Untitled - Rizzoli Libri

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Untitled - Rizzoli Libri
EDWARD CAREY
I SEGRETI DI HEAP HOUSE
Traduzione di Sergio Claudio Perroni
ROMANZO
BOMPIANI
Carey, Edward, Heap House
Text and Illustrations © 2013 by Edward Carey
All rights reserved
First published in 2013 by Hot Key Books
Northburg House, 10 Northburg Street, London EC1V 0AT
© 2015 Bompiani / RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-452-7873-0
Prima edizione Bompiani marzo 2015
A mio fratello James
(1966-2012)
Il bambino malato Clod Iremonger
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UN TAPPO DA BAGNO UNIVERSALE
Inizia il racconto di Clod Iremonger,
Forlichingham Park, Londra
Come cominciò
Tutto cominciò, con il terribile pasticcio che ne seguì, il giorno in cui scomparve la maniglia da porta di mia zia Rosamud.
Era la sua maniglia da porta prediletta, interamente di ottone. Il
giorno prima mia zia c’era andata in giro per tutto il palazzo, in
cerca di cose di cui lamentarsi, com’era sua abitudine. Si era appostata a ogni piano, era salita e scesa per le scale, aprendo porte
a ogni occasione, trovando difetti. E sosteneva di aver avuto con
sé la maniglia d’ottone per l’intera durata di quelle indagini, solo
che adesso non c’era più. Qualcuno, strillava, l’aveva presa.
Non si vedeva un trambusto simile da quando il mio prozio
Pitter aveva perso la spilla da balia. Quella volta l’edificio era
stato setacciato da cima a fondo per poi scoprire che il povero
vecchio zio la spilla l’aveva avuta sempre con sé, gli era caduta
attraverso la fodera sdrucita di una tasca della giacca.
Ero stato io a trovarla.
Da quel giorno i miei parenti mi avevano guardato in maniera molto strana, o forse dovrei dire in maniera ancor più strana,
visto che non si erano mai fidati molto di me e che spesso mi
dicevano di togliermi dai piedi. Il ritrovamento della spilla da
balia sembrò ribadire qualcosa in seno alla mia famiglia, e alcuni tra le mie zie e i miei cugini cominciarono a girarmi alla
larga, non rivolgendomi nemmeno la parola, mentre altri, per
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esempio mio cugino Moorcus, mi facevano la posta. Il cugino
Moorcus era convinto che fossi stato io a nascondere la spilla
nella giacca, e, dopo avermi braccato in un corridoio semibuio,
cominciò a sbattermi la testa contro il muro, contando nel frattempo fino a dodici (gli anni che avevo all’epoca), per poi appendermi al gancio di un attaccapanni, lasciandomi a penzolare
lì finché, due ore dopo, non fui ritrovato da uno dei domestici.
Il prozio Pitter si era profuso in scuse dopo il ritrovamento
della spilla, e credo che non si fosse mai davvero ripreso dalla
tragedia. Tutto quel trambusto, quell’accusare a destra e a manca. Era morto la primavera dopo, nel sonno, con la spilla da
balia spillata alla giacca del pigiama.
“Ma come hai fatto a capirlo, Clod?” si erano stupiti i miei
parenti. “Come hai fatto a capire che la spilla da balia era lì?”
“L’ho sentita gridare,” avevo risposto.
Sentivo cose
Quei due lembi di carne ai lati della mia testa facevano troppo, quei due fori in cui entravano i suoni erano sovraccarichi.
Sentivo cose quando non avrei dovuto.
Ci misi un bel po’ prima di capire il mio udito.
Mi dicevano che da neonato scoppiavo a piangere senza motivo.
Ero sdraiato nella culla e all’improvviso, pur non essendo successo
niente, cominciavo a strillare come se qualcuno mi avesse strappato i radi capelli o versato addosso dell’acqua bollente o tagliuzzato
con un coltello. Era sempre così. Ero un bambino strano, dicevano,
infelice e intrattabile, difficile da calmare. Neonato colico. Cronicamente colico. Le balie non resistevano a lungo. “Perché sei così
cattivo?” chiedevano. “Perché non stai un po’ tranquillo?”
I rumori mi turbavano: ero sempre nervoso, spaventato e
arrabbiato. All’inizio non riuscivo a distinguere le parole dai
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rumori. All’inizio erano solo suoni e fruscii, scatti, schiocchi,
schianti, toni, rombi, scoppi, botti, sgretolii, mugolii, guaiti,
gemiti, roba così. Di solito, non molto rumorosi. A volte, insopportabilmente tali. Quando cominciai a parlare, continuavo a
dire: “Chi è stato? Chi ha parlato?” oppure “Sta’ zitta. Chiudi
il becco, sei solo una spugna da bagno!” oppure “Fa’ silenzio,
vaso da notte!” perché mi sembrava che gli oggetti, i comuni
oggetti quotidiani, mi parlassero con voci umane.
Le balie s’infuriavano quando mi vedevano accanirmi contro una sedia o una scodella, un campanello da tavola o un
comodino. “Calmati,” continuavano a dirmi.
Cominciò ad andarmi meglio solo quando mio zio Aliver,
all’epoca fresco di laurea in medicina, si accorse del mio malessere. “Perché stai piangendo?” mi chiese un giorno.
“Il forcipe,” risposi.
“Il mio forcipe?” mi chiese lui. “Che ha?”
