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Il futuro
sotto la lente
Numerosi gli studi scientifici sul tema oltre 20 mila lavori) e le
applicazioni della GFP (green fluorescent protein) spazia dalla
secrezione dell’insulina ai grassi nel sangue, allo sviluppo
fetale, dalla neurodegenerazione al tumore
La green fluorescent protein (GFP,
proteina fluorescente verde) è una
proteina espressa nella medusa
Aequorea victoria. Grazie alla sua
proprietà di fluorescenza, alle sue
modeste dimensioni e alla possibilità di modificarne entro certi limiti
le caratteristiche spettroscopiche,
è diventata negli ultimi decenni un
diffuso strumento per esperimenti
e tecniche di biologia molecolare.
La GFP, se colpita ed eccitata da
una radiazione, ad una specifica
lunghezza d’onda, è in grado di ri-
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emettere luce di colore verde acceso. La proteina impiega circa dieci
minuti a ripiegarsi nella sua corretta struttura terziaria.
Sono necessarie tre reazioni successive per la formazione del fluoroforo funzionante: ciclizzazione,
deidratazione (entrambe complessivamente in circa 3 minuti) e ossidazione (dai 19 agli 83 minuti). In
seguito a questi eventi si forma un
anello eterociclico a cinque atomi
(anello imidazolinone) e grazie a
deidratazione e ossidazione si for-
mano due ulteriori doppi legami. Il
fluoroforo, qualora eccitato, è così
in grado di emettere la caratteristica luce verde. La proteina deve
prima essere colpita da una radiazione, con lunghezza d’onda e
quindi energia, che permetta ad
alcuni suoi elettroni di passare
nello stato eccitato (fase di assorbimento); dopo un breve istante di
tempo, gli elettroni ritornano nello
stato fondamentale (stato iniziale)
e riemettono un’altra radiazione,
con energia però inferiore a quella
iniziale (fase di emissione). In questo caso, l’assorbimento ha dei picchi con radiazioni a lunghezze
d’onda di 395 nm e 475 nm.
L’emissione avrà un picco massimo
intorno a 505 nm. Questo significa
che può essere utilizzata, per eccitare la proteina, sia una radiazione
ultravioletta (395 nm), sia una
radiazione nello spettro visibile
(475 nm), in particolare di colore
blu. In entrambi i casi la GFP emetterà una radiazione di colore verde
(505 nm). In genere sono utilizzate
DOSSIER
LAB - Microscopia
Fluorescenza-Imaging
per l’assorbimento radiazioni blu,
per evitare i rischi legati all’uso di
raggi UV. La luminescenza è un
fenomeno intrinseco alla stessa
proteina e non richiede substrati né
enzimi, quindi questa è molto
usata come marcatore nelle indagini di identificazione e localizzazione subcellulare delle proteine. In
questi saggi la sequenza nucleotidica della proteina X da identificare
viene fusa con la sequenza nucleotidica della proteina in un vettore di
espressione che solitamente è un
plasmide. Il plasmide ricombinante
viene inserito nella cellula eucariotica, solitamente tramite elettroporazione, in modo che, una volta
all’interno della cellula, il plasmide
si integri nel genoma per ricombinazione sito specifica all’interno
del gene per la proteina X. Questo
processo porta all’inattivazione del
gene selvatico per X e all’espressione del gene ricombinante per XGFP. L’identificazione e localizzazione subcellulare di X-GFP può allora
essere visualizzata tramite la microscopia a fluorescenza che rivela i
segnali prodotti da GFP e che quindi identificano anche X. Questa
tecnica è molto potente in quanto
la localizzazione della proteina studiata viene rivelata in vivo ed è possibile seguirla anche nel tempo. La
proteina è stata sequenziata dai
vincitori del premio Nobel del
2008. I due scienziati sono riusciti a
inserire il gene che codificava questa proteina all’interno di frammenti di catene di DNA, in una
zona che si chiama ‘promoter’ che
dà il segnale per la produzione di
proteine, la riproduzione del gene.
La novità non è stata tanto nell’ottenimento della fluorescenza in sé,
perché esistono, a livello biochimico, numerosissimi metodi per marcare con un oggetto fluorescente
una proteina o altre componenti
organiche, ma in questo modo si
riusciva a ottenere una marcatura
estremamente selettiva e controllata. Ciò permette di seguire ‘in vivo’
il percorso e la destinazione di svariata proteine all’interno di organismi più o meno complessi. Roger Y.
Tsien, il terzo vincitore del Nobel
per la chimica si è ‘divertito’ a
modificare la struttura di questa
proteina elaborandone altri tipi che
emettono luci di diverso colore.
