Messico e Guatemala

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Messico e Guatemala
Le mille anime del Messico
di Aldo Pavan - da Viaggiare
L'immensa capitale con venti milioni di
abitanti e le città coloniali, i villaggi indios del
Chiapas e i siti archeologici della civiltà maya.
Un viaggio attraverso il Messico per scoprire
la vera anima, anzi le mille anime del paese.
La città di Oaxaca? A tre ore di auto.
Attraversate la sierra, la carrettera nacional è
tutta curve, ma buona».
L'uomo con il sombrero bianco è sicuro di sé.
O almeno sembra. Occhi scuri e pelle bruciata
dal sole. Mani callose. È un campesino, forse
torna dal mercato. Sembra cerchi qualcosa,
ma è solo curioso. Osserva la nostra faccia
bianca, l'auto, la macchina fotografica al
collo. E così, mentre sta facendo questa
specie di inventario, dietro a lui interviene
un'altra voce.
«Macché tre ore per Oaxaca, ne bastano due.
Con questa macchina potete andare molto
più in fretta». I due uomini si scrutano e
intanto interviene un altro. «No, non
ascoltate quello che dicono! Questi due non
sono mai usciti da questa città, da Izucar de
Matamoros. Per Oaxaca dovete contare
almeno altre sei ore di strada. E poi non si
passa di qua. Siete in direzione sbagliata».
Accidenti, ma dove diavolo ci mandano.
Chiedo: «Ma lei come fa a essere così
sicuro?». Risposta semplice: «Io ho la
patente e un'auto. Non dovete chiedere
informazioni al primo che incontrate.
La gente non ha la più pallida idea delle
distanze. Se proprio vi siete persi, allora
aspettate un camionista. Sono gli unici a
capire qualcosa di strade...».
Ah! Buono a sapersi. Ecco perché da ore
girovagavamo a vuoto tra meandri di strade a
sud di Città del Messico. Indicazioni
segnaletiche poche e confuse. E per di più
informazioni sbagliate.
Certo che in questo paese ce ne sono di
stranezze. Sono tutti così gentili e disponibili
che anche se non sanno di cosa state
parlando, loro un consiglio te lo danno lo
stesso. Non è bello lasciare in panne lo
straniero.
La grande capitale è alle spalle e dolci colline
verdi ci accolgono in un abbraccio.
All'orizzonte si staglia l'enorme sagoma del
vulcano Popocatepetl. Fuggiamo dal traffico.
Dalla immensa metropoli e dalle sue bellezze:
i ricordi della dominazione spagnola, i templi
aztechi e la città moderna, costruita a fine
secolo per far sembrare Città del Messico una
Parigi trapiantata in America.
Questa è una delle più straordinarie capitali
del pianeta. Con 20 milioni di abitanti su
un'area di 400 chilometri quadrati, è anche la
città più importante dal punto di vista storico
del continente americano. Qui si incontrarono
nel 1519, faccia a faccia, il Vecchio
Continente e il Nuovo Mondo, quando i
conquistadores annientarono millenni di
storia della grande civiltà azteca. Città del
Messico occupa il sito di un enorme lago
prosciugato, in un altopiano posto a 2255
metri di altitudine.
Cuore del Messico, è sintesi massima dei
contrasti messicani: le case coloniali
sopravvivono all'ombra di grattacieli di vetro
e cemento. Edifici barocchi, chiese, palazzi e
grandiosi monumenti si sono salvati dal di
rompente sviluppo edilizio che ha avuto gli
Usa come modello di riferimento.
Ci vogliono sei ore per attraversare tutta Città
del Messico, da un capo all'altro. Sempre che
si riesca a trovare la strada giusta.
Abbiamo voluto noleggiare un'auto per
dirigerci verso sud, per immergerci tra le città
e i villaggi.
Solo così si entra nel Messico più autentico.
