Il Ponte rosso, n. 4, settembre 2015
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Il Ponte rosso, n. 4, settembre 2015
Il Ponte rosso INFORMAZIONI di arte e cultura numero 4 - settembre 2015 DEDICA Sommario Il Ponte rosso dedica questo numero, il lavoro, le competenze e i saperi necessari per realizzarlo in ogni sua parte alla memoria di Convivere a Trieste (1/2)........................................ 4 di Pierluigi Sabatti Diritto d’asilo............................................................. 3 Zangrando a Gorizia............................................... 7 di Walter Chiereghin Nascere digitali / 2: ..............................................10 di Giuseppe O. Longo “Golgatha” (Golgota) di Peter Schmitz...........12 di Fulvio Senardi Quarant’anni dopo Pasolini...............................15 di Gianfranco Franchi Il Parco di Miramare /3.........................................16 di Maurizio Anselmi L’istituzione inventata di Franco Rotelli..........19 di Piero Del Giudice Progetto Prometeo...............................................21 di Benedetta Moro Il Palazzo della Luogotenenza..........................24 di Maurizio Lorber Questa è per te, Fred!...........................................26 di Giuseppe Vergara Il Generale Della Rovere tra finzione e verità.....28 di Stefano Crisafulli Khaled al Assad (Palmira, 1930 - ivi, 2015) Archeologo barbaramente assassinato mentre difendeva fino all’ultimo respiro i valori dell’umanità e della cultura, salvaguardando fino al sacrificio di sé i beni culturali del suo martoriato Paese e di tutti noi. Odore di salsedine................................................29 di Graziella Atzori Aspettando Venezia.............................................30 di Gianfranco Sodomaco Il Museo Ferroviario di Campo Marzio...........32 di Anna Calonico Trieste luogo dell’anima......................................34 di Marina Silvestri Una capitale per il caffè.......................................37 di Corrado Premuda Un’intensa stagione espositiva.........................38 Due musicisti da ricordare.................................40 di Liliana Bamboscheck Artista, soldato, scrittore.....................................42 La XXXI Stagione de L’Armonia.........................44 Vecchie e nuove povertà....................................45 Australia 3: Coober Pedy.....................................46 di Pericle Camuffo DIRITTO D’ASILO Avrebbe avuto il diritto di andare all’asilo, prima ancora di quello di ricevere asilo politico il piccolo Aylan Kurdi, il bambino riportato dalle onde su una spiaggia turca. Le immagini del suo corpicino prono sulla sabbia della battigia hanno fatto il giro del mondo con la forza squassante di un’empatia che ha commosso milioni di persone, producendo finalmente un risveglio delle coscienze che parevano distratte e ostili, refrattarie a ogni minimo progetto di accoglienza nei confronti di quanti si accalcano alle frontiere terrestri e marittime del nostro continente. L’icona tragica di quel piccolino interroga oggi le nostre coscienze e ci aiuta forse a comprendere con accentuata nitidezza il fenomeno epocale che si è manifestato negli ultimi anni per assumere in quest’estate che sta finendo dimensioni impressionanti, con gli sbarchi e le migrazioni di intere popolazioni dall’Africa e dal Medio Oriente verso un’Europa, divenuta Terra Promessa per masse sempre più sterminate di disperati in fuga dalla miseria, dalla guerra e dalla barbarie di un terrorismo che sembra disconoscere ogni minimo valore umano. Quanto vediamo oggi consumarsi davanti ai nostri occhi è con ogni evidenza un fenomeno di dimensioni abnormi, col quale dovremo fare i conti nei prossimi decenni, in un’esasperazione sempre più accentuata, tale comunque da spiegare, ma non da giustificare, gli atteggiamenti di chiusura e di ostilità nei confronti delle masse che premono alle nostre porte. Anche se comprensibili, tali atteggiamenti sono frutto di paure in parte irrazionali, fomentate e tenute accese da analisi politiche rozze, tali da condurre - tra l’altro - a pericolose avventure militari. Gli atteggiamenti accoglienti che si sono manifestati in una parte della popolazione come in alcuni governi europei, a partire da quello tedesco, tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre, sembrano dare corpo a una visione del problema improntata a comportamenti più umani e solidali. L’Europa può affrontare questa non facile prova storica in due maniere, ancora una volta erigendo muri oppure gettando ponti. La prima via è storicamente votata al fallimento, come ha insegnato Berlino, segata in due da quel mostro metropoli- tano che sembrava inattaccabile per quasi trent’anni e che è stato gioiosamente distrutto in un’indimenticabile serata di novembre nel 1989. Come quello berlinese, anche il muro (reale o ideale) che i leader populisti europei propongono come fosse realmente realizzabile costituisce, più che non sembri a prima vista, una dimostrazione di debolezza e non di forza, estrema inutile prova di una società che non sa trovare altrove che nei propri conti in banca - miliardari o miserabili che siano - una ragion d’essere della propria identità da difendere a ogni costo contro orde di invasori, “barbari” per definizione. L’altra via, che debolmente comincia a farsi largo tra la gente e tra i governi, nasce da una cultura che sa bene quello che siamo noi europei, quelle che sono le nostre radici più profonde, tanto quelle cristiane, nelle varie declinazioni del termine, quanto quelle della razionalità, dell’Illuminismo, del diritto come garanzia per tutti, della laicità, di quella forma di governo chiamata democrazia, nata sulle sponde di quello stesso Egeo che ci ha restituito il piccolo Aylan. In quelle stesse terre, tra l’altro, si designava con la medesima parola tanto lo straniero che l’ospite. La via da percorrere appare, una volta di più, quella della cultura, del preciso avvertimento di quello che in tanti secoli di storia ci siamo costruiti per realizzare un mondo dove vorremmo abitare: la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, i Principi fondamentali della prima parte della nostra Costituzione, il valore della misericordia nel dettato evangelico, la parola Fraternité nel motto dell’amica Repubblica Francese, le parole di Schiller nell’Inno alla gioia musicato da Beethoven: “Alle Menschen werden Brüder /Tutti gli uomini saranno fratelli”. Soltanto a partire dalla consapevolezza che il nostro vivere associato è fondato su tali valori può indicarci la strada per affrontare la non facile prova che condurrà l’Europa e la vita di ciascun suo abitante ad essere, fatalmente, diversa da come l’abbiamo conosciuta. Che tale prossimo futuro sia un ambito di civiltà, di libertà e di convivenza e non di barbarie, arbitrio e violenza dipenderà dalle scelte che siamo chiamati a fare oggi. EDITORIALE EDITORIALE sommario informazioni web di arte e cultura a distribuzione gratuita n. 04 settembre 2015 Direttore: Walter Chiereghin Posta elettronica: [email protected] impaginazione: Hammerle Editori e Stampatori in Trieste Via Maiolica 15/a 34125 Trieste In copertina: Giovanni Zangrando Passeggiata a Sant’Andrea (particolare) olio su tela, collezione privata Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 3 STORIA sommario CONVIVERE A TRIESTE (1/2) di Pierluigi Sabatti Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 4 Trieste è da sempre un mosaico di etnie. Era inevitabile, vista la sua posizione geografica. Collocata al confine di tre mondi: il latino, il tedesco e lo slavo e incuneata nell’angolo più a Nord del Mediterraneo, che la rendevano, e dovrebbero renderla ancora, l’approdo ideale per uomini e merci diretti verso l’Europa di mezzo e i Balcani o da essi verso Oriente. Lo testimonia la scena LXXXIV di quel racconto di pietra che è la Colonna Traiana a Roma, dove si rappresenta lo sbarco dell’imperatore nel bacino maggiore del porto dell’epoca (il 105 d.C.), che si trovava dov’è ora Piazza Unità, cuore della città. Dietro il corteo imperiale si possono vedere le facciate degli edifici, in particolare il teatro che si affacciava sul mare, la linea delle mura che salgono sul monte e il colle di San Giusto. Traiano scelse Tergeste per cominciare la sua seconda guerra della Dacia perchè la città costituiva la base ideale per addentrarsi nei Balcani. Porta di Roma sui Balcani, duemila anni fa, porta della Mitteleuropa sul Mediterraneo, porta di Sion per gli ebrei che, nel secolo scorso, fuggivano dall’Europa, porta dell’Occidente sulla Cortina di Ferro. Era logico che in essa s’incontrassero e scontrassero diverse comunità etniche. Ma non ripercorrerò ora la storia dei popoli di Trieste dalla fondazione della città, anteriore a quella di Roma. Ci vor- rebbero ore. Lasciamoci dietro un po’di secoli e veniamo agli inizi del 1900, di quel fatale secolo breve, nel quale tutto cambiò. A cent’anni da quegli eventi è giusto ricordare, riflettere e chiederci com’è la nostra città oggi. La cartolina che spiega la Trieste di quegli anni rappresenta via del Molino a Vento, alla prima periferia cittadina, lungo la quale ci sono soprattutto donne che vendono abiti usati. Sono abiti di tutte le fogge, alcuni frutto di scambi, perché chi arrivava in città con il costume nazionale o con i rozzi abiti del contadino spesso li lasciava per comperarsi un vestito “normale” e sentirsi più cittadino. Bisognava presentarsi dignitosamente a cercar lavoro in una città in rigoglioso sviluppo economico. “La mia città che in ogni parte è viva” avrebbe scritto Saba il più grande poeta triestino. E veniamo alle etnie: oltre agli italiani e agli sloveni autoctoni, troviamo tedeschi, croati, una forte comunità ebraica. E ancora piccoli ma vivaci nuclei di greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi, turchi. Escono giornali almeno sette lingue (italiano, sloveno, tedesco, croato, inglese, francese e greco). Tra il 1863 e il 1902 nascono (e muoiono) in città 576 tra quotidiani e periodici come scrive Silva Monti in una preziosa ricerca storica. La tipografia del Lloyd è comunque in grado di stampare in tutte le lingue del mondo. Una policromia linguistica che colpisce un giovanotto irlandese approdato quasi per caso su quei lidi nel 1904. Si chiama James Joyce e quella Trieste lo influenzerà a tal punto da ispirargli il suo capolavoro, l’Ulisse che lì comincia a scrivere, ma anche un’opera di difficilissima digeribilità come i Finnegans Wake in cui gioca con il linguaggio, sicuramente stimolato da quella babele di idiomi che incontrava uscendo di casa. Lo afferma uno dei più illustri studiosi di Joyce, John McCourt, irlandese come lui, che vive tra Trieste e Roma, nel suo fondamentale James Joyce; gli anni di Bloom, una delle opere che, oltre a fornire una formidabile e innovativa biografia di Joyce, descrive compiutamente l’atmosfe- A cent’anni da quegli eventi è giusto ricordare, riflettere e chiederci com’è la nostra città oggi ra che si respirava in città negli anni tormentati e vivaci che precedettero il primo conflitto mondiale. Al viaggiatore che volesse avere la prova tangibile di questa varietà etnica e culturale basta fare un giro per la città, guardando i suoi edifici per scoprire che il Nobel Ivo Andric, aveva lavorato al consolato del Regno di Jugoslavia in piazza Venezia. Sempre per restare in tema serbo, si osservi il bassorilievo su Palazzo Gopcevic, che fronteggia il Canale, dedicato alla battaglia di Kosovo Polje, che nel 1389 segnò la sconfitta dei serbi nella loro lotta contro gli ottomani, ma anche la morte del sultano Murad I. Sul versante religioso si trovano la Sinagoga di via Giotti, la chiesa serba di san Spiridione, quella greca di San Nicola e ancora la chiesa luterana neo-gotica di largo Panfili, che rappresentano ulteriori tasselli di questo mosaico etnico. Infine non deve mancare un giro per via della Pace per vedere i cimiteri delle differenti religioni, compresa una piccola moschea, archivi di pietra che custodiscono questa storia. Il giro è consigliato anche a quanti si fanno sedurre dalle sirene leghiste contro gli immigrati. Che c’entrano gli immigrati di oggi? C’entrano eccome, visto che Trieste è città di immigrati. E non erano tutti come Antonio Cassis Faraone, arrivato con i forzieri delle Dogane d’Egitto, ma era gente in cerca di fortuna che fuggiva da miseria, carestie, persecuzioni, guerre. Facciamo un passo indietro e guardiamo, anche in cifre, com’era la situazione nel primo decennio del Novecento: Trieste entra nel XX secolo in una fase di formidabile sviluppo demografico. Nel 1880 la città ha 140.000 abitanti. Nel 1913 240.000: 100.000 in più in 33 anni. Una situazione paragonabile soltanto a quanto accadeva negli Stati Uniti d’America con la “nuova frontiera”. Dal 1900 al 1914 la popolazione cresce di circa 5.000 unità l’anno. In base al censimento del 1910 gli italiani presenti sul territorio del comune di Trieste sono 170.000, gli “slavi” (sloveni, croati e serbi) 38.000. I risultati del censimento vennero contestati dall’associazione slovena “Edinost” perché la domanda che veniva posta ai censiti era quale fosse la loro “lingua d’uso”, senza specificare se si trattasse di lingua usata in famiglia, sul lavoro o in ambito sociale. Secondo gli sloveni l’ambiguità del quesito era voluta: i rilevatori, tutti dipendenti comunali, avevano avuto il mandato da parte della Giunta, a guida del partito liberal-nazionale italiano, di gonfiare il dato riguardante appunto gli italiani. Fanno ricorso e il luogotenente Hohenlohe rivede i dati, in diversi casi convocando di persona i censiti sui quali c’erano maggiori dubbi. La rilevazione definitiva cambia: sono 148.398 italiani, 56.916 sloveni, 11.856 tedeschi e 2.403 serbo-croati. Il nuovo risultato viene contestato dai liberalnazionali italiani, i quali sostengono che le autorità asburgiche volevano penalizzare gli italiani. A prescindere dalla precisione dei dati, un fatto è certo: il risultato di un tale melting pot è una straordinaria vivacità culturale della città. Sul podio del teatro Verdi salgono musicisti come Mahler, Richard Strauss, Mascagni, Toscanini. Al Rossetti recitano Sarah Bernhardt, Adelaide Ristori, Ermete Zacconi, Ermete Novelli, Ruggero Ruggeri. Il Politeama ospita a partire dal 1910 anche STORIA sommario Ivo Andric, autore de Il ponte sulla Drina Vladimir Bartol Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 5 STORIA sommario La Sinagoga di Trieste Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 6 un fatto è certo: il risultato di un tale melting pot è una straordinaria vivacità culturale della città alcune “Serate Futuriste” che Marinetti stesso indica fra le tappe più riuscite del movimento. Questo per restare all’ambito italiano, ma sloveni e tedeschi non sono da meno. Gli sloveni - spiega Miran Košuta, docente di Slavistica del nostro ateneo - sin dal medioevo costituiscono l’etnia maggioritaria del circondario triestino vantando però una significativa presenza pure in città. Prima ancora di diventare porto franco nel 1719, la Trieste emporiale non rappresentava per gli sloveni soltanto la meta di costanti inurbamenti e di piccoli commerci, ma anche un importante centro sociale, economico e culturale. Nel XVI secolo vi opera per esempio il predicatore protestante Primoz Trubar, padre della lingua slovena. Tuttavia, appena dopo il 1848 - quando in seguito alla “primavera dei popoli” gli sloveni acquistano una moderna coscienza nazionale e rivendicano un’autonomia politica in seno all’Impero asburgico - che inizia a svilupparsi anche nel Litorale triestino e goriziano una vivace attività culturale slovena. Nascono biblioteche, scuole, teatri. Nel 1904 viene portato a termine, su progetto dell’architetto Max Fabiani, il Narodni dom, sede culturale e commerciale degli sloveni di Trieste. Alla vigilia della prima guerra mondiale gli sloveni possono così contare su una vasta e articolata rete di istituzioni culturali: circoli, scuole, biblioteche, case editrici, giornali, riviste, formazioni filodrammatiche e musicali, cori, bande ecc. Affiancandosi alle imprese economiche e commerciali, alle banche, alle cooperative, alle organizzazioni sociali e politiche, alle associazioni ginniche o sportive queste istituzioni testimoniavano di una comunità estremamente florida e vitale. A ciò vanno aggiunti i notevoli apporti individuali di numerosi artisti: tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento sono infatti attivi a Trieste e nel suo immediato retroterra: i letterati Igo Gruden, Vladimir Bartol, Srečko Kosovel, per citare soltanto i principali; i musicisti Emil Adamic, Vasilij Mirk, Ivan Grbec, Marij Kogoj; i pittori Albert Sirk, Robert Hlavaty, Avgust Cernigoj. nonché molte altre personalità artistiche. La repentina ascesa culturale degli sloveni in questo periodo è resa possibile da vari fattori: il sostegno della politica asburgica, la forte “domanda” di cultura tra il popolo, la proliferazione delle istituzioni culturali nei grandi centri come Lubiana, la crescente alfabetizzazione delle masse contadine e operaie e, soprattutto, dalla nascita di un’emergente borghesia slovena che individua nella cultura lo strumento principe per la realizzazione dell’unità nazionale entro uno stato sloveno sovrano, ma federato all’Austria. Le opposte aspirazioni di una parte della borghesia italiana irredentista, che anelava a congiungersi col Regno d’Italia e percepiva nel generale “rinascimento” degli sloveni una minaccia alla propria egemonia politica, sociale ed economica, provocano forti contrasti nazionali che l’Austria, per mantenersi al potere, lascia divampare. Dopo la dissoluzione dell’Impero nel 1918, l’arrivo dell’Italia a Trieste e la costituzione del confinante Regno serbo-croato-sloveno, i rapporti tra le due etnie s’incrinano ulteriormente peggiorando in modo drammatico col successivo avvento del fascismo. A subirne le conseguenze più tragiche è proprio la cultura slovena. Il 13 luglio 1920 le camice nere di Francesco Giunta incendiano il Narodni dom. Inizia la cosiddetta “bonifica etnica” ai danni dei circa 350.000 sloveni venuti a far parte dell’Italia in seguito al trattato di Rapallo del 1920. Ben presto, a Trieste e in tutta la regione, persecuzioni e violenze bandiscono dalla vita pubblica, per oltre un ventennio, lingua e cultura slovene. In questo senso, l’anno della loro morte ufficiale potrebbe considerarsi il 1928, quando - dopo aver chiuso le scuole, cambiato i nomi, proibito l’uso dell’idioma e abolito quasi tutte le istituzioni culturali della minoranza - il fascismo sopprime anche la stampa in lingua slovena. È, per un’infausta coincidenza, proprio l’anno in cui muore Italo Svevo. (- continua) ZANGRANDO A GORIZIA TRA ‘800 E ‘900 sommario di Walter Chiereghin In questa stagione estiva l’attenzione si è concentrata sulla pittura di un autore mai obliato, se non altro perché assai ricercato dai collezionisti, il triestino Giovanni Zangrando (1876-1941), la cui intensa attività espositiva lo ha reso molto presente nelle cronache artistiche a partire dall’ultimo decennio del secolo XIX. Il ritorno d’interesse e di attualità per il suo lavoro è scaturito dalla concomitante circostanza dell’uscita di una monografia su di lui e da una grande mostra allestita a Gorizia nel prestigioso spazio di Palazzo Attems Petzenstein. Autore e Curatore con Alessandro Quinzi dell’esposizione è il triestino Daniele D’Anza, storico dell’arte che si è già in precedenza segnalato per significativi contributi su riviste scientifiche, nonché per la pubblicazione di una monografia su Zoran Music, un’altra su Vittorio Bolaffio e, in collaborazione con Giuseppe Pavanello e Alberto Craievich, un’altra ancora su Giuseppe Bernardino Bison, le ultime due inserite nella collana sui pittori triestini edita a cura della Fondazione CRTrieste. Lo stesso D’Anza è anche autore della monografia (Franco Rosso Editore, Trieste, 2015, pp. 174, Euro 25). Il volume si avvale dell’apporto di Giulia Babudri per la redazione delle schede del Catalogo - non completo - delle opere e di Michela Zangrando Cortellini per le notizie biografiche. Potendo vantare significative esperienze nella curatela di mostre, anche nel caso dell’esposizione goriziana D’Anza