Ciò ha dato un contribuito alla
comprensione del meccanismo per
il quale funziona la proteina gfp,
estendendone anche il campo di
applicazioni. Ha dunque creato una
vera e propria famiglia di proteine
luminescenti molto utili per svolgere varie indagini scientifiche, in particolare, servono per studiare il
metabolismo di organismi viventi,
dalla cellula all’organismo intero,
dal ciclo cellulare alla comprensione di fenomeni biologici. Non si
tratta solo di colorare un tessuto,
ma di studiare i percorsi proteici in
ambito citologico e metabolico. È
usata anche per visualizzare tumori
all’interno di cavie. “La GFP - afferma il professor Tsien - quella che
rende così belle le meduse, scoperta nelle meduse da Osamu Shimomura (anch’eglivincitore del Nobel)
è una molecola portentosa, che ha
applicazioni inaspettate, perché è
l’unica che non ha bisogno di nulla
per emettere fluorescenza: brilla di
luce propria. Certo della proteina
fluorescente non ce ne saremmo
fatti gran che se Douglas Prasher,
del Laboratorio marino di Woods
Hole, non avesse isolato il suo gene
nel 1992. La mia idea è stata quella di andare a vedere se fosse possibile far funzionare quel gene nelle
cellule di un mammifero. È stato
possibile. E in questo modo siamo
riusciti a osservare in tempo reale
processi straordinari: lo sviluppo del
feto, quello del cervello, i deficit di
organi e tessuti come quelli danneggiati dal diabete e molti altri
ancora. E la proliferazione di cellule
tumorali. Se mettiamo il gene di
una proteina fluorescente in una
cellula che vogliamo seguire, possiamo utilizzare la sua fluorescenza
colorata per verificare che cosa
accade dentro la cellula seguendo
la sorte della colorazione. Nel caso
del cancro, il punto di partenza è
una famiglia di frammenti di proteine che riescono a entrare nelle cellule tumorali: una volta colorati,
questi frammenti consentono di
visualizzare molti processi cellulari,
e infatti le stiamo usando per esperimenti di vario tipo. Pensiamo di
sfruttarli per identificare le cellule
tumorali seguendo i percorsi dei
colori con la risonanza magnetica,
l’ecografia o la Pet. Ma per il futuro pensiamo anche di usarli per la
terapia, usandoli come shuttle per
portare dentro le cellule tumorali
dei farmaci capaci di neutralizzarle.
Al momento lo abbiamo fatto su
animali da laboratorio, e i risultati
sono piuttosto incoraggianti. Speriamo di riuscire presto a sperimentare nell’uomo”.
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LAB Microscopia Fluorescenza Imaging
La spettroscopia Raman accoppiata al
microscopio elettrico a scansione: SEM-SCA
L’impiego di molteplici metodologie analitiche per lo studio e la caratterizzazione dei materiali è particolarmente auspicabile, se non
necessario, per ottenere informazioni complementari ed esaustive, altrimenti non raggiungibili con l’uso di una singola tecnica analitica
Tecniche integrate: Un approccio multi-tecnica analitica implica alcune difficoltà, quali un maggior numero di campionamenti, oltre a
una serie di precauzioni, come una buona pianificazione del lavoro che
veda l’impiego in primis di tecniche non distruttive che non richiedono
pre-trattamenti, lasciando per ultimo il ricorso ad eventuali tecniche
distruttive. Inoltre, il trasferimento del campione da una strumentazione
a un’altra raramente assicura l’analisi nello stesso punto precedentemente analizzato. Per queste ragioni, negli ultimi anni, sono stati sviluppati
sistemi di accoppiamento di tecniche strumentali per ottenere una maggiore complementarietà e riproducibilità del dato analitico.
Multi-tecnica analitica ‘SEM’
Tecnica analitica ‘RAMAN’
Strumento RAMAN di Renishaw
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Uno dei più recenti sviluppi riguarda la
possibilità di combinare la microscopia
elettronica a scansione (con sonda
EDS) e la spettroscopia Raman attraverso un sistema hardware [Renishaw
SCA – structural and chemical analyser
for SEM]. (v. fig.1)
Una sonda Raman viene inserita tramite ottiche retrattili nella camera SEM,
fra il campione e la colonna (v. fig.2). Il
fascio elettronico e il raggio laser (la
sorgente eccitatrice dell’effetto Raman) sono confocali e interagiscono
su un volume di campione di dimensioni paragonabili. Le analisi SEM, EDS
e Raman possono essere acquisite in
sequenza nella stessa area con precisione sub-micrometrica. Quindi, in un
unico sistema, è possibile usufruire
delle potenzialità delle differenti tecniche, ottenendo informazioni morfologiche, elementali, chimiche, fisiche e
strutturali sulla stessa area investigata,
e senza la necessità di muovere il campione da uno strumento all’altro. In
particolare, il microscopio elettronico a
scansione, grazie alla profondità di
campo anche ad elevati ingrandimenti
e alla sua risoluzione spaziale, agevola
la ricerca e l’identificazione di zone
dall’aspetto caratteristico che un
microscopio ottico non potrebbe individuare. Il classico accoppiamento
SEM-EDS permette di ottenere rapidamente una mappa di distribuzione
degli elementi costituenti il campione
in scala micrometrica e, nelle strumentazioni moderne, è in grado di rivelare
tutti gli elementi dal berillio ai transuranici. L’accoppiamento con la spettroscopia Raman, normalmente interfacciata a un microscopio ottico, permette una caratterizzazione non ambigua
delle zone di interesse, identificando
non solo la composizione chimica, ma
anche differenti strutture molecolari e
cristalline. Pertanto, l’accoppiamento
di queste tecniche permette di raggiungere una caratterizzazione globale
in un unico strumento:
• Morfologia tramite SEI (secondary
electron imaging)
• Contrasto composizionale
(numero atomico) tramite BEI
(back-scattered electron imaging)
• Composizione elementale tramite
spettroscopia EDS
• Composizione chimica tramite
spettroscopia Raman
• Struttura fisica
(dati cristallografici, geometrici
e conformazionali) tramite
spettroscopia Raman
Oltre ai vantaggi correlati all’accoppiamento di queste tecniche, ci sono altre
due caratteristiche molto allettanti. E’
possibile lavorare a pressioni variabili,
o in “condizioni ambientali controllate” senza l’applicazione di alcuno strato elettro-conduttivo sul campione, nel
caso esso non sia conduttore. E’ possibile introdurre un oggetto di piccole
dimensioni ( <25cm, h<12cm) dentro
la camera SEM e di osservarlo senza la
necessità di campionare (v. fig.3). Oltre
agli svantaggi connessi alla tecnica
Raman (ad es. la fluorescenza), ci sono
anche degli svantaggi del sistema integrato. A causa della bassa risoluzione
della telecamera SCA, il riconoscimento e il confronto tra le immagini SEM e
SCA dell’area investigata risulta difficoltoso, soprattutto per campioni con
una superficie irregolare. A causa della
complessità del sistema, le condizioni
di lavoro possono essere diverse per le
diverse tecniche (in particolare le Working Distance per EDS e Raman), pertanto la procedura di analisi necessita
di una discreta quantità tempo in
quanto composta da una serie di passaggi ottimizzabili ma non eliminabili.