Le città coloniali risplendono al sole, con i
loro colori forti, il giallo, l'ocra e le facciate
delle chiese in quello stile chiamato
churriguerresco che è una specie di insalata
russa tra il barocco e i gusti degli indios, così
solari e ariosi. Oggi molti indios si sono
mescolati con i bianchi, con gli invasori di
allora e sono diventati meticci. Ma il colore
della pelle, e a volte la forma del naso,
decisamente aquilino, la dicono lunga sul
sangue che scorre nelle vene.
«Siamo figli di due mondi. E ci consideriamo
un terzo popolo», spiega Octavio, insegnante.
«Abbiamo venduto il nostro paese agli Usa. I
gringos stanno comprando pezzo dopo pezzo
il nostro Messico. Loro sono terribilmente
invidiosi. Qui si vive per davvero, lì, da loro,
negli Usa c'è la noia mortale. Lavoro e lavoro.
E così per sentire la pelle che frigge e il cuore
che palpita devono venire qui».
Anche lui cade nella trappola dei gringos.
Amati e detestati. Gli Usa hanno rubato un
pezzo di Messico nel 1848. Si sono inghiottiti
con una breve e umiliante guerra il Texas, la
California, lo Utah, il Colorado e gran parte
del New Messico e dell'Arizona. Da allora i
messicani se la sono legata al dito.
E poi i gringos sono diventati ricchi.
Hanno auto, ville e città tirate a lucido.
Vengono qui per godersi il sole.
Esibiscono bigliettoni verdi.
«Gringos», sento sibilare mentre passiamo
tra un gruppo di studenti a Cuernavaca.
«No somos gringos, somos italianos», replico.
E loro si guardano e poi chiedono da quale
città veniamo. Non si scusano. Gringo non è
un'offesa, è più un marchio, un segno di non
appartenenza al popolo messicano.
Gringos sono gli altri. Ma se gridato allora e
come sputare una sentenza. Ecco l'odio che
torna a galla.
Il sole ha appena fatto capolino tra le colline
dei dintorni e i palazzi di Oaxaca sembrano
dorati. La luce del primo mattino pennella i
fregi, gli stucchi e le vecchie insegne della
casate nobiliari. Restaurata e rimessa a
nuovo, è una delle città regine del Messico,
ricca di splendori dell'epoca coloniale.
Ormai questo è profondo sud messicano.
Ce lo ricorda il grande murales all'entrata del
palazzo municipale che racconta la storia
degli indios di questa terra. La maggioranza è
rappresentata dagli zapotechi.
Questo popolo diede al Messico un
presidente, Benito Juarez, il solo di pelle
scura e di tratti indios a salire così in alto.
Sullo zocalo le donne indossano costumi
coloratissimi. Gli uomini, invece, hanno
gettato via il loro pareo bianco e purtroppo
hanno preferito gli scialbi jeans e le camicie
di nylon dei gringos.
Il ritmo è rilassato e lento e l'atmosfera
piacevole. Le immacolate strade del centro
cittadino sono coronate da squisiti palazzi di
epoca barocca. A Oaxaca si combinano e si
fondono tremila anni di storia messicana le
cui tappe sono ancora lì, sotto gli occhi del
visitatore. La piazza è circondata da alberi
centenari e colonnati spagnoli. Bar, ristoranti
e caffè mettono i loro tavoli all'aperto.
Il lato meridionale della piazza è occupato dal
Palacio de Gobierno. Proseguendo a piedi
verso nord, lungo la bella Calle Alcalà, tutta
pedonale, dopo quattro isolati ci si imbatte
nella Iglesia y ex Convento de Santo
Domingo, uno stupendo complesso la cui
chiesa è una profusione di ornamenti
barocchi.
Passeggiamo nella piazza sotto i portici, la
musica soverchia le nostre parole.
E una fiesta. Quella che si fa ogni fine
settimana in piazza a Oaxaca. Bolero e balli
popolari. «Anche questo è il Messico.
Lavoriamo tutto il santo giorno ma non
toglieteci la musica», sbotta Miguel, già
alticcio a quest'ora di sera.
