meno male, vuol dire che lo Skipper lo sa adoperare!
Il meteo annunciava una tempesta che per adesso correva
parallela a noi tenendosi però duecento miglia più a Nord.
Noi andiamo da Ovest verso Est, e lei anche. Ha forza sette, così non dovrebbe essere proprio cattiva, ma spero ugualmente di non fare la sua conoscenza.
Certo è che in questo viaggio ho sempre la spiacevole
sensazione di essere in costante pericolo. Ciò che mi terrorizza di più è l’idea di cadere in mare. Qui sostengono che
se uno ci cade e non lo si vede cadere, non vale neanche la
pena di fermarsi, tanto non lo si trova più. Bella prospettiva! Potrebbe accadere anche nel Tirreno, ma qui è più agghiacciante.
Raramente mi sposto dal pozzetto. Lo Skipper ha messo la regola che di notte chiunque si allontani dal pozzetto
deve avvisare, in modo che chi è al timone possa tenergli un
occhio addosso. Ma a volte di notte c’è da cambiare le vele
e se restassi impigliato a cavalcioni di una scotta e la vela calata prendesse vento, volerei via come un gabbiano. Loro dicono che chi casca in mare non doveva salire a bordo.
Un’altro pericolo sono i pirati. Non lo sapevo, ma pare
che, non proprio qui in mezzo all’Atlantico, ma nei Caraibi,
nel mar Rosso e nei mari d’oriente, non sia raro incontrarli.
Se riescono a raggiungerti, rubano tutto ciò che trovano, ti
tagliano la gola e affondano la barca. Inutile lanciare appelli via radio, tanto non viene nessuno. Ma quante notizie divertenti!
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17 aprile (9° giorno)
Stamani, iniziando il mio turno alle quattro, ho avuto la sorpresa di trovare il sole. Mi sono reso conto che avanziamo
sui fusi orari e l’alba, che schiariva il cielo alle cinque, adesso arriva un’ora prima.
Tempo splendido, mare azzurro sotto un cielo senza nuvole e vento di diciotto nodi. Che però ha cambiato direzione e le vele che prima erano a farfalla, vale a dire una di qua
e una di là per ricevere il vento di poppa, ora sono entrambe aperte sullo stesso lato.
Abbiamo incontrato un’altra petroliera. Solo che questa
era italiana e ho approfittato della loro gentile disponibilità
per mandare via New York un cablo a casa (che però non è
mai arrivato). Lunga conversazione con gli ufficiali italiani
che ci hanno mestamente annunciato un meteo cattivo in arrivo su tutto l’Atlantico. E infatti ora sono le tre del pomeriggio e credo che ci siamo.
Il vento è partito in quarta cambiando nuovamente direzione e si è messo a soffiare a venticinque, trenta nodi. Il
mare è ondoso con i riccioli bianchi, il cielo nero, piove e si
odono tuoni al largo. Stranamente in questo momento il vento è calato quasi a zero ed è per questo che riesco a scrivere.
Ho l’impressione che stia arrivando la famosa tempesta.
18 aprile (10° giorno)
Non era la tempesta, solo un brutto tempo passeggero. Tutto si è calmato ed è perfino riapparso il sole. Il guaio è che
tutto si è calmato davvero e ora siamo di nuovo a motore. Il
vento dell’Atlantico non è poi così costante come dicono.
Stamani, confusione coi turni perché lo Skipper ha cambiato l’ora di bordo. In conclusione, invece di prendere servizio alle quattro del mattino, ho dovuto essere pronto alle
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tre. Però devono essere sbagliate anche le tre, perché dopo
mezz’ora è spuntata l’alba mentre quando eravamo a St.
Martin il sole si levava alle cinque e mezzo, cioè più di un’ora
dopo.
Mentre ero di guardia ho dovuto accendere i motori
(l’ordine è di accenderli quando la velocità scende sotto i
cinque nodi) e uno non è partito. Come al solito, Giannetta
e Grasselli non hanno previsto che la barca si inclini e la
pompa del gasolio ha pescato aria. Comunque lo Skipper e
José lo hanno già fatto ripartire.