a cura di: Francesca Ospitali, Dipartimento di Chimica Fisica e Inorganica,
Università di Bologna, [email protected]
Le applicazioni del sistema integrato
riguardano molti settori della ricerca
scientifica. Nel campo delle nanotecnologie può venire usato nell’analisi di
nuove strutture quali ad esempio la
caratterizzazione dei nanotubi di carbonio, nell’ambito della scienza dei
materiali è utile nello studio di materiali compositi e negli studi di corrosione,
nelle scienze polimeriche aiuta a seguire i processi di polimerizzazione e di
trasformazione di fase, nel settore farmaceutico può venire impiegato nello
studio di polimorfi e nello studio della
distribuzione dei componenti nelle
compresse, in mineralogia può affiancare l’XRD nello studio di minerali
naturali e di sintesi (ad es. diamanti
termicamente trattati), e ancora il
sistema accoppiato viene applicato
con successo nelle scienze della vita,
nelle scienze forensi, e negli studi
ambientali e di inquinanti. In questo
lavoro, vengono presentate le potenzialità del sistema integrato SEM-EDSRaman SCA illustrando alcuni studi nel
campo dei beni culturali, in cui l’applicazione del sistema è risultata essere
molto utile. Nell’analisi dei dipinti, i
vantaggi del sistema integrato sono
evidenti: il SEM mette in luce tutti gli
strati di un dipinto, l’EDS fornisce la
composizione elementale, mentre
l’analisi Raman può identificare le
sostanze presenti, inorganiche ed
organiche, senza ambiguità, o almeno
il loro gruppo nel caso di specie complesse come le vernici o i leganti. L’accoppiamento di queste tecniche è utile
anche per la caratterizzazione di
miscele inorganiche: ad esempio,
l’analisi EDS effettuata su un dipinto
aveva mostrato come lo strato preparatorio fosse formato da Ba, Zn, S, O
non chiarendo però se la sostanza utilizzata fosse il litopone (BaSO4+ZnS) o
una miscela di BaSO4+ZnO. La spettroscopia Raman è in grado di differenziare il solfuro dall’ossido di Zn, ma
in questo specifico caso, il ritrovamento del composto a base di Zn non era
così semplice in un classico sistema
Raman interfacciato a un microscopio
ottico, a causa del debole scattering
Raman dei composti dello Zn e del loro
colore bianco, indistinguibile al microscopio ottico da quello del BaSO4 (v.
fig. 4a). Con il sistema integrato, invece, le immagini BSE hanno permesso
di distinguere le diverse sostanze grazie al contrasto composizionale (v. fig.
4b), l’analisi EDS ha fornito la composizione elementale (v. fig. 4c) ed
entrambe hanno guidato l’analisi
Raman nell’identificazione della miscela BaSO4+ZnO (v. fig. 4d).1
Nel campo dell’archeometallurgia, la
microscopia elettronica a scansione e
l’analisi elementale tramite sonda EDS
sono tecniche particolarmente efficaci,
poiché consentono un’indagine sul
campione a livello submicrometrico e
localizzato, in modo da studiare la
microstruttura della lega e la morfologia e la stratigrafia dei prodotti di corrosione. La novità dell’accoppiamento
dell’analisi elementale tramite sonda
EDS e dell’analisi molecolare tramite
sonda Raman è particolarmente allettante in quanto permette una completa caratterizzazione in situ dei prodotti
di corrosione che si formano a causa
dell’interazione tra gli elementi costi-
tuenti il manufatto e l’ambiente circostante, fornendo importanti risultati
per lo studio dei meccanismi di degrado. In uno studio dei fenomeni di
degrado in canne d’organo a base di
stagno2 l’attenzione era rivolta all’individuazione e all’identificazione delle
tipologie di degrado, che possono
essere di tipo chimico (corrosione) e/o
di tipo fisico (trasformazione allotropica dello Sn, nota come “peste dello
stagno”). Nelle canne prese in esame,
provenienti da strumenti di origine italiana, i fenomeni di degrado erano sia
di tipo localizzato, in forma di pustole
e crateri, sia di tipo generalizzato, in
forma di croste brune. L’indagine della
microstruttura della lega è stata effettuata tramite SEM-EDS, mentre la
natura dei prodotti di alterazione è
stata studiata con il sistema integrato
SEM-EDS-Raman SCA e la diffrattometria a raggi X (su superfici estese). Tra i
prodotti di alterazione identificati, gli
ossidi di Sn (SnO, SnO2, e nano
SnOx(OH)y) sono risultati essere largamente diffusi, sia nelle aree di degrado
generalizzato che localizzato. In quest’ultimo tipo di degrado si sono ritrovati anche cloruri di stagno, all’interfaccia metallo/prodotti di corrosione,
in particolare in corrispondenza di
pustole. Negli organi italiani, non è
stata individuata la fase dello Sn. E’
stato studiato anche un campione proveniente da un organo storico estone,
dove già era stata segnalata la presenza della fase 3, per testare l’efficacia
del sistema integrato. Lo Sn, avendo
una struttura cristallina cubica tipo diamante, è infatti visibile in spettroscopia
Raman, ma difficilmente individuabile
con un microscopio ottico. Al contrario, l’analisi elementale non ne permette una identificazione certa. Il
sistema integrato ha permesso abbastanza agevolmente di individuarla
(SEM) e identificarla (Raman). In un
ampio progetto di ricerca4-5 che studia la correlazione tra l’evoluzione
della corrosione in bronzi esposti
all’aperto e l’influenza delle “geometrie” di esposizione alla pioggia acida
(aree riparate e aree non riparate),
nonché l’influenza di ogni elemento di
lega sul comportamento a corrosione,
l’impiego del sistema integrato SEMEDS-Raman SCA è risultato molto
importante per identificare le caratteristiche morfologiche e composizionali
delle patine (artificiali e naturali) e differenziarle sulla base del tipo di esposizione alla pioggia acida. In particolare, è servito per chiarire il ruolo dello
stagno come elemento determinante
del meccanismo di formazione delle
patine. Anche nello studio di materiali
ceramici, le diverse proprietà del sistema accoppiato sono molto utili per
raggiungere una migliore comprensione delle sostanze presenti in una ceramica, vista la complessità del sistema
“ceramica” dovuta anche alle trasformazioni dei materiali di partenza
durante il processo di cottura6.
