Il Ponte rosso, n. 4, settembre 2015

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Il Ponte rosso, n. 4, settembre 2015
Il Ponte rosso
INFORMAZIONI di arte e cultura numero 4 - settembre 2015
DEDICA
Sommario
Il Ponte rosso dedica questo numero,
il lavoro, le competenze e i saperi necessari
per realizzarlo in ogni sua parte
alla memoria di
Convivere a Trieste (1/2)........................................ 4
di Pierluigi Sabatti
Diritto d’asilo............................................................. 3
Zangrando a Gorizia............................................... 7
di Walter Chiereghin
Nascere digitali / 2: ..............................................10
di Giuseppe O. Longo
“Golgatha” (Golgota) di Peter Schmitz...........12
di Fulvio Senardi
Quarant’anni dopo Pasolini...............................15
di Gianfranco Franchi
Il Parco di Miramare /3.........................................16
di Maurizio Anselmi
L’istituzione inventata di Franco Rotelli..........19
di Piero Del Giudice
Progetto Prometeo...............................................21
di Benedetta Moro
Il Palazzo della Luogotenenza..........................24
di Maurizio Lorber
Questa è per te, Fred!...........................................26
di Giuseppe Vergara
Il Generale Della Rovere tra finzione e verità.....28
di Stefano Crisafulli
Khaled al Assad
(Palmira, 1930 - ivi, 2015)
Archeologo barbaramente assassinato mentre
difendeva fino all’ultimo respiro i valori
dell’umanità e della cultura, salvaguardando
fino al sacrificio di sé i beni culturali del suo
martoriato Paese e di tutti noi.
Odore di salsedine................................................29
di Graziella Atzori
Aspettando Venezia.............................................30
di Gianfranco Sodomaco
Il Museo Ferroviario di Campo Marzio...........32
di Anna Calonico
Trieste luogo dell’anima......................................34
di Marina Silvestri
Una capitale per il caffè.......................................37
di Corrado Premuda
Un’intensa stagione espositiva.........................38
Due musicisti da ricordare.................................40
di Liliana Bamboscheck
Artista, soldato, scrittore.....................................42
La XXXI Stagione de L’Armonia.........................44
Vecchie e nuove povertà....................................45
Australia 3: Coober Pedy.....................................46
di Pericle Camuffo
DIRITTO D’ASILO
Avrebbe avuto il diritto di andare all’asilo, prima ancora di quello di ricevere asilo
politico il piccolo Aylan Kurdi, il bambino
riportato dalle onde su una spiaggia turca.
Le immagini del suo corpicino prono sulla
sabbia della battigia hanno fatto il giro del
mondo con la forza squassante di un’empatia che ha commosso milioni di persone,
producendo finalmente un risveglio delle
coscienze che parevano distratte e ostili,
refrattarie a ogni minimo progetto di accoglienza nei confronti di quanti si accalcano
alle frontiere terrestri e marittime del nostro continente. L’icona tragica di quel piccolino interroga oggi le nostre coscienze e
ci aiuta forse a comprendere con accentuata nitidezza il fenomeno epocale che si è
manifestato negli ultimi anni per assumere
in quest’estate che sta finendo dimensioni
impressionanti, con gli sbarchi e le migrazioni di intere popolazioni dall’Africa e dal
Medio Oriente verso un’Europa, divenuta
Terra Promessa per masse sempre più sterminate di disperati in fuga dalla miseria,
dalla guerra e dalla barbarie di un terrorismo che sembra disconoscere ogni minimo
valore umano.
Quanto vediamo oggi consumarsi davanti ai nostri occhi è con ogni evidenza
un fenomeno di dimensioni abnormi, col
quale dovremo fare i conti nei prossimi
decenni, in un’esasperazione sempre più
accentuata, tale comunque da spiegare,
ma non da giustificare, gli atteggiamenti
di chiusura e di ostilità nei confronti delle masse che premono alle nostre porte.
Anche se comprensibili, tali atteggiamenti
sono frutto di paure in parte irrazionali, fomentate e tenute accese da analisi politiche
rozze, tali da condurre - tra l’altro - a pericolose avventure militari.
Gli atteggiamenti accoglienti che si sono
manifestati in una parte della popolazione
come in alcuni governi europei, a partire da
quello tedesco, tra la fine di agosto e i primi
giorni di settembre, sembrano dare corpo a
una visione del problema improntata a comportamenti più umani e solidali.
L’Europa può affrontare questa non facile prova storica in due maniere, ancora una
volta erigendo muri oppure gettando ponti.
La prima via è storicamente votata al
fallimento, come ha insegnato Berlino,
segata in due da quel mostro metropoli-
tano che sembrava inattaccabile per quasi
trent’anni e che è stato gioiosamente distrutto in un’indimenticabile serata di novembre nel 1989. Come quello berlinese,
anche il muro (reale o ideale) che i leader
populisti europei propongono come fosse
realmente realizzabile costituisce, più che
non sembri a prima vista, una dimostrazione di debolezza e non di forza, estrema
inutile prova di una società che non sa trovare altrove che nei propri conti in banca
- miliardari o miserabili che siano - una
ragion d’essere della propria identità da
difendere a ogni costo contro orde di invasori, “barbari” per definizione.
L’altra via, che debolmente comincia a
farsi largo tra la gente e tra i governi, nasce
da una cultura che sa bene quello che siamo
noi europei, quelle che sono le nostre radici più profonde, tanto quelle cristiane, nelle
varie declinazioni del termine, quanto quelle della razionalità, dell’Illuminismo, del
diritto come garanzia per tutti, della laicità,
di quella forma di governo chiamata democrazia, nata sulle sponde di quello stesso
Egeo che ci ha restituito il piccolo Aylan. In
quelle stesse terre, tra l’altro, si designava
con la medesima parola tanto lo straniero
che l’ospite.
La via da percorrere appare, una volta di più, quella della cultura, del preciso
avvertimento di quello che in tanti secoli
di storia ci siamo costruiti per realizzare
un mondo dove vorremmo abitare: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, i Principi fondamentali della prima
parte della nostra Costituzione, il valore
della misericordia nel dettato evangelico,
la parola Fraternité nel motto dell’amica
Repubblica Francese, le parole di Schiller
nell’Inno alla gioia musicato da Beethoven: “Alle Menschen werden Brüder /Tutti
gli uomini saranno fratelli”.
Soltanto a partire dalla consapevolezza
che il nostro vivere associato è fondato su
tali valori può indicarci la strada per affrontare la non facile prova che condurrà
l’Europa e la vita di ciascun suo abitante
ad essere, fatalmente, diversa da come
l’abbiamo conosciuta. Che tale prossimo
futuro sia un ambito di civiltà, di libertà e
di convivenza e non di barbarie, arbitrio e
violenza dipenderà dalle scelte che siamo
chiamati a fare oggi.
EDITORIALE
EDITORIALE
sommario
informazioni web
di arte e cultura
a distribuzione gratuita
n. 04
settembre 2015
Direttore:
Walter Chiereghin
Posta elettronica:
[email protected]
impaginazione:
Hammerle Editori e
Stampatori in Trieste
Via Maiolica 15/a
34125 Trieste
In copertina:
Giovanni Zangrando
Passeggiata
a Sant’Andrea
(particolare)
olio su tela,
collezione privata
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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STORIA
sommario
CONVIVERE A TRIESTE (1/2)
di Pierluigi Sabatti
Il Ponte rosso
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Numero 4 - settembre 2015
4
Trieste è da sempre un mosaico di
etnie. Era inevitabile, vista la sua posizione geografica. Collocata al confine di
tre mondi: il latino, il tedesco e lo slavo e incuneata nell’angolo più a Nord
del Mediterraneo, che la rendevano, e
dovrebbero renderla ancora, l’approdo
ideale per uomini e merci diretti verso
l’Europa di mezzo e i Balcani o da essi
verso Oriente. Lo testimonia la scena
LXXXIV di quel racconto di pietra che
è la Colonna Traiana a Roma, dove si
rappresenta lo sbarco dell’imperatore nel
bacino maggiore del porto dell’epoca (il
105 d.C.), che si trovava dov’è ora Piazza Unità, cuore della città. Dietro il corteo imperiale si possono vedere le facciate degli edifici, in particolare il teatro
che si affacciava sul mare, la linea delle
mura che salgono sul monte e il colle di
San Giusto.
Traiano scelse Tergeste per cominciare
la sua seconda guerra della Dacia perchè
la città costituiva la base ideale per addentrarsi nei Balcani.
Porta di Roma sui Balcani, duemila
anni fa, porta della Mitteleuropa sul Mediterraneo, porta di Sion per gli ebrei che,
nel secolo scorso, fuggivano dall’Europa, porta dell’Occidente sulla Cortina di
Ferro.
Era logico che in essa s’incontrassero
e scontrassero diverse comunità etniche.
Ma non ripercorrerò ora la storia dei
popoli di Trieste dalla fondazione della
città, anteriore a quella di Roma. Ci vor-
rebbero ore.
Lasciamoci dietro un po’di secoli e
veniamo agli inizi del 1900, di quel fatale secolo breve, nel quale tutto cambiò.
A cent’anni da quegli eventi è giusto ricordare, riflettere e chiederci com’è la
nostra città oggi.
La cartolina che spiega la Trieste di
quegli anni rappresenta via del Molino a
Vento, alla prima periferia cittadina, lungo la quale ci sono soprattutto donne che
vendono abiti usati. Sono abiti di tutte le
fogge, alcuni frutto di scambi, perché chi
arrivava in città con il costume nazionale
o con i rozzi abiti del contadino spesso li
lasciava per comperarsi un vestito “normale” e sentirsi più cittadino. Bisognava
presentarsi dignitosamente a cercar lavoro in una città in rigoglioso sviluppo economico. “La mia città che in ogni parte è
viva” avrebbe scritto Saba il più grande
poeta triestino.
E veniamo alle etnie: oltre agli italiani e agli sloveni autoctoni, troviamo tedeschi, croati, una forte comunità ebraica. E ancora piccoli ma vivaci nuclei di
greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi,
boemi, polacchi, turchi. Escono giornali
almeno sette lingue (italiano, sloveno, tedesco, croato, inglese, francese e greco).
Tra il 1863 e il 1902 nascono (e muoiono) in città 576 tra quotidiani e periodici
come scrive Silva Monti in una preziosa
ricerca storica. La tipografia del Lloyd è
comunque in grado di stampare in tutte
le lingue del mondo.
Una policromia linguistica che colpisce
un giovanotto irlandese approdato quasi
per caso su quei lidi nel 1904. Si chiama
James Joyce e quella Trieste lo influenzerà
a tal punto da ispirargli il suo capolavoro,
l’Ulisse che lì comincia a scrivere, ma anche un’opera di difficilissima digeribilità
come i Finnegans Wake in cui gioca con il
linguaggio, sicuramente stimolato da quella babele di idiomi che incontrava uscendo di casa. Lo afferma uno dei più illustri
studiosi di Joyce, John McCourt, irlandese
come lui, che vive tra Trieste e Roma, nel
suo fondamentale James Joyce; gli anni di
Bloom, una delle opere che, oltre a fornire
una formidabile e innovativa biografia di
Joyce, descrive compiutamente l’atmosfe-
A cent’anni da quegli eventi
è giusto ricordare, riflettere e chiederci
com’è la nostra città oggi
ra che si respirava in città negli anni tormentati e vivaci che precedettero il primo
conflitto mondiale.
Al viaggiatore che volesse avere la
prova tangibile di questa varietà etnica
e culturale basta fare un giro per la città, guardando i suoi edifici per scoprire
che il Nobel Ivo Andric, aveva lavorato
al consolato del Regno di Jugoslavia in
piazza Venezia. Sempre per restare in
tema serbo, si osservi il bassorilievo su
Palazzo Gopcevic, che fronteggia il Canale, dedicato alla battaglia di Kosovo
Polje, che nel 1389 segnò la sconfitta
dei serbi nella loro lotta contro gli ottomani, ma anche la morte del sultano
Murad I. Sul versante religioso si trovano la Sinagoga di via Giotti, la chiesa
serba di san Spiridione, quella greca di
San Nicola e ancora la chiesa luterana
neo-gotica di largo Panfili, che rappresentano ulteriori tasselli di questo mosaico etnico. Infine non deve mancare
un giro per via della Pace per vedere i
cimiteri delle differenti religioni, compresa una piccola moschea, archivi di
pietra che custodiscono questa storia.
Il giro è consigliato anche a quanti si
fanno sedurre dalle sirene leghiste contro
gli immigrati.
Che c’entrano gli immigrati di oggi?
C’entrano eccome, visto che Trieste è
città di immigrati. E non erano tutti come
Antonio Cassis Faraone, arrivato con i
forzieri delle Dogane d’Egitto, ma era
gente in cerca di fortuna che fuggiva da
miseria, carestie, persecuzioni, guerre.
Facciamo un passo indietro e guardiamo, anche in cifre, com’era la situazione
nel primo decennio del Novecento: Trieste entra nel XX secolo in una fase di formidabile sviluppo demografico. Nel 1880
la città ha 140.000 abitanti. Nel 1913
240.000: 100.000 in più in 33 anni. Una
situazione paragonabile soltanto a quanto
accadeva negli Stati Uniti d’America con
la “nuova frontiera”. Dal 1900 al 1914 la
popolazione cresce di circa 5.000 unità
l’anno.
In base al censimento del 1910 gli
italiani presenti sul territorio del comune
di Trieste sono 170.000, gli “slavi” (sloveni, croati e serbi) 38.000.
I risultati del censimento vennero contestati dall’associazione slovena
“Edinost” perché la domanda che veniva posta ai censiti era quale fosse la loro
“lingua d’uso”, senza specificare se si
trattasse di lingua usata in famiglia, sul
lavoro o in ambito sociale. Secondo gli
sloveni l’ambiguità del quesito era voluta: i rilevatori, tutti dipendenti comunali,
avevano avuto il mandato da parte della
Giunta, a guida del partito liberal-nazionale italiano, di gonfiare il dato riguardante appunto gli italiani. Fanno ricorso
e il luogotenente Hohenlohe rivede i dati,
in diversi casi convocando di persona i
censiti sui quali c’erano maggiori dubbi.
La rilevazione definitiva cambia: sono
148.398 italiani, 56.916 sloveni, 11.856
tedeschi e 2.403 serbo-croati. Il nuovo
risultato viene contestato dai liberalnazionali italiani, i quali sostengono che le
autorità asburgiche volevano penalizzare
gli italiani.
A prescindere dalla precisione dei
dati, un fatto è certo: il risultato di un tale
melting pot è una straordinaria vivacità
culturale della città. Sul podio del teatro
Verdi salgono musicisti come Mahler,
Richard Strauss, Mascagni, Toscanini.
Al Rossetti recitano Sarah Bernhardt,
Adelaide Ristori, Ermete Zacconi, Ermete Novelli, Ruggero Ruggeri. Il Politeama ospita a partire dal 1910 anche
STORIA
sommario
Ivo Andric, autore de
Il ponte sulla Drina
Vladimir Bartol
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STORIA
sommario
La Sinagoga di Trieste
Il Ponte rosso
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un fatto è certo: il risultato di un tale
melting pot è una straordinaria vivacità
culturale della città
alcune “Serate Futuriste” che Marinetti
stesso indica fra le tappe più riuscite del
movimento.
Questo per restare all’ambito italiano, ma sloveni e tedeschi non sono da
meno.
Gli sloveni - spiega Miran Košuta,
docente di Slavistica del nostro ateneo
- sin dal medioevo costituiscono l’etnia
maggioritaria del circondario triestino
vantando però una significativa presenza
pure in città. Prima ancora di diventare
porto franco nel 1719, la Trieste emporiale non rappresentava per gli sloveni
soltanto la meta di costanti inurbamenti e di piccoli commerci, ma anche un
importante centro sociale, economico e
culturale. Nel XVI secolo vi opera per
esempio il predicatore protestante Primoz Trubar, padre della lingua slovena.
Tuttavia, appena dopo il 1848 - quando
in seguito alla “primavera dei popoli”
gli sloveni acquistano una moderna coscienza nazionale e rivendicano un’autonomia politica in seno all’Impero
asburgico - che inizia a svilupparsi anche nel Litorale triestino e goriziano una
vivace attività culturale slovena. Nascono biblioteche, scuole, teatri. Nel 1904
viene portato a termine, su progetto
dell’architetto Max Fabiani, il Narodni
dom, sede culturale e commerciale degli
sloveni di Trieste. Alla vigilia della prima guerra mondiale gli sloveni possono
così contare su una vasta e articolata rete
di istituzioni culturali: circoli, scuole,
biblioteche, case editrici, giornali, riviste, formazioni filodrammatiche e musicali, cori, bande ecc. Affiancandosi alle
imprese economiche e commerciali, alle
banche, alle cooperative, alle organizzazioni sociali e politiche, alle associazioni ginniche o sportive queste istituzioni
testimoniavano di una comunità estremamente florida e vitale. A ciò vanno
aggiunti i notevoli apporti individuali
di numerosi artisti: tra la seconda metà
dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento sono infatti attivi a Trieste e nel
suo immediato retroterra: i letterati Igo
Gruden, Vladimir Bartol, Srečko Kosovel, per citare soltanto i principali; i musicisti Emil Adamic, Vasilij Mirk, Ivan
Grbec, Marij Kogoj; i pittori Albert Sirk,
Robert Hlavaty, Avgust Cernigoj. nonché molte altre personalità artistiche.
La repentina ascesa culturale degli
sloveni in questo periodo è resa possibile
da vari fattori: il sostegno della politica
asburgica, la forte “domanda” di cultura
tra il popolo, la proliferazione delle istituzioni culturali nei grandi centri come
Lubiana, la crescente alfabetizzazione
delle masse contadine e operaie e, soprattutto, dalla nascita di un’emergente
borghesia slovena che individua nella
cultura lo strumento principe per la realizzazione dell’unità nazionale entro
uno stato sloveno sovrano, ma federato
all’Austria.
Le opposte aspirazioni di una parte della borghesia italiana irredentista,
che anelava a congiungersi col Regno
d’Italia e percepiva nel generale “rinascimento” degli sloveni una minaccia
alla propria egemonia politica, sociale
ed economica, provocano forti contrasti
nazionali che l’Austria, per mantenersi
al potere, lascia divampare. Dopo la dissoluzione dell’Impero nel 1918, l’arrivo
dell’Italia a Trieste e la costituzione del
confinante Regno serbo-croato-sloveno, i rapporti tra le due etnie s’incrinano ulteriormente peggiorando in modo
drammatico col successivo avvento del
fascismo. A subirne le conseguenze più
tragiche è proprio la cultura slovena. Il
13 luglio 1920 le camice nere di Francesco Giunta incendiano il Narodni dom.
Inizia la cosiddetta “bonifica etnica” ai
danni dei circa 350.000 sloveni venuti a
far parte dell’Italia in seguito al trattato
di Rapallo del 1920. Ben presto, a Trieste e in tutta la regione, persecuzioni e
violenze bandiscono dalla vita pubblica,
per oltre un ventennio, lingua e cultura
slovene. In questo senso, l’anno della
loro morte ufficiale potrebbe considerarsi il 1928, quando - dopo aver chiuso le
scuole, cambiato i nomi, proibito l’uso
dell’idioma e abolito quasi tutte le istituzioni culturali della minoranza - il fascismo sopprime anche la stampa in lingua
slovena. È, per un’infausta coincidenza,
proprio l’anno in cui muore Italo Svevo.
(- continua)
ZANGRANDO A GORIZIA
TRA ‘800 E ‘900
sommario
di Walter Chiereghin
In questa stagione estiva l’attenzione si
è concentrata sulla pittura di un autore mai
obliato, se non altro perché assai ricercato
dai collezionisti, il triestino Giovanni Zangrando (1876-1941), la cui intensa attività
espositiva lo ha reso molto presente nelle
cronache artistiche a partire dall’ultimo decennio del secolo XIX. Il ritorno d’interesse
e di attualità per il suo lavoro è scaturito dalla
concomitante circostanza dell’uscita di una
monografia su di lui e da una grande mostra
allestita a Gorizia nel prestigioso spazio di
Palazzo Attems Petzenstein. Autore e Curatore con Alessandro Quinzi dell’esposizione
è il triestino Daniele D’Anza, storico dell’arte che si è già in precedenza segnalato per
significativi contributi su riviste scientifiche,
nonché per la pubblicazione di una monografia su Zoran Music, un’altra su Vittorio
Bolaffio e, in collaborazione con Giuseppe
Pavanello e Alberto Craievich, un’altra ancora su Giuseppe Bernardino Bison, le ultime due inserite nella collana sui pittori triestini edita a cura della Fondazione CRTrieste. Lo stesso D’Anza è anche autore della
monografia (Franco Rosso Editore, Trieste,
2015, pp. 174, Euro 25). Il volume si avvale
dell’apporto di Giulia Babudri per la redazione delle schede del Catalogo - non completo - delle opere e di Michela Zangrando
Cortellini per le notizie biografiche.
Potendo vantare significative esperienze nella curatela di mostre, anche nel caso
dell’esposizione goriziana D’Anza ha dato
prova di notevole perizia: ne è risultata infatti un’antologica - probabilmente la più
corposa tra quelle dedicate a Zangrando - in
grado di porre in rilievo ogni sfaccettatura
della produzione artistica dell’Autore, dando conto delle sue connotazioni stilistiche
non meno che delle tematiche affrontate,
in ambiti che spaziano dalla ritrattistica al
paesaggio, dalla veduta alla figura umana,
sovente declinata nella variante del nudo
femminile, partendo da posizioni realistiche
tardo ottocentesche che ben presto si sono
evolute in modalità impressionistiche.