ha dato prova di notevole perizia: ne è risultata infatti un’antologica - probabilmente la più corposa tra quelle dedicate a Zangrando - in grado di porre in rilievo ogni sfaccettatura della produzione artistica dell’Autore, dando conto delle sue connotazioni stilistiche non meno che delle tematiche affrontate, in ambiti che spaziano dalla ritrattistica al paesaggio, dalla veduta alla figura umana, sovente declinata nella variante del nudo femminile, partendo da posizioni realistiche tardo ottocentesche che ben presto si sono evolute in modalità impressionistiche. Nato a Trieste da genitori di modesta condizione sociale provenienti entrambi dal Cadore, Zangrando dimostrò ben presto una naturale predisposizione per le arti figurati- ve, che coltivò proficuamente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove si iscrisse al primo corso nel febbraio del 1885. Dopo un biennio di formazione di base, seguì in particolare i corsi di figura e di ornato e in Accademia subì una duratura influenza da parte di due maestri, Giacomo Favretto (Venezia, 1849 - ivi, 1887) e, soprattutto, Pietro Fragiacomo (Trieste, 1856 - Venezia, 1922). Si distinse tra gli allievi dell’Accademia, conseguendo nel corso della sua permanenza in Laguna numerosi premi e riconoscimenti, l’ultimo dei quali, a conclusione della sua formazione veneziana, gli consentì di continuare gli studi mediante un soggiorno a Monaco, seguendo un iter comune a numerosi altri artisti in quel periodo, tra i quali Isidoro Günhut, Umberto Veruda, Arturo Rietti che, assieme a Giusepe Barison, Carlo Wostry e i più giovani Glauco Cambon e Ugo Flumiani furono compagni dello Zangrando nel costituire a Trieste la generazioni di pittori che avrebbe traghettato le arti figurative dal XIX al XX secolo. Già nel periodo della permanenza a Monaco, dopo che le formulazioni veriste d’ispirazione courbertiana si erano incupite e drammatizzate in particolare nella ritrattistica, si manifesta un deciso schiarirsi della tavolozza, soprattutto nelle immagini di paesaggio. Partecipando attivamente an- Donna appoggiata a una ringhiera olio su tavola Trieste, collezione privata Giovanni Zangrando L’atelier e gli allievi Musei Provinciali di Gorizia Palazzo Attems Petzenstein Piazza De Amicis 2 dal 30 giugno al 30 settembre 2016 a cura di Daniele D’Anza e Alessandro Quinzi Orario: Mercoledì - domenica ore 10.00–17.00 Giovedì ore 10.00–19.00 Biglietti: Intero 6 €, ridotto 4 € Contatti: t. +39.0481.547499 [email protected] Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 7 TRA ‘800 E ‘900 sommario Zangrando dimostrò ben presto una naturale predisposizione per le arti figurative, che coltivò all’Accademia di Belle Arti di Venezia che da Monaco alla vita artistica triestina, Zangrando ottiene la vittoria in un concorso bandito da Cecilia de Rittmeyer che finanziava il soggiorno romano di un giovane artista, per cui si trasferì a Roma, prendendo alloggio in Via Magutta e ampliando quindi sia le conoscenze dei capolavori della storia dell’arte che la cerchia delle proprie amicizie, che inclusero allora, tra gli altri, il pittore Antonio Mancini (Albano Laziale, 1852 - Roma, 1930). Segue al soggiorno romano un periodo parigino, forse parte di un più articolato viaggio per l’Europa. Nella capitale francese, com’è ovvio, entrò in contatto con l’ambiente artistico all’epoca, egemone a livello mondiale, rimanendo sicuramente affascinato dalla tavolozza e dalla tecnica esecutiva di autori quali Degas e Renoir, di cui si troveranno tracce evidenti in tutta la sua successiva produzione, anche se complessivamente informata a una maggiore attenzione al disegno. Rientrato a Trieste nel 1895, vi aprì uno studio che fu subito frequentatissimo e alla sua pittura arrise anche un notevole successo commerciale, soprattutto per merito di un’intensa attività ritrattistica, che conob- Il parasole 1920 ca., olio su tavola Trieste, coll. privata Donna appoggiata a una ringhiera olio su tavola Trieste, coll. privata Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 8 novantanove tra dipinti e disegni, due taccuini di disegni e nove fotografie in bianco e nero realizzate dallo stesso Zangrando be il suo acme nel 1905 con l’esecuzione del ritratto dell’arciduchessa Sofia von Hohenberg, moglie morganatica di Francesco Ferdinando, destinata a condividere con lui la tragica giornata del 28 giugno del 1914 a Sarajevo. Il ventennio che precedette la Grande guerra fu per il Nostro un periodo di grande attività, con partecipazione a numerosi eventi espositivi, ma anche con un vorticoso ricercare una sua cifra, troppo spesso distratto dalle suggestioni che gli provenivano dall’ambiente che lo circondava, soprattutto da colleghi ed amici quali Veruda, Cambon, Grimani ed altri. Per dirla con D’Anza: “l’opera di Zangrando in questo primo ventennio «triestino» è segnata da ricerche, intuizioni, ripensamenti, tentativi di definire il proprio stile, che non ebbero sviluppo lineare, ma che consistettero a volte in periodi ristretti. Non l’originalità a tutti i costi, ma il confronto e la contaminazione di stili o di tecniche con altri artisti triestini, sembra sostenere il suo pennello”. La guerra fu uno spartiacque anche per lui, come per l’Europa intera: trascorse gli anni del conflitto in Toscana, dove ebbe modo di incontrare la pittura dei macchiaioli e dove realizzò diverse piccole vedute di Siena, di Fiesole e paesaggi di piccolo formato illustranti l’Appennino del Senese. Rientrato a Trieste a guerra finita, proseguì con alacrità la sua produzione, presentando con cadenza pressoché annuale le opere prodotte in mostre personali, liberato ormai da ogni assillo commerciale e dedicandosi anzi a riaffermare la sua adesione all’impressionismo dei suoi primi anni, dipingendo sempre più di frequente dal vero ed en plein air, con una freschezza e una velocità di esecuzione che rinnovavano gli entusiasmi giovanili declinati però in una più consapevole e vigile esecuzione, che tuttavia non arrivava a rifinire l’opera, al punto di offrire l’impressione di pubblicare abbozzi anziché dipinti finiti, ma comunque “senza nulla rinnegare di sé stesso”, coma annotò Silvio Benco. Passato indenne e sostanzialmente indifferente attraverso ogni avanguardia del nuovo secolo, rifuggendo da tentazioni futuriste o cubiste, continuò a produrre la sua pittura serena e a gettare TRA ‘800 E ‘900 sommario Autoritratto 1940 Pastello su cartone, coll. privata attorno a sé uno sguardo sorridente e carico di bonomia, fino al concludersi della sua avventura umana, nel 1941. L’esposizione goriziana si qualifica oggi come la più ampia esposizione antologica sinora dedicata al pittore triestino e al suo magistero, che conta novantanove tra dipinti e disegni, ai quali vanno sommati due taccuini di disegni e nove fotografie in bianco e nero realizzate dallo stesso Zangrando. In parallelo, nel contesto della Pinacoteca, sono esposte le opere dei suoi allievi conservate presso i Musei Provinciali di Gorizia: dai più noti Adolfo Levier, Giannino Marchig, Arturo Nathan sino aGianni Brumatti ed Emma Galli. Terrazza fiorita olio su tela Trieste, coll. privata Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 9 NUOVE TECNOLOGIE sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 10 NASCERE DIGITALI / 2: L’universo della comunicazione di Giuseppe O. Longo L’ingresso nell’era digitale si accompagna a due transizioni importanti. In primo luogo vi è il passaggio sempre più evidente dall’evoluzione biologica, retta dai meccanismi darwiniani di mutazione e selezione, all’evoluzione bioculturale, e in particolare biotecnologica, dove ai meccanismi precedenti si affianca anche il meccanismo lamarckiano dell’ereditarietà dei caratteri (culturali) acquisiti. Questo fenomeno si basa su processi, come l’imitazione, l’apprendimento, la moda, che agiscono non solo da una generazione alla successiva, ma anche all’interno della stessa generazione. Ne segue che l’evoluzione bioculturale ha natura “epidemica”: è molto più rapida di quella biologica, ma i suoi prodotti sono più fragili e volatili. In secondo luogo, sul versante della tecnologia, accanto alle macchine tradizionali, che elaborano materia ed energia, sono comparse le macchine della mente, che elaborano informazione. In un susseguirsi sempre più rapido: il cinema il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione, il calcolatore elettronico, le reti: sistemi e dispositivi che si sono affiancati a quelli tradizionali basati sulla comunicazione orale, sulla scrittura e sulla stampa. Inoltre lo sviluppo delle reti, derivate dall’accoppiamento fra telecomunicazioni e calcolatori, ha dimostrato che la vera vocazione dei computer non è solo o tanto l’esecuzione di calcoli laboriosissimi o il trattamento di enormi masse di dati, quanto il collegamento interattivo tra gli individui. Sempre più essi fungono da nodi della grande rete di comunicazione che si sta estendendo su tutto il pianeta. L’uomo è una creatura della comunicazione e dello scambio: la sua struttura corporea e la sua intelligenza si sono co-evolute in stretta interazione con un ambiente che ha impresso nella specie il proprio sigillo, dando origine a un apparato neuro-sensoriale e cognitivo che filtra le stimolazioni della realtà e costruisce il mondo da noi percepito, che è diverso da quello di ogni altra specie. Su questo apparato s’innesta in modo agevole e quasi anestetico (almeno in apparenza) la tecnologia informazionale, accanto alle macchine tradizionali sono comparse le macchine della mente la quale prolunga l’evoluzione biologica in un’evoluzione biotecnologica, modificando le categorie della percezione e della cognizione e influendo anche sugli affetti. Lungi dall’essere un fenomeno superficiale, la tecnologia incide dunque sul nostro modo di vedere il mondo e sulla nostra essenza cognitiva ed emotiva più intima. A questo proposito è esemplare il caso della televisione, che per molti costituisce un vero e proprio occhio sul mondo, fonte di informazione, intrattenimento ed emozioni (a prescindere dalla qualità). L’aspetto forse più limitativo del rapporto con la Tv è la sua unidirezionalità, temperata soltanto dall’uso del telecomando, che consente allo spettatore di ricavarsi un tracciato personale tra programmi di per sé rigidi. È un inizio di interattività, che soddisfa, sia pure in modo embrionale, la profonda esigenza dialogica degli umani. La comunicazione è un fenomeno complesso, in cui si mescolano elementi naturali e convenzionali, sintattici e semantici, pragmatici ed emotivi. È un’attività, quella comunicativa, intessuta di metafore, di significati empirici e di ambiguità che screziano e arricchiscono il puro scambio di informazioni, corredandolo di tutta una serie di valenze metacomunicative ed extracomunicative, senza le quali lo scambio si ridurrebbe a poco più di niente. La comunicazione si articola in codici più o meno flessibili, aperti in vario modo a interessi cognitivi, affettivi e collaborativi. Ed è proprio la volontà di collaborazione dei parlanti che ne costituisce forse l’aspetto più caratteristico e significativo: grazie a questa volontà e animati da essa, i dialoganti esplicano un controllo e un continuo aggiustamento dell’interazione, che porta alla condivisione di regole sempre diverse e alla costruzione di convergenze mutevoli, di volta in volta adatte agli scopi della comunicazione. L’aspetto collaborativo della pratica linguistica (che secondo alcuni troverebbe un correlato fisiologico nei co- siddetti neuroni specchio) si esplica in una continua ridefinizione e reinterpretazione, da parte dei dialoganti, dei dati e delle relazioni, dati e relazioni che non sono solo interni alla lingua, ma anche esterni: per esempio la relazione tra gli stessi dialoganti. Emergono così le componenti extra-grammaticali ed extralinguistiche della comunicazione, che è fatta non solo di informazioni scambiate ma anche, e soprattutto, di intenzioni e di progetti, di scopi e di aspirazioni che riguardano il mondo dei soggetti, cioè un contesto quanto mai ampio e articolato. Ed emerge anche l’idea, già espressa dagli antichi Stoici, che il pieno sviluppo delle caratteristiche umane, cognitive e non solo, avvenga grazie all’interazione sociale. Per questo è fondamentale che, per esempio, nella relazione tra docente e discente, si apra il canale della collaborazione empatica, dell’interesse affettivo e umano, della relazione personale, canale che è sempre bidirezionale, anche quando il discente tace: per quel canale empatico possono poi transitare tutte le informazioni, tutti i dati, tutte le nozioni. Se quel canale non si apre, non passa nulla. (2 - continua) NUOVE TECNOLOGIE sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 11 RISCOPERTE sommario Peter Schmitz Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 12 “GOLGATHA” (GOLGOTA) DI PETER SCHMITZ di Fulvio Senardi Il nome di Peter Schmitz dice assai poco, ne siamo convinti, anche ai maggiori esperti di letteratura di guerra. Lo vede nascere, nel 1887, Eupen, un villaggio a pochi chilometri da Aquisgrana (Aachen), sul confine belga, e facente allora parte, per eredità prussiana, del Reich tedesco. Schmitz ha da poco iniziato la sua attività artistica quando scoppia la guerra, e il ventisettenne, sedotto dalla propaganda e trascinato dagli entusiasmi di un agosto, quello del ‘14, cupamente ‘radioso’, corre ad arruolarsi nell’esercito imperiale ; la prima destinazione è sul fronte della Champagne, quindi una lunga sosta negli ospedali militari per curarsi dal tifo. Nel ’16 è a Verdun, dove viene promosso sergente e quindi ferito. Degradato, così i suoi biografi, per aver difeso una francese dei territori occupati dalle avance impertinenti di un ufficiale, partecipa alla battaglia della Somme e riottiene, con la croce di ferro, il suo grado. Nuovamente in ospedale per una crisi di nervi, viene posto in congedo nel gennaio del 1918. La fine della guerra fa avanzare i confini del Belgio di qualche chilometro verso ovest, conglobando anche Eupen: un’esperienza di ‘confine mobile’ (fenomeno ben noto dalle nostre parti) che educa Schmitz al relativismo delle appartenenze, mostrandogli l’assurdità della guerra fra i popoli. Si impegna da allora su un altro fronte, quello del pacifismo, e con particolare dedizione nella misura in cui prendono il sopravvento, nella vicina repubblica tedesca di cui condivide la lingua e conosce il lato oscuro, il militarismo e lo sciovinismo. Una sua attività di particolare natura, coordinare operazioni di spionaggio nel III Reich, e di sostegno a transfughi di religione ebraica ne fa un sorvegliato speciale della Gestapo: quando nel maggio del 1940 l’esercito di Hitler invade il Belgio la tomba di Schmitz, che è morto nel 1938, viene profanata dagli invasori e un anno più tardi sua figlia è internata in un Lager. Fin qui nulla che possa veramente interessarci, in una vita pur densa di vicende e spesa, chi vorrà negarlo ?, per la buona causa. Ag- giungiamo, per venire al nostro tema, che nel Belgio occupato i tedeschi distruggono tutte le copie che riescono a rastrellare di Golgatha, il romanzo di guerra che Schmitz aveva dato alle stampe, in una prima versione, nel 1931, sulla rivista L’Invalide, edizione del Belgio orientale, e quindi, in volume nel 1937, con il titolo Golgotha – Ein Kriegsroman, per i tipi della Paul-Kaiser-Verlag di Eupen. Inutile dire che l’anno di pubblicazione, con il nazismo trionfante, non lasciava margini in Germania per la diffusione e rendeva impossibile, non dico il successo, ma nemmeno la discussione, in sede critica, di un libro assolutamente contro-corrente. Fortunosamente strappato all’oblio Golgatha rivede oggi (2014) la luce, nella collana «storia e pace» della casa editrice Donat di Brema, con prefazione e cura di Philippe Beck, e postfazione di Helmut Donat. Chi scrive non si illude che una casa editrice italiana voglia assumersi il compito di tradurre e pubblicare il romanzo di Schmitz (eventualità possibile solo se - scartiamo a priori le grandi case cui sta a cuore solo il fatturato - se ne innamorasse qualche piccolo editore avventuroso), resta il fatto che presentare al pubblico italiano, con qualche parola almeno, un libro che appartiene di diritto al grande canone del romanzo di guerra, appare insieme un dovere e un piacere. Si tratta dunque, per entrare subito in argomento, di un romanzo a episodi (16, per l’esattezza, che coprono un periodo dal 1914 al 1916), caratterizzato da un andamento particolare, poiché alterna il vero e proprio racconto a momenti in cui l’Io autorale erompe in riflessioni, giudizi, invettive, gli eventi e le pause discorsive che li commentano, alla luce di un rifiuto della guerra sempre più netto e consapevole. Il romanzo, va ancora detto, è in prima persona e assume la forma del diario, indicando con una certa precisione i luoghi mentre la scansione del tempo che prevale è quella delle stagioni, quasi a semplificare il calendario, in un contesto che riduce l’esistenza a ritmi elementari e sempre uguali: le at- sedotto dalla propaganda e trascinato dagli entusiasmi corre ad arruolarsi nell’esercito imperiale tese in trincea dell’attacco nemico o la preparazione al proprio, i pasti, il sonno, i turni di riposo, finendo quasi per negare la nozione di tempo comunemente intesa. Philippe Beck, che ha firmato l’introduzione, ci informa che facevano parte della biblioteca personale di Schmitz tanto Guerra di Renn che All’ovest niente di nuovo di Remarque, avanzando inoltre l’ipotesi della conoscenza da parte dell’autore di Le croci di legno (1919) del francese Dorgelès. Analisi più approfondite dovrebbero inoltre valutare la possibilità della lettura del Soldato Schvejk da parte di Schmitz, che, quasi in forma di controcanto burlesco per allentare la tensione e allontanare l’onnipresente ombra della morte, inserisce nel racconto parentesi comiche prese dalla vita di retrovia: gli episodi del soldato che cade nel pozzo nero della latrina da campo, del tiro birbone giocato al sottufficiale dell’ospedale, o del furto delle galline del maggiore, ecc. ecc., aprono brevi spiragli di luce in un libro dalle tinte cupe, e che non mostra alcuna reticenza, differenziandosi da molta narrativa di guerra, nel descrivere corpi e volti contratti dalla morte o storpiati in modo orribile dalle ferite. Nulla toglie al grande fascino del libro una certa prevedibilità di situazioni (la corsa disperata per portare un commilitone, gravemente ferito, all’ospedale da campo, e salvargli così la vita, oppure la scoperta del tradimento della moglie da parte di un soldato che, senza preavviso, giunge a casa in licenza: sacrificherà poi la vita cedendo a un camerata ferito la maschera anti-gas), come pure certe parentesi, nel gusto degli anni Trenta e certo giustificate dalla fede pacifista dell’autore, dove l’espressione prende una intonazione didascalica e scade nella declamazione, come, lo vedremo, nelle pagine finali, un vero inno alla pace fra i popoli. Per altro, acquisita ormai, anche per merito dei narratori, una interpretazione della Grande guerra come scontro di materiali («i pendii della Champagne sono diventati il Golgata degli eserciti che si contrappongono nelle trincee di terra gessosa. Qui la guerra è un assassinio organizzato, uno scontro di materiali, una lotta impersonale in cui l’esistenza singola perde ogni valore» Golgatha, p. 143), Schmitz riesce a evocare come pochi altri scrittori del suo tempo il senso di oppressione e la disperazione di chi si sente condannato a morte dentro la trappola della prima linea, la crescente atonia di uomini ridotti alla sola esistenza animale, i «trinceristi», rintanati durante i bombardamenti nei loro loculi, da cui riemergono al calar della notte come un popolo di ombre. Una cronaca di nuda sopravvivenza, con uomini rassegnati a vivere come all’età della pietra, alla deriva in un lugubre paesaggio di rovine che cancella, in senso proprio e figurativo, tutti i colori del mondo e con essi ogni gioia di vita: tronchi d’alberi bruciacchiati, crateri anneriti, cadaveri e carogne in putrefazione («ci ubriachiamo e ci raccontiamo barzellette oscene, negando la nostra umanità per non impazzire» - p. 250). Una resa quasi, potremmo osare, di carattere «filmico»: a