L’impiego del sistema SEM-EDSRaman SCA è opportuno anche nello
studio di standard, grazie al quale
risulta più semplice stabilirne la
purezza o metterne in evidenza le
eventuali impurezze tramite l’analisi
EDS, per poi caratterizzarle tramite la
spettroscopia Raman7.
Bibliografia
1 C. Chiavari, G. Di Lonardo, C. Martini, F. Ospitali, D. Prandstraller, “Potenzialità e applicazioni nel campo dei beni culturali della spettroscopia Raman
interfacciata alla Microscopia Elettronica a Scansione: SEM-SCA (Structural and Chemical Analyser)”,
IV Congresso Nazionale di Archeometria-Scienza e Beni Culturali, Pisa, Italia, 1-3 Febbraio 2006
2 C. Chiavari, C. Martini, F. Ospitali, D. Prandstraller, M. Fratti, “Canne d’organo in stagno: fenomeni di degrado”, La Chimica e l’Industria, Aprile 2009, 92-99.
3 A. Eckert, Iso Journal, 2007, 26, 64.
4 E. Bernardi, C. Chiavari, B. Lenza, C. Martini, L. Morselli, F. Ospitali, L. Robbiola, “The atmospheric corrosion of quaternari bronzes: the leaching action
of acid rain”, Corrosion Science, 51 (2006), 159-170.
5 C. Chiavari, E. Bernardi, F. Ospitali, L. Robbiola, C. Martini, L. Morselli, “La corrosione atmosferica dei monumenti in bronzo:
prove di invecchiamento artificiale”, La Metallurgia Italiana, Maggio 2009, 45-54.
6 D. Bersani, P.P. Lottici, S. Virgenti, A. Sodo, G. Malvestuto, A. Botti, E. Salvioli-Marani, M. Tribaudino, F. Ospitali, M. Catarsi,
“Multi-techinique investigation of archaeological pottery from Parma (Italy)”, submitted to J. Raman Spectrosc.
7 F. Ospitali, D. Bersani, G. Di Lonardo, P.P. Lottici, “Green-earths”: vibrational and elemental characterization of glauconites,
celadonites and historical pigments”, Journal of Raman Spectroscopy, 2008, 8,1066-1073.
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LAB Microscopia Fluorescenza Imaging
Vedere il cervello
grazie alle nuove tecniche di Brain Imaging
Comprendere il funzionamento dei circuiti neuronali e come si correla alle percezioni sensoriali
e al comportamento è una delle maggiori sfide delle neuroscienze
La ricerca nell’animale da laboratorio, a partire C.Elegans, un nematode il cui sistema nervoso è costituito
da poche centinaia di neuroni, fino
ad arrivare al complesso cervello del
roditore, ha apportato molte conoscenze sulla struttura del cervello e
sul funzionamento delle singole
popolazioni neuronali, ma siamo
ancora lontani dal vincere la sfida. Il
brain imaging è un campo delle neuroscienze in cui negli ultimi anni si è
avuta una rapida evoluzione. Fino a
poche decine di anni fa, le tecniche
in grado di dare informazioni sull’attività cerebrale erano principalmente il neuroimaging funzionale, e
l’elettrofisiologia.
Le tecniche classiche di neuroimaging
funzionale permettono di visualizzare
l’attività dell’intero cervello in risposta
a stimoli esterni in animali anestetizzati o immobilizzati. Tra queste tecniche troviamo la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) e la Risonanza
Magnetica (MRI), tecniche ampiamente utilizzate anche oggi nella pratica clinica. Queste tecniche danno
però un’immagine globale del cervello e della funzione di alcune regioni,
difficilmente correlabile con il comportamento animale in condizioni di
normalità, in quanto l’animale si trova
immobilizzato. Inoltre non permettono di distinguere le funzioni di determinati circuiti e popolazioni neuronali. Le tecniche di elettrofisiologia permettono di studiare l’attività elettrica
dei singoli neuroni, isolati dall’ambiente cerebrale, mediante stimolazione con elettrodi. Questa tecnica
non permette, però, di effettuare
misurazioni su un vasto numero di
neuroni, con la conseguente perdita
di informazioni sulle interazioni interneuronali, che sono alla base degli stiSpine
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moli sensoriali e motori. Recentemente si è cercato di superare tali problemi con lo sviluppo di array che riuniscono fino a 96 elettrodi, capaci di
registrare l’attività di più neuroni contemporaneamente. L’utilizzo di questi
sistemi resta comunque limitato a
causa dell’invasività degli elettrodi,
della area di indagine poco estesa, e
della difficoltà di individuare il tipo di
neurone da cui partono gli impulsi
rilevati. A partire dagli anni ‘70 e ‘80
si sono affacciate le nuove tecniche di
imaging ottico basate sull’emissione
di fluorescenza da parte di sonde sensibili all’attività neuronale. Le sonde
emettono fluorescenza quando vi è
un impulso elettrico in membrana
oppure quando c’è liberazione di calcio (segnale di attivazione neuronale).