Nato a Trieste da genitori di modesta
condizione sociale provenienti entrambi dal
Cadore, Zangrando dimostrò ben presto una
naturale predisposizione per le arti figurati-
ve, che coltivò proficuamente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove si iscrisse
al primo corso nel febbraio del 1885. Dopo
un biennio di formazione di base, seguì in
particolare i corsi di figura e di ornato e in
Accademia subì una duratura influenza da
parte di due maestri, Giacomo Favretto (Venezia, 1849 - ivi, 1887) e, soprattutto, Pietro
Fragiacomo (Trieste, 1856 - Venezia, 1922).
Si distinse tra gli allievi dell’Accademia,
conseguendo nel corso della sua permanenza
in Laguna numerosi premi e riconoscimenti,
l’ultimo dei quali, a conclusione della sua
formazione veneziana, gli consentì di continuare gli studi mediante un soggiorno a Monaco, seguendo un iter comune a numerosi
altri artisti in quel periodo, tra i quali Isidoro
Günhut, Umberto Veruda, Arturo Rietti che,
assieme a Giusepe Barison, Carlo Wostry e i
più giovani Glauco Cambon e Ugo Flumiani
furono compagni dello Zangrando nel costituire a Trieste la generazioni di pittori che
avrebbe traghettato le arti figurative dal XIX
al XX secolo. Già nel periodo della permanenza a Monaco, dopo che le formulazioni
veriste d’ispirazione courbertiana si erano
incupite e drammatizzate in particolare nella
ritrattistica, si manifesta un deciso schiarirsi
della tavolozza, soprattutto nelle immagini
di paesaggio. Partecipando attivamente an-
Donna appoggiata a una ringhiera
olio su tavola
Trieste, collezione privata
Giovanni Zangrando
L’atelier e gli allievi
Musei Provinciali di Gorizia
Palazzo Attems Petzenstein
Piazza De Amicis 2
dal 30 giugno al 30
settembre 2016
a cura di Daniele D’Anza e
Alessandro Quinzi
Orario:
Mercoledì - domenica ore
10.00–17.00
Giovedì ore 10.00–19.00
Biglietti:
Intero 6 €, ridotto 4 €
Contatti:
t. +39.0481.547499
[email protected]
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TRA ‘800 E ‘900
sommario
Zangrando dimostrò ben presto una naturale
predisposizione per le arti figurative, che coltivò
all’Accademia di Belle Arti di Venezia
che da Monaco alla vita artistica triestina,
Zangrando ottiene la vittoria in un concorso
bandito da Cecilia de Rittmeyer che finanziava il soggiorno romano di un giovane artista, per cui si trasferì a Roma, prendendo
alloggio in Via Magutta e ampliando quindi
sia le conoscenze dei capolavori della storia
dell’arte che la cerchia delle proprie amicizie, che inclusero allora, tra gli altri, il pittore Antonio Mancini (Albano Laziale, 1852
- Roma, 1930). Segue al soggiorno romano
un periodo parigino, forse parte di un più
articolato viaggio per l’Europa. Nella capitale francese, com’è ovvio, entrò in contatto
con l’ambiente artistico all’epoca, egemone
a livello mondiale, rimanendo sicuramente
affascinato dalla tavolozza e dalla tecnica
esecutiva di autori quali Degas e Renoir, di
cui si troveranno tracce evidenti in tutta la
sua successiva produzione, anche se complessivamente informata a una maggiore attenzione al disegno.
Rientrato a Trieste nel 1895, vi aprì uno
studio che fu subito frequentatissimo e alla
sua pittura arrise anche un notevole successo commerciale, soprattutto per merito di
un’intensa attività ritrattistica, che conob-
Il parasole
1920 ca., olio su tavola
Trieste, coll. privata
Donna appoggiata a una ringhiera
olio su tavola
Trieste, coll. privata
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novantanove tra dipinti e disegni, due taccuini
di disegni e nove fotografie in bianco e nero
realizzate dallo stesso Zangrando
be il suo acme nel 1905 con l’esecuzione
del ritratto dell’arciduchessa Sofia von Hohenberg, moglie morganatica di Francesco
Ferdinando, destinata a condividere con lui
la tragica giornata del 28 giugno del 1914
a Sarajevo. Il ventennio che precedette la
Grande guerra fu per il Nostro un periodo
di grande attività, con partecipazione a numerosi eventi espositivi, ma anche con un
vorticoso ricercare una sua cifra, troppo
spesso distratto dalle suggestioni che gli
provenivano dall’ambiente che lo circondava, soprattutto da colleghi ed amici quali
Veruda, Cambon, Grimani ed altri. Per dirla
con D’Anza: “l’opera di Zangrando in questo primo ventennio «triestino» è segnata
da ricerche, intuizioni, ripensamenti, tentativi di definire il proprio stile, che non ebbero sviluppo lineare, ma che consistettero
a volte in periodi ristretti. Non l’originalità
a tutti i costi, ma il confronto e la contaminazione di stili o di tecniche con altri artisti
triestini, sembra sostenere il suo pennello”.
La guerra fu uno spartiacque anche per
lui, come per l’Europa intera: trascorse gli
anni del conflitto in Toscana, dove ebbe
modo di incontrare la pittura dei macchiaioli e dove realizzò diverse piccole vedute di
Siena, di Fiesole e paesaggi di piccolo formato illustranti l’Appennino del Senese.
Rientrato a Trieste a guerra finita, proseguì con alacrità la sua produzione, presentando con cadenza pressoché annuale le
opere prodotte in mostre personali, liberato
ormai da ogni assillo commerciale e dedicandosi anzi a riaffermare la sua adesione
all’impressionismo dei suoi primi anni, dipingendo sempre più di frequente dal vero
ed en plein air, con una freschezza e una
velocità di esecuzione che rinnovavano gli
entusiasmi giovanili declinati però in una
più consapevole e vigile esecuzione, che
tuttavia non arrivava a rifinire l’opera, al
punto di offrire l’impressione di pubblicare
abbozzi anziché dipinti finiti, ma comunque
“senza nulla rinnegare di sé stesso”, coma
annotò Silvio Benco. Passato indenne e sostanzialmente indifferente attraverso ogni
avanguardia del nuovo secolo, rifuggendo
da tentazioni futuriste o cubiste, continuò
a produrre la sua pittura serena e a gettare
TRA ‘800 E ‘900
sommario
Autoritratto
1940
Pastello su cartone,
coll. privata
attorno a sé uno sguardo sorridente e carico di bonomia, fino al concludersi della sua
avventura umana, nel 1941.
L’esposizione goriziana si qualifica oggi
come la più ampia esposizione antologica sinora dedicata al pittore triestino e al suo magistero, che conta novantanove tra dipinti e disegni, ai quali vanno sommati due taccuini di
disegni e nove fotografie in bianco e nero realizzate dallo stesso Zangrando. In parallelo,
nel contesto della Pinacoteca, sono esposte le
opere dei suoi allievi conservate presso i Musei Provinciali di Gorizia: dai più noti Adolfo Levier, Giannino Marchig, Arturo Nathan
sino aGianni Brumatti ed Emma Galli.
Terrazza fiorita
olio su tela
Trieste, coll. privata
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NUOVE TECNOLOGIE
sommario
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NASCERE DIGITALI / 2: L’universo
della comunicazione di Giuseppe O. Longo
L’ingresso nell’era digitale si accompagna a due transizioni importanti. In
primo luogo vi è il passaggio sempre più
evidente dall’evoluzione biologica, retta
dai meccanismi darwiniani di mutazione
e selezione, all’evoluzione bioculturale,
e in particolare biotecnologica, dove ai
meccanismi precedenti si affianca anche
il meccanismo lamarckiano dell’ereditarietà dei caratteri (culturali) acquisiti.
Questo fenomeno si basa su processi,
come l’imitazione, l’apprendimento,
la moda, che agiscono non solo da una
generazione alla successiva, ma anche
all’interno della stessa generazione. Ne
segue che l’evoluzione bioculturale ha
natura “epidemica”: è molto più rapida
di quella biologica, ma i suoi prodotti
sono più fragili e volatili.
In secondo luogo, sul versante della
tecnologia, accanto alle macchine tradizionali, che elaborano materia ed energia, sono comparse le macchine della
mente, che elaborano informazione. In
un susseguirsi sempre più rapido: il cinema il telegrafo, il telefono, la radio,
la televisione, il calcolatore elettronico,
le reti: sistemi e dispositivi che si sono
affiancati a quelli tradizionali basati sulla comunicazione orale, sulla scrittura
e sulla stampa. Inoltre lo sviluppo delle
reti, derivate dall’accoppiamento fra telecomunicazioni e calcolatori, ha dimostrato che la vera vocazione dei computer
non è solo o tanto l’esecuzione di calcoli
laboriosissimi o il trattamento di enormi
masse di dati, quanto il collegamento
interattivo tra gli individui. Sempre più
essi fungono da nodi della grande rete di
comunicazione che si sta estendendo su
tutto il pianeta.
L’uomo è una creatura della comunicazione e dello scambio: la sua struttura corporea e la sua intelligenza si sono
co-evolute in stretta interazione con un
ambiente che ha impresso nella specie
il proprio sigillo, dando origine a un apparato neuro-sensoriale e cognitivo che
filtra le stimolazioni della realtà e costruisce il mondo da noi percepito, che
è diverso da quello di ogni altra specie.
Su questo apparato s’innesta in modo
agevole e quasi anestetico (almeno in
apparenza) la tecnologia informazionale,
accanto alle macchine tradizionali
sono comparse le macchine della mente
la quale prolunga l’evoluzione biologica
in un’evoluzione biotecnologica, modificando le categorie della percezione e
della cognizione e influendo anche sugli
affetti. Lungi dall’essere un fenomeno
superficiale, la tecnologia incide dunque
sul nostro modo di vedere il mondo e
sulla nostra essenza cognitiva ed emotiva più intima.
A questo proposito è esemplare il
caso della televisione, che per molti costituisce un vero e proprio occhio sul
mondo, fonte di informazione, intrattenimento ed emozioni (a prescindere dalla qualità). L’aspetto forse più limitativo
del rapporto con la Tv è la sua unidirezionalità, temperata soltanto dall’uso del
telecomando, che consente allo spettatore di ricavarsi un tracciato personale tra
programmi di per sé rigidi. È un inizio
di interattività, che soddisfa, sia pure in
modo embrionale, la profonda esigenza
dialogica degli umani.
La comunicazione è un fenomeno
complesso, in cui si mescolano elementi
naturali e convenzionali, sintattici e semantici, pragmatici ed emotivi. È un’attività, quella comunicativa, intessuta
di metafore, di significati empirici e di
ambiguità che screziano e arricchiscono
il puro scambio di informazioni, corredandolo di tutta una serie di valenze metacomunicative ed extracomunicative,
senza le quali lo scambio si ridurrebbe
a poco più di niente. La comunicazione
si articola in codici più o meno flessibili,
aperti in vario modo a interessi cognitivi, affettivi e collaborativi. Ed è proprio
la volontà di collaborazione dei parlanti che ne costituisce forse l’aspetto più
caratteristico e significativo: grazie a
questa volontà e animati da essa, i dialoganti esplicano un controllo e un continuo aggiustamento dell’interazione, che
porta alla condivisione di regole sempre
diverse e alla costruzione di convergenze mutevoli, di volta in volta adatte agli
scopi della comunicazione.
L’aspetto collaborativo della pratica
linguistica (che secondo alcuni troverebbe un correlato fisiologico nei co-
siddetti neuroni specchio) si esplica in
una continua ridefinizione e reinterpretazione, da parte dei dialoganti, dei dati
e delle relazioni, dati e relazioni che non
sono solo interni alla lingua, ma anche
esterni: per esempio la relazione tra gli
stessi dialoganti. Emergono così le componenti extra-grammaticali ed extralinguistiche della comunicazione, che è
fatta non solo di informazioni scambiate
ma anche, e soprattutto, di intenzioni e
di progetti, di scopi e di aspirazioni che
riguardano il mondo dei soggetti, cioè un
contesto quanto mai ampio e articolato.
Ed emerge anche l’idea, già espressa dagli antichi Stoici, che il pieno sviluppo
delle caratteristiche umane, cognitive e
non solo, avvenga grazie all’interazione
sociale.
Per questo è fondamentale che, per
esempio, nella relazione tra docente e
discente, si apra il canale della collaborazione empatica, dell’interesse affettivo
e umano, della relazione personale, canale che è sempre bidirezionale, anche
quando il discente tace: per quel canale
empatico possono poi transitare tutte le
informazioni, tutti i dati, tutte le nozioni. Se quel canale non si apre, non passa
nulla.
(2 - continua)
NUOVE TECNOLOGIE
sommario
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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RISCOPERTE
sommario
Peter Schmitz
Il Ponte rosso
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12
“GOLGATHA” (GOLGOTA)
DI PETER SCHMITZ di Fulvio Senardi
Il nome di Peter Schmitz dice assai
poco, ne siamo convinti, anche ai maggiori esperti di letteratura di guerra. Lo
vede nascere, nel 1887, Eupen, un villaggio a pochi chilometri da Aquisgrana
(Aachen), sul confine belga, e facente allora parte, per eredità prussiana, del Reich
tedesco. Schmitz ha da poco iniziato la
sua attività artistica quando scoppia la
guerra, e il ventisettenne, sedotto dalla
propaganda e trascinato dagli entusiasmi
di un agosto, quello del ‘14, cupamente
‘radioso’, corre ad arruolarsi nell’esercito
imperiale ; la prima destinazione è sul
fronte della Champagne, quindi una lunga sosta negli ospedali militari per curarsi
dal tifo. Nel ’16 è a Verdun, dove viene
promosso sergente e quindi ferito. Degradato, così i suoi biografi, per aver difeso
una francese dei territori occupati dalle
avance impertinenti di un ufficiale, partecipa alla battaglia della Somme e riottiene, con la croce di ferro, il suo grado.
Nuovamente in ospedale per una crisi di
nervi, viene posto in congedo nel gennaio
del 1918. La fine della guerra fa avanzare
i confini del Belgio di qualche chilometro
verso ovest, conglobando anche Eupen:
un’esperienza di ‘confine mobile’ (fenomeno ben noto dalle nostre parti) che
educa Schmitz al relativismo delle appartenenze, mostrandogli l’assurdità della
guerra fra i popoli. Si impegna da allora
su un altro fronte, quello del pacifismo, e
con particolare dedizione nella misura in
cui prendono il sopravvento, nella vicina
repubblica tedesca di cui condivide la
lingua e conosce il lato oscuro, il militarismo e lo sciovinismo. Una sua attività
di particolare natura, coordinare operazioni di spionaggio nel III Reich, e di sostegno a transfughi di religione ebraica ne
fa un sorvegliato speciale della Gestapo:
quando nel maggio del 1940 l’esercito di
Hitler invade il Belgio la tomba di Schmitz, che è morto nel 1938, viene profanata dagli invasori e un anno più tardi sua
figlia è internata in un Lager. Fin qui nulla che possa veramente interessarci, in
una vita pur densa di vicende e spesa, chi
vorrà negarlo ?, per la buona causa. Ag-
giungiamo, per venire al nostro tema, che
nel Belgio occupato i tedeschi distruggono tutte le copie che riescono a rastrellare di Golgatha, il romanzo di guerra
che Schmitz aveva dato alle stampe, in
una prima versione, nel 1931, sulla rivista L’Invalide, edizione del Belgio
orientale, e quindi, in volume nel 1937,
con il titolo Golgotha – Ein Kriegsroman,
per i tipi della Paul-Kaiser-Verlag di
Eupen. Inutile dire che l’anno di pubblicazione, con il nazismo trionfante, non
lasciava margini in Germania per la diffusione e rendeva impossibile, non dico il
successo, ma nemmeno la discussione, in
sede critica, di un libro assolutamente
contro-corrente. Fortunosamente strappato all’oblio Golgatha rivede oggi
(2014) la luce, nella collana «storia e
pace» della casa editrice Donat di Brema,
con prefazione e cura di Philippe Beck, e
postfazione di Helmut Donat. Chi scrive
non si illude che una casa editrice italiana
voglia assumersi il compito di tradurre e
pubblicare il romanzo di Schmitz (eventualità possibile solo se - scartiamo a
priori le grandi case cui sta a cuore solo il
fatturato - se ne innamorasse qualche piccolo editore avventuroso), resta il fatto
che presentare al pubblico italiano, con
qualche parola almeno, un libro che appartiene di diritto al grande canone del
romanzo di guerra, appare insieme un dovere e un piacere. Si tratta dunque, per
entrare subito in argomento, di un romanzo a episodi (16, per l’esattezza, che coprono un periodo dal 1914 al 1916), caratterizzato da un andamento particolare,
poiché alterna il vero e proprio racconto a
momenti in cui l’Io autorale erompe in
riflessioni, giudizi, invettive, gli eventi e
le pause discorsive che li commentano,
alla luce di un rifiuto della guerra sempre
più netto e consapevole. Il romanzo, va
ancora detto, è in prima persona e assume
la forma del diario, indicando con una
certa precisione i luoghi mentre la scansione del tempo che prevale è quella delle
stagioni, quasi a semplificare il calendario, in un contesto che riduce l’esistenza
a ritmi elementari e sempre uguali: le at-
sedotto dalla propaganda e trascinato
dagli entusiasmi corre ad arruolarsi
nell’esercito imperiale
tese in trincea dell’attacco nemico o la
preparazione al proprio, i pasti, il sonno,
i turni di riposo, finendo quasi per negare
la nozione di tempo comunemente intesa.
Philippe Beck, che ha firmato l’introduzione, ci informa che facevano parte della
biblioteca personale di Schmitz tanto
Guerra di Renn che All’ovest niente di
nuovo di Remarque, avanzando inoltre
l’ipotesi della conoscenza da parte
dell’autore di Le croci di legno (1919)
del francese Dorgelès. Analisi più approfondite dovrebbero inoltre valutare la
possibilità della lettura del Soldato
Schvejk da parte di Schmitz, che, quasi in
forma di controcanto burlesco per allentare la tensione e allontanare l’onnipresente ombra della morte, inserisce nel
racconto parentesi comiche prese dalla
vita di retrovia: gli episodi del soldato
che cade nel pozzo nero della latrina da
campo, del tiro birbone giocato al sottufficiale dell’ospedale, o del furto delle
galline del maggiore, ecc. ecc., aprono
brevi spiragli di luce in un libro dalle
tinte cupe, e che non mostra alcuna reticenza, differenziandosi da molta narrativa di guerra, nel descrivere corpi e volti
contratti dalla morte o storpiati in modo
orribile dalle ferite. Nulla toglie al grande
fascino del libro una certa prevedibilità
di situazioni (la corsa disperata per portare un commilitone, gravemente ferito,
all’ospedale da campo, e salvargli così la
vita, oppure la scoperta del tradimento
della moglie da parte di un soldato che,
senza preavviso, giunge a casa in licenza:
sacrificherà poi la vita cedendo a un camerata ferito la maschera anti-gas), come
pure certe parentesi, nel gusto degli anni
Trenta e certo giustificate dalla fede pacifista dell’autore, dove l’espressione prende una intonazione didascalica e scade
nella declamazione, come, lo vedremo,
nelle pagine finali, un vero inno alla pace
fra i popoli. Per altro, acquisita ormai,
anche per merito dei narratori, una interpretazione della Grande guerra come
scontro di materiali («i pendii della
Champagne sono diventati il Golgata degli eserciti che si contrappongono nelle
trincee di terra gessosa. Qui la guerra è
un assassinio organizzato, uno scontro di
materiali, una lotta impersonale in cui
l’esistenza singola perde ogni valore» Golgatha, p. 143), Schmitz riesce a evocare come pochi altri scrittori del suo
tempo il senso di oppressione e la disperazione di chi si sente condannato a morte dentro la trappola della prima linea, la
crescente atonia di uomini ridotti alla
sola esistenza animale, i «trinceristi»,
rintanati durante i bombardamenti nei
loro loculi, da cui riemergono al calar
della notte come un popolo di ombre.