Gli dissi che il suo forcipe, aggeggio che Aliver portava sempre con sé, parlava. Di solito venivo ignorato quando raccontavo
delle cose parlanti, trattato con un sospiro di suficienza o preso
a sberle per aver detto una bugia, ma quel giorno zio Aliver mi
chiese: “E cosa dice il mio forcipe?”
“Dice,” risposi, contentissimo che me l’avesse chiesto, “Percy
Hotchkiss.”
“Percy Hotchkiss?” ripeté zio Aliver, molto interessato.
“Nient’altro?”
“No,” risposi, “io sento solo questo: ‘Percy Hotchkiss’.”
“Ma com’è possibile che un oggetto parli, Clod?”
“Non lo so, e preferirei che non lo facesse.”
“Un oggetto non ha vita, non ha bocca.”
“Lo so,” dissi, “eppure continua.”
“Io il forcipe non lo sento parlare.”
“Tu no, ma io sì, te lo giuro, zio. È una voce soffocata, intrappolata, come se fosse chiusa lì dentro, e dice: ‘Percy Hotchkiss’.”
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Da quel giorno, Aliver cominciò a venire spesso a trovarmi, e
mi ascoltava parlare a lungo di tutte le voci che sentivo, di tutti i
nomi, e prendeva appunti. Quelli che sentivo erano solo nomi,
sempre e soltanto nomi, alcuni detti in un sussurro, altri a gran
voce, alcuni cantati, altri strillati, alcuni pronunciati con modestia,
altri con grande orgoglio e altri ancora con sofferta timidezza. E
sempre, per me, quei nomi sembravano provenire da vari oggetti
sparsi per la vastità del palazzo. Nell’aula dove facevamo lezione
non riuscivo a concentrarmi perché il righello continuava a ripetere “William Stratton”, e c’era un calamaio che diceva “Hayley
Burgess”, e il mappamondo borbottava “Arnold Percival Lister”.
“Come mai i nomi degli oggetti,” chiesi un giorno a zio Aliver, quando avevo all’incirca sette anni, “questi John e Jack e
Mary, questi Smith e Murphy e Jones, come mai sono nomi così
strani, così diversi dai nostri?”
“Be’, Clod,” disse Aliver, “in realtà siamo noi ad avere nomi
poco comuni. È una tradizione di famiglia. Noi Iremonger abbiamo nomignoli diversi, perché siamo diversi da tutti gli altri.
Così possiamo distinguerci da loro. È una vecchia caratteristica
di famiglia: i nostri nomi sono come quelli della gente che vive
lontano da qui, di là dai cumuli, solo un po’ deformati.”
“Parli di quelli che stanno a Londra, zio?” gli domandai.
“A Londra e in altri posti molto lontani in tutte le direzioni,
Clod.”
“Loro hanno nomi come quelli che sento?”
“Sì, Clod.”
“Zio, perché sento i nomi?”
“Non lo so, Clod, è una cosa che hai solo tu.”
“Passerà?”
“Non saprei. Potrebbe passare, potrebbe attenuarsi, potrebbe aggravarsi. Non lo so.”
Di tutti i nomi che sentivo, quello che sentivo più spesso
era James Henry Hayward. Questo succedeva perché, dovun10
que andassi, portavo con me l’oggetto che diceva “James Henry
Hayward”. Era una voce gradevole, giovane.
James Henry era un tappo, un tappo universale, buono per
quasi tutti gli scarichi da bagno. Lo tenevo in tasca. James Henry era il mio oggetto natale.
Ogni volta che nasceva un Iremonger, era consuetudine di
famiglia regalargli qualcosa, un oggetto speciale scelto da Nonna. Gli Iremonger giudicavano sempre un Iremonger da come
trattava il suo oggetto personale, quello che appunto era chiamato il suo oggetto natale. Dovevamo portarlo sempre con noi.
Ognuno ne aveva uno diverso. Quando ero nato io, mi avevano
dato James Henry Hayward. È la prima cosa che abbia mai conosciuto, il mio primo gioco e compagno. C’era attaccata una
catenella lunga mezzo metro, e alla fine della catenella c’era un
piccolo gancio. Quando fui in grado di camminare e vestirmi
da solo, cominciai a portare il mio tappo da bagno con catenella
come chiunque potrebbe portare l’orologio da tasca. Il mio tappo da bagno, il mio James Henry Hayward, lo tenevo nascosto
nel taschino del gilet, giusto per sicurezza, mentre la catenella
sbucava dal taschino, scendeva giù con un’ansa e risaliva fino al
bottone centrale del gilet, dov’era assicurata con il gancio. Ero
molto fortunato ad aver ricevuto quell’oggetto, non tutti gli oggetti natali erano facili come il mio.
Certo, il mio tappo da bagno, diversamente dal diamante di
zia Onjla (che diceva Henrietta Nysmith), era una cosa di scarso
valore economico, ma almeno non era ingombrante come la casseruola della cugina Gustrid (Mr Gurney), e tantomeno come
la caminiera di marmo di mia nonna (Augusta Ingrid Ernesta
Hoffmann), che l’aveva confinata al secondo piano per tutta la
vita. Mi interrogavo spesso sui nostri oggetti natali. Zia Loussa
avrebbe mai cominciato a fumare se non le avessero regalato un
posacenere (Little Lil) il giorno in cui era nata? Aveva fumato
la sua prima sigaretta a sette anni. Zio Aliver sarebbe mai di11