Queste nuove metodologie hanno
permesso di costruire immagini del
signaling neuronale con una risoluzione a livello cellulare e subcellulare in
più neuroni contemporaneamente.
Inoltre la luce è in grado di attraversare i tessuti, e quindi, a differenza delle
tecniche di elettrofisiologia, non è più
Dendrite
necessario isolare fisicamente il neurone ed avere un contatto neuroneelettrodo. In questo modo il neurone
resta in contatto con la rete cui appartiene fisiologicamente. Le principali
limitazioni dell’uso di sensori fluorescenti risiedono nella difficoltà di veicolare le sonde nei neuroni e nel
basso rapporto segnale-rumore
rispetto alle tecniche di elettrofisiologia. L’avvento della microscopia a due
fotoni ha migliorato molto la sensibilità e il rumore di fondo delle immagini, inoltre ha permesso di penetrare
ancora di più nei tessuti fino a rilevare la luce proveniente da 1 mm di profondità. Il recente sviluppo di sonde
che vengono fatte esprimere nei neuroni o nell’animale grazie vettori di
espressione sta migliorando ulteriormente le performance e, soprattutto
in associazione alla microscopia a due
fotoni, sta aprendo nuove entusiasmanti possibilità di indagine per i
neuroscienziati.
Sonde Voltaggio sensibili
Le prime sonde che hanno fatto concorrenza alle tecniche di elettrofisioloNeuron
gia sono le Voltage-sensitive-Dyes
(VDS), molecole che si localizzano
nella membrana neuronale capaci di
emettere fluorescenza in base alle
variazioni nel voltaggio di membrana.
Queste sonde, una volta veicolate nel
neurone, permettono di visualizzare
singoli potenziali d’azione nei diversi
comparti neuronali, come i dendriti
distali. Anche le VDS hanno una
buona sensibilità e un rapporto
segnale-rumore accettabile; hanno
però alcuni limiti: si ripartiscono indiscriminatamente nelle membrane
interne o esterne delle cellule con un
aumento del segnale fluorescente di
fondo, inoltre danno fototossicità nei
neuroni e sono prone al fenomeno
del photobleaching, ovvero la distruzione del fluoroforo dovuta all’esposizione alla luce di eccitazione. Ciò limita l’intensità di eccitazione disponibile e il tempo in cui il segnale è rilevabile. Un grosso passo avanti è stato
fatto con l’introduzione di sonde che
vengono fatte esprimere direttamente nei neuroni mediante vettori di
espressione. La loro espressione può
Circuit
a cura di Simona Caporali
essere indirizzata verso alcune popolazioni, in modo da studiare solo un
certo tipo neuronale. Possono essere
veicolate anche in particolari compartimenti neuronali o direttamente in
membrana plasmatica evitando la
loro concentrazione nelle membrane
interne. Tra queste sonde abbiamo,
ad esempio, una proteina di fusione
tra la Green Fluorescent Protein (GFP),
un fluoroforo in grado di emettere
fluorescenza nel verde, e un canale
voltaggio-operato. Il passaggio dell’impulso elettrico apre il canale e
determina modificazioni conformazionali nella GFP che può quindi
emettere fluorescenza. Oppure ci
sono altri sistemi in cui GFP viene
fatta esprimere a livello della membrana plasmatica ed emette fluorescenza quando interagisce con la una
sonda voltaggio-sensibile, che si
muove dalla faccia esterna a quella
interna della membrana in base alle
variazioni di voltaggio.
Sonde Calcio sensibili
Le sonde sensibili alla liberazione di
calcio sono molto utilizzate in quanto
questo ione rappresenta la molecolasegnale maggiormente utilizzata nei
neuroni. La liberazione di neurotrasmettitore in sinapsi e le fluttuazioni
di voltaggio determinano, infatti,
rapidi e massivi cambiamenti nella
concentrazione di calcio intracellulare
nella maggior parte dei neuroni. Le
prime sonde, ampiamente usate
ancora oggi, sono molecole che al
contatto con il calcio emettono fluorescenza, come il FLUO-4, e devono
essere veicolate nei neuroni dall’esterno. Il vantaggio di queste sonde è che
sono molto sensibili al punto di permettere di visualizzare l’apertura di un
singolo canale per il calcio se accoppiate con la microscopia a due fotoni.
Tali sonde oltrepassano la membrana
plasmatica e possono essere veicolate
nei neuroni anche su un cervello intatto in condizioni di anestesia o di
veglia. Le limitazioni principali di queste sonde sono da ascriversi al fatto
che non sono specifiche verso i neuroni, ma possono inserirsi anche in altre
popolazioni cellulari, come le cellule
gliali che popolano il cervello. Inoltre
hanno un tempo di funzionamento
limitato il che riduce la possibilità di
rilevazione entro poche ore. Un altro
limite importante è che non tutti i
neuroni hanno un forte segnale di calcio in risposta al potenziale d’azione.
Il disegno di sequenze codificanti
nuovi indicatori di calcio, che vengono fatti esprimere dagli stessi neuroni,
ha, anche in questo caso, aperto le
porte a nuove possibilità, in particolare per le applicazioni in vivo. Questi
sensori genetically-encoded sono
basati sull’espressione di molecole
che legano normalmente il calcio
nella cellula, come la calmodulina,
fuse con la GFP o altri fluorofori. Il
legame con il calcio determina, anche
qui, l’emissione di fluorescenza da
parte di GFP. Questi sensori sono
meno sensibili rispetto alle sonde
descritte precedentemente, ma la loro
espressione può essere pilotata verso
un certo tipo neuronale e vengono
solitamente utilizzati per generare
topi transgenici che li esprimono solo
in regioni di interesse. Inoltre l’espressione permane nel tempo permettendo di ripetere sullo stesso animale rilevazioni ripetute. Anche qui, è possibile evidenziare l’attività di singoli compartimenti neuronali, come le spines
dendritiche ei bottoni sinaptici.