Una cronaca di nuda sopravvivenza, con
uomini rassegnati a vivere come all’età
della pietra, alla deriva in un lugubre paesaggio di rovine che cancella, in senso
proprio e figurativo, tutti i colori del
mondo e con essi ogni gioia di vita:
tronchi d’alberi bruciacchiati, crateri anneriti, cadaveri e carogne in putrefazione
(«ci ubriachiamo e ci raccontiamo barzellette oscene, negando la nostra umanità per non impazzire» - p. 250). Una
resa quasi, potremmo osare, di carattere
«filmico»: a tratti la guerra diviene assordante, gli scoppi, i lampi, le schegge, il
fumo, i lamenti dei feriti, (e le loro preghiere, gridate o mormorate) riempiono
tutto lo spazio mentale del lettore, e il miracolo della grande letteratura ci trasporta
là dove non vorremmo essere, testimoni
oculari della mostruosa carneficina. Giustamente Beck suggerisce che l’Io del romanzo sottintenda e spesso lasci percepire un «noi», il noi del cameratismo, che
è un sottoprodotto positivo dell’esperienza di guerra, ma che non basta certo a
giustificarla, come invece agli occhi di
altri scrittori: è lo stringersi insieme di
uomini esposti all’orrore, è una briciola
di quella solidarietà fra creature che rende degna la vita dell’uomo e che con ben
maggiore energia e migliori risultati la
pace saprebbe esaltare. Nel sangue e nel
fango, tra vomito e feci, fame e sporcizia,
morsi di pidocchi e privazioni infinite, la
guerra non ha catarsi, sempre e comunque degradante non risparmia niente e
nessuno (tremenda a proposito la figura
RISCOPERTE
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RISCOPERTE
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La consapevolezza di un’esistenza bruciata
è un motivo che ritorna, e pone un’amara
ipoteca sul futuro dei sopravvissuti
d’intreccio della francese Arlette, che il
protagonista incontra, ragazza spensierata
di un villaggio occupato, e che finisce per
guadagnarsi il pane in un bordello per soldati, o la visione del paese natale di Paul
Bürger, diventato una Mecca del mercato
nero): il cameratismo, la Kameradschaft,
non è un suo dono, ma un atomo di residua umanità che neppure la prova più terribile riesce a intaccare («l’orribile guerra
non ha potuto assassinare l’amore. L’amore dell’uomo trionfa sull’orrore e sulla
morte» - p. 129). Se è vero, come ha dimostrato Eric Leed (Terra di nessuno Esperienza bellica e identità personale
nella Prima guerra mondiale) che l’esperienza di guerra è stata segmentante e disgiuntiva (separando in modo netto un
prima e un dopo, un qui e un altrove, un io
o un noi dagli altri), colpisce come Schmitz declini questo tema: i soldati e gli
ufficiali subalterni contrapposti agli ufficiali superiori e di stato maggiore, la «carne da cannone» delle prime linee agli imboscati della sussistenza o di retrovia, i
soldati che vivono nella penuria e coltivano il valore della reciproca lealtà e i
furfanti che si ingrassano col mercato
nero. Verso il «nemico» invece (der Feind,
der Franzman) non una sola parola d’odio:
risoluto a difendere la pelle in trincea con
tutte le armi a disposizione (il romanzo è
finemente chiaroscurato e per un attimo ci
mostra anche Bürger preda della follia
guerriera: «sono posseduto da una pazzia
che non trova alcuna spiegazione: solo
uccidere, difendersi, finché il cuore batte»
- p. 185), è tuttavia proprio grazie al «nemico» che, nei giorni di riposo in territorio occupato, egli vive le sue esperienze
di più ricca umanità: «Di sera tardi suona
l’allarme. In gran fretta si riempiono gli
zaini. Saluto Madame Bourgois. L’addio
commuove la vecchia signora. ‘Pauvre
garçon!’ continua a ripetere, e come balbetto il mio ‘grazie’, succede qualcosa di
inaspettato. Gli occhi della vecchia signora si inumidiscono, prende la mia testa fra
le sue mani che tremano, fra le sue mani
avvizzite, e mi bacia sulle guance. ‘Pauvre garçon!’ – io so, l’anziana francese
non ha baciato il nemico, ha baciato i
combattenti di tutte le nazioni. Ha baciato
una generazione di aitanti ragazzoni
condannati a morire strangolati dalla
mano fredda della morte. E questo bacio
della vecchia signora francese diventa la
benedizione di mia madre lontana» (p.
122). La consapevolezza di un’esistenza
bruciata è un motivo che ritorna, e pone
un’amara ipoteca sul futuro dei sopravvissuti: «la notte chiara di stelle mi riempie di desideri insensati di pace e felicità;
e mi rende indicibilmente triste, perché so
che la guerra mi brucia l’anima, che con i
miei 24 anni sono diventato un vecchio e
che di essa, la guerra, non mi libererò mai
più. Potrò mai aver di nuovo stima
dell’uomo? Sono un’esistenza perduta
della guerra mondiale» (p. 232). Schmitz
non ha raccontato del ritorno a casa del
suo alter ego, Paul Bürger; dove sono i
camerati del ’14, si chiede in una delle ultime pagine: le loro ossa imbiancate giacciono nei boschi delle Ardenne, sulle
sponde della Marna e della Mosa, sui pianori gessosi della Champagne e della Picardia. Essersi salvati impone un dovere
di testimonianza, e ciò che a SchmitzBürger interessa narrare è la guerra,
quell’incubo da cui i reduci non sapranno
mai liberarsi, e forse, nel caso specifico,
la dolorosa palestra che spiega il suo formarsi a un’idea dell’uomo che esalta i valori della vita e trasforma lo scrittore in un
irridicibile nemico del militarismo, senza
o con croce uncinata. In una sintonia che
sorprende con il messaggio di Ritorneranno del nostro Stuparich, Golgatha si
chiude con frasi di speranza per l’umanità, per il cui futuro Schmitz si è impegnato
con tenacia e abnegazione, spegnendosi
prima di assistere alla nuova fiammata
dell’odio: «Chiederemo con forza: pace
sulla terra! Giù le armi! Siate fratelli, popoli del mondo, in una comunione di
pace, affinché il nome: uomo significhi
amore universale e bontà. E verso questa
meta ci accompagneranno i morti della
guerra […] trionfa in noi la fede negli uomini di buona volontà e nella forza del
loro amore» (pp. 278-9).
QUARANT’ANNI
DOPO PASOLINI di Gianfranco Franchi
A quarant’anni di distanza dalla morte violenta dell’artista friulano Pier Paolo Pasolini, nella pioggia di omaggi e di
commemorazioni opportunamente previste, merita interesse il florilegio Caro
poeta caro amico curato da Ignazio Gori
e Claudio Marrucci per la Sound System
Records, pubblicato in abbinamento a
un cd, piuttosto fragilotto, del giovane
latinese Andrea Del Monte. L’opera è
suddivisa in due parti: la prima, Parole,
è una raccolta di versi dedicati a Pasolini; la seconda, Pasolini visto da vicino,
una raccolta di interviste concentrate sul
poeta di Casarsa. Entriamo nel dettaglio.
Parole è decisamente ondivaga. Ad affiancare le poesie di tre dei più ispirati
poeti romani contemporanei c’è un discreto numero di figure diversamente
memorabili; peccato, perché l’impatto
poteva essere diverso, evitando zoppie,
mezze prose e didascalie. Ma sentite
qua. Antonio Veneziani, l’ultimo poeta
beat, l’ultimo pezzo della Scuola Romana, canta l’attesa della distruzione di
Roma, “crepata nei muri e nelle anime”.
È “la città che ha massacrato te e / uccide
la poesia […] / Non l’avevo messo in
conto, / questa città non è più casa mia”.
Fratello di Antonio Veneziani e suo
storico sodale è il romanziere abruzzese Renzo Paris, capitolino d’adozione,
erede e biografo primo di Moravia. Paris insiste sulla morte della poesia nella morte di Pier Paolo: “Chi non se n’è
accorto / sta fuori di qui e prende questi
versi / per un ritorno”. L’aristocratico
proletario Fernando Acitelli, orgoglioso
cantore delle periferie romane di ieri e di
oggi, subito insegna che “più scavato è
lo sguardo in borgata”. Cosa che Pasolini
ben sapeva. E poi sussurra che “oltre il
nome proprio nulla serve / basta sapersi
nello stesso posto / l’indomani sera giù
al Pigneto […] in cuore la ferita sta al
poeta”. Infine, merita menzione uno dei
curatori, Ignazio Gori, che va cantando
chi ha finito per “Morire di poesia / annegare quel passato / eretico e corsaro /
di un paese senza Stato”.
Veniamo alla seconda parte, Pasolini
visto da vicino, curata per lo più dal giovane letterato Claudio Marrucci. Walter
Siti, curatore del Meridiano pasoliniano, rivendica la bellezza dell’ingenuità
quasi infantile del poeta, il suo coraggio
civile, la sua convinzione che la vita sia
“incontenibile dalla letteratura”, e ribadisce che considera Le ceneri di Gramsci il suo massimo risultato in versi, per
la facilità di versificazione, la sintassi
dilatata, il nichilismo passionale. Renzo
Paris, fresco autore del memoir Pasolini
ragazzo a vita, in uscita per la Elliot a
fine autunno, in cui finisce per raccontare un Pasolini “borghese”, conosciuto
tra 1966 e 1975, ritornando sui luoghi
più amati dal poeta, ribadisce che considera imprescindibile il Meridiano curato
da Siti. Lo scrittore isolano Fulvio Abbate, romano d’adozione, sostiene che
a Pasolini dobbiamo “la luce degli anni
Settanta”; e che Pasolini sia stato innanzitutto un poeta, e che poeta sia rimasto
sia da polemista sia nella sua dimensione
pedagogica. Il professor Tullio De Mauro ricorda che il poeta è stato una delle
persone più generose di cui abbia mai
avuto notizia. E considera cifra linguistica dell’artista “la ricerca continua, da
‘bestia da stile’, della sperimentazione
delle varie potenzialità espressive della parola e di altri linguaggi”. Il regista
Citto Maselli, vecchio antagonista, esalta Una vita violenta e Ragazzi di vita,
considerandoli i massimi risultati della
produzione pasoliniana; e ricorda che
leggendoli l’emozione suscitata da certi
passi era così profonda e assoluta da essere sostanzialmente poetica. Il saggista
Grattarola, appassionato e lucido lettore
di cose pasoliniane, condivide la posizione di Maselli su Ragazzi di vita, aggiungendo tuttavia Accattone, che considera la continuazione su pellicola del
romanzo. Infine, non stupisce scoprire
che il critico letterario Emanuele Trevi
considera invece l’incompiuto Petrolio
il massimo esito di PPP: il suo notevole
Qualcosa di scritto rimane, a mio avviso, il più ispirato tributo al maestro apparso dal giorno della tragedia ad oggi.
A CHIARE LETTERE
sommario
Il Ponte rosso
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BENI CULTURALI
sommario
Bocca cannoniera presso la Porta
della Bora, attuale ingresso del
parco. Maggio 1945
(Da Tuttocat, Rivista di
speleologia urbana)
Il Ponte rosso
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IL PARCO DI MIRAMARE /3:
LE TRASFORMAZIONI di Maurizio Anselmi
Le aperture al pubblico del parco
volute da Massimiliano, e lamentate dal
giardiniere Jelinek (v. Il Ponte rosso n.
3), segnarono un inizio virtuale delle
modifiche di uso. Il cambiamento delle
condizioni sociali ed economiche implica sempre modificazioni alle opere
d’arte e al loro contesto, spesso radicali
e non compatibili con lo stato originario
del bene.
Miramare e i suoi dintorni sono stati
in passato, e - sebbene in misura minore - lo sono anche oggi, trasformati dalle
esigenze di urbanizzazione del territorio
e della vicina città di Trieste. La pressione antropica ha creato la costruzione, sul
costone costiero e nel vicino porticciolo
di Grignano, di edifici e complessi edilizi
fino a ridosso del parco. Il parco condivide la sorte di molti monumenti italiani:
è stato progressivamente chiuso in una
morsa che lo ha isolato dal contesto e
slegato dal rapporto con il territorio dal
quale attingeva le risorse idriche e che
costituiva il naturale retroterra culturale.
La costruzione della strada costiera
ha interferito in modo importante con la
realizzazione delle due gallerie che ha
provocato una cesura nella parte alta del
parco e con i contrafforti di sostegno che
incombono sopra le scuderie. Nonostan-
te le limitazioni poste dai piani urbanistici e il vincolo paesaggistico, numerose
sono le edificazioni private e i complessi
edilizi che si spingono fino al confine con
il comprensorio demaniale. Fra essi i più
rilevanti per interferenza visiva sono un
vivaio commerciale insediato su un terreno confinante con il parco e il Centro
di Fisica, la cui realizzazione ha apportato profonde modificazioni morfologiche
alla valle retrostante le scuderie, incisa
da un corso d’acqua che scende da Prosecco e deviato dagli spostamenti di terra
e dalle opere fondazionali (Fig. 2).
Il porticciolo di Grignano è stato realizzato nel dopoguerra e costituisce lo
scenario di uno dei due ingressi principali del parco. Purtroppo i turisti devono
passare fra automobili parcheggiate fino
a ridosso del cancello d’ingresso in un
ambiente contornato da un’edificazione
di bassa qualità legato al boom degli anni
‘60 del secolo passato.
Miramare, realizzato dalla visione
privata di un componente di rango della famiglia imperiale, nel tempo è stato
utilizzato come un sito di interesse pubblico ove si insediarono i rappresentanti
del potere che erano alla ricerca di un
posto dove rappresentare la propria autorità. Amedeo di Savoia Duca D’Aosta vi
risiedette con la famiglia negli anni dal
1932 al 1937 apportando numerose trasformazioni all’interno del castello, ove
fece creare i suoi appartamenti che sono
ancora oggi visibili con gli arredi d’epoca e, in quanto consolidati nella loro
presenza storica, inseriti nel percorso di
visita del museo. Tali ambienti sono stati
sottoposti ad una profonda trasformazione, progettati dall’architetto della Regia
Soprintendenza Alberto Riccoboni che
realizzo anche gli arredi e rivestimenti
nello stile allora in voga. In tale periodo
nel castello furono realizzati anche due
ascensori, dei quali uno tuttora in uso,
abilmente inseriti negli spessori murari.
Le modifiche effettuate dal Duca
D’Aosta all’esterno risultano oggi meno
visibili perché cancellate o “assorbite”
nella nuova immagine del parco. Fino
a Miramare si insediarono i rappresentanti
del potere che erano alla ricerca di un posto
dove rappresentare la propria autorità
agli anni 90 del Novecento sul retro del
bar vi era un parcheggio/deposito sul
luogo che il Duca aveva adibito a campo
da tennis. Alla fine del secolo scorso tale
il sito è stato riprogettato dall’architetto Ruggero De Calò e da chi scrive per
realizzarvi i nuovi servizi igienici e una
nuova sistemazione a verde che conclude il parterre.
Un’altra trasformazione profonda del
periodo del Duca D’Aosta ha riguardato
il piazzale antistante il castello, che era
originariamente contornato da profonde aiuole verdi documentate dalle foto
e dalle mappe storiche (v. figg. 4 e 5);
la trasformazione in piazzale d’onore a
spese del verde, forse anche per consentire un agevole transito alle automobili.
Il progresso del “secolo veloce” iniziava
a far prevalere i propri valori.
Anche la seconda guerra mondiale ha
lasciato importanti vestigia come il bunker in cemento a fianco del castelletto,
demolito negli anni Novanta, e le cannoniere adiacenti il parcheggio distribuite
da una galleria ipogea con due ingressi
contrapposti, uno dietro l’attuale portineria e l’altro a fianco dell’edificio delle
scuderie (v. fig. 1).
Alla fine del 1945 e per tutta la durata
del Governo Militare Alleato le truppe
neozelandesi e successivamente quelle inglesi insediate a Miramare, fuori
da ogni controllo ed in modo del tutto
autoreferenziale, hanno effettuato modifiche importanti persino alla sala del
trono che era stata divisa in altezza per
ricavarvi sale da ballo ed appartamenti.
Tutte le decorazioni hanno dovuto essere ricostruite dalla Soprintendenza negli
anni Ottanta del Novecento sulla base
della documentazione storica agli atti.
Il periodo recente non fu meno problematico per le trasformazioni nel parco, alcune avvenute sotto gli occhi della
Soprintendenza che non ebbe forza sufficiente per resistere alle pressioni esterne
e alle ingerenze di stampo politico che
favorirono l’insediamento di soggetti
estranei che non avvantaggiarono in alcun modo il parco e anzi provocarono
gravi problemi agli immobili storici.
Primo fra tutti il “Giardino delle farfalle” a cui venne affidata la serra storica
ottocentesca. Vi furono insediate attività
zoofile con animali esotici, assolutamente incompatibili con lo stupendo edificio
storico che è stato pesantemente danneggiato dall’inserimento di attrezzature per
la climatizzazione. Il titolare dell’iniziativa aveva anche installato, sotto gli alberi, un impianto di produzione del ca-
BENI CULTURALI
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Mappa storica 1862
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BENI CULTURALI
sommario
Mappa riportante l’originaria
configurazione a verde del piazzale
Foto storica testimoniante la
configurazione a verde del piazzale
caratterizzata da palme e specie
perenni in aiuole di estensione più
ampia di quelle odierne.
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sarà necessario un impegnativo lavoro
di restauro quasi archeologico, per eliminare
il degrado e ricostruire le parti danneggiate
lore alimentato da un bombolone a gas
sprovvisto di ogni autorizzazione e senza
i necessari requisiti di sicurezze. Attorno
alle serre era nata una vera e propria baraccopoli con annessa discarica di materiali edili (figg. 6 e 7). Erano state modificate irreversibilmente le finestre laterali
per ricavarvi le uscite di sicurezza e le
murature interne ed esterne per ammorsarvi strutture espositive e bestiari. Vedremo che sarà necessario un impegnativo lavoro di restauro quasi archeologico,
per eliminare il degrado e ricostruire,
sulla base di un’attenta analisi, le parti
danneggiate.
Il castelletto è il
più importante monumento storico del parco
dopo il castello perché
Massimiliano e Carlotta vi risiedettero in attesa che questo venisse
completato e perché
ospita al primo piano
una decorazione di rara
bellezza. Nel Novecento era stato adibito a
museo ed aveva ospita-
to la galleria d’arte moderna di proprietà
dello Stato, oggi non è più esposta per
mancanza di spazi. Nel 1996 il castelletto venne concesso in uso al WWF,
quale Ente gestore della Riserva naturale marina, per diciannove anni. In luogo
del versamento del canone Il Ministero
dell’Ambiente finanziò i lavori di sistemazione dell’immobile per la realizzazione di aule didattiche sul tema dei fondali marini al pianoterra e deli uffici al
primo piano. L’attuale sistemazione non
valorizza adeguatamente gli ambienti
dell’importante monumento perché ha
cancellato la spazialità della dimora storica che non è più fruibile dal pubblico.
I temi dell’ambiente marino potrebbero
trovare adeguata e comoda collocazione
in più razionali edifici all’esterno del parco e nel castelletto potrebbero ritornare
le opere d’arte della collezione Mentasti
e della Galleria Nazionale d’Arte Antica
di proprietà dello Stato aumentando l’offerta culturale del parco.
Stato di degrado delle Serre storiche
“L’ISTITUZIONE INVENTATA”
DI FRANCO ROTELLI di Piero Del Giudice
L’istituzione inventata è il voluminoso
libro-oggetto che Franco Rotelli consegna
in pubblico sul processo di riforma radicale
degli insediamenti psichiatrici a Trieste. Lo
fa datando dall’incarico assegnato nel 1971
dalla coraggiosa amministrazione provinciale di Michele Zanetti a Franco Basaglia per
la direzione dell’Opp (Ospedale psichiatrico
provinciale, il manicomio) di Trieste. Nome
e cosa scomparsi dal linguaggio comune,
dalla nomenclatura istituzionale (contestuale
l’immissione sul mercato degli enormi spazi già reclusonari), dalla Storia. “Un giorno,
non sapremo più esattamente che cosa ha
potuto essere la follia” (Michel Foucault).
Inizia allora, a Trieste, la cosiddetta ‘rivoluzione basagliana’ per un’istituzione sanitaria che abbia al centro la cura della persona. È
storia di liberazioni di individui e comunità,
di arricchimenti e rivelazioni. Comincia più
di quarant’anni fa: dietro le mura, dentro i reparti cintati del manicomio ci sono, a Trieste,
1200 internati. Persone con malesseri temporanei, persone nate con lesioni, alcoolisti, anziani senza famiglia, minori senza famiglia,
prostitute, nomadi, vagabondi, marginali,
inquieti ribelli sociali, gente con una propria
parabola ed esperienza di vita e gente che la
vita non l’ha mai vista, cresciuta e vissuta
dietro le grate, ciurma della nave dei folli - le
loro grida si sentono fuori le mura -, testimoni
della segregazione e lontananza.
Tra discepoli, allievi e sodali, Basaglia
indica - alla vigilia della morte - nel 1980,
come suo successore a Trieste Franco Rotelli. È questo giovane psichiatra - già prima
al manicomio di Colorno (Opp di Parma),
poi a Castiglione delle Stiviere (manicomio
giudiziario) - il più convinto della necessità
di una radicale riforma, dopo il fondatore.
Sarà Rotelli il continuatore e l’inventore
delle successive e anche ansiose cadenze
della riforma sanitaria complessiva nella città giuliana e nel territorio circostante. Sarà
lui, sino alla riforma territoriale successiva,
il coordinatore dei servizi di salute mentale.
Dagli interni dei reparti si è passati intanto,
in dieci anni, ai Centri di Salute Mentale territoriali (nel libro la ‘scoperta del territorio’,
testo del primario Mario Reali), il malato è
fuori, non più ‘cosa’ reclusa, ma fruitore di
servizi. Dal nulla di esistenza al lavoro in
cooperative sociali, dalla tortura voltaica
dell’elettroshock, dalle gabbie, dai letti di
contenzioni, dalle botte, dai getti d’acqua
gelida con gli idranti, dall’interno dei reparti, a domiciliazioni normali, ad appartamenti
nel tessuto urbano, all’agorà: “all’effettiva
possibilità di un suo potere nella vita della
città […] che possa costituire il terreno di
crescita dei diritti, di arricchimento di risorse per l’intera comunità” (F. Basaglia).