tratti la guerra diviene assordante, gli scoppi, i lampi, le schegge, il fumo, i lamenti dei feriti, (e le loro preghiere, gridate o mormorate) riempiono tutto lo spazio mentale del lettore, e il miracolo della grande letteratura ci trasporta là dove non vorremmo essere, testimoni oculari della mostruosa carneficina. Giustamente Beck suggerisce che l’Io del romanzo sottintenda e spesso lasci percepire un «noi», il noi del cameratismo, che è un sottoprodotto positivo dell’esperienza di guerra, ma che non basta certo a giustificarla, come invece agli occhi di altri scrittori: è lo stringersi insieme di uomini esposti all’orrore, è una briciola di quella solidarietà fra creature che rende degna la vita dell’uomo e che con ben maggiore energia e migliori risultati la pace saprebbe esaltare. Nel sangue e nel fango, tra vomito e feci, fame e sporcizia, morsi di pidocchi e privazioni infinite, la guerra non ha catarsi, sempre e comunque degradante non risparmia niente e nessuno (tremenda a proposito la figura RISCOPERTE sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 13 RISCOPERTE sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 14 La consapevolezza di un’esistenza bruciata è un motivo che ritorna, e pone un’amara ipoteca sul futuro dei sopravvissuti d’intreccio della francese Arlette, che il protagonista incontra, ragazza spensierata di un villaggio occupato, e che finisce per guadagnarsi il pane in un bordello per soldati, o la visione del paese natale di Paul Bürger, diventato una Mecca del mercato nero): il cameratismo, la Kameradschaft, non è un suo dono, ma un atomo di residua umanità che neppure la prova più terribile riesce a intaccare («l’orribile guerra non ha potuto assassinare l’amore. L’amore dell’uomo trionfa sull’orrore e sulla morte» - p. 129). Se è vero, come ha dimostrato Eric Leed (Terra di nessuno Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale) che l’esperienza di guerra è stata segmentante e disgiuntiva (separando in modo netto un prima e un dopo, un qui e un altrove, un io o un noi dagli altri), colpisce come Schmitz declini questo tema: i soldati e gli ufficiali subalterni contrapposti agli ufficiali superiori e di stato maggiore, la «carne da cannone» delle prime linee agli imboscati della sussistenza o di retrovia, i soldati che vivono nella penuria e coltivano il valore della reciproca lealtà e i furfanti che si ingrassano col mercato nero. Verso il «nemico» invece (der Feind, der Franzman) non una sola parola d’odio: risoluto a difendere la pelle in trincea con tutte le armi a disposizione (il romanzo è finemente chiaroscurato e per un attimo ci mostra anche Bürger preda della follia guerriera: «sono posseduto da una pazzia che non trova alcuna spiegazione: solo uccidere, difendersi, finché il cuore batte» - p. 185), è tuttavia proprio grazie al «nemico» che, nei giorni di riposo in territorio occupato, egli vive le sue esperienze di più ricca umanità: «Di sera tardi suona l’allarme. In gran fretta si riempiono gli zaini. Saluto Madame Bourgois. L’addio commuove la vecchia signora. ‘Pauvre garçon!’ continua a ripetere, e come balbetto il mio ‘grazie’, succede qualcosa di inaspettato. Gli occhi della vecchia signora si inumidiscono, prende la mia testa fra le sue mani che tremano, fra le sue mani avvizzite, e mi bacia sulle guance. ‘Pauvre garçon!’ – io so, l’anziana francese non ha baciato il nemico, ha baciato i combattenti di tutte le nazioni. Ha baciato una generazione di aitanti ragazzoni condannati a morire strangolati dalla mano fredda della morte. E questo bacio della vecchia signora francese diventa la benedizione di mia madre lontana» (p. 122). La consapevolezza di un’esistenza bruciata è un motivo che ritorna, e pone un’amara ipoteca sul futuro dei sopravvissuti: «la notte chiara di stelle mi riempie di desideri insensati di pace e felicità; e mi rende indicibilmente triste, perché so che la guerra mi brucia l’anima, che con i miei 24 anni sono diventato un vecchio e che di essa, la guerra, non mi libererò mai più. Potrò mai aver di nuovo stima dell’uomo? Sono un’esistenza perduta della guerra mondiale» (p. 232). Schmitz non ha raccontato del ritorno a casa del suo alter ego, Paul Bürger; dove sono i camerati del ’14, si chiede in una delle ultime pagine: le loro ossa imbiancate giacciono nei boschi delle Ardenne, sulle sponde della Marna e della Mosa, sui pianori gessosi della Champagne e della Picardia. Essersi salvati impone un dovere di testimonianza, e ciò che a SchmitzBürger interessa narrare è la guerra, quell’incubo da cui i reduci non sapranno mai liberarsi, e forse, nel caso specifico, la dolorosa palestra che spiega il suo formarsi a un’idea dell’uomo che esalta i valori della vita e trasforma lo scrittore in un irridicibile nemico del militarismo, senza o con croce uncinata. In una sintonia che sorprende con il messaggio di Ritorneranno del nostro Stuparich, Golgatha si chiude con frasi di speranza per l’umanità, per il cui futuro Schmitz si è impegnato con tenacia e abnegazione, spegnendosi prima di assistere alla nuova fiammata dell’odio: «Chiederemo con forza: pace sulla terra! Giù le armi! Siate fratelli, popoli del mondo, in una comunione di pace, affinché il nome: uomo significhi amore universale e bontà. E verso questa meta ci accompagneranno i morti della guerra […] trionfa in noi la fede negli uomini di buona volontà e nella forza del loro amore» (pp. 278-9). QUARANT’ANNI DOPO PASOLINI di Gianfranco Franchi A quarant’anni di distanza dalla morte violenta dell’artista friulano Pier Paolo Pasolini, nella pioggia di omaggi e di commemorazioni opportunamente previste, merita interesse il florilegio Caro poeta caro amico curato da Ignazio Gori e Claudio Marrucci per la Sound System Records, pubblicato in abbinamento a un cd, piuttosto fragilotto, del giovane latinese Andrea Del Monte. L’opera è suddivisa in due parti: la prima, Parole, è una raccolta di versi dedicati a Pasolini; la seconda, Pasolini visto da vicino, una raccolta di interviste concentrate sul poeta di Casarsa. Entriamo nel dettaglio. Parole è decisamente ondivaga. Ad affiancare le poesie di tre dei più ispirati poeti romani contemporanei c’è un discreto numero di figure diversamente memorabili; peccato, perché l’impatto poteva essere diverso, evitando zoppie, mezze prose e didascalie. Ma sentite qua. Antonio Veneziani, l’ultimo poeta beat, l’ultimo pezzo della Scuola Romana, canta l’attesa della distruzione di Roma, “crepata nei muri e nelle anime”. È “la città che ha massacrato te e / uccide la poesia […] / Non l’avevo messo in conto, / questa città non è più casa mia”. Fratello di Antonio Veneziani e suo storico sodale è il romanziere abruzzese Renzo Paris, capitolino d’adozione, erede e biografo primo di Moravia. Paris insiste sulla morte della poesia nella morte di Pier Paolo: “Chi non se n’è accorto / sta fuori di qui e prende questi versi / per un ritorno”. L’aristocratico proletario Fernando Acitelli, orgoglioso cantore delle periferie romane di ieri e di oggi, subito insegna che “più scavato è lo sguardo in borgata”. Cosa che Pasolini ben sapeva. E poi sussurra che “oltre il nome proprio nulla serve / basta sapersi nello stesso posto / l’indomani sera giù al Pigneto […] in cuore la ferita sta al poeta”. Infine, merita menzione uno dei curatori, Ignazio Gori, che va cantando chi ha finito per “Morire di poesia / annegare quel passato / eretico e corsaro / di un paese senza Stato”. Veniamo alla seconda parte, Pasolini visto da vicino, curata per lo più dal giovane letterato Claudio Marrucci. Walter Siti, curatore del Meridiano pasoliniano, rivendica la bellezza dell’ingenuità quasi infantile del poeta, il suo coraggio civile, la sua convinzione che la vita sia “incontenibile dalla letteratura”, e ribadisce che considera Le ceneri di Gramsci il suo massimo risultato in versi, per la facilità di versificazione, la sintassi dilatata, il nichilismo passionale. Renzo Paris, fresco autore del memoir Pasolini ragazzo a vita, in uscita per la Elliot a fine autunno, in cui finisce per raccontare un Pasolini “borghese”, conosciuto tra 1966 e 1975, ritornando sui luoghi più amati dal poeta, ribadisce che considera imprescindibile il Meridiano curato da Siti. Lo scrittore isolano Fulvio Abbate, romano d’adozione, sostiene che a Pasolini dobbiamo “la luce degli anni Settanta”; e che Pasolini sia stato innanzitutto un poeta, e che poeta sia rimasto sia da polemista sia nella sua dimensione pedagogica. Il professor Tullio De Mauro ricorda che il poeta è stato una delle persone più generose di cui abbia mai avuto notizia. E considera cifra linguistica dell’artista “la ricerca continua, da ‘bestia da stile’, della sperimentazione delle varie potenzialità espressive della parola e di altri linguaggi”. Il regista Citto Maselli, vecchio antagonista, esalta Una vita violenta e Ragazzi di vita, considerandoli i massimi risultati della produzione pasoliniana; e ricorda che leggendoli l’emozione suscitata da certi passi era così profonda e assoluta da essere sostanzialmente poetica. Il saggista Grattarola, appassionato e lucido lettore di cose pasoliniane, condivide la posizione di Maselli su Ragazzi di vita, aggiungendo tuttavia Accattone, che considera la continuazione su pellicola del romanzo. Infine, non stupisce scoprire che il critico letterario Emanuele Trevi considera invece l’incompiuto Petrolio il massimo esito di PPP: il suo notevole Qualcosa di scritto rimane, a mio avviso, il più ispirato tributo al maestro apparso dal giorno della tragedia ad oggi. A CHIARE LETTERE sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 15 BENI CULTURALI sommario Bocca cannoniera presso la Porta della Bora, attuale ingresso del parco. Maggio 1945 (Da Tuttocat, Rivista di speleologia urbana) Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 16 IL PARCO DI MIRAMARE /3: LE TRASFORMAZIONI di Maurizio Anselmi Le aperture al pubblico del parco volute da Massimiliano, e lamentate dal giardiniere Jelinek (v. Il Ponte rosso n. 3), segnarono un inizio virtuale delle modifiche di uso. Il cambiamento delle condizioni sociali ed economiche implica sempre modificazioni alle opere d’arte e al loro contesto, spesso radicali e non compatibili con lo stato originario del bene. Miramare e i suoi dintorni sono stati in passato, e - sebbene in misura minore - lo sono anche oggi, trasformati dalle esigenze di urbanizzazione del territorio e della vicina città di Trieste. La pressione antropica ha creato la costruzione, sul costone costiero e nel vicino porticciolo di Grignano, di edifici e complessi edilizi fino a ridosso del parco. Il parco condivide la sorte di molti monumenti italiani: è stato progressivamente chiuso in una morsa che lo ha isolato dal contesto e slegato dal rapporto con il territorio dal quale attingeva le risorse idriche e che costituiva il naturale retroterra culturale. La costruzione della strada costiera ha interferito in modo importante con la realizzazione delle due gallerie che ha provocato una cesura nella parte alta del parco e con i contrafforti di sostegno che incombono sopra le scuderie. Nonostan- te le limitazioni poste dai piani urbanistici e il vincolo paesaggistico, numerose sono le edificazioni private e i complessi edilizi che si spingono fino al confine con il comprensorio demaniale. Fra essi i più rilevanti per interferenza visiva sono un vivaio commerciale insediato su un terreno confinante con il parco e il Centro di Fisica, la cui realizzazione ha apportato profonde modificazioni morfologiche alla valle retrostante le scuderie, incisa da un corso d’acqua che scende da Prosecco e deviato dagli spostamenti di terra e dalle opere fondazionali (Fig. 2). Il porticciolo di Grignano è stato realizzato nel dopoguerra e costituisce lo scenario di uno dei due ingressi principali del parco. Purtroppo i turisti devono passare fra automobili parcheggiate fino a ridosso del cancello d’ingresso in un ambiente contornato da un’edificazione di bassa qualità legato al boom degli anni ‘60 del secolo passato. Miramare, realizzato dalla visione privata di un componente di rango della famiglia imperiale, nel tempo è stato utilizzato come un sito di interesse pubblico ove si insediarono i rappresentanti del potere che erano alla ricerca di un posto dove rappresentare la propria autorità. Amedeo di Savoia Duca D’Aosta vi risiedette con la famiglia negli anni dal 1932 al 1937 apportando numerose trasformazioni all’interno del castello, ove fece creare i suoi appartamenti che sono ancora oggi visibili con gli arredi d’epoca e, in quanto consolidati nella loro presenza storica, inseriti nel percorso di visita del museo. Tali ambienti sono stati sottoposti ad una profonda trasformazione, progettati dall’architetto della Regia Soprintendenza Alberto Riccoboni che realizzo anche gli arredi e rivestimenti nello stile allora in voga. In tale periodo nel castello furono realizzati anche due ascensori, dei quali uno tuttora in uso, abilmente inseriti negli spessori murari. Le modifiche effettuate dal Duca D’Aosta all’esterno risultano oggi meno visibili perché cancellate o “assorbite” nella nuova immagine del parco. Fino a Miramare si insediarono i rappresentanti del potere che erano alla ricerca di un posto dove rappresentare la propria autorità agli anni 90 del Novecento sul retro del bar vi era un parcheggio/deposito sul luogo che il Duca aveva adibito a campo da tennis. Alla fine del secolo scorso tale il sito è stato riprogettato dall’architetto Ruggero De Calò e da chi scrive per realizzarvi i nuovi servizi igienici e una nuova sistemazione a verde che conclude il parterre. Un’altra trasformazione profonda del periodo del Duca D’Aosta ha riguardato il piazzale antistante il castello, che era originariamente contornato da profonde aiuole verdi documentate dalle foto e dalle mappe storiche (v. figg. 4 e 5); la trasformazione in piazzale d’onore a spese del verde, forse anche per consentire un agevole transito alle automobili. Il progresso del “secolo veloce” iniziava a far prevalere i propri valori. Anche la seconda guerra mondiale ha lasciato importanti vestigia come il bunker in cemento a fianco del castelletto, demolito negli anni Novanta, e le cannoniere adiacenti il parcheggio distribuite da una galleria ipogea con due ingressi contrapposti, uno dietro l’attuale portineria e l’altro a fianco dell’edificio delle scuderie (v. fig. 1). Alla fine del 1945 e per tutta la durata del Governo Militare Alleato le truppe neozelandesi e successivamente quelle inglesi insediate a Miramare, fuori da ogni controllo ed in modo del tutto autoreferenziale, hanno effettuato modifiche importanti persino alla sala del trono che era stata divisa in altezza per ricavarvi sale da ballo ed appartamenti. Tutte le decorazioni hanno dovuto essere ricostruite dalla Soprintendenza negli anni Ottanta del Novecento sulla base della documentazione storica agli atti. Il periodo recente non fu meno problematico per le trasformazioni nel parco, alcune avvenute sotto gli occhi della Soprintendenza che non ebbe forza sufficiente per resistere alle pressioni esterne e alle ingerenze di stampo politico che favorirono l’insediamento di soggetti estranei che non avvantaggiarono in alcun modo il parco e anzi provocarono gravi problemi agli immobili storici. Primo fra tutti il “Giardino delle farfalle” a cui venne affidata la serra storica ottocentesca. Vi furono insediate attività zoofile con animali esotici, assolutamente incompatibili con lo stupendo edificio storico che è stato pesantemente danneggiato dall’inserimento di attrezzature per la climatizzazione. Il titolare dell’iniziativa aveva anche installato, sotto gli alberi, un impianto di produzione del ca- BENI CULTURALI sommario Mappa storica 1862 Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 17 BENI CULTURALI sommario Mappa riportante l’originaria configurazione a verde del piazzale Foto storica testimoniante la configurazione a verde del piazzale caratterizzata da palme e specie perenni in aiuole di estensione più ampia di quelle odierne. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 18 sarà necessario un impegnativo lavoro di restauro quasi archeologico, per eliminare il degrado e ricostruire le parti danneggiate lore alimentato da un bombolone a gas sprovvisto di ogni autorizzazione e senza i necessari requisiti di sicurezze. Attorno alle serre era nata una vera e propria baraccopoli con annessa discarica di materiali edili (figg. 6 e 7). Erano state modificate irreversibilmente le finestre laterali per ricavarvi le uscite di sicurezza e le murature interne ed esterne per ammorsarvi strutture espositive e bestiari. Vedremo che sarà necessario un impegnativo lavoro di restauro quasi archeologico, per eliminare il degrado e ricostruire, sulla base di un’attenta analisi, le parti danneggiate. Il castelletto è il più importante monumento storico del parco dopo il castello perché Massimiliano e Carlotta vi risiedettero in attesa che questo venisse completato e perché ospita al primo piano una decorazione di rara bellezza. Nel Novecento era stato adibito a museo ed aveva ospita- to la galleria d’arte moderna di proprietà dello Stato, oggi non è più esposta per mancanza di spazi. Nel 1996 il castelletto venne concesso in uso al WWF, quale Ente gestore della Riserva naturale marina, per diciannove anni. In luogo del versamento del canone Il Ministero dell’Ambiente finanziò i lavori di sistemazione dell’immobile per la realizzazione di aule didattiche sul tema dei fondali marini al pianoterra e deli uffici al primo piano. L’attuale sistemazione non valorizza adeguatamente gli ambienti dell’importante monumento perché ha cancellato la spazialità della dimora storica che non è più fruibile dal pubblico. I temi dell’ambiente marino potrebbero trovare adeguata e comoda collocazione in più razionali edifici all’esterno del parco e nel castelletto potrebbero ritornare le opere d’arte della collezione Mentasti e della Galleria Nazionale d’Arte Antica di proprietà dello Stato aumentando l’offerta culturale del parco. Stato di degrado delle Serre storiche “L’ISTITUZIONE INVENTATA” DI FRANCO ROTELLI di Piero Del Giudice L’istituzione inventata è il voluminoso libro-oggetto che Franco Rotelli consegna in pubblico sul processo di riforma radicale degli insediamenti psichiatrici a Trieste. Lo fa datando dall’incarico assegnato nel 1971 dalla coraggiosa amministrazione provinciale di Michele Zanetti a Franco Basaglia per la direzione dell’Opp (Ospedale psichiatrico provinciale, il manicomio) di Trieste. Nome e cosa scomparsi dal linguaggio comune, dalla nomenclatura istituzionale (contestuale l’immissione sul mercato degli enormi spazi già reclusonari), dalla Storia. “Un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia” (Michel Foucault). Inizia allora, a Trieste, la cosiddetta ‘rivoluzione basagliana’ per un’istituzione sanitaria che abbia al centro la cura della persona. È storia di liberazioni di individui e comunità, di arricchimenti e rivelazioni. Comincia più di quarant’anni fa: dietro le mura, dentro i reparti cintati del manicomio ci sono, a Trieste, 1200 internati. Persone con malesseri temporanei, persone nate con lesioni, alcoolisti, anziani senza famiglia, minori senza famiglia, prostitute, nomadi, vagabondi, marginali, inquieti ribelli sociali, gente con una propria parabola ed esperienza di vita e gente che la vita non l’ha mai vista, cresciuta e vissuta dietro le grate, ciurma della nave dei folli - le loro grida si sentono fuori le mura -, testimoni della segregazione e lontananza. Tra discepoli, allievi e sodali, Basaglia indica - alla vigilia della morte - nel 1980, come suo successore a Trieste Franco Rotelli. È questo giovane psichiatra - già prima al manicomio di Colorno (Opp di Parma), poi a Castiglione delle Stiviere (manicomio giudiziario) - il più convinto della necessità di una radicale riforma, dopo il fondatore. Sarà Rotelli il continuatore e l’inventore delle successive e anche ansiose cadenze della riforma sanitaria complessiva nella città giuliana e nel territorio circostante. Sarà lui, sino alla riforma territoriale successiva, il coordinatore dei servizi di salute mentale. Dagli interni dei reparti si è passati intanto, in dieci anni, ai Centri