«Sì, è vero, abbiamo i nostri guai ma con la
musica e il tequila ci scateniamo.
Siamo fatti così». Forse bisognerebbe
decidere di seguire l'esempio degli aztechi
che proibivano alle persone sotto i
sessant'anni di bere alcol.
L'arido e vasto stato di Oaxaca, con tre
milioni di abitanti di cui un milione di indios, è
un mondo a sé ancora legato alle tradizioni
preispaniche, lontano dalla confusione e dal
caos di Città del Messico. Una catena di
monti, per secoli difficilmente superabili, ha
diviso i vasti territori soleggiati dal nord del
Messico. Le massicce montagne della Sierra
Madre del Sur hanno funzionato da barriera
per preservare l'antico carattere indigeno.
La forza della tradizione è evidente
nell'artigianato: Oaxaca è uno degli stati
messicani più ricchi di produzioni artistiche,
come ceramiche, tessuti, coperte, oggetti di
latta smaltati, oreficeria. La regione abbonda
di bellezze naturali, archeologiche e coloniali.
Oltre alla magica città di Oaxaca ci si perde
nei villaggi indios, ancora così autentici.
Si fa tappa allo stupendo sito archeologico
maya di Monte Alban, alle porte della città.
Da Oaxaca imbocchiamo una tortuosissima
strada di montagna e ci dirigiamo nelle
provincia più calda del Messico: il Chiapas,
terra della rivolta degli zapatisti, contadini
indios guidati dal subcomandante Marcos.
Ci hanno avvisato preventivamente.
L'assicurazione dell'auto non copre eventuali
danni se non si osservano precise norme di
sicurezza. E allora Francisco, impiegato della
Hertz dove andiamo a cambiare l'auto a
noleggio, mi ripassa il ritornello:
«Quando sarete in Chiapas dovrete viaggiare
solo di giorno. Non abbiate paura
dell'esercito, è lì per difendervi».
Quando finalmente arriviamo sull'altopiano di
San Cristobal de las Casas è una bella
giornata di sole e i nostri timori si rivelano
infondati.
Il Chiapas è una regione da favola.
Ce ne accorgiamo subito quando ci inoltriamo
attraverso la foresta tropicale che avvolge
tutto. I campi di mais ricavati sui pendii
scoscesi lottano per la loro aria e la loro vita,
come i figli di questa terra, gli ultimi eredi dei
maya. San Cristobal è una cittadina arrivata
intatta fino a noi attraverso i secoli.
Fascino ed emozione ad ogni angolo.
La cattedrale, nella quale celebra messa il
vescovo che protegge da anni la causa degli
zapatisti, ha decori che sembrano quelli di un
dolce viennese. Il barocco spagnolo ha
ceduto alle lusinghe dell'arte maya.
Attorno alla chiesa girovagano indiani
dell'etnia chamula che indossano vestiti rossi
e viola. Colori che fanno la gioia del
fotografo. Ma loro odiano la fotocamera.
I più smaliziati chiedono soldi, una manciata
di pesos a scatto. Qui non c'è contraddizione
tra sacro e profano. I missionari sbarcati nel
nuovo mondo si sono dati a far proseliti.
Chiese, immagini sacre, riti religiosi cristiani
sono comparsi dal nulla e si sono imposti
sulle disprezzate divinità pagane.
Oggi se quei preti vedessero il risultato della
loro opera evangelizzatrice si metterebbero le
mani nei capelli, disperati. Ci sono chiese in
Chiapas, come a San Juan Chamula nelle
quali strani santoni officiano riti sincretici che
sono un minestrone di verdure varie sorte
dall'humus del cattolicesimo.
Le immagini della Madonna sono a fianco di
quelle della Coca Cola e dei morti.
Ci viene incontro un gruppo di poliziotti che
fa la ronda a San Cristobal de las Casas.
Chiediamo notizie di Marcos. «È sparito, non
si fa più sentire. Qui non succede mai nulla,
gli zapatisti sono finiti, hanno perso la loro
forza», commenta uno di loro.