Rotelli costruisce questo Almanacco con
un sapiente bricolage: testi e disamine proprie e altrui, cadenze di riflessioni sulla follia,
atti amministrativi e legislativi del processo
riformatore, irruenze di organi d’informazione che eccitano la vulgata sulla follia e molte
immagini: fotografie del passato di reclusione, del presente di liberazione, degli oggetti
prodotti dal lavoro creativo e febbrile messo
in campo, immagini della rivolta e delle nuove relazioni e comunicazioni. Il libro si apre
con due protagonisti della fascinosa, tragica, antica, saga della follia. Antonin Artaud
(1896-1948) - commediografo, scrittore, attore di teatro francese, nota la sua importanza
nella storia della letteratura e noti i ricoveri
in manicomio nella sua biografia - e Augusto
Tamburini (1848-1919) una delle figure dominanti i luoghi della psichiatria, prima della
riforma. Scrive Artaud ai suoi curanti: “Ci leviamo contro il diritto, attribuito a uomini di
STORIA
sommario
Franco Basaglia, con i ‘matti’
pronti per il volo, all’areoporto
di Ronchi nel 1976
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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ARCHITETTURA
sommario
Franco Rotelli (a cura di)
L’Istituzione inventata
Almanacco. Trieste 1971-2010
Alphabeta Verlag, Merano, 2015
pag. 320, € 29)
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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Trieste conosce ancora, ne ha memoria,
la vicenda della liberazione dal manicomio,
nonostante le mutazioni della città
vedute più o meno ristrette,
di sanzionare mediante l’incarcerazione a vita le loro
ricerche nel campo dello
spirito […] gli ospedali per
alienati, lungi dall’essere
dei luoghi di cura, sono prigioni spaventose dove i detenuti forniscono una mano
d’opera gratuita e sottomessa, dove le sevizie sono
regola”. Scrive Tamburini:
“I nichlisti di Russia, i Mormoni e i Metodisti d’America, gli incendiari
di Normandia del 1830 ed or ora quelli della
cosiddetta Comune Parigina che come dimostra Lombroso sulle notizie fornite da Laborde può in gran parte ridursi ad una piromania (mania incendiaria epidemica) […] tutti
questi esseri capacissimi di destare tali epidemiche alienazioni e che non sono che malati
o sempre pronti ad ammalare costituiscono
oggi una generazione di agitati sociali che il
Lombroso reclama si affidino al manicomio
criminale. V’ha qui una lesione al diritto, alla
giustizia? No certamente: è una questione di
profilassi, d’igiene sociale [contro] un focolaio attivissimo di infezione sociale”.
Di fronte allo scontro di classe della seconda metà dell’Ottocento la scienza si allinea e indica il luogo di reclusione degli insorgenti, dei riotings, degli ‘agitati sociali’.
Il nazismo, senza una evidente insorgenza
della scienza, li eliminerà direttamente. Libro di conflitto, libro aperto, non specialistico, questo di Rotelli.
Trieste conosce ancora, ne ha memoria
(molti protagonisti sono vivi), la vicenda della liberazione dal manicomio, nonostante le
mutazioni della città. Il problema non è allora
la storicizzazione, ma l’attualità di alcuni cardini di quella riforma, cardini su cui si regge il
pensiero riformatore che continua ad alimentare il lavoro nell’oggi di Rotelli (consigliere
regionale, presidente della Commissione sanità e patrocinatore della recente riforma regionale). Se è possibile una sintesi essi sono:
a) la ‘relazione’, b) il rovesciamento del concetto di ‘inutilità’ e di ‘scarto’, c) la ‘internità’
come presupposto della conoscenza.
In esergo al libro l’Autore installa ed elen-
ca 500 nomi e cognomi in ordine alfabetico,
a significare la moltitudine di protagonisti e
testimoni del processo di modificazione del
reale avvenuto. Solo con il lavoro collettivo
è possibile l’opera. Così l’autore denuncia
le solitudini autoriali, dirigenziali e specialistiche. I temi della ‘inutilità’ e dello ‘scarto’
sono centrali. Trapela negli scritti di Rotelli
la lode di ciò che questo assetto sociale dichiara comunemente inutile, cioè non produttivo. Lode per ciò che è fuori, fuori rimane e
contrasta le tabelle di produttività, di pil, di
spread, di economicismo ermetico quale valore della persona associata. Si tratta di una
società fondata sull’astrazione dalla realtà e
sulla non-conoscenza. Tale astrazione è determinata da ed è necessaria all’accumulazione del profitto e inseguimento del profitto. Il
folle è una persona inutile e perciò reclusa,
il folle è individuo con tempi propri, finalità
propria, propria immaginazione e creatività.
Rimettere il folle, l’inutile al centro del discorso è l’invenzione di questo Autore. Analogo il tema dello ‘scarto’ (“umanità all’ultimo stadio” di Tadeusz Kantor, autore di teatro
che i basagliani introducono a Trieste alla fine
degli anni Ottanta; e noto passo evangelico
per cui “la pietra che i muratori hanno scartato, quella è la pietra angolare”). È l’umanità
scartata (lithos akrogoniaios) che va recuperata e rivalorizzata, questa sarà la ricchezza e
la novità di un assetto sociale inedito.
Poi l’ansia dell’‘interno’. Interno dei
reparti più remoti del manicomio (e della
fabbrica) da cui la psichiatria prima della
riforma si tiene ben lontana delegando al
bastone degli infermieri e dei capireparto la
normalizzazione.
Concetto questo, dell’interno, che appartiene a tutto il movimento del ’68, in cui anche si inscrive questa storia - nei manicomi,
nelle fabbriche e nei quartieri e in ciò che rimane delle campagne - per uno scoperchiamento della realtà e per un reale processo di
conoscenza.
Così, nelle sue vocazioni portanti, il
movimento di liberazione dal manicomio e
l’invenzione di soccorsi e ausili temporanei
e territoriali per l’individuo in precario equilibrio, si caratterizza come eretico e in aperto conflitto con la società com’è.
PROGETTO PROMETEO
ARTE
sommario
di Benedetta Moro
Si tratta quasi di un lungo racconto,
che si riallaccia al Prometeo. Poema
del fuoco, s’intreccia con Alice nel Paese delle Meraviglie, attraversando l’est
Europa, Londra, Venezia e Trieste, porto
di partenza e d’arrivo. Quello che l’Associazione culturale Woland, in collaborazione con il London Collectors Club
(LCC) e la Lux Art Gallery, ha voluto
creare è un progetto che ormai è divenuto una storia da narrare. Tutto parte
dalla musica del compositore e pianista
russo Alexander Skrjabin, ispiratore del
“Prometheus Project”, un programma di
eventi nato da un’idea del pianista Claudio Crismani, presidente di Woland, e
dal direttore scientifico Edward LucieSmith, uno dei maggiori storici d’arte
del mondo, con il coordinamento organizzativo di Fabio Fonda.
Intorno all’illustre compositore Skrjabin e alla sua quinta e ultima imponente
opera sinfonica del 1910, Prometeo. Il
Poema del fuoco, si sono sviluppati una
serie di appuntamenti, iniziati la scorsa
primavera, tra conferenze e concerti. Per
decollare poi quest’estate e oltre, da luglio a ottobre, con alcuni incontri d’arte,
in cui sono stati presentati, nei tre diversi
spazi triestini di Portopiccolo, del Magazzino delle Idee e della Lux Art Gallery, alcuni artisti internazionali di origine
russa e altri nazionali.
Il debutto ha avuto luogo alla Lux
Art Gallery, con un’anteprima - a cura di
Dimitri Ozerkov, direttore di Hermitage
20/21 Progetto per l’Arte Contemporanea di S. Pietroburgo, di Sergei Reviakin, presidente del LCC, e di Giorgio
Parovel, direttore Lux Art Gallery - degli
otto artisti, protagonisti dei molteplici successivi eventi: Raffaella Busdon,
Genia Chef, David Dalla Venezia, Fabio
Fonda, Federico Fumolo, Joe Machine, Franco Manià, Delphi Morpurgo e
Consuelo Rodriguez. Caratterizzati tutti
da uno stile proprio e inconfondibile, il
primo tra questi a esporre a Portopiccolo è stato il kazako Genia Chef. I suoi
quadri, provenienti direttamente dalla
Biennale di Venezia, sono stati appesi
alle pareti dello spazio Woland, situato
all’interno del nuovo borgo della Baia
di Sistiana. Frutto di un nuovo progetto
realizzato assieme allo scrittore ruteno
Vladimir Sorokin, i dipinti di Chef sono
stati oggetto di un esperimento riguardante uno scambio di ruoli: da una parte
Sorokin, che diventa un visual artist, e
dall’altra Chef, che s’immedesima nei
panni dell’amico storyteller. Ne sono
venute fuori delle piccole tele grafiche
componibili, che hanno dato vita a un
diario personale, redatto nelle tre lingue
principali di Chef (qui proposte con un
linguaggio antico), ovvero il russo, idioma della sua terra d’origine, il tedesco,
che utilizza abitualmente a Berlino, dove
vive ormai dalla metà degli anni ’80, e
l’inglese, mezzo internazionale per un
artista altrettanto cosmopolita. Chef,
classe ’54, ha infatti trascorso parte della
sua infanzia in Kazakistan, all’epoca satellite sovietico, dove la sua famiglia era
stata esiliata. Dopo aver studiato all’Istituto poligrafico di Mosca, nel 1985 si
trasferisce in Germania.
“Telluria” è il tema ricorrente delle
tele esposte ovvero il titolo dell’ultima
fatica di Sorokin e, mediante una serie
J. Machine
Prometheus attacked by eagle
cm. 111x142
acrilico su tela, 2015
PROGETTO PROMETEO
Joe Machine, Oleg Kudryashof
e altri tra Sistiana e Trieste
Portopiccolo:
fino al 20 settembre
mercoledì-sabato 19-22
Lux Art Gallery:
fino al 20 settembre
ogni giorno 17-20, chiuso
mercoledì e domenica.
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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ARTE
sommario
J. Machine
Sailor Poker Game
cm. 70x90
acrilico su tela, 2012
Il Ponte rosso
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Numero 4 - settembre 2015
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Creature strane vivono questa repubblica
subnormale, che ricorda un po’ quella
vissuta dal Baudolino di Eco
di vignette, rappresenta una società utopica dal gusto futuristico-medioevale.
Creature strane vivono questa repubblica subnormale, che ricorda un po’ quella
vissuta dal Baudolino di Eco.
Una tecnica mista molto varia rende
questo mondo fantastico una concentrazione di olio, inchiostro, guache bianca
e ancora collage, tra cui troviamo ritagli
pubblicitari, ma anche immagini di personaggi che hanno segnato il tempo, provenienti dall’ambito culturale e politico.
Si passa dal neurologo e psichiatra tedesco Richard Von Krafft-Ebing del XX
secolo - celebre per lo scritto Psicopatia
del sesso, uno dei primi testi che tratta di
tale argomento - al richiamo di Tolstoj,
a Rabelais, ai Led Zeppelin, fino ad Abdullah, re dell’Arabia Saudita.
Essendo l’obiettivo di Woland promuovere il pluralismo culturale identitario della città attraverso iniziative di
ampio respiro internazionale, ecco che
si aggiunge nel panorama triestino estivo
un altro artista, poeta e scrittore, che rispecchia questo obiettivo, Joe Machine.
Dopo una prima esposizione a Portopiccolo, ora espone fino al 20 settembre alla
Lux Art Gallery.
Quattro i filoni principali della sua
pittura ad acrilico presenti in mostra,
che forniscono all’autore una sorta di
catarsi del suo passato: i marinai, la natura, alcuni stralci da Alice in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie)
e Prometeo. Nato nel Kent, precisamente
nella cittadina di mare di Chatan, ma di
origini dell’est, Joseph Stokes, questo il
suo vero nome, dipinge da autodidatta.
Il porto, gli anni ’70 della sua infanzia,
intrisi di alcool, violenza e droga, hanno infatti impressionato il suo animo e
lo hanno pure portato sulla cattiva strada. Fino a quando non ha incontrato dei
nuovi amici con cui ha fondato il gruppo
d’arte Stuckism, ormai diffuso in tutto il
mondo. Crudi e autobiografici, i quadri
di Joe Machine riprendono tutto ciò che
si deve sapere di lui. Come per esempio
i marinai, ritratti mezzi ubriachi, alcuni a
occhi chiusi, alcuni con donzella, alcuni
in atteggiamenti omosessuali, Machine li ha incontrati più e più volte nella
sua cittadina di nascita, nelle bettole e in
particolare a casa di un suo compagno di
scuola, dove uno di questi gli ha insegnato a fare un coltello da portarsi in classe.
Da qui i marinai restano un tabù nella
mente di Joe.
Il “Prometheus project” ha portato a
Trieste anche un altro grande artista, il
russo Oleg Kudryashof, la cui mostra
“Genesi del sogno” ha chiuso in bellezza
al Magazzino delle Idee il 12 settembre
con il “Prometheus day”, consistente in
un incontro dedicato all’arte, a Skrjabin
e a Boris Pasternak. La terza sezione del
progetto comprende la pittura dell’eclettico incisore Kudryashof, oggi ottantenne,
con un focus del fotografo Fumolo, che
ha realizzato un “Prometheus backstage” in bianco e nero, riprendendo tutti
i protagonisti del programma. Accanto
compaiono l’espressionismo del giovane
Morpurgo e i lavori di Franco Vecchiet,
che si sono concentrati in un omaggio a
Prometeo. E ancora i libri di Pasternak,
poiché quest’esposizione si focalizza anche sullo scrittore russo, in questo caso
fotografato da Moisei Nappelbaum e
raccontato da Ilja Rudiak, con materiale
la mostra racchiude dunque un insieme
di colori, parole, immagini che riportano
al fil-rouge del pensiero di Skrjabin
ARTE
sommario
biblio-fotografico dell’archivio Crismani sul rapporto tra l’autore e Skrjabin ed
edizioni storiche.
Realizzata in collaborazione con la
Provincia di Trieste, la mostra racchiude
dunque un insieme di colori, parole, immagini che riportano al fil-rouge del pensiero di Skrjabin, concentrato sull’idea
della sinestesia. A sintetizzare quest’ultimo concetto è presente il quadro dell’artista digitale Fonda, che ha rielaborato a
computer un ritratto fotografico di Skrjabin, di proprietà di Crismani, innestandovi una tastiera di pianoforte colorata:
l’ultimo progetto del lungimirante pianista russo era proprio quello di collegare a
ciascun suono un particolare colore.
Fino al 20 settembre inoltre a Portopiccolo espongono tre immaginari artistici diversi, accomunati dalla nostra
regione, da colori intensi e da un segno
deciso: sono i dipinti di Raffaella Busdon, Franco Manià e Consuelo Rodriguez. La prima propone dei particolari
ritratti che, grazie a una singolare tecnica ad olio su policarbonato, esprimono
diversi aspetti della vita e della mente
dell’uomo, intervenendo anche con “innesti” di immagini che, attraverso intersezioni di rose, tracce leonardesche e
della cultura musulmana, completano le
figure da lei disegnate. Il secondo, con
i suoi saliscendi labirintici, le figure e
gli oggetti di gusto onirico e surrealista, trasferisce nell’animo del fruitore il
proprio inconscio, configurandosi come
un artista dalla pittura ricca di risvolti
lirici e originalmente avvezzo a comunicare nel quotidiano con gli uccellini.
Chiude la triade la Rodriguez che, con
un taglio figurativo, femminile e sensuale, mediante caldi timbri cromatici,
miscelati a preziosi pigmenti vulcanici,
“incide” la tela con un segno scabro,
quasi una memoria della pura, cruda essenzialità dei disegni rupestri.
O. Kudryashov
cm. 150x110
1995
O. Kudryashov
cm. 142x107
1995
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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ARCHITETTURA
sommario
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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Profilo di una città: IL PALAZZO
DELLA LUOGOTENENZA di Maurizio Lorber
Irredentismo, tensioni ideologiche e
conflittualità etniche furono il tratto caratterizzante di Trieste nella tragica storia del
Novecento e sono visibilmente rintracciabili
nella facies simbolica degli edifici. Infatti la
storia delle singole architetture non si esaurisce nell’analisi funzionale o stilistica poiché gli edifici e la struttura urbanistica serbano aspetti simbolici. Generalmente sono
i palazzi del potere l’esempio più evidente
ma le stesse abitazioni progettate da Ruggero Berlam - l’architetto più importante della
prima metà del Novecento a Trieste - furono
accolte dai costruttori triestini quali prototipi per moltissimi edifici poiché evocano
palazzi veneziani o fiorentini, e quindi simbolicamente si richiamano alla tradizione
architettonica italiana. Si presta sicuramente
a una simile lettura il Palast der Königlich
und Kaiserlich Statthalterei - ossia il Palazzo della Luogotenenza, divenuto dal 1923
sede della Prefettura - ultimo, in ordine
di tempo, a essere eretto sulla piazza oggi
denominata dell’Unità d’Italia. La sua imponenza e la sontuosità sono comprensibili
soltanto alla luce dell’importanza rivestita
dalla luogotenenza imperiale e dalle relazio-
ni che s’instauravano fra il potere statale e
le amministrazioni locali. Città con diritti di
rappresentanza politica del Comune pari a
quelli esercitati dalle province della corona,
Trieste era sottoposta a un luogotenente imperiale quale massima autorità amministrativa. La figura, istituita con la costituzione
austriaca del 1849, era dipendente dai ministeri viennesi e poneva sotto la sua giurisdizione tutte le amministrazioni locali, gli
affari militari, le opere pubbliche, l’agricoltura e le foreste, le ferrovie, la salvaguardia
delle antichità e il commercio, l’industria, la
sanità e la cultura, l’istruzione e la stampa.
Esercitava, in sostanza, un ruolo cardine
nelle relazioni tra le autorità amministrative
locali e i ministeri centrali.
La luogotenenza di Trieste assunse
un’importanza strategica estremamente rilevante poiché a essa riferivano, oltre alla
stessa città, capoluogo del litorale austriaco che si estendeva dalle paludi del basso Friuli
fino al golfo del Carnaro – anche le province
autonome di Gorizia e Gradisca e il margraviato d’Istria i quali, come Trieste, godevano
di propri organi deliberanti e potestà rappresentativa nella Camera dell’Impero.
Progettato ed eretto dall’architetto
viennese Emil Artmannal, dal 1923
è diventato sede della Prefettura
Dal 1850 Trieste si configurò quale Comune e Provincia della Corona Imperiale
e, nello statuto del medesimo anno, con
atto di fiducia e riconoscimento istituzionale, furono assegnate all’organo rappresentativo (il consiglio comunale retto da
un podestà) alcune competenze di norma
controllate dallo Stato. Tuttavia, negli anni
successivi, la crescente ostilità verso la corona asburgica determinò la messa in atto
di azioni quali la revoca delle autonomie
locali e, nel 1906, la delega al consiglio
della Luogotenenza di numerose funzioni
proprie del Comune.
Da questi brevi cenni è facile dedurre
come l’edificazione del nuovo Palast der
Königlich und Kaiserlich Statthalterei,
che sostituisce il precedente Palazzo Governiale del 1764, sia motivata dalla volontà di rendere visibile a Trieste il potere
politico e amministrativo dell’impero e di
permetterne una chiara identificazione. Si
tratta in sostanza di una risposta in pietra
e cemento alle spinte secessioniste interne
all’Impero Austroungarico e, nello specifico triestino, all’irredentismo di chiara
matrice italiana.
Progettato ed eretto dall’architetto viennese Emil Artmann (1871-1939) che ricoprì,
dal 1897 al 1905, il ruolo di Oberingenieur
der K. K. im Hochbau Ministeriums des Inneren, il palazzo fu edificato fra il 1901 e
il 1905. Arretrato rispetto al precedente di
una decina di metri, poggia su di una piattaforma spessa 1 metro e 60 centimetri sostenuta da una fitta rete di pali in cemento
al fine di conferire stabilità alla cedevole
superficie prossima al mare, così da evitare
quei problemi di statica che dovette invece
affrontare Heinrich von Ferstel nell’erigere
il palazzo del Lloyd (1880-1883) e che vennero risolti con un cambiamento progettuale in corso d’opera.
Quello della Luogotenenza è un edificio che, bizzarramente, accosta ai motivi
rinascimentali dei lievi accenni decorativi riferibili alla Wiener Secession; non
è privo di elementi curiosi quali i puttini
allegorici posti nella parte superiore della
loggia e prevede un notevole rivestimento a mosaico (realizzato a Innsbruck su
disegno di Giuseppe Straka). Gli originali stemmi
asburgici presenti al livello
inferiore fra le teste allegoriche sono stati sostituiti da
stemmi dei Savoia - croce
bianca su campo rosso mentre sopravvivono le
aquile asburgiche sulle facciate laterali. I festoni che,
secondo la tipologia rinascimentale, sono posti a coronamento o a
raccordo delle teste allegoriche rafforzano
la libera interpretazione dei motivi del tardo rinascimento. Per questo uso insolito
dei mosaici in facciata è stata richiamata
la tradizione rinascimentale, sebbene sia
possibile considerarlo un omaggio alla tradizione artistica litoranea posto che alluda
alla riscoperta dei mosaici esterni della
basilica Eufrasiana a Parenzo che vennero
recuperati in quel periodo.
Il fuoco visivo della facciata è la doppia loggia tripartita sovrapposta che, al
piano nobile, è in corrispondenza con la
sontuosa sala da ballo. L’ambiente con
chiare funzioni rappresentative è caratterizzato da una fitta serie di paraste con
capitelli corinzi che, anche in questo caso,
si associano ad elementi geometrici secessionisti.