di Salute Mentale territoriali (nel libro la ‘scoperta del territorio’, testo del primario Mario Reali), il malato è fuori, non più ‘cosa’ reclusa, ma fruitore di servizi. Dal nulla di esistenza al lavoro in cooperative sociali, dalla tortura voltaica dell’elettroshock, dalle gabbie, dai letti di contenzioni, dalle botte, dai getti d’acqua gelida con gli idranti, dall’interno dei reparti, a domiciliazioni normali, ad appartamenti nel tessuto urbano, all’agorà: “all’effettiva possibilità di un suo potere nella vita della città […] che possa costituire il terreno di crescita dei diritti, di arricchimento di risorse per l’intera comunità” (F. Basaglia). Rotelli costruisce questo Almanacco con un sapiente bricolage: testi e disamine proprie e altrui, cadenze di riflessioni sulla follia, atti amministrativi e legislativi del processo riformatore, irruenze di organi d’informazione che eccitano la vulgata sulla follia e molte immagini: fotografie del passato di reclusione, del presente di liberazione, degli oggetti prodotti dal lavoro creativo e febbrile messo in campo, immagini della rivolta e delle nuove relazioni e comunicazioni. Il libro si apre con due protagonisti della fascinosa, tragica, antica, saga della follia. Antonin Artaud (1896-1948) - commediografo, scrittore, attore di teatro francese, nota la sua importanza nella storia della letteratura e noti i ricoveri in manicomio nella sua biografia - e Augusto Tamburini (1848-1919) una delle figure dominanti i luoghi della psichiatria, prima della riforma. Scrive Artaud ai suoi curanti: “Ci leviamo contro il diritto, attribuito a uomini di STORIA sommario Franco Basaglia, con i ‘matti’ pronti per il volo, all’areoporto di Ronchi nel 1976 Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 19 ARCHITETTURA sommario Franco Rotelli (a cura di) L’Istituzione inventata Almanacco. Trieste 1971-2010 Alphabeta Verlag, Merano, 2015 pag. 320, € 29) Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 20 Trieste conosce ancora, ne ha memoria, la vicenda della liberazione dal manicomio, nonostante le mutazioni della città vedute più o meno ristrette, di sanzionare mediante l’incarcerazione a vita le loro ricerche nel campo dello spirito […] gli ospedali per alienati, lungi dall’essere dei luoghi di cura, sono prigioni spaventose dove i detenuti forniscono una mano d’opera gratuita e sottomessa, dove le sevizie sono regola”. Scrive Tamburini: “I nichlisti di Russia, i Mormoni e i Metodisti d’America, gli incendiari di Normandia del 1830 ed or ora quelli della cosiddetta Comune Parigina che come dimostra Lombroso sulle notizie fornite da Laborde può in gran parte ridursi ad una piromania (mania incendiaria epidemica) […] tutti questi esseri capacissimi di destare tali epidemiche alienazioni e che non sono che malati o sempre pronti ad ammalare costituiscono oggi una generazione di agitati sociali che il Lombroso reclama si affidino al manicomio criminale. V’ha qui una lesione al diritto, alla giustizia? No certamente: è una questione di profilassi, d’igiene sociale [contro] un focolaio attivissimo di infezione sociale”. Di fronte allo scontro di classe della seconda metà dell’Ottocento la scienza si allinea e indica il luogo di reclusione degli insorgenti, dei riotings, degli ‘agitati sociali’. Il nazismo, senza una evidente insorgenza della scienza, li eliminerà direttamente. Libro di conflitto, libro aperto, non specialistico, questo di Rotelli. Trieste conosce ancora, ne ha memoria (molti protagonisti sono vivi), la vicenda della liberazione dal manicomio, nonostante le mutazioni della città. Il problema non è allora la storicizzazione, ma l’attualità di alcuni cardini di quella riforma, cardini su cui si regge il pensiero riformatore che continua ad alimentare il lavoro nell’oggi di Rotelli (consigliere regionale, presidente della Commissione sanità e patrocinatore della recente riforma regionale). Se è possibile una sintesi essi sono: a) la ‘relazione’, b) il rovesciamento del concetto di ‘inutilità’ e di ‘scarto’, c) la ‘internità’ come presupposto della conoscenza. In esergo al libro l’Autore installa ed elen- ca 500 nomi e cognomi in ordine alfabetico, a significare la moltitudine di protagonisti e testimoni del processo di modificazione del reale avvenuto. Solo con il lavoro collettivo è possibile l’opera. Così l’autore denuncia le solitudini autoriali, dirigenziali e specialistiche. I temi della ‘inutilità’ e dello ‘scarto’ sono centrali. Trapela negli scritti di Rotelli la lode di ciò che questo assetto sociale dichiara comunemente inutile, cioè non produttivo. Lode per ciò che è fuori, fuori rimane e contrasta le tabelle di produttività, di pil, di spread, di economicismo ermetico quale valore della persona associata. Si tratta di una società fondata sull’astrazione dalla realtà e sulla non-conoscenza. Tale astrazione è determinata da ed è necessaria all’accumulazione del profitto e inseguimento del profitto. Il folle è una persona inutile e perciò reclusa, il folle è individuo con tempi propri, finalità propria, propria immaginazione e creatività. Rimettere il folle, l’inutile al centro del discorso è l’invenzione di questo Autore. Analogo il tema dello ‘scarto’ (“umanità all’ultimo stadio” di Tadeusz Kantor, autore di teatro che i basagliani introducono a Trieste alla fine degli anni Ottanta; e noto passo evangelico per cui “la pietra che i muratori hanno scartato, quella è la pietra angolare”). È l’umanità scartata (lithos akrogoniaios) che va recuperata e rivalorizzata, questa sarà la ricchezza e la novità di un assetto sociale inedito. Poi l’ansia dell’‘interno’. Interno dei reparti più remoti del manicomio (e della fabbrica) da cui la psichiatria prima della riforma si tiene ben lontana delegando al bastone degli infermieri e dei capireparto la normalizzazione. Concetto questo, dell’interno, che appartiene a tutto il movimento del ’68, in cui anche si inscrive questa storia - nei manicomi, nelle fabbriche e nei quartieri e in ciò che rimane delle campagne - per uno scoperchiamento della realtà e per un reale processo di conoscenza. Così, nelle sue vocazioni portanti, il movimento di liberazione dal manicomio e l’invenzione di soccorsi e ausili temporanei e territoriali per l’individuo in precario equilibrio, si caratterizza come eretico e in aperto conflitto con la società com’è. PROGETTO PROMETEO ARTE sommario di Benedetta Moro Si tratta quasi di un lungo racconto, che si riallaccia al Prometeo. Poema del fuoco, s’intreccia con Alice nel Paese delle Meraviglie, attraversando l’est Europa, Londra, Venezia e Trieste, porto di partenza e d’arrivo. Quello che l’Associazione culturale Woland, in collaborazione con il London Collectors Club (LCC) e la Lux Art Gallery, ha voluto creare è un progetto che ormai è divenuto una storia da narrare. Tutto parte dalla musica del compositore e pianista russo Alexander Skrjabin, ispiratore del “Prometheus Project”, un programma di eventi nato da un’idea del pianista Claudio Crismani, presidente di Woland, e dal direttore scientifico Edward LucieSmith, uno dei maggiori storici d’arte del mondo, con il coordinamento organizzativo di Fabio Fonda. Intorno all’illustre compositore Skrjabin e alla sua quinta e ultima imponente opera sinfonica del 1910, Prometeo. Il Poema del fuoco, si sono sviluppati una serie di appuntamenti, iniziati la scorsa primavera, tra conferenze e concerti. Per decollare poi quest’estate e oltre, da luglio a ottobre, con alcuni incontri d’arte, in cui sono stati presentati, nei tre diversi spazi triestini di Portopiccolo, del Magazzino delle Idee e della Lux Art Gallery, alcuni artisti internazionali di origine russa e altri nazionali. Il debutto ha avuto luogo alla Lux Art Gallery, con un’anteprima - a cura di Dimitri Ozerkov, direttore di Hermitage 20/21 Progetto per l’Arte Contemporanea di S. Pietroburgo, di Sergei Reviakin, presidente del LCC, e di Giorgio Parovel, direttore Lux Art Gallery - degli otto artisti, protagonisti dei molteplici successivi eventi: Raffaella Busdon, Genia Chef, David Dalla Venezia, Fabio Fonda, Federico Fumolo, Joe Machine, Franco Manià, Delphi Morpurgo e Consuelo Rodriguez. Caratterizzati tutti da uno stile proprio e inconfondibile, il primo tra questi a esporre a Portopiccolo è stato il kazako Genia Chef. I suoi quadri, provenienti direttamente dalla Biennale di Venezia, sono stati appesi alle pareti dello spazio Woland, situato all’interno del nuovo borgo della Baia di Sistiana. Frutto di un nuovo progetto realizzato assieme allo scrittore ruteno Vladimir Sorokin, i dipinti di Chef sono stati oggetto di un esperimento riguardante uno scambio di ruoli: da una parte Sorokin, che diventa un visual artist, e dall’altra Chef, che s’immedesima nei panni dell’amico storyteller. Ne sono venute fuori delle piccole tele grafiche componibili, che hanno dato vita a un diario personale, redatto nelle tre lingue principali di Chef (qui proposte con un linguaggio antico), ovvero il russo, idioma della sua terra d’origine, il tedesco, che utilizza abitualmente a Berlino, dove vive ormai dalla metà degli anni ’80, e l’inglese, mezzo internazionale per un artista altrettanto cosmopolita. Chef, classe ’54, ha infatti trascorso parte della sua infanzia in Kazakistan, all’epoca satellite sovietico, dove la sua famiglia era stata esiliata. Dopo aver studiato all’Istituto poligrafico di Mosca, nel 1985 si trasferisce in Germania. “Telluria” è il tema ricorrente delle tele esposte ovvero il titolo dell’ultima fatica di Sorokin e, mediante una serie J. Machine Prometheus attacked by eagle cm. 111x142 acrilico su tela, 2015 PROGETTO PROMETEO Joe Machine, Oleg Kudryashof e altri tra Sistiana e Trieste Portopiccolo: fino al 20 settembre mercoledì-sabato 19-22 Lux Art Gallery: fino al 20 settembre ogni giorno 17-20, chiuso mercoledì e domenica. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 21 ARTE sommario J. Machine Sailor Poker Game cm. 70x90 acrilico su tela, 2012 Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 22 Creature strane vivono questa repubblica subnormale, che ricorda un po’ quella vissuta dal Baudolino di Eco di vignette, rappresenta una società utopica dal gusto futuristico-medioevale. Creature strane vivono questa repubblica subnormale, che ricorda un po’ quella vissuta dal Baudolino di Eco. Una tecnica mista molto varia rende questo mondo fantastico una concentrazione di olio, inchiostro, guache bianca e ancora collage, tra cui troviamo ritagli pubblicitari, ma anche immagini di personaggi che hanno segnato il tempo, provenienti dall’ambito culturale e politico. Si passa dal neurologo e psichiatra tedesco Richard Von Krafft-Ebing del XX secolo - celebre per lo scritto Psicopatia del sesso, uno dei primi testi che tratta di tale argomento - al richiamo di Tolstoj, a Rabelais, ai Led Zeppelin, fino ad Abdullah, re dell’Arabia Saudita. Essendo l’obiettivo di Woland promuovere il pluralismo culturale identitario della città attraverso iniziative di ampio respiro internazionale, ecco che si aggiunge nel panorama triestino estivo un altro artista, poeta e scrittore, che rispecchia questo obiettivo, Joe Machine. Dopo una prima esposizione a Portopiccolo, ora espone fino al 20 settembre alla Lux Art Gallery. Quattro i filoni principali della sua pittura ad acrilico presenti in mostra, che forniscono all’autore una sorta di catarsi del suo passato: i marinai, la natura, alcuni stralci da Alice in Wonderland (Alice nel Paese delle Meraviglie) e Prometeo. Nato nel Kent, precisamente nella cittadina di mare di Chatan, ma di origini dell’est, Joseph Stokes, questo il suo vero nome, dipinge da autodidatta. Il porto, gli anni ’70 della sua infanzia, intrisi di alcool, violenza e droga, hanno infatti impressionato il suo animo e lo hanno pure portato sulla cattiva strada. Fino a quando non ha incontrato dei nuovi amici con cui ha fondato il gruppo d’arte Stuckism, ormai diffuso in tutto il mondo. Crudi e autobiografici, i quadri di Joe Machine riprendono tutto ciò che si deve sapere di lui. Come per esempio i marinai, ritratti mezzi ubriachi, alcuni a occhi chiusi, alcuni con donzella, alcuni in atteggiamenti omosessuali, Machine li ha incontrati più e più volte nella sua cittadina di nascita, nelle bettole e in particolare a casa di un suo compagno di scuola, dove uno di questi gli ha insegnato a fare un coltello da portarsi in classe. Da qui i marinai restano un tabù nella mente di Joe. Il “Prometheus project” ha portato a Trieste anche un altro grande artista, il russo Oleg Kudryashof, la cui mostra “Genesi del sogno” ha chiuso in bellezza al Magazzino delle Idee il 12 settembre con il “Prometheus day”, consistente in un incontro dedicato all’arte, a Skrjabin e a Boris Pasternak. La terza sezione del progetto comprende la pittura dell’eclettico incisore Kudryashof, oggi ottantenne, con un focus del fotografo Fumolo, che ha realizzato un “Prometheus backstage” in bianco e nero, riprendendo tutti i protagonisti del programma. Accanto compaiono l’espressionismo del giovane Morpurgo e i lavori di Franco Vecchiet, che si sono concentrati in un omaggio a Prometeo. E ancora i libri di Pasternak, poiché quest’esposizione si focalizza anche sullo scrittore russo, in questo caso fotografato da Moisei Nappelbaum e raccontato da Ilja Rudiak, con materiale la mostra racchiude dunque un insieme di colori, parole, immagini che riportano al fil-rouge del pensiero di Skrjabin ARTE sommario biblio-fotografico dell’archivio Crismani sul rapporto tra l’autore e Skrjabin ed edizioni storiche. Realizzata in collaborazione con la Provincia di Trieste, la mostra racchiude dunque un insieme di colori, parole, immagini che riportano al fil-rouge del pensiero di Skrjabin, concentrato sull’idea della sinestesia. A sintetizzare quest’ultimo concetto è presente il quadro dell’artista digitale Fonda, che ha rielaborato a computer un ritratto fotografico di Skrjabin, di proprietà di Crismani, innestandovi una tastiera di pianoforte colorata: l’ultimo progetto del lungimirante pianista russo era proprio quello di collegare a ciascun suono un particolare colore. Fino al 20 settembre inoltre a Portopiccolo espongono tre immaginari artistici diversi, accomunati dalla nostra regione, da colori intensi e da un segno deciso: sono i dipinti di Raffaella Busdon, Franco Manià e Consuelo Rodriguez. La prima propone dei particolari ritratti che, grazie a una singolare tecnica ad olio su policarbonato, esprimono diversi aspetti della vita e della mente dell’uomo, intervenendo anche con “innesti” di immagini che, attraverso intersezioni di rose, tracce leonardesche e della cultura musulmana, completano le figure da lei disegnate. Il secondo, con i suoi saliscendi labirintici, le figure e gli oggetti di gusto onirico e surrealista, trasferisce nell’animo del fruitore il proprio inconscio, configurandosi come un artista dalla pittura ricca di risvolti lirici e originalmente avvezzo a comunicare nel quotidiano con gli uccellini. Chiude la triade la Rodriguez che, con un taglio figurativo, femminile e sensuale, mediante caldi timbri cromatici, miscelati a preziosi pigmenti vulcanici, “incide” la tela con un segno scabro, quasi una memoria della pura, cruda essenzialità dei disegni rupestri. O. Kudryashov cm. 150x110 1995 O. Kudryashov cm. 142x107 1995 Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 23 ARCHITETTURA sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 24 Profilo di una città: IL PALAZZO DELLA LUOGOTENENZA di Maurizio Lorber Irredentismo, tensioni ideologiche e conflittualità etniche furono il tratto caratterizzante di Trieste nella tragica storia del Novecento e sono visibilmente rintracciabili nella facies simbolica degli edifici. Infatti la storia delle singole architetture non si esaurisce nell’analisi funzionale o stilistica poiché gli edifici e la struttura urbanistica serbano aspetti simbolici. Generalmente sono i palazzi del potere l’esempio più evidente ma le stesse abitazioni progettate da Ruggero Berlam - l’architetto più importante della prima metà del Novecento a Trieste - furono accolte dai costruttori triestini quali prototipi per moltissimi edifici poiché evocano palazzi veneziani o fiorentini, e quindi simbolicamente si richiamano alla tradizione architettonica italiana. Si presta sicuramente a una simile lettura il Palast der Königlich und Kaiserlich Statthalterei - ossia il Palazzo della Luogotenenza, divenuto dal 1923 sede della Prefettura - ultimo, in ordine di tempo, a essere eretto sulla piazza oggi denominata dell’Unità d’Italia. La sua imponenza e la sontuosità sono comprensibili soltanto alla luce dell’importanza rivestita dalla luogotenenza imperiale e dalle relazio- ni che s’instauravano fra il potere statale e le amministrazioni locali. Città con diritti di rappresentanza politica del Comune pari a quelli esercitati dalle province della corona, Trieste era sottoposta a un luogotenente imperiale quale massima autorità amministrativa. La figura, istituita con la costituzione austriaca del 1849, era dipendente dai ministeri viennesi e poneva sotto la sua giurisdizione tutte le amministrazioni locali, gli affari militari, le opere pubbliche, l’agricoltura e le foreste, le ferrovie, la salvaguardia delle antichità e il commercio, l’industria, la sanità e la cultura, l’istruzione e la stampa. Esercitava, in sostanza, un ruolo cardine nelle relazioni tra le autorità amministrative locali e i ministeri centrali. La luogotenenza di Trieste assunse un’importanza strategica estremamente rilevante poiché a essa riferivano, oltre alla stessa città, capoluogo del litorale austriaco che si estendeva dalle paludi del basso Friuli fino al golfo del Carnaro – anche le province autonome di Gorizia e Gradisca e il margraviato d’Istria i quali, come Trieste, godevano di propri organi deliberanti e potestà rappresentativa nella Camera dell’Impero. Progettato ed eretto dall’architetto viennese Emil Artmannal, dal 1923 è diventato sede della Prefettura Dal 1850 Trieste si configurò quale Comune e Provincia della Corona Imperiale e, nello statuto del medesimo anno, con atto di fiducia e riconoscimento istituzionale, furono assegnate all’organo rappresentativo (il consiglio comunale retto da un podestà) alcune competenze di norma controllate dallo Stato. Tuttavia, negli anni successivi, la crescente ostilità verso la corona asburgica determinò la messa in atto di azioni quali la revoca delle autonomie locali e, nel 1906, la delega al consiglio della Luogotenenza di numerose funzioni proprie del Comune. Da questi brevi cenni è facile dedurre come l’edificazione del nuovo Palast der Königlich und Kaiserlich Statthalterei, che sostituisce il precedente Palazzo Governiale del 1764, sia motivata dalla volontà di rendere visibile a Trieste il potere politico e amministrativo dell’impero e di permetterne una chiara identificazione. Si tratta in sostanza di una risposta in pietra e cemento alle spinte secessioniste interne all’Impero Austroungarico e, nello specifico triestino, all’irredentismo di chiara matrice italiana. Progettato ed eretto dall’architetto viennese Emil Artmann (1871-1939) che ricoprì, dal 1897 al 1905, il ruolo di Oberingenieur der K. K. im Hochbau Ministeriums des Inneren, il palazzo fu edificato fra il 1901 e il 1905. Arretrato rispetto al precedente di una decina di metri, poggia su di una piattaforma spessa 1 metro e 60 centimetri sostenuta da una fitta rete di pali in cemento al fine di conferire stabilità alla cedevole superficie prossima al mare, così da evitare quei problemi di statica che dovette invece affrontare Heinrich von Ferstel nell’erigere il palazzo del Lloyd (1880-1883) e che vennero risolti con un cambiamento progettuale in corso d’opera. Quello della Luogotenenza è un edificio che, bizzarramente, accosta ai motivi rinascimentali dei lievi accenni decorativi riferibili alla Wiener Secession; non è privo di elementi curiosi quali i puttini allegorici posti nella parte superiore della loggia e prevede un notevole rivestimento a mosaico (realizzato a Innsbruck su disegno di Giuseppe Straka). Gli originali stemmi asburgici presenti al livello inferiore fra le teste allegoriche sono stati sostituiti da stemmi dei Savoia - croce bianca su campo rosso mentre sopravvivono le aquile