il matrimonio
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IL MATRIMONIO Mio padre svolgeva il compito di Ufficiale di stato Civile presso una sede distaccata del Comune, nel quartiere denominato Pontefratte. Per l’esattezza, Pontefratte è in pieno centro cittadino, con tanti palazzi, negozi ed uffici, con il relativo traffico automobilistico, però fino ad una trentina di anni fa, rappresentava la periferia ovest di Salerno. Ancora oggi qualche persona anziana, nel dire che deve recarsi al centro, dice che deve scendere a Salerno. Mio padre era, alla stregua del farmacista, del maresciallo dei Carabinieri, del parroco e del maestro della scuola elementare, una personalità. Egli rappresentava a tutti gli effetti il Sindaco. In quel bugigattolo di ufficio, si rilasciavano tutti i certificati anagrafici, i libretti di lavoro, si presentavano le pubblicazioni di matrimonio e, naturalmente ci si poteva sposare. Nel periodo della vendemmia, riceveva anche le dichiarazioni dell’uva raccolta ed io andavo ad aiutarlo a compilarle, perché era una procedura lunga e si dovevano fare parecchi calcoli, per ottenere la resa. Per ogni dichiarazione ci voleva più di un’ora, ma la difficoltà principale era che ogni produttore aveva una unità di misura diversa per il proprio podere. C’era chi dichiarava di possedere sei “tomole”, chi dieci “muoie”, chi tre “lemmete” ed io dovevo trasformarli in ettari ed are, dopo avere capito cosa significassero quelle parole. Non diverso era trasformare le damigiane, le botti e le cisterne in ettolitri di vino. Ogni recipiente aveva un valore diverso. Era un lavoraccio! Papà spesso riceveva inviti a partecipare ai matrimoni. Non presenziava a tutti, ma a qualcuno andava ben volentieri e siccome non guidava più da qualche anno, io ero costretto ad accompagnarlo. Un matrimonio, però, non lo dimenticherò mai. La storia comincia con una richiesta di pubblicazioni urgenti da parte della sposa. Papà capì subito che c’era sotto qualcosa, o meglio, che qualcosa stava nel ventre della sposina. Lui non poteva fare altro che raccogliere le certificazioni ed affiggere le pubblicazioni nel più breve tempo possibile, poi dovevano trascorrere necessariamente i canonici 15 giorni. Quello che creava i maggiori problemi era il parroco, perché lo sposo non era ancora cresimato e voleva a tutti i costi che partecipasse al corso della cresima che durava tre anni. I due non potevano certo aspettare tre anni! La mamma della sposa si confidò con mio padre e gli rivelò che la ragazza era in stato interessante ma che non voleva che si sapesse in giro. Poiché lo sposo era di un paese del Cilento, papà si mise in contatto con il sacerdote di quel paese e lo convinse ad impartire la cresima allo sposo dopo solo una settimana di corso e di celebrare il matrimonio il primo sabato dopo la scadenza delle pubblicazioni. Papà sapeva essere convincente ed accomodante. Non bastarono i ringraziamenti della famiglia della sposa, ci pervennero a casa anche quelli dello sposo sottoforma di salami, formaggi, verdure, uova e vino, da poter stare bene tre settimane senza fare la spesa. Inevitabilmente, ci toccò anche l’invito alla cerimonia. Quel sabato mattina, mio padre, mia madre ed io, con la macchina lavata e vestiti di tutto punto, ci avviammo per le strade del Cilento. Non voglio nominare il paese, però posso dire che uscii dall’autostrada a Buonabitacolo. Giunti al paese, fummo ricevuti con molto garbo. Mi fecero parcheggiare l’auto in piazza, proprio vicino alla chiesa, poi ci indicarono la casa degli sposi. La tradizione di quel posto voleva che lo sposo attendesse davanti alla chiesa, ma che la sposa uscisse dalla loro futura casa, sottobraccio al padre e seguita dal corteo degli invitati. Facemmo quella processione tra ali di gente che lanciava petali di fiori, chicchi di grano, riso e monetine da 5 e 10 lire. Giunti davanti alla chiesa, lo sposo si avviò all’altare. La sposa lo seguì, sempre accompagnata dal padre, poi come si udirono le prime note dell’organo, fummo invitati ad entrare. Non c’era più posto in chiesa. Tutti i paesani erano presenti. Lo sposo apparteneva ad una famiglia importante del paese. Dopo la funzione religiosa, ci recammo, sempre in corteo, ad un ristorante poco lontano, forse trecento metri. A quel banchetto non mancò nulla. Il cibo era buono ed abbondante ed il vino scorreva a fontane. Io mi annoiavo a morte. Avevo appuntamento con Paola alle 21 e speravo solo che finisse presto tutto. Verso le 17 arrivò la torta nuziale. Stava finendo? No, sbagliato! Dopo il taglio della torta ci fu il taglio della cravatta dello sposo. I pezzetti furono posti in un vassoio e quest’ultimo fu fatto girare per tutti i tavoli. Ognuno doveva prelevarne un pezzo e mettere una banconota in un fiasco. Quei soldi servivano per il viaggio di nozze. Quando il vassoio fu vuoto e il fiasco pieno di soldi, i raccoglitori ritornarono al tavolo degli sposi, ci fu un lungo applauso ed il canonico bacio tra i nuovi coniugi. Tutti si alzarono e si ricomposero. Pensai che fosse finito tutto e che potevamo andarcene. Ancora più sbagliato di prima! Fummo invitati a partecipare al corteo che accompagnava gli sposi alla loro abitazione. Una nuova processione si snodò per le vie di quel paese. Giunti nuovamente a casa degli sposi, trovammo sulla strada alcuni tavoli con dolci, confetti e bicchieri di vino. Facemmo un nuovo brindisi, e poi… poi gli sposi si congedarono con un lungo applauso e le lacrime dei rispettivi genitori. Iniziò una nuova festa con musica e danze sotto la casa degli sposi. Chiesi a quel punto a mio padre se potevamo andare via. Mi disse di aspettare ancora un poco. Erano già passate le sei del pomeriggio. Se avessi corso un po’ in autostrada, ce l’avrei fatta ad arrivare puntuale al mio appuntamento. Trascorse quasi mezz’ora, quando all’improvviso la musica tacque di colpo e tutti si fermarono, cadendo in un silenzio impressionante. Le facce si rivolsero all’insù, verso un balcone al primo piano che si stava aprendo. Vidi un braccio maschile nudo che si protendeva, lasciando stendere un quadrato di cotone bianco, macchiato di sangue. In quell’attimo si scatenò il putiferio. Applausi, fischi, abbracci, lacrime e pianti di gioia accompagnarono l’estensione di quel drappo. Era il 1979. L’adunanza si sciolse ed ognuno tornò a casa sua. Per la strada, però, sentii qualche malalingua raccontare di un probabile piccione sacrificato a salvaguardia dell’onore dello sposo e della sposa, seguito da piccanti commenti che non è il caso di riportare. Quando giunsi da Paola le raccontai il fatto e le dissi che sarebbe stato simpatico se l’avessimo fatto anche noi, sempre se un giorno ci fossimo sposati. Lei mi guardò stupita, poi, nascondendosi la bocca con la mano, si fece una lunga risata.