È interessante ricordare come, originariamente, la loggia del palazzo non si
affacciava sulla aperta vastità della piazza bensì insisteva su di un giardino (eliminato nel 1919), organico alla struttura
architettonica, che si estendeva per tutta la
lunghezza della facciata.
Il professore Decio Gioseffi, già docente di storia dell’arte all’università di Trieste, mise in evidenza che la loggia, seppur
non sovrapposta, rimanda ad un’altra realizzazione di ispirazione rinascimentale:
il palazzo Schwarzenberg di Vienna, opera
di Lukas von Hildebrandt concorrente ed
emulo di Fischer von Erlach. Derivazione
questa non irrilevante se consideriamo che
il palazzo doveva essere, non solo istituzionalmente ma anche nell’immaginario
collettivo, la chiara e inequivocabile presenza della capitale dell’impero a Trieste.
ARCHITETTURA
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Il Ponte rosso
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MUSICA
sommario
QUESTA È PER TE, FRED!
di Giuseppe Vergara
Patti Smith
Il Ponte rosso
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C’è un tenero e sincero legame fra Patti
Smith e il nostro paese iniziato alla fine degli
anni Settanta quando i suoi concerti riempirono gli stadi di Bologna e Firenze. Innamorata
del patrimonio artistico e della cultura italiana, la cantante americana non perde occasione per venire a suonare dalle nostre parti e
visitare città e paesi sedi dei suoi concerti.
Qualcuno la ricorderà ripresa mentre, accarezzando un gatto, intona “Amore che vieni,
amore che vai” di Fabrizio De André nel film
documentario “Dream of life” oppure cantare, a Viareggio in inglese, “Io come persona”
di Giorgio Gaber all’ottava edizione del Festival dedicato al padre del Teatro Canzone.
Ma l’ammirazione che Patti Smith nutre
per l’Italia non si ferma alla musica toccando
anche figure come quella di Pier Paolo Pasolini che con il suo film “Il Vangelo secondo
Matteo” incantò la giovane aspirante poetessa non ancora ventenne. E non è forse un caso
che i primi versi della prima traccia del suo
primo album parlino proprio di Gesù.
“Jesus died for somebody’s sins, but not
mine” (“Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei”) che con gli anni è
diventato un verso tra i più famosi della storia
del rock. Il brano è “Gloria”, cover dei Them
di Van Morrison, con un testo quasi completamente riscritto, l’album è “Horses” e l’anno
era il 1975. Il disco uscì appena un mese dopo
la tragica morte di Pasolini.
E così, a quarant’anni dal suo esordio su
vinile, Patti Smith ha intrapreso, all’inizio
dell’estate, un tour intitolato: “Patti Smith
and her band perform Horses 1975-2015”.
La cantante esegue, nella prima parte del
concerto, tutto il disco Horses accompagnata
da due degli storici membri del Patti Smith
Group, il chitarrista Lenny Kaye e il batterista Jay Lee Daugherty e inoltre dal fedelissimo Tony Shanahan al basso e dal figlio
Jackson alla chitarra.
E visti i legami di questo disco con Pasolini non poteva mancare una data nella nostra
regione, nonostante la recente esibizione al
Teatro Nuovo Giovanni da Udine del dicembre scorso.
Patti Smith, il primo agosto nel pomeriggio, si è recata a Casarsa e ha voluto render
omaggio alla tomba di uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX secolo e poi alla
sera a Codroipo ha trascinato il pubblico in
un concerto (intitolato “Concert for Pasolini”) indimenticabile.
È stata un’esibizione talmente carica di
energia che sembra impossibile che una cantante a sessantotto anni possa dare ancora così
tanto sul palcoscenico. Ma Patti Smith è così,
le sue esibizioni dal vivo non deludono mai e
in questo tour non si sta certo risparmiando. A
Villa Manin ha concluso la sua performance
esortando la gente a riprendersi il proprio futuro e spaccando, ad una ad una, le corde della sua chitarra mentre la band, a tutto volume,
sparava le note dell’inno generazionale degli
Who: My generation.
Ma fin dalla prima canzone, la già citata
Gloria, il pubblico stentava a rimanere seduto
sulle sedie, poi il concerto è proseguito con una
setlist ben rodata nelle date precedenti, nonostante l’assenza del figlio Jackson, sostituito dal
chitarrista Jack Petruzzelli. Quindi sono arrivati
gli omaggi a Pasolini ed è tornata a farsi sentire
la pioggia, che aveva concesso una breve tregua. Così a metà concerto tutto il pubblico era
già in piedi a rendere omaggio a quella che, ormai si era capito, sarebbe stata una performance
da ricordare per parecchio tempo.
Ma anche se questo è stato il concerto
di Horses c’è sempre un’unica canzone a
cui ogni amante di Patti Smith non vuole
rinunciare. La canzone simbolo, in assoluto quella più amata e cantata dal pubblico
La storia di “Because the night”
MUSICA
sommario
e cioè “Because the night”. A Villa Manin,
Patti Smith, prima di cantarla ha ricordato
che è dedicata al marito scomparso, Fred
Sonic Smith, e ogni volta che la canta pensa:
“Questa è per te Fred”.
La storia di “Because the night” è piuttosto particolare e unica perché, com’è noto, è
stata scritta da Bruce Springsteen, ma incisa e
poi portata al successo da Patti Smith.
A New York, alla fine del ’77 ai Record
Plant Studios, Bruce Springsteen era impegnato, già da ottobre, nella registrazione del
suo quarto album; Darkness on the edge of
town. Negli stessi studios stava registrando
anche Patti Smith che era alle prese con il suo
terzo album: Easter.
Il giovane Jimmy Iovine stava curando il
suono dell’album di Springsteen ma era anche, contemporaneamente, il produttore del
disco di Patti Smith e fu proprio lui a far da
ponte affinché Because the night passasse,
praticamente, da un disco all’altro.
Durante le sessioni di registrazione
dell’album di Spingsteen, Because the night
venne alla luce ma il Boss non era completamente soddisfatto del testo che aveva scritto e non aveva ancora deciso le sorti della
canzone.
Jimmi Iovine, che diventerà uno dei più
importati produttori discografici degli anni
’80 fino ad approdare ai giorni nostri alla
Apple Music, vedendo Springsteen che faticava a completare quel brano gli propose di
cederlo alla collega. Springsteen acconsentì e
Iovine consegnò il nastro con il demo a una
perplessa Patti Smith.
Quella sera la cantante americana era a
casa e stava aspettando una telefonata del suo
compagno, Fred Sonic Smith, il chitarrista
degli MC5. Nell’attesa iniziò ad ascoltare
il nastro che le aveva dato Iovine e rimase
stupita dalla bellezza della canzone e si mise
a lavorare al testo. Intanto le ore passavano,
Fred non chiamava e Patti, componendo, trasmise nei versi della canzone tutta l’ansia che
provava in quel momento per la persona amata che non si faceva viva.
Because the night è la storia di un’attesa,
di una donna innamorata e principalmente la
storia d’amore che Patti Smith stava vivendo e
che voleva far conoscere al mondo con tutta la
grinta di cui è capace. Quando Fred la chiamò,
alle 2 di notte, la canzone era ormai finita.
Due anni dopo, all’apice del suo successo, proprio dopo i due concerti di Bologna e
Firenze citati all’inizio, Patti Smith si ritirò
dalle scene, sposò Fred Sonic Smith e si trasferì con lui a Detroit e mise al mondo due
figli.
Fred e Patti restarono legati fino alla morte di lui avvenuta nel 1994 a soli 45 anni.
Questo sarà l’ultimo di una serie di lutti che
colpirono in quegli anni la cantante americana che, nonostante tutto, decise di interrompere il suo esilio volontario, durato ben sedici
anni, per ritornare a suonare dal vivo.
In Italia poi la canzone si legò, negli anni
’90, in maniera indissolubile a delle immagini in bianco nero di un vecchio film dove un
giovane, da una barca, si tuffava in un canale
e sott’acqua vedeva l’immagine della donna
amata, vestita da sposa. Fuori era giorno ma
nel momento in cui il protagonista si gettava in acqua era come se entrasse in una notte
onirica dove poteva rivedere la donna che lo
aveva lasciato. Un connubio perfetto tra musica parole e immagini. Il film era l’Atalante
di Jean Vigo e con la musica di Patti Smith
divenne una delle sigle televisive più famose;
cioè quella della trasmissione Fuori Orario
di Rai Tre che amplificarono, ancora di più, la
notorietà di questa canzone nel nostro paese.
E chissà se durante il concerto di Villa
Manin qualcuno non abbia chiuso gli occhi
ascoltandola e abbia rivisto il volto di quella sposa sorridere oppure abbia pensato alla
voce di Springsteen, padre adottivo di un brano che aveva assolutamente bisogno di esser
accarezzato da una donna per distinguersi dagli altri. Forse qualcun altro avrà pensato a un
telefono che squilla nel silenzio della notte e
a quali brutti scherzi gioca l’amore. Perché
ognuno ha la sua Because the night, come capita a tutte le grandi canzoni, così grandi da
farci credere che sono anche nostre e allora
le leghiamo a un pensiero, a una storia, a uno
sguardo, a un sorriso, a un giorno preciso. Le
leghiamo a noi e le teniamo strette e cantandole a squarciagola, sotto la pioggia a ridosso
del palco, le liberiamo da quella struggente
prigionia e le restituiamo a chi le ha fatte nascere dimostrando tutta la nostra gratitudine.
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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CINEMA
sommario
Il Ponte rosso
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IL GENERALE DELLA ROVERE
TRA FINZIONE E VERITÀ
Alla mostra del cinema di Venezia del
1959 il Leone d’oro fu
assegnato ex-aequo al
film di Mario Monicelli La grande guerra
e a quello di Roberto
Rossellini Il generale
Della Rovere. Tutti si
ricordano,
probabilmente, del capolavoro
di Monicelli, mentre il
film di Rossellini sembra caduto nell’oblio.
Le ragioni, secondo
me, sono due: la prima
è che Il generale Della
Rovere è sempre stato
considerato un’opera
minore di Rossellini, a
confronto con le bandiere del neorealismo
Roma città aperta e
Paisà; la seconda è che
forse non è stato giustamente valutato.
Si è detto che era un film su commissione, un mero esercizio di stile estraneo al
discorso neorealista. Ma a questa critica
potrebbe rispondere lo stesso Rossellini, che una volta disse: ‘Il realismo, per
me, non è che la forma artistica della
verità. Quando la verità è ricostituita, si
raggiunge l’espressione’. Ebbene: Il generale Della Rovere raggiunge la verità,
non più, come nei primi lavori, attraverso la spontaneità e l’aderenza al reale,
ma ricorrendo alla moltiplicazione abissale delle finzioni filmiche.
Il personaggio principale, d’altronde, interpretato da un Vittorio De Sica
in stato di grazia, è già un
campione di falsità: Emanuele Bardone si spaccia
per il colonnello Grimaldi
e, in una Genova occupata
dai nazisti, cerca di ottenere la liberazione dei detenuti politici corrompendo
un ufficiale tedesco con i
soldi dei parenti, che però,
spesso, si tiene per sé,
di Stefano Crisafulli
perdendoli al gioco. Mai De Sica aveva
interpretato un ruolo così abietto e biasimevole, tanto da risultare antipatico:
non solo Bardone è un truffatore che si
approfitta del dolore altrui, ma, quando
viene scoperto e messo alla berlina dal
(vero) colonnello nazista Müller, ha la
faccia tosta di giustificarsi di fronte ai
parenti, dicendo che ‘voleva solo fare
del bene’. Il punto è che Bardone alla
sua recita ci crede e, grazie alle sue notevoli doti attoriali, sembra così convincente che Müller decide di utilizzarlo
come spia. Lo manda al carcere di San
Vittore nei panni del generale badogliano Della Rovere (ucciso dai nazisti) per
scoprire i gangli della resistenza. E in
questa seconda parte del film ci sarà la
grande trasformazione di Bardone, che,
alle prese con la sofferenza reale del carcere, si identifica sempre di più col personaggio che deve rappresentare sino al
sacrificio finale, quando viene fucilato
assieme agli altri partigiani per non aver
rivelato le informazioni richieste. Da notare il gioco abissale di finzioni: De Sica
(attore) impersona Emanuele Bardone
che, a sua volta, prima recita la parte del
buon colonnello Grimaldi e poi quella,
sotto mentite spoglie, del generale Della
Rovere. Quest’ultima sarà un’identificazione totale, che porterà l’ex truffatore e
spia Bardone al riscatto conclusivo. Non
è un caso che Il generale Della Rovere
sia uno dei film preferiti del filosofo sloveno Zizek, che, in un’intervista, aveva
affermato: ‘L’unica autenticità è impersonare in modo autentico un ruolo’.
ODORE DI SALSEDINE
Un romanzo di Giorgio Micheli
Amore e Morte sono gemelli, in apparenza opposti e invece complementari.
Giorgio Micheli in Odore di salsedine
crea una danza conturbante tra Eros e
Thanatos. La protagonista Emma Cressi, che lentamente si spegne, s’incontra
già all’inizio e ricorda la figura di Ecate,
dea lunare trivia, immagine mitologica
con tre volti, per rappresentare la signoria della divinità nel cielo, sulla terra e
nell’aldilà o, in altri termini, signoria
sulle tre fasi del ciclo vitale: crescita, decadenza e morte, in un eterno ritorno.
Emma, triestina, orfana di madre, è
una ragazza utopica, anarchica, alla ricerca di un mondo più giusto e migliore.
Diviene chirurgo di alta professionalità.
Presta servizio in Africa con ‘Medici
senza frontiere’ ed è coinvolta nelle situazioni estreme di guerre atroci, dove
l’odore della morte ti si attacca addosso,
la vista di mutilazioni e agonie e corpi
deturpati non ti lascia più. Con lucidità
la donna sa di voler lenire il dolore altrui
per sfuggire al suo intimo macerarsi, per
evitare o attutire la sua lenta morte psichica dopo la perdita dell’amore grande,
quello, omosessuale, per Paola, corrisposto, taciuto, fuggito, negato, ripreso, vissuto gloriosamente, ucciso, resuscitato.
Accanto a tale legame, nucleo e cuore del libro, vediamo sfilare come in un
filmato gli avvenimenti storici e politici
salienti: dalle stragi di stato a quelle mafiose. Assistiamo all’allunaggio, all’avvicendarsi dei papi sul soglio di Pietro,
all’assassinio di Moro, con uno stato
cinico e/o codardo che lo abbandona.
Viviamo la caduta del Muro, la Alpi e
Hrovatin essi pure vittime sacrificali di
oscure trame e traffici illeciti, in Somalia, Hutu e Tutsi votati all’autodistruzione in un conflitto insensato ma utile ai
grandi profitti internazionali.
Paola lascerà Emma per vivere
un’esistenza semplice e oscura, da cameriera, immersa nella fatica degli umili.
La temperatura delle passioni costituisce l’humus in cui cresce la vicenda.
Le passioni creano autocoscienza, per
far prevalere quella luce interiore imperitura che trionfa su ogni tenebra e
NARRATIVA
sommario
di Graziella Atzori
contingenza. Scrive Micheli: ‘Siamo
una torcia che non si spegne mai, eterna.
Cambiamo più volte il vestito, o meglio
il nostro corpo, per incarnarci sulla terra,
ma l’anima cosciente è sempre la stessa.
È fiamma cosmica’.
La stanza di Ecate-Emma nell’incipit
del racconto, è una camera d’ospedale.
Qui, in compagnia dei robot insensibili ma anche di un infermiere pietoso,
nell’anno 2040, in un futuro meccanizzato e anaffettivo, nel giorno dell’atterraggio umano su Marte, l’anziana ripercorre le tappe della sua esistenza, inserite
nel panorama storico-sociale. Emma ricorda e la sua ‘ricerca del tempo perduto’ di sapore proustiano la conduce alla
comprensione che pacifica. Nelle pieghe
del tempo ritrova quanto veramente le
appartiene, anche il dono lontano della
poesia, i versi che germogliarono dal suo
dolore. Rivive soprattutto un’esperienza
di premorte accadutale decenni prima e
rimossa, per mezzo della quale era passata, durante un coma lungo una settimana seguito a un incidente stradale, attraverso la porta che si apre sull’infinito.
Nella stanza solitaria, in cattività fisica, da morente, Emma riceve l’illuminazione e la certezza del ‘dopo’, della vita
oltre la vita.
Micheli consegna al lettore il senso
elusivo delle cose, ma ammonisce, per
bocca di un medico intuitivo, in un dialogo cruciale con la protagonista: ‘Sta a
lei scoprirlo.’ È un monito a non dimenticare, soprattutto a ritornare nella propria
interiorità. Soltanto lì i valori svelano la
loro consistenza e la materia esteriore tridimensionale svolge il suo ruolo appunto di ‘vestito’ e maschera. Lì nell’anima,
parola usata con dubbio creativo, pudore,
estrema moderazione e cautela dall’autore, nell’anima siamo e saremo, reali figure che l’amore forgia senza soluzione di
continuità, con il contributo ineliminabile
della ‘signora beffarda’ ma sicura artefice
del rinnovamento.
Nella memoria da portare nell’oltre
resta un odore di salsedine: quello dei
capelli di Paola d’estate. Un particolare
divenuto simbolo di totalità.
Giorgio Micheli
Odore di salsedine
Talos Edizioni
Cosenza 2015
pp. 180, Euro 15
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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CINEMA
sommario
ASPETTANDO VENEZIA
di Gianfranco Sodomaco
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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Aspettiamo, quest’anno, con particolare curiosità il Festival di Venezia,
la 72a Mostra d’Arte Cinematografica. Perché?
Perché il suo direttore,
Alberto Barbera, lo ha
annunciato con una particolare sottolineatura: “il
vero riferimento è il mondo reale” (La Repubblica,
28 agosto). Non sembri
una semplice battuta:
siamo andati a vedere il
programma e la stragrande maggioranza dei film
che verranno presentati
hanno a che fare con fatti
realmente avvenuti, personaggi realmente vissuti,
riflessioni sul passato e
sul presente storico. Ci fa
piacere, Barbera ha capito
bene il momento drammatico che stiamo
vivendo e ha deciso che il cinema deve
essere, oggi più che mai, ‘specchio del
mondo’. Basti qualche esempio (entreremo nel merito la prossima volta): Beasts
of no nation di Cary Fukunaga (uno dei
padri delle serie televisive americane), sui
bambini sfruttati nei paesi africani; Rabin
di Amos Gitai, sull’omicidio del premier
‘pacifista’ israeliano;Spotlight di Thomas
McCarthy, sulla pedofilia cattolica americana. Potrebbero bastare questi tre film
ma la lista è ben più lunga (tenendo conto
anche dei 4+3+2 italiani, tra Concorso,
Fuori concorso e ‘Orizzonti’). Bene, andiamo a vedere il buon cinema estivo.
Film che, non a caso, provengono dal
circuito alternativo, dai cinema d’essai,
a conferma che un pubblico minoritario,
non di massa, esiste e, giustamente, esige. Partiamo da I ponti di Sarajevo, una
grande coproduzione europea (FranciaItalia-Svizzera-Bosnia-Bulgaria-Portogallo-Romania), una miscellanea di piccoli documentari di autori vari, tantissimi
(impossibile ricordarli tutti), sul tema di
‘Sarajevo ieri e oggi’, dall’inizio della
Prima Guerra Mondiale alla ennesima
guerra balcanica tra il 1991 e il 1995 (decisamente migliori quelli sulla Sarajevo
odierna, ‘città martire’). Tra i tanti autori
vale la pena ricordare almeno: la svizzera Ursula Meier, che realizza un piccolo
mélo semplice e toccante; il romeno Cristi Puiu che immagina uno spiazzante
dialogo tra due coniugi a letto; il nostro
Vincenzo Marra che racconta il rifiuto di
una donna di tornare, oggi, a Sarajevo;
ancora un italiano, Leonardo Di Costanzo, che porta sullo schermo uno dei più
bei racconti di guerra, La paura, utilizzato anche da Ermanno Olmi per il suo bel
Torneranno i prati. Da ultimo, una presenza celebre: Jean Luc Godard che, ancora una volta, non perde occasione per
parlare, più che di Sarajevo, del cinema e
deii suoi limiti. Impossibile non ricordare
che quest’anno si è celebrato il 20° del
massacro di Srebrenica, altra cittadina
martire, simbolo di una guerra nazionalistica e fratricida che poco ha suturato la
ferita, elaborato il lutto, e dove continuano a sopravvivere sospetti e divisioni.
Il secondo film: Louisiana, di Roberto Minervini, regista italiano che lavora
negli Stati Uniti. Il film, presentato alla
rassegna ‘Un Certain Regard’ del Festival di Cannes 2015, è il classico ‘film
la maggioranza dei film che verranno presentati
hanno a che fare con fatti realmente avvenuti
maledetto’. Minervini ha avuto una lunga frequentazione con molti abitanti di
una cittadina dello stato del profondo
sud degli Stati Uniti ed essi sono diventati i protagonisti del suo ‘docufilm’: da
qui una serie di storie intrecciantesi e ai
limiti dell’’orrendo’. In particolare: la
storia di Mark e Lisa, drogati allo sbando
che, pur amandosi, non riescono a dare
un senso alla loro esistenza; poi, una
specie di gruppo paramilitare, ex militari che hanno fatto tutte le guerre yankee
dell’ultimo cinquantennio (Vietnam, Afghanistan, Iraq) e che trascorrono le loro
giornate maneggiando armi e ‘preparandosi al peggio’. Sì, perché questi uomini
sono convinti che la ‘vecchia America’
è in pericolo e che il nemico per eccellenza è Obama, simbolo del potere democratico in cui essi non si riconoscono
(l’ultima scena riguarda proprio l’incendio della carcassa di un’auto dove hanno
inserito il manichino di Obama). Cinema-verità puro, Minervini ha girato con
una troupe minima e con una tecnologia
leggera proprio per modificare al minimo lo svolgersi realistico dei fatti. Piccolo capolavoro. Allo spettatore il compito
di giudicare questo aspetto, niente affatto
sconosciuto, dell’America.