asburgiche sulle facciate laterali. I festoni che, secondo la tipologia rinascimentale, sono posti a coronamento o a raccordo delle teste allegoriche rafforzano la libera interpretazione dei motivi del tardo rinascimento. Per questo uso insolito dei mosaici in facciata è stata richiamata la tradizione rinascimentale, sebbene sia possibile considerarlo un omaggio alla tradizione artistica litoranea posto che alluda alla riscoperta dei mosaici esterni della basilica Eufrasiana a Parenzo che vennero recuperati in quel periodo. Il fuoco visivo della facciata è la doppia loggia tripartita sovrapposta che, al piano nobile, è in corrispondenza con la sontuosa sala da ballo. L’ambiente con chiare funzioni rappresentative è caratterizzato da una fitta serie di paraste con capitelli corinzi che, anche in questo caso, si associano ad elementi geometrici secessionisti. È interessante ricordare come, originariamente, la loggia del palazzo non si affacciava sulla aperta vastità della piazza bensì insisteva su di un giardino (eliminato nel 1919), organico alla struttura architettonica, che si estendeva per tutta la lunghezza della facciata. Il professore Decio Gioseffi, già docente di storia dell’arte all’università di Trieste, mise in evidenza che la loggia, seppur non sovrapposta, rimanda ad un’altra realizzazione di ispirazione rinascimentale: il palazzo Schwarzenberg di Vienna, opera di Lukas von Hildebrandt concorrente ed emulo di Fischer von Erlach. Derivazione questa non irrilevante se consideriamo che il palazzo doveva essere, non solo istituzionalmente ma anche nell’immaginario collettivo, la chiara e inequivocabile presenza della capitale dell’impero a Trieste. ARCHITETTURA sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 25 MUSICA sommario QUESTA È PER TE, FRED! di Giuseppe Vergara Patti Smith Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 26 C’è un tenero e sincero legame fra Patti Smith e il nostro paese iniziato alla fine degli anni Settanta quando i suoi concerti riempirono gli stadi di Bologna e Firenze. Innamorata del patrimonio artistico e della cultura italiana, la cantante americana non perde occasione per venire a suonare dalle nostre parti e visitare città e paesi sedi dei suoi concerti. Qualcuno la ricorderà ripresa mentre, accarezzando un gatto, intona “Amore che vieni, amore che vai” di Fabrizio De André nel film documentario “Dream of life” oppure cantare, a Viareggio in inglese, “Io come persona” di Giorgio Gaber all’ottava edizione del Festival dedicato al padre del Teatro Canzone. Ma l’ammirazione che Patti Smith nutre per l’Italia non si ferma alla musica toccando anche figure come quella di Pier Paolo Pasolini che con il suo film “Il Vangelo secondo Matteo” incantò la giovane aspirante poetessa non ancora ventenne. E non è forse un caso che i primi versi della prima traccia del suo primo album parlino proprio di Gesù. “Jesus died for somebody’s sins, but not mine” (“Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei”) che con gli anni è diventato un verso tra i più famosi della storia del rock. Il brano è “Gloria”, cover dei Them di Van Morrison, con un testo quasi completamente riscritto, l’album è “Horses” e l’anno era il 1975. Il disco uscì appena un mese dopo la tragica morte di Pasolini. E così, a quarant’anni dal suo esordio su vinile, Patti Smith ha intrapreso, all’inizio dell’estate, un tour intitolato: “Patti Smith and her band perform Horses 1975-2015”. La cantante esegue, nella prima parte del concerto, tutto il disco Horses accompagnata da due degli storici membri del Patti Smith Group, il chitarrista Lenny Kaye e il batterista Jay Lee Daugherty e inoltre dal fedelissimo Tony Shanahan al basso e dal figlio Jackson alla chitarra. E visti i legami di questo disco con Pasolini non poteva mancare una data nella nostra regione, nonostante la recente esibizione al Teatro Nuovo Giovanni da Udine del dicembre scorso. Patti Smith, il primo agosto nel pomeriggio, si è recata a Casarsa e ha voluto render omaggio alla tomba di uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX secolo e poi alla sera a Codroipo ha trascinato il pubblico in un concerto (intitolato “Concert for Pasolini”) indimenticabile. È stata un’esibizione talmente carica di energia che sembra impossibile che una cantante a sessantotto anni possa dare ancora così tanto sul palcoscenico. Ma Patti Smith è così, le sue esibizioni dal vivo non deludono mai e in questo tour non si sta certo risparmiando. A Villa Manin ha concluso la sua performance esortando la gente a riprendersi il proprio futuro e spaccando, ad una ad una, le corde della sua chitarra mentre la band, a tutto volume, sparava le note dell’inno generazionale degli Who: My generation. Ma fin dalla prima canzone, la già citata Gloria, il pubblico stentava a rimanere seduto sulle sedie, poi il concerto è proseguito con una setlist ben rodata nelle date precedenti, nonostante l’assenza del figlio Jackson, sostituito dal chitarrista Jack Petruzzelli. Quindi sono arrivati gli omaggi a Pasolini ed è tornata a farsi sentire la pioggia, che aveva concesso una breve tregua. Così a metà concerto tutto il pubblico era già in piedi a rendere omaggio a quella che, ormai si era capito, sarebbe stata una performance da ricordare per parecchio tempo. Ma anche se questo è stato il concerto di Horses c’è sempre un’unica canzone a cui ogni amante di Patti Smith non vuole rinunciare. La canzone simbolo, in assoluto quella più amata e cantata dal pubblico La storia di “Because the night” MUSICA sommario e cioè “Because the night”. A Villa Manin, Patti Smith, prima di cantarla ha ricordato che è dedicata al marito scomparso, Fred Sonic Smith, e ogni volta che la canta pensa: “Questa è per te Fred”. La storia di “Because the night” è piuttosto particolare e unica perché, com’è noto, è stata scritta da Bruce Springsteen, ma incisa e poi portata al successo da Patti Smith. A New York, alla fine del ’77 ai Record Plant Studios, Bruce Springsteen era impegnato, già da ottobre, nella registrazione del suo quarto album; Darkness on the edge of town. Negli stessi studios stava registrando anche Patti Smith che era alle prese con il suo terzo album: Easter. Il giovane Jimmy Iovine stava curando il suono dell’album di Springsteen ma era anche, contemporaneamente, il produttore del disco di Patti Smith e fu proprio lui a far da ponte affinché Because the night passasse, praticamente, da un disco all’altro. Durante le sessioni di registrazione dell’album di Spingsteen, Because the night venne alla luce ma il Boss non era completamente soddisfatto del testo che aveva scritto e non aveva ancora deciso le sorti della canzone. Jimmi Iovine, che diventerà uno dei più importati produttori discografici degli anni ’80 fino ad approdare ai giorni nostri alla Apple Music, vedendo Springsteen che faticava a completare quel brano gli propose di cederlo alla collega. Springsteen acconsentì e Iovine consegnò il nastro con il demo a una perplessa Patti Smith. Quella sera la cantante americana era a casa e stava aspettando una telefonata del suo compagno, Fred Sonic Smith, il chitarrista degli MC5. Nell’attesa iniziò ad ascoltare il nastro che le aveva dato Iovine e rimase stupita dalla bellezza della canzone e si mise a lavorare al testo. Intanto le ore passavano, Fred non chiamava e Patti, componendo, trasmise nei versi della canzone tutta l’ansia che provava in quel momento per la persona amata che non si faceva viva. Because the night è la storia di un’attesa, di una donna innamorata e principalmente la storia d’amore che Patti Smith stava vivendo e che voleva far conoscere al mondo con tutta la grinta di cui è capace. Quando Fred la chiamò, alle 2 di notte, la canzone era ormai finita. Due anni dopo, all’apice del suo successo, proprio dopo i due concerti di Bologna e Firenze citati all’inizio, Patti Smith si ritirò dalle scene, sposò Fred Sonic Smith e si trasferì con lui a Detroit e mise al mondo due figli. Fred e Patti restarono legati fino alla morte di lui avvenuta nel 1994 a soli 45 anni. Questo sarà l’ultimo di una serie di lutti che colpirono in quegli anni la cantante americana che, nonostante tutto, decise di interrompere il suo esilio volontario, durato ben sedici anni, per ritornare a suonare dal vivo. In Italia poi la canzone si legò, negli anni ’90, in maniera indissolubile a delle immagini in bianco nero di un vecchio film dove un giovane, da una barca, si tuffava in un canale e sott’acqua vedeva l’immagine della donna amata, vestita da sposa. Fuori era giorno ma nel momento in cui il protagonista si gettava in acqua era come se entrasse in una notte onirica dove poteva rivedere la donna che lo aveva lasciato. Un connubio perfetto tra musica parole e immagini. Il film era l’Atalante di Jean Vigo e con la musica di Patti Smith divenne una delle sigle televisive più famose; cioè quella della trasmissione Fuori Orario di Rai Tre che amplificarono, ancora di più, la notorietà di questa canzone nel nostro paese. E chissà se durante il concerto di Villa Manin qualcuno non abbia chiuso gli occhi ascoltandola e abbia rivisto il volto di quella sposa sorridere oppure abbia pensato alla voce di Springsteen, padre adottivo di un brano che aveva assolutamente bisogno di esser accarezzato da una donna per distinguersi dagli altri. Forse qualcun altro avrà pensato a un telefono che squilla nel silenzio della notte e a quali brutti scherzi gioca l’amore. Perché ognuno ha la sua Because the night, come capita a tutte le grandi canzoni, così grandi da farci credere che sono anche nostre e allora le leghiamo a un pensiero, a una storia, a uno sguardo, a un sorriso, a un giorno preciso. Le leghiamo a noi e le teniamo strette e cantandole a squarciagola, sotto la pioggia a ridosso del palco, le liberiamo da quella struggente prigionia e le restituiamo a chi le ha fatte nascere dimostrando tutta la nostra gratitudine. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 27 CINEMA sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 28 IL GENERALE DELLA ROVERE TRA FINZIONE E VERITÀ Alla mostra del cinema di Venezia del 1959 il Leone d’oro fu assegnato ex-aequo al film di Mario Monicelli La grande guerra e a quello di Roberto Rossellini Il generale Della Rovere. Tutti si ricordano, probabilmente, del capolavoro di Monicelli, mentre il film di Rossellini sembra caduto nell’oblio. Le ragioni, secondo me, sono due: la prima è che Il generale Della Rovere è sempre stato considerato un’opera minore di Rossellini, a confronto con le bandiere del neorealismo Roma città aperta e Paisà; la seconda è che forse non è stato giustamente valutato. Si è detto che era un film su commissione, un mero esercizio di stile estraneo al discorso neorealista. Ma a questa critica potrebbe rispondere lo stesso Rossellini, che una volta disse: ‘Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità. Quando la verità è ricostituita, si raggiunge l’espressione’. Ebbene: Il generale Della Rovere raggiunge la verità, non più, come nei primi lavori, attraverso la spontaneità e l’aderenza al reale, ma ricorrendo alla moltiplicazione abissale delle finzioni filmiche. Il personaggio principale, d’altronde, interpretato da un Vittorio De Sica in stato di grazia, è già un campione di falsità: Emanuele Bardone si spaccia per il colonnello Grimaldi e, in una Genova occupata dai nazisti, cerca di ottenere la liberazione dei detenuti politici corrompendo un ufficiale tedesco con i soldi dei parenti, che però, spesso, si tiene per sé, di Stefano Crisafulli perdendoli al gioco. Mai De Sica aveva interpretato un ruolo così abietto e biasimevole, tanto da risultare antipatico: non solo Bardone è un truffatore che si approfitta del dolore altrui, ma, quando viene scoperto e messo alla berlina dal (vero) colonnello nazista Müller, ha la faccia tosta di giustificarsi di fronte ai parenti, dicendo che ‘voleva solo fare del bene’. Il punto è che Bardone alla sua recita ci crede e, grazie alle sue notevoli doti attoriali, sembra così convincente che Müller decide di utilizzarlo come spia. Lo manda al carcere di San Vittore nei panni del generale badogliano Della Rovere (ucciso dai nazisti) per scoprire i gangli della resistenza. E in questa seconda parte del film ci sarà la grande trasformazione di Bardone, che, alle prese con la sofferenza reale del carcere, si identifica sempre di più col personaggio che deve rappresentare sino al sacrificio finale, quando viene fucilato assieme agli altri partigiani per non aver rivelato le informazioni richieste. Da notare il gioco abissale di finzioni: De Sica (attore) impersona Emanuele Bardone che, a sua volta, prima recita la parte del buon colonnello Grimaldi e poi quella, sotto mentite spoglie, del generale Della Rovere. Quest’ultima sarà un’identificazione totale, che porterà l’ex truffatore e spia Bardone al riscatto conclusivo. Non è un caso che Il generale Della Rovere sia uno dei film preferiti del filosofo sloveno Zizek, che, in un’intervista, aveva affermato: ‘L’unica autenticità è impersonare in modo autentico un ruolo’. ODORE DI SALSEDINE Un romanzo di Giorgio Micheli Amore e Morte sono gemelli, in apparenza opposti e invece complementari. Giorgio Micheli in Odore di salsedine crea una danza conturbante tra Eros e Thanatos. La protagonista Emma Cressi, che lentamente si spegne, s’incontra già all’inizio e ricorda la figura di Ecate, dea lunare trivia, immagine mitologica con tre volti, per rappresentare la signoria della divinità nel cielo, sulla terra e nell’aldilà o, in altri termini, signoria sulle tre fasi del ciclo vitale: crescita, decadenza e morte, in un eterno ritorno. Emma, triestina, orfana di madre, è una ragazza utopica, anarchica, alla ricerca di un mondo più giusto e migliore. Diviene chirurgo di alta professionalità. Presta servizio in Africa con ‘Medici senza frontiere’ ed è coinvolta nelle situazioni estreme di guerre atroci, dove l’odore della morte ti si attacca addosso, la vista di mutilazioni e agonie e corpi deturpati non ti lascia più. Con lucidità la donna sa di voler lenire il dolore altrui per sfuggire al suo intimo macerarsi, per evitare o attutire la sua lenta morte psichica dopo la perdita dell’amore grande, quello, omosessuale, per Paola, corrisposto, taciuto, fuggito, negato, ripreso, vissuto gloriosamente, ucciso, resuscitato. Accanto a tale legame, nucleo e cuore del libro, vediamo sfilare come in un filmato gli avvenimenti storici e politici salienti: dalle stragi di stato a quelle mafiose. Assistiamo all’allunaggio, all’avvicendarsi dei papi sul soglio di Pietro, all’assassinio di Moro, con uno stato cinico e/o codardo che lo abbandona. Viviamo la caduta del Muro, la Alpi e Hrovatin essi pure vittime sacrificali di oscure trame e traffici illeciti, in Somalia, Hutu e Tutsi votati all’autodistruzione in un conflitto insensato ma utile ai grandi profitti internazionali. Paola lascerà Emma per vivere un’esistenza semplice e oscura, da cameriera, immersa nella fatica degli umili. La temperatura delle passioni costituisce l’humus in cui cresce la vicenda. Le passioni creano autocoscienza, per far prevalere quella luce interiore imperitura che trionfa su ogni tenebra e NARRATIVA sommario di Graziella Atzori contingenza. Scrive Micheli: ‘Siamo una torcia che non si spegne mai, eterna. Cambiamo più volte il vestito, o meglio il nostro corpo, per incarnarci sulla terra, ma l’anima cosciente è sempre la stessa. È fiamma cosmica’. La stanza di Ecate-Emma nell’incipit del racconto, è una camera d’ospedale. Qui, in compagnia dei robot insensibili ma anche di un infermiere pietoso, nell’anno 2040, in un futuro meccanizzato e anaffettivo, nel giorno dell’atterraggio umano su Marte, l’anziana ripercorre le tappe della sua esistenza, inserite nel panorama storico-sociale. Emma ricorda e la sua ‘ricerca del tempo perduto’ di sapore proustiano la conduce alla comprensione che pacifica. Nelle pieghe del tempo ritrova quanto veramente le appartiene, anche il dono lontano della poesia, i versi che germogliarono dal suo dolore. Rivive soprattutto un’esperienza di premorte accadutale decenni prima e rimossa, per mezzo della quale era passata, durante un coma lungo una settimana seguito a un incidente stradale, attraverso la porta che si apre sull’infinito. Nella stanza solitaria, in cattività fisica, da morente, Emma riceve l’illuminazione e la certezza del ‘dopo’, della vita oltre la vita. Micheli consegna al lettore il senso elusivo delle cose, ma ammonisce, per bocca di un medico intuitivo, in un dialogo cruciale con la protagonista: ‘Sta a lei scoprirlo.’ È un monito a non dimenticare, soprattutto a ritornare nella propria interiorità. Soltanto lì i valori svelano la loro consistenza e la materia esteriore tridimensionale svolge il suo ruolo appunto di ‘vestito’ e maschera. Lì nell’anima, parola usata con dubbio creativo, pudore, estrema moderazione e cautela dall’autore, nell’anima siamo e saremo, reali figure che l’amore forgia senza soluzione di continuità, con il contributo ineliminabile della ‘signora beffarda’ ma sicura artefice del rinnovamento. Nella memoria da portare nell’oltre resta un odore di salsedine: quello dei capelli di Paola d’estate. Un particolare divenuto simbolo di totalità. Giorgio Micheli Odore di salsedine Talos Edizioni Cosenza 2015 pp. 180, Euro 15 Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 29 CINEMA sommario ASPETTANDO VENEZIA di Gianfranco Sodomaco Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 30 Aspettiamo, quest’anno, con particolare curiosità il Festival di Venezia, la 72a Mostra d’Arte Cinematografica. Perché? Perché il suo direttore, Alberto Barbera, lo ha annunciato con una particolare sottolineatura: “il vero riferimento è il mondo reale” (La Repubblica, 28 agosto). Non sembri una semplice battuta: siamo andati a vedere il programma e la stragrande maggioranza dei film che verranno presentati hanno a che fare con fatti realmente avvenuti, personaggi realmente vissuti, riflessioni sul passato e sul presente storico. Ci fa piacere, Barbera ha capito bene il momento drammatico che stiamo vivendo e ha deciso che il cinema deve essere, oggi più che mai, ‘specchio del mondo’. Basti qualche esempio (entreremo nel merito la prossima volta): Beasts of no nation di Cary Fukunaga (uno dei padri delle serie televisive americane), sui bambini sfruttati nei paesi africani; Rabin di Amos Gitai, sull’omicidio del premier ‘pacifista’ israeliano;Spotlight di Thomas McCarthy, sulla pedofilia cattolica americana. Potrebbero bastare questi tre film ma la lista è ben più lunga (tenendo conto anche dei 4+3+2 italiani, tra Concorso, Fuori concorso e ‘Orizzonti’). Bene, andiamo a vedere il buon cinema estivo. Film che, non a caso, provengono dal circuito alternativo, dai cinema d’essai, a conferma che un pubblico minoritario, non di massa, esiste e, giustamente, esige. Partiamo da I ponti di Sarajevo, una grande coproduzione europea (FranciaItalia-Svizzera-Bosnia-Bulgaria-Portogallo-Romania), una miscellanea di piccoli documentari di autori vari, tantissimi (impossibile ricordarli tutti), sul tema di ‘Sarajevo ieri e oggi’, dall’inizio della Prima Guerra Mondiale alla ennesima guerra balcanica tra il 1991 e il 1995 (decisamente migliori quelli sulla Sarajevo odierna, ‘città martire’). Tra i tanti autori vale la pena ricordare almeno: la svizzera Ursula Meier, che realizza un piccolo mélo semplice e toccante; il romeno Cristi Puiu che immagina uno spiazzante dialogo tra due coniugi a letto; il nostro Vincenzo Marra che racconta il rifiuto di una donna di tornare, oggi, a Sarajevo; ancora un italiano, Leonardo Di Costanzo, che porta sullo schermo uno dei più bei racconti di guerra, La paura, utilizzato anche da Ermanno Olmi per il suo bel Torneranno i prati. Da ultimo, una presenza celebre: Jean Luc Godard che, ancora una volta, non perde occasione per parlare, più che di Sarajevo, del cinema e deii suoi limiti. Impossibile non ricordare che quest’anno si è celebrato il 20° del massacro di Srebrenica, altra cittadina martire, simbolo di una guerra nazionalistica e fratricida che poco ha suturato la ferita, elaborato il lutto, e dove continuano a sopravvivere sospetti e divisioni. Il secondo film: Louisiana, di Roberto Minervini, regista italiano