Mi domando quanto gasolio ci sia in questo natante. Deve essere un segreto di stato, perché nessuno me lo dice. Sono già dieci giorni che i motori sono spesso accesi e nessuno sembra preoccuparsene.
Ogni giorno che passa aumenta il mio rispetto per lo
Skipper. Si chiama Pierre, è un francese alto e biondo che
parla solo sottovoce. Ha meno di trent’anni ed è sempre gentile, ma quando mi sussurra un ordine, anche se sono molto
più vecchio di lui, mi mette soggezione.
Credo di aver scoperto che il ritardo della nostra partenza, attribuito al tecnico del pilota automatico, fosse una
scusa e che in realtà Pierre volesse prendere tempo per osservare il comportamento mio e di mio figlio prima di accettarci a bordo. Se ci fossimo mostrati arroganti o avessimo
preteso privilegi, come ad esempio far valere la nostra amicizia col proprietario della barca, semplicemente ci avrebbe
sbarcato o non sarebbe partito. Ridacchiando me lo ha raccontato José durante un turno di guardia. Volevo saperne di
più, ma si è pentito di avermi svelato un segreto di bordo e
non ha voluto dirmi altro. Comunque ne sono rimasto lusingato perché, in conclusione, se ci ha accettato, deve averci giudicati dei buoni compagni di viaggio!
Pierre ci raziona il cibo. Non che non sia sufficiente, per
carità, ma non tollera sprechi o avanzi. Una bottiglia e mezzo di vino a pasto deve bastare per tutti. Al pasto successi-
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vo, rimette in tavola la mezza bottiglia avanzata più una nuova. La cuoca serve a ognuno di noi un piatto unico già preparato. Ad esempio: carne con contorno di spaghetti (sono
francesi e gli spaghetti non li capiscono), pane fresco e una
scatoletta di verdura. Tutto ottimo, ma razionato. È proibito
aprire la cambusa. Se desidero qualcosa debbo chiederlo alla cuoca che generalmente mi oppone un cortese rifiuto. Ma
ieri, aprendo un ripostiglio per cercare delle cime, ho scoperto che a bordo vi sono provviste sufficienti a nutrire un
reggimento per un anno. Scherzando l’ho detto a Pierre. Lui
ha fatto il viso serio e mi ha risposto che di quel cibo va usato solo il necessario perché non è nostro, ma dell’armatore.
Credo che il mio amico Achille sia in buone mani!
La mansione di un compagno di guardia è di avvistare le
navi. Notoriamente, a bordo dei cargo dormono tutti: noi
andiamo piano e, se non li avvistassimo per tempo, in cinque
minuti i cargo ci sarebbero addosso e ci manderebbero a
fondo. Sfortunatamente io sono miope e non li vedo.
Però all’alba una petroliera l’ho avvistata e l’ho subito
contattata sul canale sedici del VHF. Anche quella era italiana, veniva da Milazzo e andava nel Texas a caricare greggio.
Il marinaio di turno alla radio aveva l’accento genovese
e mi ha fatto i complimenti.
«La vostra, quella sì che è vita! La nostra è solo noia!»,
ha detto e io non ho saputo cosa rispondere. Poi ha premuto un bottone e ci ha comunicato la posizione che gli aveva
dato il satellite, posizione che il nostro Skipper ha sdegnato
perché lui si fida solo del suo sestante. Quel marinaio genovese era molto gentile e ci ha anche letto l’ultimo bollettino
meteo: niente di preoccupante, tra qualche ora forse in aumento un vento da Nord, cioè da babordo, e tanti saluti.
Sono sempre imbarazzato quando debbo chiudere una
trasmissione radio perché nessuno stacca per primo e, come
pappagalli, si continua a dirci «Roger and over».
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Ora i motori sono fermi perché José sta cambiando
l’olio. Vento non ce n’è, la barca dondola da impazzire, ma
c’è il sole e ci faremo l’abbronzatura.
21 aprile (13° giorno)
Ebbene, la tempesta è arrivata. Ci siamo dentro da quattro
giorni e solo oggi accenna a diminuire.