Il terzo film: Eden, di Mia HansenLove che si lascia ispirare dalla Parigi
anni ‘90 e dalla vita del fratello Sven, in
particolare dalla passione che egli ha, e
condivide con un bel gruppo di amici dj,
per la musica dance. Tutta la prima parte
del film è ambientata (fino allo sfinimento!) nelle varie discoteche, fino a che il
gruppo di amici non decide di ‘internazionalizzarsi’ e spiccare il salto verso
l’America. Qui inevitabilmente, nel fare
i conti con la grande organizzazione,
cominciano a nascere i primi problemi
di tenuta, di mantenimento della passione giovanile, sicché tutta la seconda
parte (per me la più bella) non può che
registrare tutte le crisi individuali e di
coppia, dei maschi musicisti e delle loro
accompagnatrici, fino alla debàcle finale:
il gruppo si scioglierà e Sven cambierà
mestiere. Quello che sembrava un ‘para-
diso’ diventa un Eden perduto. C’è chi
cui il film è piaciuto molto, a me un po’
meno, memore dei due film precedenti di
Mia: Il padre dei miei figli e Un amore di
gioventù.
Il quarto film, il più visto, vincitore
dell’ Orso d’oro alla Berlinale 2015: Taxì
Teheran, del pluripremiato Jafar Panahi.
L’idea di fondo del film nasce dalla necessità esistenziale di Panahi (impedito
a girare, perseguitato fino a essere anche
imprigionato dal regime iraniano): decide di ‘chiudersi’ in un taxì, di girare
clandestinamente per la città quasi senza
essere visto, e di cominciare a interloquire con la gente che incontra, dando vita
a tante piccole, significative storie. Ne
viene fuori un film commovente e piacevole al tempo stesso, per le persone che
riconoscono il regista e si congratulano
con lui, per ciò che gli raccontano e che
fa emergere un paese pieno di potenzialità che non aspetta altro che di potersi
esprimere. Assolutamente da vedere.
CINEMA
sommario
Il Ponte rosso
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BENI CULTURALI
sommario
Il Ponte rosso
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Il MUSEO FERROVIARIO
DI CAMPO MARZIO
Nel cuore di Trieste, a due passi dal mare
della Sacchetta cara a Quarantotti Gambini,
un gruppo di volontari si impegna da anni
a mantenere in vita un museo, raro nel suo
genere, e un’antica stazione ferroviaria, la
più grande della Mitteleuropa in stile liberty. Questi uomini si occupano del Museo
Ferroviario di Trieste Campo Marzio, riconosciuto dalla Regione Autonoma Friuli
Venezia Giulia e dalla Soprintendenza per
i Beni e le Attività Culturali; entrato a far
parte dei Civici Musei di Storia ed Arte nel
2010 grazie ad una convenzione stipulata
tra il Comune di Trieste e la locale sezione
dell’Associazione Dopolavoro Ferroviario.
Erroneamente conosciuta come “stazione vecchia”, la stazione di Campo Marzio
fu costruita alcuni decenni dopo l’attuale
Stazione Centrale (v. Maurizio Lorber,
Profilo di una città /1 in Il Ponte rosso n.
1), e rimase attiva per i treni ordinari fino
al 1959 con tre tratte: la linea a scartamento
ridotto Parenzana, la Transalpina e la Val
Rosandra. Già dopo il primo dopoguerra
perse importanza come terminal viaggiatori, aumentando invece il suo ruolo di scalo
fondamentale per il servizio merci.
Ora, gran parte della costruzione è
chiusa al pubblico ed è composta soltanto
da magazzini, utilizzati perlopiù dal Museo
per stiparvi una notevole quantità di materiale interessante dal punto di vista storico,
ma che purtroppo non si riesce a collocare
negli ambienti aperti al pubblico. Mentre
di Anna Calonico
la zona delle cucine è gestita da un noto
pub, una parte della sala ristorante, le sale
d’aspetto dei viaggiatori (di prima, seconda e terza classe, naturalmente), il corridoio e l’ingresso principale, con i locali adibiti a biglietteria e segreteria, ospitano il
Museo vero e proprio. Per quanto riguarda
gli interni sono stati mantenuti quanto più
possibile quelli originali: stessa pavimentazione, stessa struttura delle sale, persino
stesse stufe in maiolica, ma naturalmente
il tempo è impietoso e i locali mostrano un
certo degrado che il lavoro appassionato
dei volontari non riesce ad arrestare. Soprattutto gli altissimi soffitti, i muri che non
sono ricoperti dai cimeli lasciano vedere la
necessità di un intervento migliorativo, ma
per fortuna l’esposizione, ricca e precisa,
fa dimenticare il tracollo degli ambienti per
portarci in un lungo viaggio.
A partire dall’atrio principale, che, essendo l’ambiente più grande del Museo ospita
saltuariamente anche mostre espositive a
tema. Appena entrati ci si trova già in piena
rappresentazione ferroviaria: alcuni diorami
storici sugli impianti ferroviari di Trieste, e
un grande plastico costruito a scopo didattico per attirare fin da subito l’attenzione dei
ragazzi fanno bella mostra di sé accanto ad
oggetti che risalgono anche all’800, come
la pompa antincendio carrellata a mano,
o come la sala motrice di una delle prime
vetture della trenovia Trieste - Opicina. Nel
corridoio viene poi affrontata, con materiale di vario tipo e abbondanza di immagini e
fotografie, la storia delle ferrovie triestine e
del porto, strettamente connesso per via del
transito delle merci. Si possono vedere le
foto storiche di entrambe le strutture, di vecchie locomotive in transito su vie ora non
più utilizzate, e di Carlo Ghega, l’ingegnere
veneziano/istriano che nell’800 progettò e
diede vita alla linea Trieste - Vienna. Sono
raccolti berretti di servizio, medaglie, targhe: tutto ciò che ci si aspetta da un museo,
tutto ciò che riguarda i treni, ed è stata anche
ricostruita un’antica biglietteria.
Le altre sale sono adibite ognuna a uno
specifico argomento: gli apparati di sicurezza, i rotabili, il trasporto tranviario, la
trazione, gli impianti di telecomunicazione. Si possono vedere un banco di guida
originale, alcuni modellini in scala ridotta,
un organo di comando per scambio, disegni d’epoca di ponti e gallerie, un veicolo
a pedali con cui venivano ispezionate le li-
un museo, raro nel suo genere,
e un’antica stazione ferroviaria, la più grande
della Mitteleuropa in stile liberty
nee, e una vecchia lampada a petrolio della
Società Ferrovie Alta Italia (SFAI), uno dei
pezzi più rari del Museo. Numerosi i diorami: quello che rappresenta il capolinea
tranviario di Barcola negli anni Sessanta;
quello che riproduce la sovrapposizione
dei tracciati di tram e treno, tenendo conto quindi della linea Trieste - Opicina e
della Transalpina; quello della stazione di
Sant’Antonio - Moccò, oggi dismessa.
All’esterno, sui quattro binari, il Museo
continua con l’esposizione di alcuni rotabili:
locomotive e vagoni di varia tipologia, anche molto rari. Esemplari a vapore, risalenti
ai primi anni del XX secolo; mezzi elettrici e diesel del secondo dopoguerra; veicoli
spartineve a vomere, motrici tranviarie e il
mezzo blindato Panzer Draisine, un veicolo
corazzato e motorizzato costruito nel 1944
per l’esercito tedesco. Altri mezzi sono di
origine austriaca o ungherese, pezzi di grande valore. Anche questi convogli, nonostante le attenzioni dei volontari, necessitano di
un’accurata manutenzione che li metta in
salvo dalla distruzione. Un ostacolo in più
è rappresentato dalle intemperie, poiché la
volta che ricopriva i binari non è mai stata
ricostruita dopo la guerra che l’ha distrutta
e, lasciando scoperto un così vasto spazio,
anche molti altri pezzi non possono essere
esposti al pubblico.
Il Museo, che andrebbe preservato anche solo per la sua struttura di notevole
pregio storico, architettonico, artistico, ha
bisogno di un veloce, radicale intervento
che molte volte in passato è stato sollecitato. Si auspica che le istituzioni pubbliche
intervengano al più presto, anche per dare
continuità al progetto di questi volontari del
Dopolavoro Ferroviario che, oltre a curare
l’esposizione e a provvedere a ogni tipo di
manutenzione, garantiscono l’apertura al
pubblico, e fino a qualche anno fa, quando
non c’erano le restrizioni che ora rendono
difficile anche adeguarsi alle normative per
BENI CULTURALI
sommario
la sicurezza, avevano promosso itinerari
storico turistici percorrendo la Transalpina, la linea strutturalmente e storicamente
legata al Museo (inaugurata nel 1906 insieme alla Stazione), unica alternativa per
la città e per il porto in caso di interruzione
della linea principale.
Altro grande progetto portato a termine
dai volontari negli anni passati è un testo
che riporta la storia della ferrovia per poi
scendere in ambito triestino con la storia
delle ferrovie e delle tratte ferroviarie della
città, concludendo con la parte dedicata al
Museo stesso. Notevole per la quantità di
informazioni e soprattutto di fotografie, Il
Museo Ferroviario di Trieste Campo Marzio, a cura di Roberto Carollo e di Leandro
Steffè, edito da Luglio Editore, è arrivato
nel 2010 alla sua seconda edizione.
La stazione ricordi, a notte, piena
d’ultimi addii, di mal frenati pianti,
che la tradotta in partenza affollava?
Una trombetta giù in fondo suonava
l’avanti;
ed il tuo cuore, il tuo cuore agghiacciava.
Non è dato sapere se questa poesia sia
stata ispirata dalla Stazione Campo Marzio
o da qualche altra, ma chissà se Umberto
Saba, innamorato com’era della sua città, avrebbe potuto restare indifferente al
fatto che una simile struttura cadesse abbandonata per l’incuria delle autorità e del
pubblico che, pur essendo presente con un
afflusso di sei-settemila persone all’anno,
è ancora troppo lontano dal conoscere questo interessante Museo.
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POESIA
sommario
Fulvio Muiesan
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TRIESTE LUOGO
DELL’ANIMA
Firmava con il nome di battesimo Fulvio, le poesie che per trent’anni
sono state pubblicate su La Cittadella di
Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, nel
‘Cantuccio delle Muse’, incorniciate da
un disegno dell’artista e vignettista Renzo Kollmann, Fulvio Muiesan, scomparso di recente a quasi 97 anni. Era nato il
6 luglio 1918.
Laureatosi a Padova, dopo aver studiato a Pisa e prima al liceo Petrarca di Trieste, giornalista dal 1940, aveva lavorato
per il Popolo di Trieste, e il Piccolo Sera,
occupandosi della pagina degli Esteri poi,
prigioniero negli Stati Uniti, durante la
seconda guerra mondiale aveva diretto il
settimanale per i prigionieri italiani inquadrati nella Italian Service Units. Rientrato in Italia ha vissuto a Roma curando la
promozione internazionale di importanti
complessi industriali; è stato responsabile delle pubbliche relazioni per i Cantieri Riuniti dell’Adriatico, e caporedattore
della sezione editoriale dell’IRI. La vita lo
ha portato a incontrare personaggi come
papa Pio XII il presidente Dwight D. Eisenhower e Nikita Krusciov.
Un legame con la città profondo, che
la lontananza trasfigurava traducendosi in rime che Bruno Maier, curandone
la raccolta definì: “una guida ideale per
una città sempre dentro di noi: un luogo
dell’anima”. Nelle poesie rivive la città
della memoria: cangiante come le ore del
giorno, ‘Trieste, mama de piera, bona de
cuor ma severa’, Trieste ‘città di parole’,
‘città nascosta’, ‘città notturna’, ‘città dentro’, ‘città nervosa’, ‘Trieste o cara’, ‘città
in vetrina’, ‘città che iera’, ‘città di mare’,
‘città al sole’, ‘città scomparsa’, ‘città
operosa’, ‘la vispa Trieste’. I volti della
gente si confondono con i mascheroni sulle case, i colombi di Piazza Grande, i gatti
con i ‘oci de oro’, i portoni sempre chiusi
in cui si cela la città segreta che il passato
ha cancellato. Come una folata di vento.
Le liriche di Fulvio Muiesan sono state
pubblicate dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Dentro de
di Marina Silvestri
mi Trieste, 1980, a cura di Bruno Maier e
Gianfranco Scialino, e della casa Editrice
Italo Svevo, Trieste a memoria (1971), Ti
come Trieste (1973), Trieste e altre fiabe
(1974), Le triestine (1975), Amor de Trieste (1976) e Noi de Trieste (1977), Le rime
per Trieste (1995). Elvio Guagnini ne ha
parlato in un breve saggio sull’Archeografo Triestino nel 2014, evidenziando come
i versi di Muiesan si collochino “in una
fascia di produzione che qualcuno definirebbe d’occasione: nati da una vocazione
spontanea e da una innata disposizione e
facilità al verseggiamento e sviluppatisi
poi in una sorta di scrittura su commissione, con periodicità e misura preordinata,
[…]La poesia di Muiesan si presenta - pur
nella sua serialità - con un proprio sicuro
decoro e qualità. Mentre, va detto, proprio
i caratteri di questa poesia fanno sì che
essa si concentri intorno a soggetti costanti: i gesti, i fatti, le opinioni della gente di
ogni giorno, gli scorci di quotidianità, le
piccole cose, le impressioni, i ricordi, le
battute di buon senso, i sentimenti semplici e delicati, i quadretti di un paesaggio
che generano variazioni sentimentali, le
piccole felicità quotidiane…”.
Muisan stesso parlando della sua poetica aveva affermato che le sue rime erano
nate per ‘scherzo’ e per ‘nostalgia’: ‘facili’ e ‘domestiche’. Nella semplicità si celava però la profonda cultura dell’autore
e una necessità di esplorare le mille sfumature dei sentimenti umani che lo portò
a poetare in francese, lingua che, per la
sua complessità, gli permise una gamma
espressiva più ampia e confacente al suo
sentire, profondo conoscitore com’era
della grande letteratura e non solo d’oltralpe, da Moliere a Voltaire, Stendhal,
Zola, Maupassant, tutti libri che collezionava. “Un caso quasi unico”, come sottolinea il francesista Guido Gioseffi, che fu
insigne docente all’Università di Trieste
nell’introduzione a Le fil blanc du temps,
presentato a Roma nel 1977 dal Centro
Culturale Francese tra le opere dei poeti
francesi contemporanei. “Il più delle vol-
la scomparsa di Fulvio Muiesan
te – scrive Gioseffi– la lingua di Muiesan
è un francese di tutti i giorni, ellittico e
sincopato come quello che il popolo usa
da sempre, almeno in apparenza, ma che
non ignora l’angoscia metafisica. Poeta
dell’intimità, Muiesan riesce a far uscire
il penetrante delicato profumo delle realtà della vita quotidiana. Egli ci mostra
l’uomo in quanto soffre, ama e - soprattutto - si rassegna e subisce la vita. Come
nella “madeleine” di proustiana memoria
il nostro cucitore del filo del tempo ci
fa sentire l’odore ed il sapore delle cose
impalpabili che sostengono l’edificio immenso del ricordo. È convinto che i soli
autentici paradisi siano i paradisi perduti: l’infanzia e la prima giovinezza: C’est
l’araignée dans nos coeurs/ qui file le
blanc fil du temps/ dont nous sommes tous
prisonniers,/ et chaque jour chaque jour
nous serre/ battant plus faibles nos ailes/
comme les papillons qui meurent.
A Trieste sono dedicate anche le brevi
prose di Città privata (1980), e Giorni e
Avventure di un’infanzia a Trieste (1992).
Libri introvabili. Di Città privata. Appunti
POESIA
sommario
per una certa Trieste, affascina lo sguardo
erudito, “savant”, che con partecipazione
e ironia rivista la grande storia e le vicende umane più piccole, affascinato dal
gioco della vita e dei destini: si incontrano Carlo VI, Maria Teresa, Fouché, Massimiliano e Carlotta, il barone Revoltella
e il conte Stadion, Burton e Stendhal e gli
ospiti de l’Hotel de la Ville, che ancora si
chiamava Principe di Metternich; brevi ritratti, di caratteri e ambienti, di sentimenti
e miserie: una rappresentazione disincantata della commedia umana di cui la città
è impastata. Una guida spirituale per percorrere le strade di sempre respirando ciò
che rimane del tempo di ieri.
Le lire del poeta
Saba iera sentado
nela sua libreria
con un bascheto in testa,
pensando una poesia.
In fondo, due signori
zercava in un scafal
parlando soto vose
come drio un funeral.
Copertina realizzata da
Fulvia Costantinides
-Maestro…gavaria
‘sto Aristotele…ma…
Saba ga alzado i oci.
-Quanti ani te ga?
-Sedici… - A ti i filosofi
me par che no i te va?
-Oh sì, solo che adesso
i ne li ga cambià…
-E i poeti, te piasi?
-Go leto anche le sue,
ma nela antologia
ghe ne xe solo due…
-Se vedi che no merito
de più…Faremo venti,
va ben? – Grazie Maestro…
Cussì, tuti contenti.
Co iero sula porta
me son voltà pian pian:
el iera là, sentado,
e ‘l guardava lontan.
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
35
POESIA
sommario
Copertina realizzata da
Fulvia Costantinides
Muisan stesso parlando della sua poetica
aveva affermato che le sue rime erano nate
per ‘scherzo’ e per ‘nostalgia’
Dalla finestra di Svevo
Ogni tanto, in uficio,
tra una Vostra pregiata a riscontrare
e altre robe che ‘l gaveva in mente
sior Schmitz andava verso la finestra
e ‘l vardava la gente
che passava per piazza dela Borsa.
Dopo de tanti ani
Che no’l xe più, forsi el ne varda ancora,
pensando: dove i va? Trieste passa
soto de lui, come tirada fora
dale pagine magre dei sui libri
nati tra l’Aquedoto e Piazza granda,
in riva al mar de ‘sta bianca cità
dove che noi, che credemo de viver,
semo storie che lui se ga inventà.
Primavera del ‘15
El primo apuntamento
De mio papà e mia mama:
primavera del Quindici,
lu dicioto ela diciassete.
La guera seminava morti.
Lui la spetava in giardin publico,
con un mazeto de violete.
Giri de note
Far poesia xe zogar
con la malinconia;
sveiandose de note,
camina per le grote
dela memoria, a lume de candela,
e in quel poco de ciaro
passar oltra l’amaro
dela vita, e zercar
un viso de putela.
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
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36
Appunti per un ritratto
El viso de Trieste
Xe ‘l viso de una dona
Bel, de quel’età
Che no se sa,
e i oci de putela,
un viso un poco tirado,
de una che ‘l destin
la se lo ga zogado,
con qualche ruga legera,
altre dentro, e ‘l vento
nei cavei. Ale ore
che la gà butà via
no la ghe bada più:
la va per le sue strade,
tra le solite case
e l’mar, coi sui pensieri
che la ga sempre avù;
una dona che passa
e no sa che la ga
el viso che gavarìa
‘sta cità.
UNA CAPITALE PER IL CAFFÈ
ESPOSIZIONI
sommario
di Corrado Premuda
Se si volesse riassumere in un solo
oggetto tutta la storia di Trieste probabilmente non si sbaglierebbe scegliendo
una tazzina di caffè fumante. Nella scura
bevanda sono racchiuse molte delle peculiarità della città giuliana e forse anche
una traccia per definirne la complessa
identità. Il caffè rappresenta l’esotico, il
frutto del commercio, il lungo viaggio
via mare, e allo stesso tempo è il risultato di una lavorazione nostrana, un gusto
molto italiano. Ed è anche il modo di fruire questa bevanda, il bar e la socialità,
la discussione pubblica e la riflessione
privata. Una frase di Fulvio Tomizza ben
descrive il rapporto tra la città e i caffè: “I
triestini, un riuscito amalgama di anima
nordica e di temperamento mediterraneo,
e perciò gente notoriamente gelosa della
propria intimità ma incapace di starsene
a lungo sola, disponevano di tanti Caffè e
tuttora ne possiedono in misura cospicua
rispetto alle altre città italiane.” Non serve sottolineare come anche la letteratura, campo in cui il nome di Trieste brilla
oggi come ieri a livello internazionale,
sia strettamente legata ai locali che servono questa bevanda, luogo privilegiato
per scrittori e intellettuali.
Una mostra multimediale racconta
tutto questo, fino a novembre, al Salone
degli Incanti, ovvero l’ex Pescheria sulle rive di Trieste. “Il gusto di una città.
Trieste capitale del caffè” è un’appendice
dell’Expo di Milano e del Cluster Caffè
voluta e sostenuta da Regione Friuli Venezia Giulia, Comune di Trieste, Camera
di Commercio di Trieste, Trieste Coffee
Cluster e Illycaffè.