che lavora negli Stati Uniti. Il film, presentato alla rassegna ‘Un Certain Regard’ del Festival di Cannes 2015, è il classico ‘film la maggioranza dei film che verranno presentati hanno a che fare con fatti realmente avvenuti maledetto’. Minervini ha avuto una lunga frequentazione con molti abitanti di una cittadina dello stato del profondo sud degli Stati Uniti ed essi sono diventati i protagonisti del suo ‘docufilm’: da qui una serie di storie intrecciantesi e ai limiti dell’’orrendo’. In particolare: la storia di Mark e Lisa, drogati allo sbando che, pur amandosi, non riescono a dare un senso alla loro esistenza; poi, una specie di gruppo paramilitare, ex militari che hanno fatto tutte le guerre yankee dell’ultimo cinquantennio (Vietnam, Afghanistan, Iraq) e che trascorrono le loro giornate maneggiando armi e ‘preparandosi al peggio’. Sì, perché questi uomini sono convinti che la ‘vecchia America’ è in pericolo e che il nemico per eccellenza è Obama, simbolo del potere democratico in cui essi non si riconoscono (l’ultima scena riguarda proprio l’incendio della carcassa di un’auto dove hanno inserito il manichino di Obama). Cinema-verità puro, Minervini ha girato con una troupe minima e con una tecnologia leggera proprio per modificare al minimo lo svolgersi realistico dei fatti. Piccolo capolavoro. Allo spettatore il compito di giudicare questo aspetto, niente affatto sconosciuto, dell’America. Il terzo film: Eden, di Mia HansenLove che si lascia ispirare dalla Parigi anni ‘90 e dalla vita del fratello Sven, in particolare dalla passione che egli ha, e condivide con un bel gruppo di amici dj, per la musica dance. Tutta la prima parte del film è ambientata (fino allo sfinimento!) nelle varie discoteche, fino a che il gruppo di amici non decide di ‘internazionalizzarsi’ e spiccare il salto verso l’America. Qui inevitabilmente, nel fare i conti con la grande organizzazione, cominciano a nascere i primi problemi di tenuta, di mantenimento della passione giovanile, sicché tutta la seconda parte (per me la più bella) non può che registrare tutte le crisi individuali e di coppia, dei maschi musicisti e delle loro accompagnatrici, fino alla debàcle finale: il gruppo si scioglierà e Sven cambierà mestiere. Quello che sembrava un ‘para- diso’ diventa un Eden perduto. C’è chi cui il film è piaciuto molto, a me un po’ meno, memore dei due film precedenti di Mia: Il padre dei miei figli e Un amore di gioventù. Il quarto film, il più visto, vincitore dell’ Orso d’oro alla Berlinale 2015: Taxì Teheran, del pluripremiato Jafar Panahi. L’idea di fondo del film nasce dalla necessità esistenziale di Panahi (impedito a girare, perseguitato fino a essere anche imprigionato dal regime iraniano): decide di ‘chiudersi’ in un taxì, di girare clandestinamente per la città quasi senza essere visto, e di cominciare a interloquire con la gente che incontra, dando vita a tante piccole, significative storie. Ne viene fuori un film commovente e piacevole al tempo stesso, per le persone che riconoscono il regista e si congratulano con lui, per ciò che gli raccontano e che fa emergere un paese pieno di potenzialità che non aspetta altro che di potersi esprimere. Assolutamente da vedere. CINEMA sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 31 BENI CULTURALI sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 32 Il MUSEO FERROVIARIO DI CAMPO MARZIO Nel cuore di Trieste, a due passi dal mare della Sacchetta cara a Quarantotti Gambini, un gruppo di volontari si impegna da anni a mantenere in vita un museo, raro nel suo genere, e un’antica stazione ferroviaria, la più grande della Mitteleuropa in stile liberty. Questi uomini si occupano del Museo Ferroviario di Trieste Campo Marzio, riconosciuto dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e dalla Soprintendenza per i Beni e le Attività Culturali; entrato a far parte dei Civici Musei di Storia ed Arte nel 2010 grazie ad una convenzione stipulata tra il Comune di Trieste e la locale sezione dell’Associazione Dopolavoro Ferroviario. Erroneamente conosciuta come “stazione vecchia”, la stazione di Campo Marzio fu costruita alcuni decenni dopo l’attuale Stazione Centrale (v. Maurizio Lorber, Profilo di una città /1 in Il Ponte rosso n. 1), e rimase attiva per i treni ordinari fino al 1959 con tre tratte: la linea a scartamento ridotto Parenzana, la Transalpina e la Val Rosandra. Già dopo il primo dopoguerra perse importanza come terminal viaggiatori, aumentando invece il suo ruolo di scalo fondamentale per il servizio merci. Ora, gran parte della costruzione è chiusa al pubblico ed è composta soltanto da magazzini, utilizzati perlopiù dal Museo per stiparvi una notevole quantità di materiale interessante dal punto di vista storico, ma che purtroppo non si riesce a collocare negli ambienti aperti al pubblico. Mentre di Anna Calonico la zona delle cucine è gestita da un noto pub, una parte della sala ristorante, le sale d’aspetto dei viaggiatori (di prima, seconda e terza classe, naturalmente), il corridoio e l’ingresso principale, con i locali adibiti a biglietteria e segreteria, ospitano il Museo vero e proprio. Per quanto riguarda gli interni sono stati mantenuti quanto più possibile quelli originali: stessa pavimentazione, stessa struttura delle sale, persino stesse stufe in maiolica, ma naturalmente il tempo è impietoso e i locali mostrano un certo degrado che il lavoro appassionato dei volontari non riesce ad arrestare. Soprattutto gli altissimi soffitti, i muri che non sono ricoperti dai cimeli lasciano vedere la necessità di un intervento migliorativo, ma per fortuna l’esposizione, ricca e precisa, fa dimenticare il tracollo degli ambienti per portarci in un lungo viaggio. A partire dall’atrio principale, che, essendo l’ambiente più grande del Museo ospita saltuariamente anche mostre espositive a tema. Appena entrati ci si trova già in piena rappresentazione ferroviaria: alcuni diorami storici sugli impianti ferroviari di Trieste, e un grande plastico costruito a scopo didattico per attirare fin da subito l’attenzione dei ragazzi fanno bella mostra di sé accanto ad oggetti che risalgono anche all’800, come la pompa antincendio carrellata a mano, o come la sala motrice di una delle prime vetture della trenovia Trieste - Opicina. Nel corridoio viene poi affrontata, con materiale di vario tipo e abbondanza di immagini e fotografie, la storia delle ferrovie triestine e del porto, strettamente connesso per via del transito delle merci. Si possono vedere le foto storiche di entrambe le strutture, di vecchie locomotive in transito su vie ora non più utilizzate, e di Carlo Ghega, l’ingegnere veneziano/istriano che nell’800 progettò e diede vita alla linea Trieste - Vienna. Sono raccolti berretti di servizio, medaglie, targhe: tutto ciò che ci si aspetta da un museo, tutto ciò che riguarda i treni, ed è stata anche ricostruita un’antica biglietteria. Le altre sale sono adibite ognuna a uno specifico argomento: gli apparati di sicurezza, i rotabili, il trasporto tranviario, la trazione, gli impianti di telecomunicazione. Si possono vedere un banco di guida originale, alcuni modellini in scala ridotta, un organo di comando per scambio, disegni d’epoca di ponti e gallerie, un veicolo a pedali con cui venivano ispezionate le li- un museo, raro nel suo genere, e un’antica stazione ferroviaria, la più grande della Mitteleuropa in stile liberty nee, e una vecchia lampada a petrolio della Società Ferrovie Alta Italia (SFAI), uno dei pezzi più rari del Museo. Numerosi i diorami: quello che rappresenta il capolinea tranviario di Barcola negli anni Sessanta; quello che riproduce la sovrapposizione dei tracciati di tram e treno, tenendo conto quindi della linea Trieste - Opicina e della Transalpina; quello della stazione di Sant’Antonio - Moccò, oggi dismessa. All’esterno, sui quattro binari, il Museo continua con l’esposizione di alcuni rotabili: locomotive e vagoni di varia tipologia, anche molto rari. Esemplari a vapore, risalenti ai primi anni del XX secolo; mezzi elettrici e diesel del secondo dopoguerra; veicoli spartineve a vomere, motrici tranviarie e il mezzo blindato Panzer Draisine, un veicolo corazzato e motorizzato costruito nel 1944 per l’esercito tedesco. Altri mezzi sono di origine austriaca o ungherese, pezzi di grande valore. Anche questi convogli, nonostante le attenzioni dei volontari, necessitano di un’accurata manutenzione che li metta in salvo dalla distruzione. Un ostacolo in più è rappresentato dalle intemperie, poiché la volta che ricopriva i binari non è mai stata ricostruita dopo la guerra che l’ha distrutta e, lasciando scoperto un così vasto spazio, anche molti altri pezzi non possono essere esposti al pubblico. Il Museo, che andrebbe preservato anche solo per la sua struttura di notevole pregio storico, architettonico, artistico, ha bisogno di un veloce, radicale intervento che molte volte in passato è stato sollecitato. Si auspica che le istituzioni pubbliche intervengano al più presto, anche per dare continuità al progetto di questi volontari del Dopolavoro Ferroviario che, oltre a curare l’esposizione e a provvedere a ogni tipo di manutenzione, garantiscono l’apertura al pubblico, e fino a qualche anno fa, quando non c’erano le restrizioni che ora rendono difficile anche adeguarsi alle normative per BENI CULTURALI sommario la sicurezza, avevano promosso itinerari storico turistici percorrendo la Transalpina, la linea strutturalmente e storicamente legata al Museo (inaugurata nel 1906 insieme alla Stazione), unica alternativa per la città e per il porto in caso di interruzione della linea principale. Altro grande progetto portato a termine dai volontari negli anni passati è un testo che riporta la storia della ferrovia per poi scendere in ambito triestino con la storia delle ferrovie e delle tratte ferroviarie della città, concludendo con la parte dedicata al Museo stesso. Notevole per la quantità di informazioni e soprattutto di fotografie, Il Museo Ferroviario di Trieste Campo Marzio, a cura di Roberto Carollo e di Leandro Steffè, edito da Luglio Editore, è arrivato nel 2010 alla sua seconda edizione. La stazione ricordi, a notte, piena d’ultimi addii, di mal frenati pianti, che la tradotta in partenza affollava? Una trombetta giù in fondo suonava l’avanti; ed il tuo cuore, il tuo cuore agghiacciava. Non è dato sapere se questa poesia sia stata ispirata dalla Stazione Campo Marzio o da qualche altra, ma chissà se Umberto Saba, innamorato com’era della sua città, avrebbe potuto restare indifferente al fatto che una simile struttura cadesse abbandonata per l’incuria delle autorità e del pubblico che, pur essendo presente con un afflusso di sei-settemila persone all’anno, è ancora troppo lontano dal conoscere questo interessante Museo. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 33 POESIA sommario Fulvio Muiesan Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 34 TRIESTE LUOGO DELL’ANIMA Firmava con il nome di battesimo Fulvio, le poesie che per trent’anni sono state pubblicate su La Cittadella di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, nel ‘Cantuccio delle Muse’, incorniciate da un disegno dell’artista e vignettista Renzo Kollmann, Fulvio Muiesan, scomparso di recente a quasi 97 anni. Era nato il 6 luglio 1918. Laureatosi a Padova, dopo aver studiato a Pisa e prima al liceo Petrarca di Trieste, giornalista dal 1940, aveva lavorato per il Popolo di Trieste, e il Piccolo Sera, occupandosi della pagina degli Esteri poi, prigioniero negli Stati Uniti, durante la seconda guerra mondiale aveva diretto il settimanale per i prigionieri italiani inquadrati nella Italian Service Units. Rientrato in Italia ha vissuto a Roma curando la promozione internazionale di importanti complessi industriali; è stato responsabile delle pubbliche relazioni per i Cantieri Riuniti dell’Adriatico, e caporedattore della sezione editoriale dell’IRI. La vita lo ha portato a incontrare personaggi come papa Pio XII il presidente Dwight D. Eisenhower e Nikita Krusciov. Un legame con la città profondo, che la lontananza trasfigurava traducendosi in rime che Bruno Maier, curandone la raccolta definì: “una guida ideale per una città sempre dentro di noi: un luogo dell’anima”. Nelle poesie rivive la città della memoria: cangiante come le ore del giorno, ‘Trieste, mama de piera, bona de cuor ma severa’, Trieste ‘città di parole’, ‘città nascosta’, ‘città notturna’, ‘città dentro’, ‘città nervosa’, ‘Trieste o cara’, ‘città in vetrina’, ‘città che iera’, ‘città di mare’, ‘città al sole’, ‘città scomparsa’, ‘città operosa’, ‘la vispa Trieste’. I volti della gente si confondono con i mascheroni sulle case, i colombi di Piazza Grande, i gatti con i ‘oci de oro’, i portoni sempre chiusi in cui si cela la città segreta che il passato ha cancellato. Come una folata di vento. Le liriche di Fulvio Muiesan sono state pubblicate dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, Dentro de di Marina Silvestri mi Trieste, 1980, a cura di Bruno Maier e Gianfranco Scialino, e della casa Editrice Italo Svevo, Trieste a memoria (1971), Ti come Trieste (1973), Trieste e altre fiabe (1974), Le triestine (1975), Amor de Trieste (1976) e Noi de Trieste (1977), Le rime per Trieste (1995). Elvio Guagnini ne ha parlato in un breve saggio sull’Archeografo Triestino nel 2014, evidenziando come i versi di Muiesan si collochino “in una fascia di produzione che qualcuno definirebbe d’occasione: nati da una vocazione spontanea e da una innata disposizione e facilità al verseggiamento e sviluppatisi poi in una sorta di scrittura su commissione, con periodicità e misura preordinata, […]La poesia di Muiesan si presenta - pur nella sua serialità - con un proprio sicuro decoro e qualità. Mentre, va detto, proprio i caratteri di questa poesia fanno sì che essa si concentri intorno a soggetti costanti: i gesti, i fatti, le opinioni della gente di ogni giorno, gli scorci di quotidianità, le piccole cose, le impressioni, i ricordi, le battute di buon senso, i sentimenti semplici e delicati, i quadretti di un paesaggio che generano variazioni sentimentali, le piccole felicità quotidiane…”. Muisan stesso parlando della sua poetica aveva affermato che le sue rime erano nate per ‘scherzo’ e per ‘nostalgia’: ‘facili’ e ‘domestiche’. Nella semplicità si celava però la profonda cultura dell’autore e una necessità di esplorare le mille sfumature dei sentimenti umani che lo portò a poetare in francese, lingua che, per la sua complessità, gli permise una gamma espressiva più ampia e confacente al suo sentire, profondo conoscitore com’era della grande letteratura e non solo d’oltralpe, da Moliere a Voltaire, Stendhal, Zola, Maupassant, tutti libri che collezionava. “Un caso quasi unico”, come sottolinea il francesista Guido Gioseffi, che fu insigne docente all’Università di Trieste nell’introduzione a Le fil blanc du temps, presentato a Roma nel 1977 dal Centro Culturale Francese tra le opere dei poeti francesi contemporanei. “Il più delle vol- la scomparsa di Fulvio Muiesan te – scrive Gioseffi– la lingua di Muiesan è un francese di tutti i giorni, ellittico e sincopato come quello che il popolo usa da sempre, almeno in apparenza, ma che non ignora l’angoscia metafisica. Poeta dell’intimità, Muiesan riesce a far uscire il penetrante delicato profumo delle realtà della vita quotidiana. Egli ci mostra l’uomo in quanto soffre, ama e - soprattutto - si rassegna e subisce la vita. Come nella “madeleine” di proustiana memoria il nostro cucitore del filo del tempo ci fa sentire l’odore ed il sapore delle cose impalpabili che sostengono l’edificio immenso del ricordo. È convinto che i soli autentici paradisi siano i paradisi perduti: l’infanzia e la prima giovinezza: C’est l’araignée dans nos coeurs/ qui file le blanc fil du temps/ dont nous sommes tous prisonniers,/ et chaque jour chaque jour nous serre/ battant plus faibles nos ailes/ comme les papillons qui meurent. A Trieste sono dedicate anche le brevi prose di Città privata (1980), e Giorni e Avventure di un’infanzia a Trieste (1992). Libri introvabili. Di Città privata. Appunti POESIA sommario per una certa Trieste, affascina lo sguardo erudito, “savant”, che con partecipazione e ironia rivista la grande storia e le vicende umane più piccole, affascinato dal gioco della vita e dei destini: si incontrano Carlo VI, Maria Teresa, Fouché, Massimiliano e Carlotta, il barone Revoltella e il conte Stadion, Burton e Stendhal e gli ospiti de l’Hotel de la Ville, che ancora si chiamava Principe di Metternich; brevi ritratti, di caratteri e ambienti, di sentimenti e miserie: una rappresentazione disincantata della commedia umana di cui la città è impastata. Una guida spirituale per percorrere le strade di sempre respirando ciò che rimane del tempo di ieri. Le lire del poeta Saba iera sentado nela sua libreria con un bascheto in testa, pensando una poesia. In fondo, due signori zercava in un scafal parlando soto vose come drio un funeral. Copertina realizzata da Fulvia Costantinides -Maestro…gavaria ‘sto Aristotele…ma… Saba ga alzado i oci. -Quanti ani te ga? -Sedici… - A ti i filosofi me par che no i te va? -Oh sì, solo che adesso i ne li ga cambià… -E i poeti, te piasi? -Go leto anche le sue, ma nela antologia ghe ne xe solo due… -Se vedi che no merito de più…Faremo venti, va ben? – Grazie Maestro… Cussì, tuti contenti. Co iero sula porta me son voltà pian pian: el iera là, sentado, e ‘l guardava lontan. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 35 POESIA sommario Copertina realizzata da Fulvia Costantinides Muisan stesso parlando della sua poetica aveva affermato che le sue rime erano nate per ‘scherzo’ e per ‘nostalgia’ Dalla finestra di Svevo Ogni tanto, in uficio, tra una Vostra pregiata a riscontrare e altre robe che ‘l gaveva in mente sior Schmitz andava verso la finestra e ‘l vardava la gente che passava per piazza dela Borsa. Dopo de tanti ani Che no’l xe più, forsi el ne varda ancora, pensando: dove i va? Trieste passa soto de lui, come tirada fora dale pagine magre dei sui libri nati tra l’Aquedoto e Piazza granda, in riva al mar de ‘sta bianca cità dove che noi, che credemo de viver, semo storie che lui se ga inventà. Primavera del ‘15 El primo apuntamento De mio papà e mia mama: primavera del Quindici, lu dicioto ela diciassete. La guera seminava morti. Lui la spetava in giardin publico, con un mazeto de violete. Giri de note Far poesia xe zogar con la malinconia; sveiandose de note, camina per le grote dela memoria, a lume de candela, e in quel poco de ciaro passar oltra l’amaro dela vita, e zercar un viso de putela. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 36 Appunti per un ritratto El viso de Trieste Xe ‘l viso de una dona Bel, de quel’età Che no se sa, e i oci de putela, un viso un poco tirado, de una che ‘l destin la se lo ga zogado, con qualche ruga legera, altre dentro, e ‘l vento nei cavei. Ale ore che la gà butà via no la ghe bada più: la va per le sue strade, tra le solite case e l’mar, coi sui pensieri che la ga sempre avù; una dona che passa e no sa che la ga el viso che gavarìa ‘sta cità. UNA CAPITALE PER IL CAFFÈ ESPOSIZIONI sommario di Corrado Premuda Se si volesse riassumere in un solo oggetto tutta la storia di Trieste probabilmente non si sbaglierebbe scegliendo una tazzina di caffè fumante. Nella scura bevanda sono racchiuse molte delle peculiarità della città giuliana e forse anche una traccia per definirne la complessa identità. Il caffè rappresenta l’esotico, il frutto del commercio, il lungo viaggio via mare, e allo stesso tempo è il risultato di una lavorazione nostrana, un gusto molto italiano. Ed è anche il modo di fruire questa bevanda, il bar e la socialità, la discussione pubblica e la riflessione privata. Una frase di Fulvio Tomizza ben descrive il rapporto tra la città e i caffè: “I triestini, un riuscito amalgama di anima nordica e di temperamento mediterraneo, e perciò gente notoriamente gelosa della propria intimità ma incapace di starsene a lungo sola, disponevano di tanti Caffè e tuttora ne possiedono in misura cospicua rispetto alle altre città italiane.” Non serve sottolineare come anche la letteratura, campo in cui il nome di Trieste brilla oggi come ieri a livello internazionale, sia strettamente legata ai locali che servono questa bevanda, luogo privilegiato per scrittori e intellettuali. Una mostra multimediale racconta tutto questo, fino a novembre, al Salone degli Incanti, ovvero l’ex Pescheria sulle rive di Trieste. “Il gusto di una città. Trieste capitale del caffè” è un’appendice dell’Expo di Milano e del Cluster Caffè voluta e sostenuta da Regione Friuli Venezia Giulia, Comune di Trieste, Camera di Commercio di Trieste, Trieste Coffee Cluster e Illycaffè. Un percorso interattivo fatto di immagini, box multimediali, estratti da film, una selezione di libri, incontri e concerti anima la mostra e raccontano lo sviluppo nel corso dei secoli di questa bevanda così presente nella nostra vita di tutti i giorni. Un occhio di particolare attenzione è dedicato alla storia del caffè a Trieste dove l’imprenditoria e la cultura hanno entrambe contribuito a radicare la passione per la tazzina e a dare alla città un ruolo centrale per la produzione e il commercio di questo prodotto. Il pezzo forte dell’esposizione sono le grandi foto di Sebastiao Salgado realizzate nell’arco di dodici anni per conto di Illycaffè: sospese in alto, sopra i visitatori, le immagini parlano delle lontane terre in cui la pianta del caffè è coltivata e delle persone che quotidianamente lavorano intorno a questo prodotto. Le fotografie, scattate in dieci paesi diversi sparsi in tutto il mondo e consegnate allo spettatore in grandi pannelli in bianco e nero, mostrano il radicato interesse del fotografo brasiliano per temi come i diritti dei lavoratori, la povertà, i problemi nei paesi in via di sviluppo. Vedere i luoghi da cui provengono i chicchi e i volti di chi li coltiva permette a tutti di compiere il viaggio che porta quell’inconfondibile gusto nelle nostre tazzine. Ma il percorso non si esaurisce al Salone degli Incanti. Una passeggiata reale in dodici tappe e un giro virtuale sul sito www.triestecoffeexhibit.com portano i visitatori a spasso tra le sedi istituzionali e i locali storici legati al caffè più significativi di Trieste che esibisce così il suo patrimonio culturale unico in questo campo. Al termine di ogni viaggio, un grande bar al centro della mostra permette di rifocillarsi e di degustare diverse preparazioni a base di caffè. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 37 MOSTRE IN REGIONE sommario UN’INTENSA STAGIONE ESPOSITIVA Claudia Raza Pino Giuffrida Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 38 Nonostante una stagione un po’ impegnativa dal punto di vista atmosferico, con il caldo tropicale che, a successive ondate, ha messo alla prova residenti e turisti, è continuata incessante e vivace l’attività espositiva con significative rassegne sia collettive che personali. Tra queste ultime, due interessanti proposte, entrambe ospitate dal Museo Ugo Carà di Muggia. La prima, in ordine di tempo, è stata nel mese di luglio la mostra dedicata a Claudia Raza, Verso l’infinito, curata da Marianna Accerboni, nella quale l’artista cividalese (residente però sul Carso triestino) ha proposto numerose opere, che offrono la sintesi di alcuni suoi ambiti creativi. In ciascuno di essi l’artista riversa con fluente generosità le prove delle sue versatili abilità, conseguite con un’assidua formazione presso la Scuola internazionale di grafica di Venezia, frequentata per oltre un decennio a partire dai primi anni Ottanta, integrata in seguito dalla partecipazione a diversi seminari internazionali. Ulteriore perfezionamento l’acquisizione delle tecniche di fabbricazione della carta, funzionali alla realizzazione dei suoi libri d’artista. Nella rassegna muggesana, l’esuberante creatività della Raza ha imposto una suddivisione delle opere in tre sezioni: Il respiro dell’anima, la più scopertamente figurativa, articolata in acrilici di medio/ grandi dimensioni, in cui la natura viene osservata e poi restituita sulla tela trasfigurata in tonalità decise e sempre in composizioni di suadente lirismo. Le altre due sezioni, Libro d’artista e Parole dipinte, raccontano ancora di un altro aspetto del sentire e dell’attività artistica dell’Autrice, indagatrice attenta di sé e della realtà che la circonda attraverso un ulteriore ambito artistico, quello della poesia espressa per mezzo della parola e della scrittura, fin dagli anni novanta, quando la Raza ha pubblicato le sue prime sillogi di liriche. Nei suoi raffinati libri d’artista l’incontro tra parola scritta e arte visiva si fa esplicito, in un processo centripeto di sintesi che trova il suo corrispettivo nell’altra sezione, dove le parole sono travolte da una forza centrifuga che le scompone in lettere, in caratteri tipografici fornendo base e pretesto per l’astrazione di alcune tecniche miste di forte impatto formale ed emotivo. La medesima sede espositiva muggesana ha ospitato, dal 31 luglio al 23 agosto, un’importante antologica di Pino Giuffrida, intitolata Il prisma dell’essere, introdotta sul piano critico da Giancarlo Bonomo. Articolata in una trentina di opere di grande formato, l’esposizione offre ala visitatore un’immagine completa dell’opera di questo artista, autodidatta e visionario, che in una esperienza ormai protratta enl tempo è venuto proponendo attraverso una impostazione formale decisamente personale una sua concezione della realtà originale e sofferta, che attinge sovente alle oscure indicazioni dell’inconscio, rappresentando immagini di un lucido indagare entro dimensioni che appaiono oniriche. Da ciò, comprensibilmente, il richiamo al prisma, come elemento ottico che scompone le immagini e rende plurale il percepito, esplicita metafora di una modalità di porsi in relazione con la realtà che assume senso soltanto attraverso la scomposizione e la ristrutturazione dell’apparente. Prendono in questo modo forma le figure, umane e d’altro genere, che assurgono a simboli di qualcosa sempre mutevole e diversa, non più mostri generati dal sonno della ragione, ma al contrario fantastiche rappresentazioni di una ricerca che scandaglia le profondità altrimenti inattingibili della condizione umana. una incessante e vivace attività espositiva con significative rassegne sia collettive che personali Dopo un’importante personale a Gradisca d’Isonzo, Annamaria Ducaton ne ha bissato il successo di pubblico allestendone un’altra alla Villa de Finetti di Corona la mostra Dal cuore al silenzio. L’evento, ospitato nella bella sede espositiva dallo scorso 8 luglio al 9 agosto, fa parte del progetto “IncontrArti” patrocinato dal Comune di Mariano del Friuli, e curato dalla critica Eliana Mogorovich. Un anno dopo la grande mostra “La donna del mare”, allestita a cura della Provincia di Trieste al Magazzino delle idee, l’occasione espositiva offerta dall’iniziativa del comune isontino ha consentito di prendere visione di uno dei più recenti cicli pittorici dell’artista triestina, l’impegnativo confronto tra segno e colore e il silenzio, tema inesplorato o assai poco esplorato, cui la Ducaton è approdata dopo precedenti esperienze di valenza opposta, quando la sua ispirazione derivava da un approfondito confrontarsi con la musica (molti ricorderanno il suo cimentarsi con la grande musica di Gustav Mahler). Accanto a queste e a una miriade di personali, tra le quali sono da segnalare almeno quella in ricordo di Lorenzo Furlani (1922-2012), autore di Ronchi dei Legionari, noto soprattutto come ritrattista, nella sala comunale d’arte Negrisin a Muggia, una retrospettiva intitolata “Sguardi nel tempo”; che propone una trentina d’opere tra caricature, ritratti e paesaggi a matita, a carboncino, a seppia e a olio, dagli anni 40 fino al 2010, quella dedicata al ricordi di Gian- ni Brumatti (Trieste 1901-1990), scenografo e pittore, noto soprattutto per i suoi paesaggi, tenuta alla Galleria Cartesius Via Carducc, 10 a Trieste, visitabile dal 18 settembre al 6 ottobre. Sono inoltre da segnalare due importanti collettive, entrambe esibizioni di due istituzioni di formazione. La prima in ordine cronologico cui ci riferiamo è l’atelier di Livio Možina, che ha presentato dal 22 agosto al 4 settembre alla Galleria Rettori Tribbio 2 di Trieste una sessantina di opere di suoi allievi, formati proprio nei locali della sala espositiva, che hanno esibito una tecnica nella maggior parte dei casi ormai acquisita, sotto la guida bonaria e intransigente del maestro, che pure riesce a trasmettere con efficacia gli strumenti di base perché ogni allievo (attualmente sono sessantatre, variegati in termini di età anagrafica e di “mestiere”) possa esercitarsi con consapevole perizia nella resa di soggetti dal vivo o di fantasia, secondo le proprie personali ispirazioni e sensibilità, essendo tutti fruitori di un insegnamento che, per quanto rigoroso, consente a ciascuno di esprimersi sotto il segno di una libertà d’interpretazione che costituisce a ben vedere il merito più notevole del metodo adoperato. L’altro istituto formativo che ha in questo periodo posto in esposizione le opere degli allievi è la Scuola Libera dell’Acquaforte fondata nel 1960 da Carlo Sbisà, che dopo la scomparsa dell’illustre maestro è stata diretta da Mirella Schott Sbisà dal 1964 al 2003, quindi da. Furio De Denaro, e infine, dal 2008, da Franco Vecchiet, che ha presentato i suoi allievi – in molti casi artisti già affermati - in via Torrebianca 22, nella sede espositiva dell’Università Popolare di Trieste, la mostra “Incisori” secondo un progetto di Renzo Grigolon. Presenti le opere di venticinque incisori: Livia Alfiero David, Roberto Battaglia, Fabio Bertoldi, Fabrizia Rigarella, Stefano Bratos, Giovanni Brezigar, Egle Ciacchi, Marco Coslovich, Lucia Crismani, Felicita De Fazio, Davorin Devetak, Paola Estori, Ciro Gallo, Gabriella Giurovich, Fulvia Grbac, Ottavio Gruber, Loredana Manzato, Manuela Marussi, Roberto Mercanti, Maria Pia Mucci, Anna Negrelli, Rossana Ravalico, Magda Starec, Rossella Titz, Luca Vergerio. Chie MOSTRE IN REGIONE sommario Annamaria Ducaton Lorenzo Furlani Gianni Brumatti Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 39 MUSICA sommario DUE MUSICISTI DA RICORDARE di Liliana Bamboschek Franco Russo Franco Russo Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 40 Oltre a quello di Lelio Luttazzi altri due anniversari nel 2015 riguardano illustri musicisti triestini: il maestro Guido Cergoli (1912-2000) e il pianista Franco Russo (1931-2005), tutti fra loro legati da amicizia e stretta collaborazione. Sembra già entrata nel mito la figura di Cergoli per il suo temperamento aristocratico e lo stile profondamente mitteleuropeo della sua musica; era per antonomasia “il pianista di Lehàr”, un gentiluomo alla tastiera. Aveva respirato aria d’operetta fin da giovanissimo quando ebbe la ventura di suonare nelle stagioni estive al Festival di Abbazia proprio nell’orchestra diretta da Lehàr in persona in un ambiente internazionale frequentato da nomi come Kàlmàn, Stolz, Abraham e la passione per la piccola lirica rimase viva in lui tutta la vita. Aria di Mitteleuropa si respirava anche nella sua famiglia, che ha dato a Trieste il più autentico ed estroso poeta di quel particolare mondo, il fratello Carlo (Carolus Cergoly). Dopo un breve periodo come maestro elementare Guido seguì la vocazione dedicandosi interamente alla musica, suonava il piano nelle orchestrine di Bordighera e della Costa azzurra, nelle sale da ballo del Cafè de Paris a Montecarlo. Precoce talento come arrangiatore cominciò a collaborare con le case musicali La Voce del Padrone e Columbia. Poco prima dello scoppio della guerra entrò a far parte dell’EIAR come fondatore e direttore della celebre orchestra che da allora portò il suo nome e aveva per sigla una delle sue canzoni più intense e romantiche “Occhi di donna”. Quest’orchestra ritmo sinfonica, di ampio respiro, all’inizio era formata da una trentina di elementi che poi crebbero nel tempo e il suo punto di forza erano gli archi; ne fecero parte i migliori musicisti del tempo a cominciare da Mario Simini, primo violino del Verdi, vi si avvicendarono come pianisti Marcello Hrovatin, Gianni Safred e un Franco Russo giovanissimo. Durante la guerra Cergoli inserì nei ranghi dei musicisti perfino persone ricercate dai nazisti riuscendo così a salvarle. Alla radio si svolgeva anche una specie di contrabbando musicale perché molte melodie americane, da Gershwin a Porter a Ellington (ascoltate segretamente da Radio Londra) venivano trascritte, arrangiate e trasmesse sotto mentite spoglie. Solo dal I luglio 1955 l’emittente passò alla Rai diventando Radio Trieste. Il repertorio dell’orchestra Cergoli era vastissimo: canzoni italiane e internazionali ma anche cicli di trasmissioni dedicati alla musica popolare triestina di cui il maestro fu un eccellente trascrittore. Come editore pubblicò il famoso Eterno ritornello (Te voio ben) di Bidoli che fece il giro del mondo. Alla fine del 1961 il maestro Cergoli fu trasferito alla Rai di Roma, ma continuò sempre ad avere un rapporto affettuosissimo con la sua città natale in cui due anniversari nel 2015 riguardano illustri musicisti triestini: il maestro Guido Cergoli e il pianista Franco Russo ritornava spesso per tenere concerti, dirigere operette, ritrovarsi con gli amici, seguito da un pubblico che apprezzava in lui una lezione di stile rimasto nel tempo impeccabile e unico. Di una generazione più giovane Franco Russo entra in contatto con Cergoli ancora ragazzo essendosi accostato anche lui precocemente alla musica. Studente al liceo Petrarca, studiava anche pianoforte al Tartini e composizione con Giulio Viozzi, ma era già scoppiata in lui la passione per il jazz di cui fu un vero precursore. Era ancora in calzoncini corti quando cominciò a suonare il piano al Circolo ufficiali americano di Trieste: venivano a prenderlo a scuola con la jeep per portarlo ora all’Hotel de la Ville ora a Opicina ora nella sede della radio americana in via Piccardi. Si esibiva in club privati a fianco di militari esperti jazzisti. La sua scuola a quei tempi era solo la radio (le stazioni americane ascoltate di notte) e, naturalmente, la passione e un grande talento. Poi furono gli stessi ufficiali di stanza a Trieste a fornirgli dischi e spartiti. Nel 1948 questo brillante pianista adolescente entrò a far parte dell’orchestra Cergoli e si iscrisse anche alla Siae come compositore. Iniziò così una folgorante carriera che lo avebbe portato a formare, solo qualche anno dopo, un trio, poi un ottetto jazz e successivamente un’orchestra ritmica di quindici elementi, iniziando anche, parallelamente, la produzione di programmi radiofonici per la Rai. La sua collaborazione all’emittente triestina fu preziosa anche nel campo della musica popolare: contribuì fra l’altro a rubriche di largo successo come “Cari stornei” e “Canta la bora” sulle canzoni triestine. A Trieste si poteva sentirlo suonare nei locali notturni più raffinati dove ha lasciato un’impronta del suo stile e del suo estro improvvisativo. Dopo vent’anni di attività poliedrica Franco Russo lasciò Trieste per trasferirsi a Roma impegnato nelle stagioni al teatro Sistina in commedie musicali di Garinei e Giovannini che avevano come protagonisti Milva, Bramieri, Rascel, Modugno… (da “Angeli in bandiera” a “Alleluja, brava gente”). Quindi cominciò a collaborare col MUSICA sommario Guido Cergoli negli anni ‘50 maestro Gianni Ferrio in tutta una serie di programmi televisivi di grande impatto tra cui Canzonissima, Studio Uno, Domenica in. Contemporaneamente lavorava alla realizzazione di colonne sonore per film presso gli studi della RCA ed era pure impegnato come pianista accompagnatore al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. Al centro di un’attività continua e instancabile restano naturalmente i concerti pianistici in cui Franco Russo è sempre rimasto fedele al suo concetto di jazz classico, tendenzialmente su base melodica, nella linea dei “grandi” come Duke Ellington e Stan Kenton che hanno lasciato lezioni di grande stile ed equilibrio. Era un eccezionale pianista improvvisatore, sceglieva un tema e da esso traeva originalissimi sviluppi, incredibili e personali elaborazioni fino a trasformare del tutto il motivo iniziale; ogni suo concerto acquistava così il sapore dell’immediatezza, della novità con la riscoperta di una musica mai uguale a se stessa. Questa la sua firma inconfondibile. Per ricordare il musicista la moglie Silvia ha istituito il Premio Franco Russo che si svolge annualmente nell’ambito della rassegna TriesteLoveJazz e assegna un riconoscimento a un giovane che si è distinto particolarmente in questo genere; spesso i diversi strumentisti premiati scelgono di suonare insieme realizzando un affiatato gruppo jazzistico. Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 41 PERSONAGGI sommario Paolo Caccia Dominioni Notturno Tecnica mista su carta, 1917 Al tempo della campagna in Africa Settentrionale Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 42 ARTISTA, SOLDATO, SCRITTORE Personalità poliedrica e di vasti interessi quella di Paolo Caccia Dominioni, che ha attraversato quasi per intero il Novecento in posizioni sovente di prima linea (nel senso proprio militare del termine), lasciando una cospicua traccia del suo passato in documenti, disegni, libri, progetti architettonici e di design oggetti che costituiscono la gran mole di materiali - oltre seicento pezzi - presentati ora in una mostra attualmente a Trieste e Udine, in tre sedi espositive, dopo aver toccato tra il 2013 e l’anno successivo Gorizia e prima di un trasferimento a Bruxelles dove sarà visitabile a partire dal prossimo 3 e fino al 17 novembre. La rassegna triestina si è avvalsa dell’appro- fondimento storico curato dall’ammiraglio di squadra Ferdinando Sanfelice di Monteforte e della curatela, per la parte africana, dello scrittore e saggista Khaled Fouad Allam. Nato da una famiglia di antica nobiltà a Nerviano (Milano) nel 1896, fu indotto ad interrompere gli studi di Ingegneria dall’intervento dell’Italia nel 1915, allorché si presentò volontario, inquadrato tra i bersaglieri, frequento successivamente il corso allievi ufficiali e fu impegnato quindi sul fronte orientale, dove fu ferito e guadagnando una prima decorazione al valor militare. Terminò la guerra in una guarnigione in Libia, dov’era stato trasferito dopo che suo fratello, ufficiale degli alpini, cadde in combattimento. Rimpatriato, completò gli studi e, dopo un’iniziale adesione al Fascismo, se ne allontanò trasferendosi in Egitto nel 1924 dove iniziò l’attività professionale, progettando edifici in molte località del Medio Oriente. Richiamato una prima volta alle armi nel 1931, fu congedato col grado di capitano, ma fu richiamato di nuovo nel 1935 per partecipare alla guerra di Etiopia. Richiamato nuovamente alle armi allo scoppio del secondo conflitto mondiale, come ufficiale del Genio guastatori, fu impegnato per tutta la durata della campagna in Africa settentrionale, dove si procurò una decorazione da parte del generale Rommel e una medaglia d’argento al valor militare. Dopo l’8 settembre ’43 entrò nella Resistenza operando nelle unità combattenti fino a divenire Capo di stato maggiore delle formazioni lombarde di Giustizia e Libertà, guadagnandosi un’ulteriore medaglia di bronzo al valor militare. Nel dopoguerra ritornò al Cairo dove ebbe l’incarico di progettazione e costruzione del sacrario militare italiano di El Alamein, esempio unico di architettura italiana monumentale nel deserto africano. Rientrato in patria nel 1958, affiancò all’attività professionale quella di scrittore, con la quale illustrò le sue memorie di combattente, conseguendo anche il premio Bancarella per il suo Alamein 1933-1962, pubblicato in prima edizione da Longanesi nel 1962. in mostra la vita e l’opera di Paolo Caccia Dominioni Si spense a Roma, all’Ospedale militare del Celio, a 96 anni , nel 1992. Nel sessantesimo anniversario della battaglia di El Alamein, nel 2002, gli fu conferita la medaglia d’oro al valore dell’Esercito alla memoria. Oltre che architetto, soldato e scrittore, fu pittore e formidabile illustratore e soldato. “Un artista” ha affermato il critico Philippe Daverio, che nell’ambito della mostra ha tenuto un’affollatissima conferenza alla Biblioteca Statale di Trieste “che se non avesse tanto combattuto, sarebbe oggi riconosciuto tra i