La sera del 18 aprile, quella in cui il marinaio genovese
ci ha letto il suo rassicurante bollettino meteo, il mare ha cominciato a ingrossarsi e il vento a soffiare sul serio. Il cielo
si è oscurato e lentamente il quadro ha preso forma. Il barometro (che funziona) è crollato di colpo e ci siamo trovati tutti in coperta con le cerate gialle.
Dopo qualche ora, ci sono arrivate addosso onde alte come case di due piani. La barca alzava la poppa fino ad avere il timone fuori dall’acqua, poi scivolava giù nel cavo raggiungendo punte di quindici, sedici nodi. L’onda ci sorpassava, la prua tornava a impennarsi e davanti, prima di tornare a vedere il baratro, ci appariva un muro verde-grigio. E
tutto ricominciava da capo.
L’anemometro, un ordigno che misura la velocità del
vento, era fisso su quaranta nodi, qualche volta cinquanta ai
quali andavano sommati i dieci della velocità della barca.
Quando è arrivato il mio momento di montare la guardia pomeridiana, prima mi sono legato con tutto il cordame
che ho potuto trovare, poi ho chiesto di essere dispensato
perché avevo paura.
Solo dopo aver osservato José timonare per un’ora (e anche sbagliare ogni tanto) e dopo aver capito che anche sbagliando non succedeva niente, mi sono fatto coraggio. Forse sono un incosciente, ma mi sono divertito come alle montagne russe del Luna Park. Però, dopo appena un quarto
d’ora, per via di un colpo di timone dato male, ho schianta-
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to uno “yankee” (la piccola vela di prua). Hanno detto che
avevo orzato un tantino troppo, che la vela aveva sbattuto
due volte e che, pare, le vele non reggono se sbattono con
quaranta nodi di vento. Così si è divisa in due.
In seguito hanno ridotto (loro dicono «terzarolato») la
randa. Poco dopo l’hanno tolta del tutto e per finire hanno
ammainato tutte le vele lasciando a prua solo il fiocco da
tempesta, che è ridicolo da quanto è piccolo.
Ma il mare non accennava a calmarsi, anzi era solo il
principio. Le onde, più che alzarsi ancora, hanno iniziato a
giungere da tutte le parti, da dietro, da babordo, da tribordo e poi c’erano le onde anomale che arrivavano a intervalli di mezz’ora. Sono il doppio delle altre sia per altezza che
per cattiveria e viaggiano sempre a tre per volta. Qui le chiamano «le tre Marie».
Il posto migliore, non lo credevo, è nel pozzetto. Ci fa
un freddo cane, le onde spazzano il ponte leccando il boma,
si sta sempre coi piedi nell’acqua, ma per lo meno non si
soffre il mal di mare. Invece sottocoperta lo spettacolo è
inimmaginabile. Tutto vola, incluso noi. La barca è larga e
più di una volta ho decollato con la testa in avanti per un
volo di tre o quattro metri, seguito da pentole, bicchieri,
piatti, spaghetti, tutto mi rotolava addosso e i miei compagni ridevano.
Malgrado queste scene, la vita di bordo prosegue imperterrita. L’incredibile succede in cucina. C’è France, la
cuoca, che non smette di lavorare. In mezzo a quest’inferno,
lei impasta la farina e cuoce dolci nel forno. Ieri ha fatto il
pane ed era buonissimo! Poi porta tutto in tavola con i piatti che volano come quelli dei giocolieri e quando ci mette
dentro il cibo sembra un’equilibrista.
L’acqua di mare entra dappertutto. Il materasso è fradicio, il cuscino è fradicio, i maglioni sono fradici e facciamo
la coda davanti alla sala motori per appendere i nostri panni. Che però non asciugano: il sale lo impedisce, i panni di-
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ventano solo un po’ più calducci. Oltretutto ora i motori sono spenti e abbiamo frenato le eliche per correre meno.
Già, perché andiamo alla deriva. Col mare così forte, non
si può seguire una rotta, dobbiamo tenere il vento in poppa
per gonfiare il piccolo fiocco da tempesta e si va dove si va.