Alcuni esempi applicativi
La possibilità di intervenire direttamente sulla sequenza del sensore che
si vuole far esprimere può dare ottimi
risultati, come dimostra il gruppo di
Tian su Nature Methods (dicembre
2009). Nel lavoro è riportato lo svi-
luppo di un nuovo sensore per il calcio, GCaMP3. Basandosi sui dati della
struttura molecolare di un altro sensore, GCaMP2, sono state inserite
delle mutazioni nella sequenza atte a
sostituire alcuni aminoacidi. Il sensore
ottenuto è più stabile, lega il calcio
con una maggiore affinità, e risulta
quindi più sensibile e “luminoso”,
facilitando il rilevamento dell’attività
neuronale. Un altro gruppo di ricerca,
guidato da E. Dreosti, ha invece
modificato il target di espressione del
sensore. Ha indirizzato l’espressione
nelle vescicole presinaptiche, le strutture responsabili della liberazione del
neurotrasmettitore nello spazio
sinaptico. Dato che la liberazione di
calcio intracellulare è accoppiata con
la liberazione di neurotrasmettitore a
livello sinaptico, Dreosti ha potuto in
questo modo massimizzare il contatto del sensore con il calcio liberato, e
quindi evidenziare meglio l’attività
sinaptica. Lo scopo è stato raggiunto
mediante fusione della sequenza
codificante per il sensore con quella
di una proteina espressa esclusivamente a livello delle vescicole, la
sinaptofisina. Un altro esempio interessante e spettacolare di questo tipo
di applicazione è il topo Brainbow.
Un topo transgenico in cui il vettore
di espressione è costituito da particolari sequenze tali per cui, in ogni neurone possono avvenire ricombinazioni casuali della sequenza tra una proteina, espressa normalmente nei neuroni, e la sequenza di diversi fluorofori. Tale proteina potrà quindi essere
espressa in fusione con un fluoroforo
di diverso colore in ogni neurone. Il
risultato è un vero e proprio arcobaleno di neuroni, che ci mostra in modo
innovativo le strutture cerebrali. Uno
dei limiti di questi nuovi sistemi di
imaging cerebrale è che durante la
visualizzazione l’animale si trova solitamente in una condizione di anestesia o quantomeno di immobilità, il
che rende impossibile studiare le
risposte dei suoi circuiti neuronali agli
stimoli presenti nella normale vita
animale. Recentemente molti gruppi
si sono dedicati a sviluppare sistemi
che permettono di superare questi
limiti. E’ stato pubblicato a novembre
2009 su PNAS lo sviluppo di un
microscopio a due fotoni molto piccolo e leggero che può essere montato direttamente sulla testa del ratto e
che, tramite delle fibre ottiche, analizza l’attività della corteccia durante
lo stato di veglia. Il ratto è libero di
muoversi nell’ambiente con cui
mostra di interagire normalmente in
attività esplorative e sociali.
Gli importanti risultati ottenuti con
queste ricerche mostrano come la
possibilità di modificare la sequenza
dei sensori per il calcio o di modificare il vettore di espressione apre ad
una serie di diverse soluzioni e applicazioni che sfidano l’inventiva dei
neuroscienziati, ma soprattutto
ampliano il ventaglio di possibili risultati ottenibili con le tecniche di imaging. La miniaturizzazione della
microscopia ci permetterà, inoltre, di
approfondire l’indagine sul comportamento animale in condizioni sempre più fisiologiche.
Bibliografia
Electrophisiology in the age of light. Massimo Scanziani , Michael Hausser (Insight Review - Nature Vol 461, 15 october, 2009,930-939)
Lighting up neural networks using a new generation of genetically encoder calcium sensor Christian D Wilms, Micheal Hausser (News and Views –
Nature Methods Vol.6 N°12, December 2009,871-872)
Imaging neuronal activity in worms, flies and mice with improved GCaMP calcium indicators. Tian, L et al. Nature Methods 6 – 875-881, 2009
A genetically encoded reporter of synaptic activity in vivo. Dreosti E, et al. Nature Methods Vol.6, 883-889, December 2009
The mobile microscope Daniel Evanko (Nature Methods Vol.7 N° 1, January 2010-9)
LAB
IL MONDO
DEL LABORATORIO
marzo 2010
33
LAB Microscopia Fluorescenza Imaging
“Vedere per credere”
potrebbe essere la
frase che spinse 50
anni fa a realizzare
immagini da segnali
prodotti dalla
interazione della
materia con un fascio
di elettroni... oggi, i
sistemi di “imaging”
sono adottati in ogni
campo della diagnostica.
Microscopia a scansione
In occasione della ricorrenza dei 10 anni di attività del servizio di microscopia al Dipartimento di Chimica della “Sapienza” Università di Roma, lo scorso gennaio è stato organizzato un convegno per mettere a confronto risultati, esperienze, limiti e prospettive di una tecnica che ha affiancato molte delle ricerche del Dipartimento citato.
Le relazioni presentate al Convegno sotto il denominatore comune del SEM hanno mostrato ognuna un differente aspetto dell’analisi superando ogni volta l’uso tradizionale della strumentazione mediante lo sviluppo di processi innovativi di elaborazione
dei risultati o con l’accoppiamento di altre tecniche o, infine, attraverso l’impiego di dispositivi particolari.