massimi del ‘’900 italiano”. Com’è ampiamente documentato in mostra, Caccia Dominioni dimostrò infatti una grande modernità espressiva nel disegno, nell’illustrazione e in pittura, nel cui ambito seppe raccontare e interpretare, grazie all’essenzialità del segno grafico e pittorico e alla sintesi della parola scritta, da “cronista” di assoluta avanguardia, le guerre e i diversi accadimenti del ‘900. La rassegna testimonia ciò con una ricca sequenza di disegni e dipinti dedicati alla Grande Guerra, provenienti dai Musei Provinciali di Gorizia e da collezioni private, in un momento culturale ancora legato all’eclettismo e al Liberty. Altrettanto si può dire per i libri scritti e illustrati da Dominioni: a partire da 1915 - 1919 (Longanesi; Mursia), composto in epoca dannunziana con antesignano taglio giornalistico, per arrivare a El Alamein (Longanesi; Mursia), Amhara (Plon, Paris), Takfir (Alfieri; Longanesi; Mursia), Ascari K7 (Mursia), Alpino alla macchia (Cavallotti; Libreria Militare), Casa del perduto amore (Il Cairo, H. Urwand & fils; San Floriano del Collio, Formentini), Le trecento ore a Nord di Qattara (Longanesi; Libreria Militare), La frana del San Matteo (Cavallotti) e via dicendo, scritti da un’intelligenza razionale e nel contempo capace di fantasticare, ma in un linguaggio sintetico e d’avanguardia. E altrettanto va detto per i disegni, i quadri e le illustrazioni realizzati successivamente agli anni Venti da Dominioni, che Hugo Pratt, considerato oggi uno dei più grandi illustratori al mondo, ammirava profondamente come proprio maestro. La sintesi dei volumi e un moderno concetto di forma-funzione sottolineano anche le sue architetture civili e monumentali, spesso connotate dall’arco, forse in memoria dei lunghi anni trascorsi in Africa, dove altrettanto abile e competente si dimostrò nelle costruzioni stradali e minerarie e nei progetti di ingegneria idraulica per l’Alto Nilo. Nei progetti architettonici aderì a un sobrio stile razionalista e dimostrò ancora il suo spirito d’avanguardia per esempio nel progetto per il Villaggio turistico di Riva dei Tessali (Taranto), inserito in un paesaggio boschivo senza abbattere alcun albero, ma adattando anzi armonicamente e con eleganza le nuove edificazioni alla natura, nel più assoluto, ecologico e antesignano - eravamo tra gli anni ‘60/’70 - rispetto per l’ambiente: solo per questo motivo l’architetto-artista potrebbe essere considerato un grande mentore antesignano della modernità, come lo fu per altro sul piano umano e sociale, intrattenendo un rapporto amichevole e paritario con tutti, compresi i suoi commilitoni, i soldati e gli Ascari, che ebbe a fianco nella campagna d’Etiopia, nel secondo conflitto e per il recupero delle salme dei caduti, anticipando così, istintivamente e a suo modo, un moderno concetto di globalizzazione. PERSONAGGI sommario Pilippe d’Averio e Annamaria Accerboni Biblioteca Statale “S. Crise” di Trieste Spaziocavana Zinelli&Perizzi - Trieste Caserma Guastatori Berghinz - Udine Paolo Caccia Dominioni. Un artista sul fronte di guerra Mostra a cura di Marianna Accerboni prorogata fino al 17 ottobre In mostra è in vendita il video Ritratto inedito in otto interviste ideato da Marianna Accerboni per la regia di Elio Velan Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 43 TEATRO IN DIALETTO sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 44 LA XXXI STAGIONE DE L’ARMONIA È ai nastri di partenza la XXXI Stagione dell’Armonia che dal 9 ottobre metterà in scena undici commedie al teatro Silvio Pellico. L’Associazione tra le compagnie teatrali triestine ha preparato un vivace cartellone caratterizzato dalla varietà di generi: ce n’è per tutti i gusti per i numerosi appassionati del teatro in dialetto. Aprirà le danze la compagnia Quei de Scala Santa in “Che gropi ara !!!” (9-18 ottobre) commedia tratta da La Neve di zio Anselmo di Valerio di Piramo, adattamento in triestino di Marisa Gregori e Silvia Grezzi, regia di Willy Piccini. Il Gruppo Il Gabbiano presenterà “Tutinscuro-Black Comedy” (23 ottobre-1 novembre) di Peter Shaffer, adattamento e regia di Riccardo Fortuna. Il Gruppo Proposte Teatrali in “Sesso, bugie e… papagai” (6-15 novembre) di Alessandra Privileggi e Giorgio Fonn da un’idea di Ray Cooney, regia di Alessandra Privileggi. Gli Amici di San Giovanni metteranno in scena “Buffalo Bill Trieste 1906” (20-29 novembre) spettacolo musicale di Ruggero Zannier, regia di Giuliano Zannier. Quindi la Compagnia TuttofaBroduei in “Pino. Chi ? Mi” Da Collodi ai TuttofaBroduei… 134 anni di Pinocchio (4-13 dicembre) testo e regia di Andrea Fornasiero. Quei de Scala Santa ritorneranno in “No sarìa mai de fidarse” (8-17 gennaio 2016) di Manuela Dessanti, rielaborato da Silvia Grezzi e Marisa Gregori, regia di Silvia Grezzi. Seguirà la compagnia I Zercanome in “Scondariole” (22-31 gennaio) di Gianfranco Gabrielli da un’idea di Noel Coward, adattamento e regia di Paola Pipan. Quindi gli Ex Allievi del Toti in “Zio Ciano-El re de Sydney” (12-21 febbraio) da Il Re di New York di Biagio Izzo e Bruno Tabacchini, adattamento di Walter Bertocchi, regia di Paolo Dalfovo e Roberto Tramontini. La Compagnia dei Giovani in “Fora el dente… fora el dolor” (26 febbraio-6 marzo) di Agostino Tommasi da un’idea di Barillet e Gredy, regia di Julian Sgherla. La Compagnia Bandablanda proporrà “Una valanga de… morbin” Musical primitivo (11-20 marzo) testo e regia di Gianfranco Pacco. E per finire la Compagnia dell’Armonia in “Buon Compleanno” (1-2-3 aprile) di Massimo Meneghini, adattamento e regia di Riccardo Fortuna, spettacolo offerto agli abbonati da Banca Mediolanum. Proseguiranno inoltre le iniziative degli anni scorsi: L’Armonia in The City in programma i mercoledì prima della prima alle 17.30 nel locale omonimo (via del Teatro 2) che prevedono l’incontro col pubblico e le anticipazioni sugli spettacoli e due appuntamenti di Luci della ribalta al Punto Enel di piazza Verdi 2 a cura di Paolo Dalfovo (10 dicembre e 3 marzo). Liliana Bamboschek VECCHIE E NUOVE POVERTÀ EUROPA E ALTRI MONDI Una cinquantina di giovani studiosi dai 18 ai 35 anni, provenienti da tutto il mondo, saranno i protagonisti della VIII edizione del Forum mondiale dei Giovani “Diritto di Dialogo”, in programma a Trieste dal 30 settembre al 4 ottobre 2015, nella sede della Scuola Superiore di Lingue per Interpreti e Traduttori. Nato dalla volontà di affermare il “diritto di dialogo” come “diritto fondamentale”, il Forum si rivolge ai giovani come classe dirigente del futuro, interlocutori privilegiati per la costituzione di modelli culturali solidali e aperti. “Vecchie e nuove povertà” nel Terzo Millennio, ovvero povertà storiche e nuove emergenze, è il tema su cui quest’anno i giovani partecipanti sono stati chiamati a interrogarsi: sono stati selezionati 50 paper, tra i 325 giunti da ogni angolo del globo in risposta al “call for paper 2015”, e questi saranno oggetto di dibattito con gli autori nelle giornate del Forum. Saranno 37 i Paesi rappresentati, dall’Europa Orientale all’Africa, dall’Asia centrale e orientale alle Americhe, al Medio Oriente: gli interventi offriranno una visione sfaccettata e poliedrica del tempo presente. In essi alla povertà si associano i temi dello sviluppo sostenibile, della globalizzazione e dell’immigrazione, della cultura del benessere contrapposta a quella della ricchezza, della decrescita opposta alla crescita. Nell’ultima sessione d’incontro si discuterà del rapporto fra povertà e perdita di diritti: i tangibilissimi diritti economici, ma anche diritti molto più intangibili, connessi con la perdita della memoria, della bellezza, delle identità. Tutti gli interventi saranno proposti in lingua originale con traduzione simultanea in inglese e italiano. A dialogare con i giovani studiosi sul tema di quest’anno giungerà a Trieste il poeta e scrittore Aldo Nove, che con opere come Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese (Einaudi Stile Libero, 2006), con cui ha vinto il Premio Stephen Dedalus, ha esplorato il tema del precariato, povertà dei giorni nostri, tra giovani e meno giovani in Italia. Ai contributi di giovani studiosi di tutto il mondo si affiancheranno quest’anno anche alcune tavole rotonde. Tra queste, si segnala quella dedicata ad una delle eredità culturali dell’Expo, la Carta di Milano. A discuterne, in un dialogo con alcuni giovani del Forum, Massimiliano Tarantino, Segretario Generale della Fondazione Gian Giacomo Feltrinelli e Direttore esecutivo di Laboratorio Expo: è suo il progetto di curatela scientifica dell’Expo Milano 2015. E ancora una tavola rotonda dedicata al progetto We-Women, con la partecipazione di Mariarosa Santiloni, Segretario Generale della Fondazione Ippolito e Stanislao Nievo. Il Forum “Diritto di Dialogo” è realizzato dall’Associazione “Poesia e Solidarietà” (Trieste) in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi e Documentazione per la Cultura Giovanile, diretto da Gabriella Valera, che del Forum è ideatrice, e col Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste. Fa parte di un ampio progetto per la cultura giovanile che ha ottenuto riconoscimenti importanti a livello nazionale e internazionale, come l’adesione del Presidente della Repubblica, il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO, dei Ministeri degli Esteri. Gode del contributo della Regione Friuli Venezia Giulia, Assessorato alla Cultura, della Fondazione Benefica Kathleen Foreman Casali, della Banca Popolare di Cividale, di Duemilauno Agenzia Sociale ed è diversamente sostenuto con collaborazioni e partnership da molti altri enti a livello nazionale e internazionale. In particolare l’Università di Trieste e il Centro Internazionale di Studi e Documentazione per la Cultura Giovanile lo sostengono come cuore del grande progetto di promozione della cultura giovanile che ha in Trieste e nella Regione Friuli Venezia Giulia il suo epicentro. FORUM sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 45 VIAGGI sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 46 AUSTRALIA 3: COOBER PEDY Coober Pedy compare all’improvviso, annunciata da centinaia di coni di sabbia. Paesaggio lunare traforato da enormi macchinari a setacciare la sabbia, a cercare la roccia striata d’opali. E poi solo silenzio. Un drive-in deserto, inquietante, rimbalza muto su uno schermo enorme, bianco. Città di fascino e di magia e di camini che spuntano dalle colline come dita a indicare che la vita viene da là sotto. Questa città mi ha sempre mosso qualcosa dentro, una specie di magia, di sorda attrazione, una vibrazione che punzecchia le corde giuste, ed è ancora così. Vorrei fermarmi qualche giorno per sprofondarci bene, con il sangue e la carne, niente anima, ma solo materia trasportata dentro e fuori dalle viscere della terra ostile ma pur sempre the mother land. Il campeggio è in fondo alla città. Vengo sempre qui, per abitudine, penso. Alla reception, accanto alla solita vecchia che vedo invecchiare sempre di più, c’è una ragazza che probabilmente non ho visto crescere, o è cresciuta da qualche altra parte. Deve essere una sua parente perché hanno qualche tratto del viso in comune, anche se quelli della ragazza sono mescolati con degli altri che ne hanno nettamente migliorato il risultato. Infatti, finita la registrazione, mi dice che sua nipote mi avrebbe fatto vedere dove dovevo mettermi. La nipote, che mi cammina davanti, ha proprio un bel culo, e il perizoma scuro mi saluta con gioia oltre la stoffa bianca dei pantaloni. Mi indica la zona di fronte all’ufficio, mi dà la chiave del mio in-site van da 35 dollari, e se ne va, guardandomi un po’ troppo a lungo. Esco a farmi un giro, ma il caldo è troppo intenso. Per la strada, solo aborigeni buttati qua e là, sfigurati e urlanti nella loro zona off di Pericle Camuffo limits di marciapiedi polverosi e di stracci appesi addosso, occhi gialli e barbe di epoche antiche. Mi guardano mentre passo loro davanti, quasi mi interrogano con la loro marginalità, mi chiedono chi sia io che sto al di là della linea che loro hanno tracciato sul terreno, una linea che separa i nostri due mondi, per sempre. Quando non sopporto più il sole e quella continua interrogazione muta, scendo al di sotto, nel fresco di negozi art gallery bar alberghi e tutta quella città nascosta in cripte d’opali, e finisco in un negozio di didgeridoo gestito da un bosniaco o croato, non ho ben capito, e alla fine me ne esco con un bel didgeridoo da 300 dollari. Non so suonarlo, ma è una delle cose che ho sempre desiderato avere, un capriccio da ragazzino. Camminando in Hutchison street, la strada principale, si ha la sensazione di muoversi in un set abbandonato dove solo il vento conserva il ricordo delle voci, degli sguardi, delle figure che animavano questo posto, ma è un ricordo sbiadito, troppo lontano, che mi sfiora appena nel cigolare di porte e finestre aperte per sempre su questo silenzio, bocche spalancate e mute. Il tramonto scende in fretta, incendiando il silenzio delle miniere e dei macchinari immobili, rendendo tutto ancora più irreale, più spoglio, desolato, ma allo stesso tempo riempiendolo di una tristezza che sa quasi di poesia, di quella lentezza densa di emozioni e di magia che Wim Wenders ha messo nel suo Fino alla fine del mondo, girato in parte qui attorno. C’è un’energia strana, potente, che riempie l’aria e la terra e questa città ti cattura ti ruba la mente ti svuota e non riesci a reagire come se pian piano le vene uscissero dal corpo per diventare radici e tuffarsi avide nel suolo secco e prezioso, ma è un’energia cattiva, sporca. Secondo gli aborigeni del luogo quando il Serpente Arcobaleno è passato di qui nel suo lungo viaggio attraverso tutto il continente, ha incontrato degli spiriti malvagi che ha rinchiuso sotto terra coprendoli con le sue scaglie. Quelle scaglie erano e sono gli opali. La loro estrazione continua e indiscriminata ha fatto sì che gli spiriti malvagi uscissero di nuovo spargendo nell’aria la loro energia negativa, quel prurito denso che stringe il cuore e l’anima quando si arriva qui. Quest’energia paesaggio lunare traforato da enormi macchinari a setacciare la sabbia, a cercare la roccia striata d’opali. E poi solo silenzio riempie l’aria di un rossore irreale e ti vibra attraverso le ossa, tra le fibre dei muscoli, la senti, è potente, può anche far male, scalfire ogni integrità, trasformarti in qualcosa di diverso, di più brutto, di orrendo. È magia nera, spiritualità tribale. È la forza della terra, lo spirito della terra! Quello che ha mosso l’origine del mondo. Quando scende il sole, a Coober Pedy si riaccende il fuoco del primo giorno. Forse è anche per questo che Coober Pedy the Opal capital of the world è una delle città più pericolose dell’intera Australia o semplicemente al di là di storie e leggende, è solo che qui si impazzisce più facilmente che da altre parti. Mi fermo da Tracer, un ristorante greco, per bere una birra. Si respira un’aria familiare, da est Europa. I tavoli sono coperti con un telo di plastica trasparente e le sedie vecchie, da retrobottega, sono sistemate con ordine preciso quasi a voler togliere un po’ di squallore. Non si può fumare fino alle dieci, quando più o meno tutti avranno finito di cenare. Me ne andrò certamente prima, ma già che ci sono, e che non c’è quasi nessuno, chiedo uno strappo alla regola, ma la cameriera mi dice che non è possibile, e lo fa con un sorriso di pietà e di comprensione. Ha labbra sottili e gira tra i tavoli con stanchezza, svogliata nel suo corpo esile, con un visino carino in cui bruciano due occhi scuri e tesi. Al tavolo di fronte a me è seduto il cuoco, discute con altra gente a voce alta, in greco, alzando bicchieri e bottiglie in brindisi rumorosi e allegri. Gli faccio un gesto con la bottiglia, come per partecipare a quell’euforia che quasi pensavo impossibile qui a Coober Pedy. Si alza e mi raggiunge. Mi chiede di dove sono e come mai mi trovo qui, e dice alla ragazza di portarmi un’altra birra, offre lui. Mi racconta che anche suo padre era italiano, calabrese, prima emigrato in Grecia dove ha incontrato sua madre, poi qui, in Australia, a Coober Pedy, dove ha messo su questo ristorante. Adesso tocca a lui continuare il lavoro del suo vecchio, ma mentre lo dice passa nei suoi occhi la malinconia tipica dell’emigrato, che anche se di seconda generazione, si sente sempre fuori posto, sradicato. Mi mostra, con tenerezza, la foto di tutta la sua famiglia che vive ad Atene, la tiene appesa alla parete vicino al bancone. Vedere tutte quella facce greche, consuete, fermate in un sorriso di gruppo e strette nell’abbraccio sincero di chi si vuole bene, gli muove qualcosa dentro, come un grumo di dolcezza, di pianto. Mi saluta velocemente e sparisce in cucina. Finisco la birra e me ne vado. Altro pub, altra gente, tutto diverso. Minatori ubriachi in pausa, tatuaggi colorati, lunghe barbe e musica alta. Conosco John, aborigeno mezzo sangue, mani tozze, braccia robuste e piene di cicatrici. Mi dice che gli piace conoscere gente nuova. Posso capirlo, certo, ma non capisco quando parla, è troppo ubriaco, a stento si regge seduto. Mi dispiace, e quasi mi incazzo. L’avrei voluto sobrio per potergli chiedere un sacco di cose di lui, della sua vita, dei suoi sogni, i misteri della sua cultura schiacciata sulle pietre di questa città. Avrei voluto che mi avesse parlato con la melodia della sua lingua, e invece è perso nei troppi giorni passati qui dentro e nell’infinità di birre che ha mandato giù. Mi stringe il braccio, non vuole mollarmi. Vado a prendere altre due birre, e lo saluto. Sono sulla porta quando mi si avvicina e mi dice “Amico, questa è la mia famiglia”, indicando un gruppo di aborigeni messi male, che se ne stanno in disparte, sembrano aspettare. Sulle loro facce è dipinta una solitudine indifesa. La voce di John è cambiata, meno sicura, meno spavalda, le sue parole sono quasi una supplica, una preghiera, come per dirmi “Vieni con noi, almeno tu!”. Non lo ascolto, ed esco dal locale come per fuggire a qualcosa, per farmi inghiottire dalla notte. L’aria è fresca e nel cielo chiaro corre al via lattea che sembra la scia di una cometa precipitata nel deserto, ma adesso, qui, davanti alla mia roulotte, ho la sensazione di aver tradito un’amicizia, quella di John, della sua gente e di questa terra. (-continua) VIAGGI sommario Il Ponte rosso mensile di arte e cultura Numero 4 - settembre 2015 47 MARTEDÌ 29 SETTEMBRE ALLE ORE 17.30 Salone degli Incontri del Circolo Aziendale delle Assicurazioni Generali (g.c.) Piazza Duca degli Abruzzi, 1 - Trieste (VII piano) Presentazione della nuova raccolta di poesie di Claudio Grisancich Cafè de moka e Dediche Collana "Il Nuovo Timavo" (Hammerle Editori) Fulvio Senardi e Walter Chiereghin dialogheranno con l'autore Grisancich, a partire dai suoi 'haiku', in lingua, sta elaborando una sua particolare modalità espressiva, con strategie di racconto che 'smembrano' i momenti della vita per farne scaglie di una ricerca di senso che investe l'universalità dell'umano, avvalendosi di uno stile scarno e sorvegliato, ma che ci parla in modo più che esplicito, con ricchezza di suggestioni e calore di empatia, per quanto è, con sapienza, modulato sui registri più semplici del parlare comune. Organizzato da: Hammerle Editori, Il Ponte Rosso e Associazione AltaMarea giovedì 1 ottobre 2015 alle ore 18.00 Antico Caffè San Marco Via Battisti 18 - Trieste Incontro per la presentazione del romanzo di Elio Ross LEONE E IL DIAVOLO Collana "I Libri del PEN Trieste" (Hammerle Editori) Ne parleranno Antonio Della Rocca, Presidente del PEN Trieste Enzo Santese, critico Sarà presente l’autore Leone e il diavolo è un’opera complessa, anche considerando soltanto la sua struttura fondamentale. Il racconto appare piano, semplice a prima vista, una storia di fatti. Il titolo però sottende il presupposto di una complessità: un patto col diavolo. Leone e il diavolo è un romanzo senza tempo, che non può seguire i dettami capricciosi e tiranni delle mode. È un libro straordinario, che parla di reincarnazioni, di vite dentro le vite, di amori, viaggi, avventure. La narrazione ha un ritmo incalzante, un andamento vertiginoso, di continue sorprese e colpi di scena. (dalla prefazione di Ernestina Pellegrini)