Inoltre sono tre giorni che non facciamo il punto col sestante
perché, anche se ogni tanto appare uno squarcio di sole, non
si vede l’orizzonte a causa delle onde troppo alte.
È sorprendente come l’Atlantico sia pieno di rondini che
svolazzano tranquille nella tempesta andando per i fatti loro
e infischiandosene del vento. Anche i delfini ci seguono sempre: nuotano nella schiuma dei cavalloni e si buttano in surf
lungo il cavo dell’onda. Avrei voluto fotografare tutto, il mare infuriato, i precipizi a prua, le rondini, i delfini, ma la macchina fotografica è volata contro un armadio e si è rotta.
La vita di bordo è diventata monotona. Si sta aggrappati alla cuccetta e si dorme senza dormire. Si fanno turni di
quattro ore, poi si mangia e si sbatte la testa contro gli spigoli. Per far pipì nel gabinetto devo calcolare l’angolo di gettata come se fossi un artigliere, altrimenti la mando sulla parete. Mi sdraio sul pavimento del bagno e dirigendo all’insù,
la faccio cadere nel vaso del gabinetto. Cose allucinanti! Siccome durano da quattro giorni, ora sembrano quasi normali, ma di normale non c’è più niente. Per ognuna delle botte che prendo ogni mezz’ora, a casa mi porterebbero al
pronto soccorso, qui ci si rialza con una risata.
Mi è presa la mania di legarmi. In coperta non muovo
un passo senza una cima annodata alla vita e gli altri mi prendono in giro. Però ho notato che l’altra notte lo Skipper, dopo averci chiamati tutti sul ponte per sistemare la vela a
prua, a me ha ordinato seccamente di stare al timone. Solo
dopo ho capito che non mi voleva fuori pozzetto. Sono il
più vecchio, ha paura che gli caschi in mare e mi protegge.
Finalmente stamani il barometro è risalito, ma di corsa,
quasi lo vedevo muoversi. Poi è spuntato il sole e il vento è
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calato a venti nodi. Il mare è sempre grosso, ma è come se
fosse stanco e le onde non si rompono più sulla cresta. Ho
anche potuto riprendere a scrivere.
Intanto mio figlio, che non legge mai, sembra aver deciso che questo è il suo momento per farsi una cultura e trascorre i suoi minuti liberi a leggere avidamente un libro che
tratta dello scambio di spie tra il colonnello Abel e Powers,
il pilota dell’aereo spia U-2. Solo a guardarlo mi vengono attacchi di mal di mare.
22 aprile (14° giorno)
Stamani, finalmente, il sole! Sembra una cosa da niente, ma
fa una bella differenza: mette allegria. Il mare è sempre grosso, ma meno violento e il vento si è stabilizzato a venti nodi.
Sono riapparse le vele. Prima una mezza randa, poi lo “yankee due” con la “trinchetta” al posto del fiocco da tempesta.
Per finire hanno sciolto i legacci chiamati terzaroli e issato il
resto della randa.
Corriamo a nove nodi. Lo Skipper ha potuto fare il punto e ora sappiamo che rotta tenere. Tutto sta tornando normale, fuorché il barometro che sale troppo. Da novecentonovanta che segnava, è salito a milletrenta millibar e non è
escluso che prima di arrivare alle Azzorre ci venga incontro
un altro cicloncino.
Meteorologicamente le Azzorre sono famose per essere
una premiata fabbrica di anticicloni. Basta che dal Polo un
po’ di aria fredda decida di fare una passeggiata, e subito
dalle Azzorre decolla un anticiclone per farci a botte. Questa volta però con me nel mezzo.
Sono in piena cura dimagrante perché ormai tutto mi
fa schifo. France concepisce la cucina solo se ricca di cipolle, notoriamente micidiali per il mal di mare. Mangio
solo dolci.