La prima sezione del Convegno, SEM
per i nuovi materiali, è stata dedicata
alle procedure per la preparazione di
materiali nano strutturati, perfezionando i metodi sistematici per i prodotti di sintesi in funzione dei parametri di processo. Nel lavoro coordinato
dalla Prof.ssa Cleofe Palocci sono stati
presentati biomateriali biosintetizzati,
F-moc tripeptidi, derivanti da un F-moc
amminoacido (F-moc-Phe) a da un
dipeptide (Phe2) mediante lipasi in
ambiente acquoso. Tali F-moc-tripeptidi sono gel caratterizzati da una rete di
micro e nanofibre la cui morfologia è
stata osservata direttamente nell’ambiente di preparazione tramite il crioSEM, congelandone la struttura. Nella
ricerca presentata dalla Dr.ssa I. Fratoddi del gruppo della Prof. Maria Vittoria Russo la regolarità della dispersione delle nanosfere ottenute da sintesi polimeriche è stata misurata
mediante l’utilizzo di software di analisi di immagine che richiedono una
calibrazione possibile solo da immagini SEM ad alta risoluzione anche se un
approccio nuovo deve essere applicato
per la precisione delle misurazioni in
scala nanometrica. Anche per un altro
intervento si deve parlare di nano
materiali, e questo mi fa tornare in
mente quando solo un ventennio fa, la
parola “microchimica” entrava nel linguaggio scientifico. Ormai la moderna
tecnologia richiede la realizzazione di
materiali che possano abbinare a strutture infinitesime, grandi prestazioni.
L’intervento del Dr. J.Hassoun, del
34
LAB marzo 2010
IL MONDO
DEL LABORATORIO
gruppo della Prof.ssa Stefania Panero,
ha raccolto tale sfida proponendo
composti sistema di cobalto e stagno
quali elettrodi per le moderne batterie
a litio. I materiali di nuova generazione
trovano applicazione in vari settori ad
alto contenuto tecnologico. La seconda sessione, Interdisciplinarietà del
SEM, ha raccolto comunicazioni dove
ricerca, diagnostica e industria hanno
cooperato al fine di raggiungere
l’obiettivo della qualità che, in questo
modo, perde il suo attributo di termine astratto. Il Prof. Stefano Materazzi
da tempo svolge la sua attività nel
campo del controllo qualità e ha selezionato casi in cui la microscopia elettronica, con l’immediatezza del risultato e la semplicità d’uso accompagnata
da un’attenta interpretazione dei dati,
ha premesso di risolvere problemi che
forse non rientrano nel compendio
della letteratura scientifica ma che
hanno permesso un avanzamento
nella produzione industriale. La presentazione ha visto la partecipazione
della Dr.ssa Viviana Berto della CHIMEC, una ditta che si rivolge spesso ai
sistemi diagnostici avanzati della ricerca accademica nella soluzione di problemi della grande industria come
quello presentato della corrosione
dello scambiatore del treno di preriscaldo dell’impianto topping di una
raffineria italiana, studiato attraverso
analisi SEM-EDS. In campo biomedico
e in particolare nel settore dell’ingegneria del tessuto cardiaco (CTE), si
stanno sperimentando preparati a
base di gelatina con struttura a scaffold come nuovo approccio nella rigenerazione del cuore infartuato. Tali
composti, realizzati dal gruppo della
Prof. Mariella Dentini, hanno passato
tutte le prove di laboratorio e si stanno
testando in vitro per confermare l’adesione delle cellule cardiache. L’attento
lavoro del Dr. G.Rizzitelli ha dato indicazioni sulla modalità di adesione delle
cellule al sistema di supporto, lasciando alla biologia l’interpretazioni delle
a cura di Daniela Ferro Dipartimento di Chimica - CNR - Roma
immagini SEM. Il tema dei materiali
biomedici è stato affrontato anche dal
gruppo dei Proff. A.Martinelli e
A.Piozzi con lo studio della nano struttura di cristalli singoli PLLA nella preparazione di scaffold. La terza sessione,
SEM per i Beni Culturali, è legata al
corso di laurea triennale e specialistica
in “Scienze Applicate ai Beni Culturali” della “Sapienza” dove i tirocini
didattici degli studenti presso Soprindentenze, Musei ed Istituzioni permettono di realizzare il tanto auspicato
dualismo Università-Enti Locali. Nel
campo della diagnostica per i beni culturali, il SEM è uno degli strumenti più
versatili e in continua evoluzione per
rispondere alle più svariate problematiche, fornendo dati sulla quasi totalità
dei materiali costituenti il patrimonio
culturale purché se ne abbiano le
conoscenze chimiche, fisiche e storiche specifiche [D.Ferro, E.Formigli,
A.Pacini, D.Tossini La saldatura nell’oreficeria antica, 2008 ed. KAPPA,
Roma].
L’indagine
su
scala
micro/nanoscopica è essenziale per
l’individuazione di marker diagnostici
per la conoscenza di particolari processi applicati alla lavorazione di materiali, dalle scheggiature delle selci negli
strumenti preistorici alle rifiniture dei
particolari nella grande statuaria antica. A tal proposito la Dr.ssa Florina Jankowski ha proposto una nuova nomenclatura per descrivere gli effetti di
“mineralizzazione” di fibre in contesti
archeologici. In molti casi studio però
l’applicazione tradizionale della microscopia elettronica non basta per ottenere elementi oggettivi. La Dr.ssa Vania
Virgili, formatasi scientificamente nel
gruppo che coordino sullo studio dei
processi chimico fisici legati alle antiche
tecnologie per la realizzazione di reperti metallici, ha presentato uno studio di
confronto sulla tecnica della granulazione presente su gioielli provenienti
dall’Iran, Siria, Pakistan, ma che si ritrova straordinariamente anche in Etruria.
I dati delle osservazioni morfologiche e
composizionali del SEM sono stati integrati con i valori morfometrici e geometrici dei grani, ricavati attraverso
l’utilizzo dell’Analisi di Immagine [V.