«E poi voi gringos potete stare tranquilli, non
ce l'hanno con gli stranieri». Ma le scritte
spray sui muri di San Cristobal sono
inequivocabili: "Siempre lucha armada".
Segno che la partita non è affatto chiusa.
Adesso ci attende una discesa tutta curve che
attraversa la sierra fino alla costa del Pacifico.
Ma per strada sono ancora i maya a
impressionarci.
Prima delle piatte pianure costiere del
Tabasco si incontra lo stupendo sito
archeologico di Palenque, considerato
l'insediamento maya più magico della
Mesoamerica. Oggi dell'antica città è stata
dissepolta solo una piccola parte.
L'edificio più incredibile è il Templo de las
Inscripciones, alto 25 metri, costruito su una
piramide che conteneva all'interno di una
cripta un sarcofago con lo scheletro di un
sacerdote maya, ricoperto di gioielli di giada.
A fianco è El Palacio, il complesso di edifici
più vasto di tutta Palenque, di dimensioni e
struttura davvero impressionanti.
Dove è finita l'antica popolazione maya che
abitava Palenque? Anche qui come nello
Yucatan intere città si sono improvvisamente
svuotate lasciando nel mistero la ragione
della fuga.
Gli archeologi non hanno trovato risposte
valide. Ma gli stregoni messicani, figli delle
antiche civiltà indigene, sostengono di sapere
il perché. Pedro è uno dei seguaci di questa
antica scienza. Fa il curandero, e cioè
guarisce con le erbe. Gli indios si rivolgono a
lui come se fosse un mago. Ebbene per Pedro
non ci sono dubbi: intere città si sarebbero
trasferite in un altro mondo grazie alla forza
del pensiero degli stregoni. Proprio come
sostiene nei suoi libri Carlos Castaneda,
ultimo stregone del 2000, erede della
millenaria cultura mesoamericana.
Il Messico nella letteratura
La letteratura contemporanea messicana si è
meritata un Nobel. Nel 1990 è stato insignito
del famoso premio Octavio Paz, poeta,
saggista e romanziere. Il suo libro più famoso
è forse Il labirinto della solitudine.
Altro grande uomo di lettere messicano è
Juan Rulfo. Sono tradotti in italiano i racconti
Morte al Messico e il romanzo Pedro Paramo.
Per la narrativa femminile vanno segnalate le
scrittrici Rosario Castellanos, autrice di Balun
Canan e Angeles Mastretta, autrice di Donne
dagli occhi grandi e Strappami la vita.
Oltre ai romanzieri un posto di rilievo per
Carlos Castaneda, che introduce nel mondo
fantastico dei riti indios. Alcuni titoli: A scuola
dallo stregone, Il secondo anello del potere,
Una realtà separata.
Molto fortunata la serie di gialli dello scrittore
spagnolo Paco Ignacio Taibo II che ambienta
le avventure di una giornalista ficcanaso a
Città del Messico.
Infine l'italiano Pino Cacucci ha fatto
innamorare del Messico molti italiani con i
suoi Puerto Escondido, Polvere del Messico,
San Isidro Futbol.
"Messico, il cuore latino" è uno dei nuovi titoli
della collana Le Guide di Viaggiare.
Aldo Pavan, il giornalista che firma questo
servizio, ha esplorato tutto il paese, dalla
capitale alle città coloniali, dal Chiapas allo
Yucatan. La guida è divisa in cinque sezioni:
Solo per i tuoi occhi, le più belle immagini del
paese; InfoMessico, tutte le informazioni da
sapere prima di partire; GiraMessico, consigli
di alberghi, ristoranti e locali; Cartaguide, le
mappe con le indicazioni dei luoghi da non
perdere; Messico in mano, con tutti gli
indirizzi. E in più, trovate allegata la piantina
del Messico e di Città del Messico. La guida è
in vendita in libreria a 22 mila lire.