Un percorso interattivo fatto di immagini, box multimediali, estratti da
film, una selezione di libri, incontri e
concerti anima la mostra e raccontano
lo sviluppo nel corso dei secoli di questa
bevanda così presente nella nostra vita di
tutti i giorni. Un occhio di particolare attenzione è dedicato alla storia del caffè a
Trieste dove l’imprenditoria e la cultura
hanno entrambe contribuito a radicare la
passione per la tazzina e a dare alla città
un ruolo centrale per la produzione e il
commercio di questo prodotto.
Il pezzo forte dell’esposizione sono
le grandi foto di Sebastiao Salgado realizzate nell’arco di dodici anni per conto
di Illycaffè: sospese in alto, sopra i visitatori, le immagini parlano delle lontane
terre in cui la pianta del caffè è coltivata e delle persone che quotidianamente
lavorano intorno a questo prodotto. Le
fotografie, scattate in dieci paesi diversi
sparsi in tutto il mondo e consegnate allo
spettatore in grandi pannelli in bianco e
nero, mostrano il radicato interesse del
fotografo brasiliano per temi come i diritti dei lavoratori, la povertà, i problemi
nei paesi in via di sviluppo. Vedere i luoghi da cui provengono i chicchi e i volti
di chi li coltiva permette a tutti di compiere il viaggio che porta quell’inconfondibile gusto nelle nostre tazzine.
Ma il percorso non si esaurisce al Salone degli Incanti. Una passeggiata reale
in dodici tappe e un giro virtuale sul sito
www.triestecoffeexhibit.com portano i
visitatori a spasso tra le sedi istituzionali e i locali storici legati al caffè più
significativi di Trieste che esibisce così il
suo patrimonio culturale unico in questo
campo.
Al termine di ogni viaggio, un grande bar al centro della mostra permette di
rifocillarsi e di degustare diverse preparazioni a base di caffè.
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
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MOSTRE IN REGIONE
sommario
UN’INTENSA STAGIONE
ESPOSITIVA
Claudia Raza
Pino Giuffrida
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
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Nonostante una stagione un po’ impegnativa dal punto di vista atmosferico,
con il caldo tropicale che, a successive
ondate, ha messo alla prova residenti e
turisti, è continuata incessante e vivace
l’attività espositiva con significative rassegne sia collettive che personali. Tra
queste ultime, due interessanti proposte,
entrambe ospitate dal Museo Ugo Carà
di Muggia. La prima, in ordine di tempo, è stata nel mese di luglio la mostra
dedicata a Claudia Raza, Verso l’infinito, curata da Marianna Accerboni, nella
quale l’artista cividalese (residente però
sul Carso triestino) ha proposto numerose opere, che offrono la sintesi di alcuni
suoi ambiti creativi. In ciascuno di essi
l’artista riversa con fluente generosità le
prove delle sue versatili abilità, conseguite con un’assidua formazione presso
la Scuola internazionale di grafica di Venezia, frequentata per oltre un decennio
a partire dai primi anni Ottanta, integrata
in seguito dalla partecipazione a diversi
seminari internazionali. Ulteriore perfezionamento l’acquisizione delle tecniche
di fabbricazione della carta, funzionali
alla realizzazione dei suoi libri d’artista.
Nella rassegna muggesana, l’esuberante creatività della Raza ha imposto una
suddivisione delle opere in tre sezioni: Il
respiro dell’anima, la più scopertamente
figurativa, articolata in acrilici di medio/
grandi dimensioni, in cui la natura viene osservata e poi restituita sulla tela
trasfigurata in tonalità decise e sempre
in composizioni di suadente lirismo. Le
altre due sezioni, Libro d’artista e Parole dipinte, raccontano ancora di un altro
aspetto del sentire e dell’attività artistica
dell’Autrice, indagatrice attenta di sé e
della realtà che la circonda attraverso un
ulteriore ambito artistico, quello della
poesia espressa per mezzo della parola
e della scrittura, fin dagli anni novanta,
quando la Raza ha pubblicato le sue prime sillogi di liriche. Nei suoi raffinati libri d’artista l’incontro tra parola scritta e
arte visiva si fa esplicito, in un processo
centripeto di sintesi che trova il suo corrispettivo nell’altra sezione, dove le parole sono travolte da una forza centrifuga che le scompone in lettere, in caratteri
tipografici fornendo base e pretesto per
l’astrazione di alcune tecniche miste di
forte impatto formale ed emotivo.
La medesima sede espositiva muggesana ha ospitato, dal 31 luglio al 23
agosto, un’importante antologica di Pino
Giuffrida, intitolata Il prisma dell’essere, introdotta sul piano critico da Giancarlo Bonomo. Articolata in una trentina
di opere di grande formato, l’esposizione
offre ala visitatore un’immagine completa dell’opera di questo artista, autodidatta
e visionario, che in una esperienza ormai
protratta enl tempo è venuto proponendo
attraverso una impostazione formale decisamente personale una sua concezione
della realtà originale e sofferta, che attinge
sovente alle oscure indicazioni dell’inconscio, rappresentando immagini di un lucido indagare entro dimensioni che appaiono oniriche. Da ciò, comprensibilmente, il
richiamo al prisma, come elemento ottico
che scompone le immagini e rende plurale
il percepito, esplicita metafora di una modalità di porsi in relazione con la realtà che
assume senso soltanto attraverso la scomposizione e la ristrutturazione dell’apparente. Prendono in questo modo forma le
figure, umane e d’altro genere, che assurgono a simboli di qualcosa sempre mutevole e diversa, non più mostri generati dal
sonno della ragione, ma al contrario fantastiche rappresentazioni di una ricerca che
scandaglia le profondità altrimenti inattingibili della condizione umana.
una incessante e vivace attività
espositiva con significative rassegne
sia collettive che personali
Dopo un’importante personale a Gradisca d’Isonzo, Annamaria Ducaton
ne ha bissato il successo di pubblico allestendone un’altra alla Villa de Finetti
di Corona la mostra Dal cuore al silenzio.
L’evento, ospitato nella bella sede espositiva dallo scorso 8 luglio al 9 agosto, fa
parte del progetto “IncontrArti” patrocinato dal Comune di Mariano del Friuli,
e curato dalla critica Eliana Mogorovich.
Un anno dopo la grande mostra “La donna
del mare”, allestita a cura della Provincia
di Trieste al Magazzino delle idee, l’occasione espositiva offerta dall’iniziativa del
comune isontino ha consentito di prendere visione di uno dei più recenti cicli pittorici dell’artista triestina, l’impegnativo
confronto tra segno e colore e il silenzio,
tema inesplorato o assai poco esplorato,
cui la Ducaton è approdata dopo precedenti esperienze di valenza opposta,
quando la sua ispirazione derivava da un
approfondito confrontarsi con la musica
(molti ricorderanno il suo cimentarsi con
la grande musica di Gustav Mahler).
Accanto a queste e a una miriade di
personali, tra le quali sono da segnalare almeno quella in ricordo di Lorenzo
Furlani (1922-2012), autore di Ronchi
dei Legionari, noto soprattutto come
ritrattista, nella sala comunale d’arte
Negrisin a Muggia, una retrospettiva
intitolata “Sguardi nel tempo”; che propone una trentina d’opere tra caricature,
ritratti e paesaggi a matita, a carboncino,
a seppia e a olio, dagli anni 40 fino al
2010, quella dedicata al ricordi di Gian-
ni Brumatti (Trieste 1901-1990), scenografo e pittore, noto soprattutto per i suoi
paesaggi, tenuta alla Galleria Cartesius
Via Carducc, 10 a Trieste, visitabile dal
18 settembre al 6 ottobre.
Sono inoltre da segnalare due importanti collettive, entrambe esibizioni di
due istituzioni di formazione. La prima
in ordine cronologico cui ci riferiamo
è l’atelier di Livio Možina, che ha presentato dal 22 agosto al 4 settembre alla
Galleria Rettori Tribbio 2 di Trieste una
sessantina di opere di suoi allievi, formati proprio nei locali della sala espositiva,
che hanno esibito una tecnica nella maggior parte dei casi ormai acquisita, sotto la
guida bonaria e intransigente del maestro,
che pure riesce a trasmettere con efficacia
gli strumenti di base perché ogni allievo
(attualmente sono sessantatre, variegati in
termini di età anagrafica e di “mestiere”)
possa esercitarsi con consapevole perizia
nella resa di soggetti dal vivo o di fantasia, secondo le proprie personali ispirazioni e sensibilità, essendo tutti fruitori di
un insegnamento che, per quanto rigoroso, consente a ciascuno di esprimersi sotto il segno di una libertà d’interpretazione
che costituisce a ben vedere il merito più
notevole del metodo adoperato.
L’altro istituto formativo che ha in
questo periodo posto in esposizione le
opere degli allievi è la Scuola Libera dell’Acquaforte fondata nel 1960
da Carlo Sbisà, che dopo la scomparsa
dell’illustre maestro è stata diretta da
Mirella Schott Sbisà dal 1964 al 2003,
quindi da. Furio De Denaro, e infine, dal
2008, da Franco Vecchiet, che ha presentato i suoi allievi – in molti casi artisti già
affermati - in via Torrebianca 22, nella
sede espositiva dell’Università Popolare
di Trieste, la mostra “Incisori” secondo
un progetto di Renzo Grigolon. Presenti le opere di venticinque incisori: Livia
Alfiero David, Roberto Battaglia, Fabio
Bertoldi, Fabrizia Rigarella, Stefano
Bratos, Giovanni Brezigar, Egle Ciacchi,
Marco Coslovich, Lucia Crismani, Felicita De Fazio, Davorin Devetak, Paola
Estori, Ciro Gallo, Gabriella Giurovich,
Fulvia Grbac, Ottavio Gruber, Loredana Manzato, Manuela Marussi, Roberto
Mercanti, Maria Pia Mucci, Anna Negrelli, Rossana Ravalico, Magda Starec,
Rossella Titz, Luca Vergerio.
Chie
MOSTRE IN REGIONE
sommario
Annamaria Ducaton
Lorenzo Furlani
Gianni Brumatti
Il Ponte rosso
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MUSICA
sommario
DUE MUSICISTI DA RICORDARE
di Liliana Bamboschek
Franco Russo
Franco Russo
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40
Oltre a quello di Lelio Luttazzi altri
due anniversari nel 2015 riguardano illustri musicisti triestini: il maestro Guido
Cergoli (1912-2000) e il pianista Franco
Russo (1931-2005), tutti fra loro legati da
amicizia e stretta collaborazione. Sembra
già entrata nel mito la figura di Cergoli per
il suo temperamento aristocratico e lo stile profondamente mitteleuropeo della sua
musica; era per antonomasia “il pianista di
Lehàr”, un gentiluomo alla tastiera. Aveva
respirato aria d’operetta fin da giovanissimo
quando ebbe la ventura di suonare nelle stagioni estive al Festival di Abbazia proprio
nell’orchestra diretta da Lehàr in persona
in un ambiente internazionale frequentato
da nomi come Kàlmàn, Stolz, Abraham e
la passione per la piccola lirica rimase viva
in lui tutta la vita. Aria di Mitteleuropa si
respirava anche nella sua famiglia, che ha
dato a Trieste il più autentico ed estroso
poeta di quel particolare mondo, il fratello Carlo (Carolus Cergoly). Dopo un breve
periodo come maestro elementare Guido
seguì la vocazione dedicandosi interamente
alla musica, suonava il piano nelle orchestrine di Bordighera e della Costa azzurra,
nelle sale da ballo del Cafè de Paris a Montecarlo. Precoce talento come arrangiatore
cominciò a collaborare con le case musicali La Voce del Padrone e Columbia. Poco
prima dello scoppio della guerra entrò a far
parte dell’EIAR come fondatore e direttore
della celebre orchestra che da allora portò
il suo nome e aveva per sigla una delle sue
canzoni più intense e romantiche “Occhi di
donna”. Quest’orchestra ritmo sinfonica,
di ampio respiro, all’inizio era formata da
una trentina di elementi che poi crebbero
nel tempo e il suo punto di forza erano gli
archi; ne fecero parte i migliori musicisti
del tempo a cominciare da Mario Simini,
primo violino del Verdi, vi si avvicendarono come pianisti Marcello Hrovatin, Gianni Safred e un Franco Russo giovanissimo.
Durante la guerra Cergoli inserì nei ranghi
dei musicisti perfino persone ricercate dai
nazisti riuscendo così a salvarle. Alla radio
si svolgeva anche una specie di contrabbando musicale perché molte melodie americane, da Gershwin a Porter a Ellington
(ascoltate segretamente da Radio Londra)
venivano trascritte, arrangiate e trasmesse
sotto mentite spoglie. Solo dal I luglio 1955
l’emittente passò alla Rai diventando Radio
Trieste. Il repertorio dell’orchestra Cergoli
era vastissimo: canzoni italiane e internazionali ma anche cicli di trasmissioni dedicati alla musica popolare triestina di cui il
maestro fu un eccellente trascrittore. Come
editore pubblicò il famoso Eterno ritornello (Te voio ben) di Bidoli che fece il giro
del mondo. Alla fine del 1961 il maestro
Cergoli fu trasferito alla Rai di Roma, ma
continuò sempre ad avere un rapporto affettuosissimo con la sua città natale in cui
due anniversari nel 2015 riguardano
illustri musicisti triestini: il maestro
Guido Cergoli e il pianista Franco Russo
ritornava spesso per tenere concerti, dirigere operette, ritrovarsi con gli amici, seguito
da un pubblico che apprezzava in lui una
lezione di stile rimasto nel tempo impeccabile e unico.
Di una generazione più giovane Franco
Russo entra in contatto con Cergoli ancora ragazzo essendosi accostato anche lui
precocemente alla musica. Studente al liceo Petrarca, studiava anche pianoforte al
Tartini e composizione con Giulio Viozzi,
ma era già scoppiata in lui la passione per
il jazz di cui fu un vero precursore. Era ancora in calzoncini corti quando cominciò
a suonare il piano al Circolo ufficiali americano di Trieste: venivano a prenderlo a
scuola con la jeep per portarlo ora all’Hotel
de la Ville ora a Opicina ora nella sede della radio americana in via Piccardi. Si esibiva in club privati a fianco di militari esperti
jazzisti. La sua scuola a quei tempi era solo
la radio (le stazioni americane ascoltate
di notte) e, naturalmente, la passione e un
grande talento. Poi furono gli stessi ufficiali di stanza a Trieste a fornirgli dischi e
spartiti. Nel 1948 questo brillante pianista
adolescente entrò a far parte dell’orchestra
Cergoli e si iscrisse anche alla Siae come
compositore. Iniziò così una folgorante
carriera che lo avebbe portato a formare,
solo qualche anno dopo, un trio, poi un
ottetto jazz e successivamente un’orchestra ritmica di quindici elementi, iniziando anche, parallelamente, la produzione
di programmi radiofonici per la Rai. La
sua collaborazione all’emittente triestina
fu preziosa anche nel campo della musica
popolare: contribuì fra l’altro a rubriche di
largo successo come “Cari stornei” e “Canta la bora” sulle canzoni triestine. A Trieste
si poteva sentirlo suonare nei locali notturni più raffinati dove ha lasciato un’impronta del suo stile e del suo estro improvvisativo. Dopo vent’anni di attività poliedrica
Franco Russo lasciò Trieste per trasferirsi
a Roma impegnato nelle stagioni al teatro
Sistina in commedie musicali di Garinei e
Giovannini che avevano come protagonisti
Milva, Bramieri, Rascel, Modugno… (da
“Angeli in bandiera” a “Alleluja, brava
gente”). Quindi cominciò a collaborare col
MUSICA
sommario
Guido Cergoli
negli anni ‘50
maestro Gianni Ferrio in tutta una serie di
programmi televisivi di grande impatto tra
cui Canzonissima, Studio Uno, Domenica in. Contemporaneamente lavorava alla
realizzazione di colonne sonore per film
presso gli studi della RCA ed era pure impegnato come pianista accompagnatore al
Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.
Al centro di un’attività continua e instancabile restano naturalmente i concerti
pianistici in cui Franco Russo è sempre rimasto fedele al suo concetto di jazz classico, tendenzialmente su base melodica, nella linea dei “grandi” come Duke Ellington
e Stan Kenton che hanno lasciato lezioni di
grande stile ed equilibrio. Era un eccezionale pianista improvvisatore, sceglieva un
tema e da esso traeva originalissimi sviluppi, incredibili e personali elaborazioni fino
a trasformare del tutto il motivo iniziale;
ogni suo concerto acquistava così il sapore dell’immediatezza, della novità con la
riscoperta di una musica mai uguale a se
stessa. Questa la sua firma inconfondibile.
Per ricordare il musicista la moglie Silvia ha istituito il Premio Franco Russo che
si svolge annualmente nell’ambito della
rassegna TriesteLoveJazz e assegna un riconoscimento a un giovane che si è distinto
particolarmente in questo genere; spesso i
diversi strumentisti premiati scelgono di
suonare insieme realizzando un affiatato
gruppo jazzistico.
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PERSONAGGI
sommario
Paolo Caccia Dominioni
Notturno
Tecnica mista su carta, 1917
Al tempo della campagna
in Africa Settentrionale
Il Ponte rosso
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ARTISTA, SOLDATO,
SCRITTORE
Personalità poliedrica e di vasti interessi quella di Paolo Caccia Dominioni,
che ha attraversato quasi per intero il
Novecento in posizioni sovente di prima
linea (nel senso proprio militare del termine), lasciando una cospicua traccia del
suo passato in documenti, disegni, libri,
progetti architettonici e di design oggetti che costituiscono la gran mole di materiali - oltre seicento pezzi - presentati
ora in una mostra attualmente a Trieste
e Udine, in tre sedi espositive, dopo aver
toccato tra il 2013 e l’anno successivo
Gorizia e prima di un trasferimento a
Bruxelles dove sarà visitabile a partire
dal prossimo 3 e fino al 17 novembre. La
rassegna triestina si è avvalsa dell’appro-
fondimento storico curato dall’ammiraglio di squadra Ferdinando Sanfelice di
Monteforte e della curatela, per la parte
africana, dello scrittore e saggista Khaled
Fouad Allam.
Nato da una famiglia di antica nobiltà
a Nerviano (Milano) nel 1896, fu indotto ad interrompere gli studi di Ingegneria
dall’intervento dell’Italia nel 1915, allorché si presentò volontario, inquadrato tra
i bersaglieri, frequento successivamente
il corso allievi ufficiali e fu impegnato
quindi sul fronte orientale, dove fu ferito
e guadagnando una prima decorazione al
valor militare. Terminò la guerra in una
guarnigione in Libia, dov’era stato trasferito dopo che suo fratello, ufficiale degli
alpini, cadde in combattimento. Rimpatriato, completò gli studi e, dopo un’iniziale adesione al Fascismo, se ne allontanò trasferendosi in Egitto nel 1924 dove
iniziò l’attività professionale, progettando
edifici in molte località del Medio Oriente.
Richiamato una prima volta alle armi nel
1931, fu congedato col grado di capitano,
ma fu richiamato di nuovo nel 1935 per
partecipare alla guerra di Etiopia. Richiamato nuovamente alle armi allo scoppio
del secondo conflitto mondiale, come ufficiale del Genio guastatori, fu impegnato
per tutta la durata della campagna in Africa settentrionale, dove si procurò una decorazione da parte del generale Rommel e
una medaglia d’argento al valor militare.
Dopo l’8 settembre ’43 entrò nella Resistenza operando nelle unità combattenti
fino a divenire Capo di stato maggiore
delle formazioni lombarde di Giustizia e
Libertà, guadagnandosi un’ulteriore medaglia di bronzo al valor militare. Nel dopoguerra ritornò al Cairo dove ebbe l’incarico di progettazione e costruzione del
sacrario militare italiano di El Alamein,
esempio unico di architettura italiana monumentale nel deserto africano. Rientrato
in patria nel 1958, affiancò all’attività professionale quella di scrittore, con la quale
illustrò le sue memorie di combattente,
conseguendo anche il premio Bancarella
per il suo Alamein 1933-1962, pubblicato
in prima edizione da Longanesi nel 1962.
in mostra la vita e l’opera
di Paolo Caccia Dominioni
Si spense a Roma, all’Ospedale militare
del Celio, a 96 anni , nel 1992. Nel sessantesimo anniversario della battaglia di
El Alamein, nel 2002, gli fu conferita la
medaglia d’oro al valore dell’Esercito alla
memoria.
Oltre che architetto, soldato e scrittore,
fu pittore e formidabile illustratore e soldato. “Un artista” ha affermato il critico
Philippe Daverio, che nell’ambito della
mostra ha tenuto un’affollatissima conferenza alla Biblioteca Statale di Trieste
“che se non avesse tanto combattuto, sarebbe oggi riconosciuto tra i massimi del
‘’900 italiano”.
Com’è ampiamente documentato in
mostra, Caccia Dominioni dimostrò infatti una grande modernità espressiva nel
disegno, nell’illustrazione e in pittura, nel
cui ambito seppe raccontare e interpretare, grazie all’essenzialità del segno grafico e pittorico e alla sintesi della parola
scritta, da “cronista” di assoluta avanguardia, le guerre e i diversi accadimenti
del ‘900. La rassegna testimonia ciò con
una ricca sequenza di disegni e dipinti
dedicati alla Grande Guerra, provenienti
dai Musei Provinciali di Gorizia e da collezioni private, in un momento culturale
ancora legato all’eclettismo e al Liberty.