Virgili, A.Carraro, D:Ferro, E.Formigli,
Seminario Siria Tartasso Etruria, Murlo
(SI) Novembre 2006]. In altri studi
microanalitici la sola caratterizzazione
superficiale non è esaustiva della complessità d’indagine ed è necessario
ricorrere ad analisi con radiazioni capaci di ottenere informazioni dall’intero
volume del campione. In questo
campo d’indagini si sta ormai affer-
mando l’uso di una strumentazione
integrata, operante in ambiente SEM,
tra la microanalisi elettronica (EDS), e la
fluorescenza X (XRF) capace di rilevare
segnali provenienti dall’interno del
materiale. La nuova apparecchiatura è
stata applicata con successo allo studio
di reperti di scorie ritrovati in grandi
quantità nelle aree di Wadi Sabra,
Wadi Numair e Wadi al Mataha nella
zona di Petra (Giordania), [S.Bovani,
D.Ferro, L.Campanella Atti Convegno
Aiar IV conv. Int di Archeometria, Pisa
Febbraio 2006] con lo scopo di dare
indicazioni sulla possibile presenza di
una produzione metallurgica locale. La
determinazione attenta di tutti gli elementi presenti in aree discriminate con
l’analisi morfologica non è talvolta in
grado di dare un quadro completo
della composizione del campione. Nel
caso di uno studio finalizzato alla definizione del termine “pasta vitrea”, i
numerosi elementi formanti la matrice
vetrosa, le concrezioni minerali e gli
elementi cromofori non sono riconducibili a nessuna sostanza senza una correlazione tra i valori ottenuti [F.Cecere,
A.Carraro, D.Ferro, G,Visco Atti Convegno CMA4CH Chemiometria per i Beni
Culturali, Nemi (Roma) Ottobre 2006].
Per risolvere questo problema sono
stati utilizzati software dedicati all’elaborazione dei dati EDS con l’Analisi
Multivariata (PCA) che ha permesso di
ottenere una visione globale dei dati
caratterizzati da un numero molto elevato di variabili e di estrarne la massima informazione in essi contenuti.
Recentemente la Dr.ssa Flavia Pinzari
ha attivato una sezione SEM, presso
l’Istituto Centrale per il Restauro e la
Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (ICRCPAL). La strumentazione è divenuta subito indispensabile in tutti i lavori di diagnostica come
per esempio nell’esame di alcuni disegni tecnici su carta da lucido della metà
del XIX sec. con lo scopo di individuare
il miglior trattamento di restauro, lavoro presentato dal Dr. Matteo Placido,
formatosi presso il corso già citato di
Scienze per i Beni Culturali. Da quanto
detto è chiaro come restauro e arte
siano un binomio inscindibile. Lo dimostra lo studio della Dr. Roberta Tomassini e Prof. Marcella Guiso sull’opera
pittorica di Giulio Turcato “Superficie
Lunare” (1965) che presenta un danneggiamento dell’inusuale supporto
pittorico, una comune gommapiuma, e
quindi di difficile integrazione con i tradizionali metodi di consolidamento.
Anche l’Arte architettonica trova nelle
determinazioni SEM-EDS risposte relative a studi di morfologia e composizione delle malte, degli strati pittorici,
degli affreschi e dei prodotti di formazione dei sali sulle superfici fino ad arrivare alle validazioni di nuovi prodotti di
sintesi per la conservazione. Questo
tema è stato affrontato nel lavoro della
Dr. A.S. Bonetti e Prof. Santarelli che ha
avuto come scopo quello di caratterizzare gli intonaci dipinti della Basilica di
S.Eufemia, associando i dati SEM-EDS
con quelli della spettrofotometria FTIR
e dell’analisi TGA. Lo steso gruppo ha
presentato con la Dr.ssa M.P. Bracciale
un modello matematico che descrive la
diffusione e l’azione chimica della SO2
sulla porosità di pietre carbonatiche
tramite simulazioni in camere di solfatazione. Lo spessore di penetrazione
dello zolfo in funzione delle condizioni
sperimentali della camera climatica è
stato misurato utilizzando lo strumento
SEM-EDS della dispersione in falsi colori. Nel settore della conservazione dei
monumenti, il gruppo formato dalla
Prof.ssa M.P. Sammartino con il Dr.A.
Macchia e la Dr.ssa M. Tabasso, ha
acquisito notevoli competenze nello
studio propedeutico a qualsiasi tipo di
intervento di restauro relativo ai sistemi
complessi dei materiali delle fontane
dove acqua, inquinamento e contatto
con metalli, tubature o parti decorative
in bronzo, producono macchie indelebili sulle superfici lapidee. L’avvicendarsi di comunicazioni su tematiche estremamente differenti ma tutte comprensibili se viste solo attraverso lo schermo
di una strumentazione comune ha
messo in evidenza come siano possibili
sinergie tra gruppi di ricerca che si
occupano di tematiche differenti.
Quest’ultimo concetto è riassunto nel
lavoro del Dr. G. Marghella che costituisce un ponte tra ricerca di base e
applicazione. Mutuando un prodotto
sintetizzato per ben altri scopi, si è
testato con successo l’uso di un polimero organometallico ‘rigid-rod’ PtDEBD per la cattura selettiva degli ioni
solfuro che, riducendo la loro concentrazione nell’ambiente, rendono i
reperti preziosi in argento ‘immuni’
dalla aggressione dei solfuri. Quanto
espresso finora, anche se in maniera
estremamente riassuntiva, ha posto
temi di sicuro interesse per chi considera la scienza non solo una professione.
Il convegno, all’apparenza monotematico sulla strumentazione SEM, ha evidenziato, infatti, quanto la commistione ricerca e arte spazi a tutto campo
dalle applicazioni tecnologiche avanzate alla lettura colta dell’oggetto d’arte.
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