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Lavoro come un diligente operaio di fabbrica che timbra
il cartellino. Otto ore al giorno, in due turni, non un minuto di più, non uno di meno. Ieri mi sono presentato alla guardia con cinque minuti di ritardo e Daniele Coccodè, che
smontava, mi ha detto bruscamente che non si ripetesse più,
che lui si era già fatto quattro ore e non aveva alcuna voglia
di regalarmi cinque minuti. Poi, prima di cominciare a spogliarsi, si è voltato, ha fatto «coccodè» e mi ha dato di ladro.
Anche il mio dormire è strano, non dormo veramente
mai: sonnecchio. Dovrei essere distrutto e invece sono sorpreso di non essere poi così stanco. Gli altri invece sono dei
veri patiti della vela, più il mare è grosso e più gongolano.
Siamo già al quattordicesimo giorno di traversata e se va
bene ne occorreranno altri due prima di arrivare alle Azzorre. Il cibo è tutto muffito. Si scrosta la muffa col coltello e il
resto lo si mangia.
La mattina mi svegliano alle due e mezzo e comincia la
tortura della vestizione. Sopra i pantaloni di lana e tanti maglioni, mi infilo la cerata e poi gli stivali. Il tutto inclinato a
quarantacinque gradi e sapendo che un paio di testate le batterò certamente. Alle tre salgo sul ponte dove mi gelano le
mani, ma devo ammettere che la cerata mi tiene asciutto.
Il quadrato è pieno di vele non ripiegate, cosa comoda
perché quando ci si ruzzola sopra non ci si fa male. France
lava, sciacqua e, seduta per terra con la schiena appoggiata
alla base dell’albero, impasta la farina per cuocere il pane.
Secondo me è matta! Ma deve essere matto anche lo Skipper che in questo momento è sdraiato sul tavolo da carteggio coi piedi puntellati ai gradini della scaletta, e calcola il
punto usando le tavole logaritmiche.
Sicuramente, dopo un viaggio così, vedrò le barche sotto un’altra prospettiva. Tutto ciò che in porto sembra grazioso, sbandato di quaranta gradi con la barca che dondola,
assume un altro aspetto. Nel quadrato vi erano delle eleganti
sedie e non capivo perché all’inizio della traversata lo Skip-
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per brontolasse. Poi le ho viste volare nella rastrelliera dei libri e, se qualcuno non ne avesse parata una a mezz’aria come fanno i giocatori di rugby, quella avrebbe sfondato la radio. Dopo questi svolazzi, le sedie sono sparite dentro un armadio a prua.
Altra cosa banalissima: i quadretti appesi nei corridoi sono decorativi, ma quando cammini inclinato, con la spalla è
facile rompere i vetri e allora diventano pericolosi. Per non
parlare dei chiodini a cui sono appesi. Ce n’è uno che per
ben due volte mi ha strappato la camicia, mi è penetrato nella carne e ora ho due cerotti sul braccio distanti pochi centimetri uno dall’altro. Cosine da nulla, ma che non finiscono mai di stupire.
Le cuccette più ambite sono le più strette e mi sono pentito di aver preteso il lettone della cabina del mio amico proprietario. Infatti i miei compagni di viaggio l’avevano chiusa, ma io, pensando di essere scaltro, ho fatto il prepotente.
Ora contemplo il groviglio di roba su cui dovrò distendermi
dopo essermi puntellato con valigie, salami, scatolame e, insomma, con tutto ciò che faccia volume e rallenti le mie folli rotolate notturne!
23 aprile (15° giorno)
Oggi il tempo è diventato decisamente bello e c’è anche il sole. Abbiamo cambiato un’altra volta l’ora di bordo e, per
quanto mi riguarda, dovrò alzarmi alle una e mezzo di notte invece che alle due e mezzo. Siccome mi corico al tramonto, non è poi così dura.
Siamo ormai nelle acque delle Azzorre e dovremmo vedere le balene. Durante la guardia ho tenuto gli occhi puntati, ma non ne ho viste. Sarà la solita miopia.