Altrettanto si può dire per i libri scritti e
illustrati da Dominioni: a partire da 1915
- 1919 (Longanesi; Mursia), composto in
epoca dannunziana con antesignano taglio
giornalistico, per arrivare a El Alamein
(Longanesi; Mursia), Amhara (Plon, Paris), Takfir (Alfieri; Longanesi; Mursia),
Ascari K7 (Mursia), Alpino alla macchia (Cavallotti; Libreria Militare), Casa
del perduto amore (Il Cairo, H. Urwand
& fils; San Floriano del Collio, Formentini), Le trecento ore a Nord di Qattara
(Longanesi; Libreria Militare), La frana
del San Matteo (Cavallotti) e via dicendo,
scritti da un’intelligenza razionale e nel
contempo capace di fantasticare, ma in un
linguaggio sintetico e d’avanguardia. E
altrettanto va detto per i disegni, i quadri e
le illustrazioni realizzati successivamente
agli anni Venti da Dominioni, che Hugo
Pratt, considerato oggi uno dei più grandi
illustratori al mondo, ammirava profondamente come proprio maestro.
La sintesi dei volumi e un moderno
concetto di forma-funzione sottolineano
anche le sue architetture civili e monumentali, spesso connotate dall’arco, forse
in memoria dei lunghi anni trascorsi in
Africa, dove altrettanto abile e competente si dimostrò nelle costruzioni stradali
e minerarie e nei progetti di ingegneria
idraulica per l’Alto Nilo. Nei progetti architettonici aderì a un sobrio stile razionalista e dimostrò ancora il suo spirito
d’avanguardia per esempio nel progetto
per il Villaggio turistico di Riva dei Tessali (Taranto), inserito in un paesaggio
boschivo senza abbattere alcun albero,
ma adattando anzi armonicamente e con
eleganza le nuove edificazioni alla natura,
nel più assoluto, ecologico e antesignano
- eravamo tra gli anni ‘60/’70 - rispetto
per l’ambiente: solo per questo motivo
l’architetto-artista potrebbe essere considerato un grande mentore antesignano
della modernità, come lo fu per altro sul
piano umano e sociale, intrattenendo un
rapporto amichevole e paritario con tutti,
compresi i suoi commilitoni, i soldati e gli
Ascari, che ebbe a fianco nella campagna
d’Etiopia, nel secondo conflitto e per il recupero delle salme dei caduti, anticipando
così, istintivamente e a suo modo, un moderno concetto di globalizzazione.
PERSONAGGI
sommario
Pilippe d’Averio e
Annamaria Accerboni
Biblioteca Statale
“S. Crise” di Trieste
Spaziocavana
Zinelli&Perizzi - Trieste
Caserma Guastatori
Berghinz - Udine
Paolo Caccia Dominioni.
Un artista sul fronte di guerra
Mostra a cura
di Marianna Accerboni
prorogata fino al 17 ottobre
In mostra è in vendita il video
Ritratto inedito in otto
interviste
ideato da Marianna Accerboni
per la regia di Elio Velan
Il Ponte rosso
mensile di arte e cultura
Numero 4 - settembre 2015
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TEATRO IN DIALETTO
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LA XXXI STAGIONE
DE L’ARMONIA
È ai nastri di partenza la XXXI Stagione dell’Armonia che dal 9 ottobre metterà
in scena undici commedie al teatro Silvio
Pellico. L’Associazione tra le compagnie
teatrali triestine ha preparato un vivace
cartellone caratterizzato dalla varietà di
generi: ce n’è per tutti i gusti per i numerosi appassionati del teatro in dialetto. Aprirà
le danze la compagnia Quei de Scala Santa
in “Che gropi ara !!!” (9-18 ottobre) commedia tratta da La Neve di zio Anselmo di
Valerio di Piramo, adattamento in triestino
di Marisa Gregori e Silvia Grezzi, regia
di Willy Piccini. Il Gruppo Il Gabbiano
presenterà “Tutinscuro-Black Comedy”
(23 ottobre-1 novembre) di Peter Shaffer,
adattamento e regia di Riccardo Fortuna. Il
Gruppo Proposte Teatrali in “Sesso, bugie
e… papagai” (6-15 novembre) di Alessandra Privileggi e Giorgio Fonn da un’idea
di Ray Cooney, regia di Alessandra Privileggi. Gli Amici di San Giovanni metteranno in scena “Buffalo Bill Trieste 1906”
(20-29 novembre) spettacolo musicale di
Ruggero Zannier, regia di Giuliano Zannier. Quindi la Compagnia TuttofaBroduei
in “Pino. Chi ? Mi” Da Collodi ai TuttofaBroduei… 134 anni di Pinocchio (4-13
dicembre) testo e regia di Andrea Fornasiero. Quei de Scala Santa ritorneranno in
“No sarìa mai de fidarse” (8-17 gennaio
2016) di Manuela Dessanti, rielaborato
da Silvia Grezzi e Marisa Gregori, regia
di Silvia Grezzi. Seguirà la compagnia I
Zercanome in “Scondariole” (22-31 gennaio) di Gianfranco Gabrielli da un’idea di
Noel Coward, adattamento e regia di Paola Pipan. Quindi gli Ex Allievi del Toti in
“Zio Ciano-El re de Sydney” (12-21 febbraio) da Il Re di New York di Biagio Izzo
e Bruno Tabacchini, adattamento di Walter
Bertocchi, regia di Paolo Dalfovo e Roberto Tramontini. La Compagnia dei Giovani in “Fora el dente… fora el dolor” (26
febbraio-6 marzo) di Agostino Tommasi
da un’idea di Barillet e Gredy, regia di Julian Sgherla. La Compagnia Bandablanda
proporrà “Una valanga de… morbin” Musical primitivo (11-20 marzo) testo e regia
di Gianfranco Pacco. E per finire la Compagnia dell’Armonia in “Buon Compleanno” (1-2-3 aprile) di Massimo Meneghini,
adattamento e regia di Riccardo Fortuna,
spettacolo offerto agli abbonati da Banca
Mediolanum. Proseguiranno inoltre le iniziative degli anni scorsi: L’Armonia in The
City in programma i mercoledì prima della
prima alle 17.30 nel locale omonimo (via
del Teatro 2) che prevedono l’incontro col
pubblico e le anticipazioni sugli spettacoli
e due appuntamenti di Luci della ribalta al
Punto Enel di piazza Verdi 2 a cura di Paolo Dalfovo (10 dicembre e 3 marzo).
Liliana Bamboschek
VECCHIE E NUOVE POVERTÀ
EUROPA E ALTRI MONDI
Una cinquantina di giovani studiosi
dai 18 ai 35 anni, provenienti da tutto il
mondo, saranno i protagonisti della VIII
edizione del Forum mondiale dei Giovani “Diritto di Dialogo”, in programma a
Trieste dal 30 settembre al 4 ottobre 2015,
nella sede della Scuola Superiore di Lingue per Interpreti e Traduttori.
Nato dalla volontà di affermare il “diritto di dialogo” come “diritto fondamentale”, il Forum si rivolge ai giovani come
classe dirigente del futuro, interlocutori
privilegiati per la costituzione di modelli
culturali solidali e aperti. “Vecchie e nuove povertà” nel Terzo Millennio, ovvero
povertà storiche e nuove emergenze, è il
tema su cui quest’anno i giovani partecipanti sono stati chiamati a interrogarsi:
sono stati selezionati 50 paper, tra i 325
giunti da ogni angolo del globo in risposta al “call for paper 2015”, e questi saranno oggetto di dibattito con gli autori
nelle giornate del Forum. Saranno 37 i
Paesi rappresentati, dall’Europa Orientale all’Africa, dall’Asia centrale e orientale alle Americhe, al Medio Oriente: gli
interventi offriranno una visione sfaccettata e poliedrica del tempo presente. In
essi alla povertà si associano i temi dello sviluppo sostenibile, della globalizzazione e dell’immigrazione, della cultura
del benessere contrapposta a quella della
ricchezza, della decrescita opposta alla
crescita. Nell’ultima sessione d’incontro si discuterà del rapporto fra povertà
e perdita di diritti: i tangibilissimi diritti economici, ma anche diritti molto più
intangibili, connessi con la perdita della
memoria, della bellezza, delle identità.
Tutti gli interventi saranno proposti in lingua originale con traduzione simultanea
in inglese e italiano.
A dialogare con i giovani studiosi sul
tema di quest’anno giungerà a Trieste
il poeta e scrittore Aldo Nove, che con
opere come Mi chiamo Roberta, ho 40
anni, guadagno 250 euro al mese (Einaudi Stile Libero, 2006), con cui ha vinto
il Premio Stephen Dedalus, ha esplorato
il tema del precariato, povertà dei giorni nostri, tra giovani e meno giovani in
Italia. Ai contributi di giovani studiosi di tutto il mondo
si affiancheranno quest’anno
anche alcune tavole rotonde.
Tra queste, si segnala quella
dedicata ad una delle eredità
culturali dell’Expo, la Carta
di Milano. A discuterne, in un
dialogo con alcuni giovani del
Forum, Massimiliano Tarantino, Segretario Generale della
Fondazione Gian Giacomo
Feltrinelli e Direttore esecutivo di Laboratorio Expo: è suo
il progetto di curatela scientifica dell’Expo Milano 2015.
E ancora una tavola rotonda
dedicata al progetto We-Women, con la partecipazione di
Mariarosa Santiloni, Segretario Generale della Fondazione
Ippolito e Stanislao Nievo. Il
Forum “Diritto di Dialogo” è
realizzato dall’Associazione “Poesia e Solidarietà” (Trieste) in collaborazione con
il Centro Internazionale di Studi e Documentazione per la Cultura Giovanile, diretto da Gabriella Valera, che del Forum
è ideatrice, e col Dipartimento di Studi
Umanistici dell’Università di Trieste. Fa
parte di un ampio progetto per la cultura
giovanile che ha ottenuto riconoscimenti
importanti a livello nazionale e internazionale, come l’adesione del Presidente della
Repubblica, il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO,
dei Ministeri degli Esteri. Gode del contributo della Regione Friuli Venezia Giulia,
Assessorato alla Cultura, della Fondazione
Benefica Kathleen Foreman Casali, della
Banca Popolare di Cividale, di Duemilauno Agenzia Sociale ed è diversamente
sostenuto con collaborazioni e partnership
da molti altri enti a livello nazionale e internazionale. In particolare l’Università di
Trieste e il Centro Internazionale di Studi e
Documentazione per la Cultura Giovanile
lo sostengono come cuore del grande progetto di promozione della cultura giovanile che ha in Trieste e nella Regione Friuli
Venezia Giulia il suo epicentro.
FORUM
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VIAGGI
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AUSTRALIA 3:
COOBER PEDY
Coober Pedy compare all’improvviso,
annunciata da centinaia di coni di sabbia.
Paesaggio lunare traforato da enormi macchinari a setacciare la sabbia, a cercare la
roccia striata d’opali. E poi solo silenzio. Un
drive-in deserto, inquietante, rimbalza muto
su uno schermo enorme, bianco. Città di fascino e di magia e di camini che spuntano
dalle colline come dita a indicare che la vita
viene da là sotto.
Questa città mi ha sempre mosso qualcosa dentro, una specie di magia, di sorda
attrazione, una vibrazione che punzecchia le
corde giuste, ed è ancora così. Vorrei fermarmi qualche giorno per sprofondarci bene,
con il sangue e la carne, niente anima, ma
solo materia trasportata dentro e fuori dalle
viscere della terra ostile ma pur sempre the
mother land.
Il campeggio è in fondo alla città. Vengo
sempre qui, per abitudine, penso. Alla reception, accanto alla solita vecchia che vedo invecchiare sempre di più, c’è una ragazza che
probabilmente non ho visto crescere, o è cresciuta da qualche altra parte. Deve essere una
sua parente perché hanno qualche tratto del
viso in comune, anche se quelli della ragazza
sono mescolati con degli altri che ne hanno
nettamente migliorato il risultato. Infatti, finita la registrazione, mi dice che sua nipote mi
avrebbe fatto vedere dove dovevo mettermi.
La nipote, che mi cammina davanti, ha proprio un bel culo, e il perizoma scuro mi saluta
con gioia oltre la stoffa bianca dei pantaloni.
Mi indica la zona di fronte all’ufficio, mi dà
la chiave del mio in-site van da 35 dollari, e
se ne va, guardandomi un po’ troppo a lungo.
Esco a farmi un giro, ma il caldo è troppo
intenso. Per la strada, solo aborigeni buttati
qua e là, sfigurati e urlanti nella loro zona off
di Pericle Camuffo
limits di marciapiedi polverosi e di stracci
appesi addosso, occhi gialli e barbe di epoche antiche. Mi guardano mentre passo loro
davanti, quasi mi interrogano con la loro
marginalità, mi chiedono chi sia io che sto
al di là della linea che loro hanno tracciato
sul terreno, una linea che separa i nostri due
mondi, per sempre.
Quando non sopporto più il sole e quella
continua interrogazione muta, scendo al di
sotto, nel fresco di negozi art gallery bar alberghi e tutta quella città nascosta in cripte
d’opali, e finisco in un negozio di didgeridoo
gestito da un bosniaco o croato, non ho ben
capito, e alla fine me ne esco con un bel didgeridoo da 300 dollari. Non so suonarlo, ma
è una delle cose che ho sempre desiderato
avere, un capriccio da ragazzino.
Camminando in Hutchison street, la strada principale, si ha la sensazione di muoversi in un set abbandonato dove solo il vento
conserva il ricordo delle voci, degli sguardi,
delle figure che animavano questo posto, ma
è un ricordo sbiadito, troppo lontano, che mi
sfiora appena nel cigolare di porte e finestre
aperte per sempre su questo silenzio, bocche
spalancate e mute.
Il tramonto scende in fretta, incendiando il silenzio delle miniere e dei macchinari
immobili, rendendo tutto ancora più irreale,
più spoglio, desolato, ma allo stesso tempo
riempiendolo di una tristezza che sa quasi di
poesia, di quella lentezza densa di emozioni e di magia che Wim Wenders ha messo
nel suo Fino alla fine del mondo, girato in
parte qui attorno. C’è un’energia strana, potente, che riempie l’aria e la terra e questa
città ti cattura ti ruba la mente ti svuota e
non riesci a reagire come se pian piano le
vene uscissero dal corpo per diventare radici
e tuffarsi avide nel suolo secco e prezioso,
ma è un’energia cattiva, sporca. Secondo
gli aborigeni del luogo quando il Serpente
Arcobaleno è passato di qui nel suo lungo
viaggio attraverso tutto il continente, ha incontrato degli spiriti malvagi che ha rinchiuso sotto terra coprendoli con le sue scaglie.
Quelle scaglie erano e sono gli opali. La loro
estrazione continua e indiscriminata ha fatto
sì che gli spiriti malvagi uscissero di nuovo
spargendo nell’aria la loro energia negativa, quel prurito denso che stringe il cuore e
l’anima quando si arriva qui. Quest’energia
paesaggio lunare traforato da enormi
macchinari a setacciare la sabbia, a cercare
la roccia striata d’opali. E poi solo silenzio
riempie l’aria di un rossore irreale e ti vibra
attraverso le ossa, tra le fibre dei muscoli, la
senti, è potente, può anche far male, scalfire ogni integrità, trasformarti in qualcosa di
diverso, di più brutto, di orrendo. È magia
nera, spiritualità tribale. È la forza della terra, lo spirito della terra! Quello che ha mosso l’origine del mondo. Quando scende il
sole, a Coober Pedy si riaccende il fuoco del
primo giorno. Forse è anche per questo che
Coober Pedy the Opal capital of the world
è una delle città più pericolose dell’intera
Australia o semplicemente al di là di storie
e leggende, è solo che qui si impazzisce più
facilmente che da altre parti.
Mi fermo da Tracer, un ristorante greco,
per bere una birra. Si respira un’aria familiare, da est Europa. I tavoli sono coperti con un
telo di plastica trasparente e le sedie vecchie,
da retrobottega, sono sistemate con ordine
preciso quasi a voler togliere un po’ di squallore. Non si può fumare fino alle dieci, quando più o meno tutti avranno finito di cenare.
Me ne andrò certamente prima, ma già che
ci sono, e che non c’è quasi nessuno, chiedo
uno strappo alla regola, ma la cameriera mi
dice che non è possibile, e lo fa con un sorriso
di pietà e di comprensione. Ha labbra sottili
e gira tra i tavoli con stanchezza, svogliata
nel suo corpo esile, con un visino carino in
cui bruciano due occhi scuri e tesi. Al tavolo
di fronte a me è seduto il cuoco, discute con
altra gente a voce alta, in greco, alzando bicchieri e bottiglie in brindisi rumorosi e allegri. Gli faccio un gesto con la bottiglia, come
per partecipare a quell’euforia che quasi pensavo impossibile qui a Coober Pedy. Si alza e
mi raggiunge. Mi chiede di dove sono e come
mai mi trovo qui, e dice alla ragazza di portarmi un’altra birra, offre lui. Mi racconta che
anche suo padre era italiano, calabrese, prima
emigrato in Grecia dove ha incontrato sua
madre, poi qui, in Australia, a Coober Pedy,
dove ha messo su questo ristorante. Adesso
tocca a lui continuare il lavoro del suo vecchio, ma mentre lo dice passa nei suoi occhi
la malinconia tipica dell’emigrato, che anche
se di seconda generazione, si sente sempre
fuori posto, sradicato. Mi mostra, con tenerezza, la foto di tutta la sua famiglia che vive
ad Atene, la tiene appesa alla parete vicino
al bancone. Vedere tutte quella facce greche,
consuete, fermate in un sorriso di gruppo e
strette nell’abbraccio sincero di chi si vuole
bene, gli muove qualcosa dentro, come un
grumo di dolcezza, di pianto. Mi saluta velocemente e sparisce in cucina. Finisco la birra
e me ne vado.
Altro pub, altra gente, tutto diverso. Minatori ubriachi in pausa, tatuaggi colorati,
lunghe barbe e musica alta. Conosco John,
aborigeno mezzo sangue, mani tozze, braccia robuste e piene di cicatrici. Mi dice che
gli piace conoscere gente nuova. Posso capirlo, certo, ma non capisco quando parla, è
troppo ubriaco, a stento si regge seduto. Mi
dispiace, e quasi mi incazzo. L’avrei voluto
sobrio per potergli chiedere un sacco di cose
di lui, della sua vita, dei suoi sogni, i misteri
della sua cultura schiacciata sulle pietre di
questa città. Avrei voluto che mi avesse parlato con la melodia della sua lingua, e invece
è perso nei troppi giorni passati qui dentro e
nell’infinità di birre che ha mandato giù. Mi
stringe il braccio, non vuole mollarmi. Vado
a prendere altre due birre, e lo saluto. Sono
sulla porta quando mi si avvicina e mi dice
“Amico, questa è la mia famiglia”, indicando un gruppo di aborigeni messi male, che
se ne stanno in disparte, sembrano aspettare. Sulle loro facce è dipinta una solitudine
indifesa. La voce di John è cambiata, meno
sicura, meno spavalda, le sue parole sono
quasi una supplica, una preghiera, come per
dirmi “Vieni con noi, almeno tu!”. Non lo
ascolto, ed esco dal locale come per fuggire
a qualcosa, per farmi inghiottire dalla notte.
L’aria è fresca e nel cielo chiaro corre al
via lattea che sembra la scia di una cometa
precipitata nel deserto, ma adesso, qui, davanti alla mia roulotte, ho la sensazione di
aver tradito un’amicizia, quella di John, della sua gente e di questa terra. (-continua)
VIAGGI
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MARTEDÌ 29 SETTEMBRE ALLE ORE 17.30
Salone degli Incontri del Circolo Aziendale
delle Assicurazioni Generali (g.c.)
Piazza Duca degli Abruzzi, 1 - Trieste (VII piano)
Presentazione della nuova raccolta di poesie di
Claudio Grisancich
Cafè de moka e Dediche
Collana "Il Nuovo Timavo" (Hammerle Editori)
Fulvio Senardi e Walter Chiereghin
dialogheranno con l'autore
Grisancich, a partire dai suoi 'haiku', in lingua, sta elaborando una sua particolare modalità espressiva, con strategie
di racconto che 'smembrano' i momenti della vita per farne scaglie di una ricerca di senso che investe l'universalità
dell'umano, avvalendosi di uno stile scarno e sorvegliato,
ma che ci parla in modo più che esplicito, con ricchezza di
suggestioni e calore di empatia, per quanto è, con sapienza,
modulato sui registri più semplici del parlare comune.
Organizzato da: Hammerle Editori, Il Ponte Rosso
e Associazione AltaMarea
giovedì 1 ottobre 2015 alle ore 18.00
Antico Caffè San Marco
Via Battisti 18 - Trieste
Incontro per la presentazione del romanzo di
Elio Ross
LEONE E IL DIAVOLO
Collana "I Libri del PEN Trieste" (Hammerle Editori)
Ne parleranno
Antonio Della Rocca, Presidente del PEN Trieste
Enzo Santese, critico
Sarà presente l’autore
Leone e il diavolo è un’opera complessa, anche considerando
soltanto la sua struttura fondamentale. Il racconto appare piano, semplice a prima vista, una storia di fatti. Il titolo però sottende il presupposto di una complessità: un patto col diavolo.
Leone e il diavolo è un romanzo senza tempo, che non può
seguire i dettami capricciosi e tiranni delle mode. È un libro
straordinario, che parla di reincarnazioni, di vite dentro le
vite, di amori, viaggi, avventure. La narrazione ha un ritmo
incalzante, un andamento vertiginoso, di continue sorprese
e colpi di scena. (dalla prefazione di Ernestina Pellegrini)