Ieri lo Skipper mi ha spiegato la tempesta. Pare che se
fosse durata ancora un giorno, le onde avrebbero preso mag-
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gior forza e avremmo rischiato un brutto fenomeno. Dopo
una certa altezza, non riuscendo più ad alzarsi, le onde si
frangono e rotolano su sé stesse. Nella cresta che si frange,
però, non c’è più acqua compatta, ma schiuma e la barca
non ci può galleggiare. La schiuma si rovescia sul ponte e la
barca ne resta sommersa. Se a questo punto un’onda anomala, cioè un’onda ancora più grossa, ci prende da poppa e
ci fa scivolare nel suo cavo con la cresta che si arrotola sulla
coperta, c’è il rischio che la prua si infili nel baratro come
una palla di fucile e che si vada dritti a fondo. Lo Skipper ha
proprio detto così: come una palla di fucile! Però ha anche
detto che è un caso raro.
Stamani ho deciso che mi laverò e mi farò la barba. Più
tardi, quando il sole sarà più caldo, calerò un secchio e farò
toilette con l’acqua di mare. Nei serbatoi ci sarebbe acqua
dolce in abbondanza, ma le pompe, tarate per la calma di
un porto, non prevedono che la barca sbandi: c’è aria nei tubi e l’autoclave gira a vuoto.
Non so da quanti giorni mio figlio non si lava. Non lo so
e non me ne importa. Qui ognuno deve pensare per sé. Sono entrato in cabina mentre dormiva e mi è sembrato che
avesse una barba molto lunga. A casa non l’ho mai visto con
la barba lunga. Trovo che non gli sta male, forse potrebbe
portarla abitualmente. A bordo abbiamo tutti la barba lunga, sono dieci giorni che nessuno tocca un rasoio. Oggi, per
caso, mi sono visto in uno specchio e con quei lunghi peli in
faccia e i capelli cespugliosi quasi non mi sono riconosciuto.
A bordo ora siamo tutti più rilassati. Si vede anche dal disordine. Ognuno ha sistemato le sue cose in un posto segreto, le sigarette, l’accendino, gli occhiali e traffica solo in quell’angolo. Le cerate vengono gettate per terra, ma sempre nello stesso posto, così chi viene dopo le trova a colpo sicuro.
Negli armadi non ci va più nessuno perché ci si fa male
alle dita che restano impigliate nei buchi delle maniglie. Lo
Skipper dice che stasera avvisteremo Faial, l’isola delle Az-
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zorre dove sbarcherò. Se è vero, quello che mi aspetta è il
mio ultimo turno di guardia. La traversata è durata quindici giorni esatti.
24 aprile (16° giorno)
No, i giorni sono stati sedici perché all’ultimo momento lo
Skipper ha deciso di non attraccare a Faial. Questione di
venti e di domeniche. Allo Skipper non piace arrivare di domenica: si trova tutto chiuso. Così abbiamo invertito la rotta e puntato su San Miguel, che è un’isola più grande e più
vicina a Gibilterra.
Ieri abbiamo avvistato terra. A babordo, tutto a un tratto, è apparsa all’orizzonte una linea nera, alta e sottile che,
fatti i calcoli, è stata identificata come Pico, una piccola isola infilata nell’Atlantico sulla quale posa un monte alto seicento metri. La vita è continuata normale, turni, cena, sveglia eccetera.
Ma stamani, quando alle quattro (ora delle Azzorre) sono salito ancora mezzo addormentato sul ponte, ho visto i fari di San Miguel. Poi si è alzato il sole e ora stiamo costeggiando campi verdi con qualche casa e tanti nuvoloni neri
appiccicati sopra. Pare che qui alle Azzorre, qualsiasi nuvola vagante per l’Atlantico senta il bisogno di farci una sosta
e questo spiega come mai il turismo non abbia mai conquistato questo arcipelago.
La vista della terra non mi ha emozionato. Anzi, mi ha
messo addosso una certa tristezza. Mi ha riportato al trantran della vita normale: gli aerei, il telefono, tutte cose che fino a ieri non esistevano più. Le vele sono già state insaccate
e misteriosamente sono saltati fuori sia l’ancora che i parabordi.
In cabina ho trovato mio figlio che stava preparando la
valigia. Il viaggio è finito e tra un’ora faremo colazione al bar.
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Indice
La traversata
Vita di bordo
Mare grosso
Vento in Turchia
p.
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