Fare politica, tenere relazioni, costruire una narrazione

Transcript

Fare politica, tenere relazioni, costruire una narrazione
Carissime tutte,
innanzitutto mi scuso per non avere finora risposto ai molti documenti che sono stati scritti e fatti
circolare. Il primo era quello di Maria Grazia. Ho avuto il tempo di leggerlo con attenzione, ma mi è
mancato quello di scrivere una risposta alle sue riflessioni. Adesso respiro un po’ di più e quindi
provo a mettere insieme qualche pensierino sparso dopo che anche la sera presso la Galleria mi
sono limitata ad ascoltare, trovando l’ascolto molto istruttivo.
Innanzitutto penso che sia significativo che il suo documento cominci con una dichiarazione di età
anagrafica. Infatti penso che vada fatta qualche considerazione generazionale e anch’io comincerò
di qui.
Quell* che come me sono nat* con l’ultimo boom demografico (io sono del 1949) sono cresciut* in
un mondo che non l* considerava granché prezios*. Anzi, se per di più come me erano nat* in una
famiglia non di destra, ma alquanto conservatrice, essere giovani voleva dire solo che si aveva tutto
da imparare sulla politica, sulla vita, sulla morale. Della scuola poi meglio non parlare: il mio
preside era addirittura manesco e una volta, per avere partecipato ad una manifestazione
studentesca, rischiai di dover portare a settembre tutte le materie.
In politica le grandi speranze di rinascita dell’immediato dopoguerra per la nostra generazione
erano già un po’ appassite. Il mondo ci sembrava ipocrita e autoritario. Lo stato poi a un certo punto
apparve perfino sospetto di stragismo!… La ribellione dei giovani della mia generazione fu dunque
essenzialmente una rivolta contro autoritarismo e mistificazione. Ivi compreso il centralismo (e il
perbenismo in fatto di comportamenti femminili) del partito comunista.
Non mi sfugge il fatto che sto dicendo delle banalità, ma sono necessarie per riepilogare una storia
di molte di noi che, con il ’68 prima e il femminismo poi, sono convinte – guarda un po’ – di averlo
dato un forte contributo alle vittorie della sinistra negli anni Settanta e di averlo fatto stando fuori
dai partiti e inaugurando un modo inedito di fare politica. Di nuovo sto dicendo cose più che note,
lo so, ma se non faccio così non arrivo al nodo che mi sta a cuore.
Il femminismo è stato certamente una delle forze politiche che negli anni Settanta più
significativamente, pur stando fuori dai partiti, ha contribuito a fare sì che per un attimo l’Italia
“rischiasse” di diventare un paese moderno, europeo, laico.
Per questo non ho mai sentito il bisogno di militare in un partito. Le formazioni politiche su cui far
convergere i risultati della mia azione esistevano già: facevo teatro di strada e di
controinformazione e tengo a dire che tutte le campagne fatte dal mio gruppo (che poi diventò
Assemblea Teatro, una compagnia che vive e lavora ancora adesso con 40 anni di attività) ebbero
successo: quella sull’aborto ad esempio e quella che si chiamò “Potere popolare”, in favore del
partito comunista alle elezioni – vincenti – del 1975.
Allo stesso modo, con la presa di coscienza femminista, avevamo l’impressione di poter pesare con
le nostre idee sui partiti della sinistra, portandovi un contributo di rinnovamento che però maturava
altrove, nelle pratiche che le donne facevano vivere.
Perché dunque non potevo militare in un partito? Perché credo di essere disallineata per carattere.
Persino rispetto alla formazione femminista in cui più mi sono riconosciuta, Rivolta femminile,
sulla questione aborto mi sono permessa di dissentire. Pur riconoscendo, d’accordo con Rivolta, che
la legalizzazione dell’aborto non faceva che ottimizzare la colonizzazione della nostra sessualità, io
la campagna a favore della legge 194 l’ho sostenuta e penso di avere fatto bene.
Fatto questo lungo preambolo, io posso capire che una donna dell’età di Mariagrazia, nata alla
politica proprio in quel momento magico in cui i movimenti fornivano tanto ossigeno ai partiti
tradizionali da farli entrare in una crisi positiva, possa desiderare di tornare a frequentare la sezione
del PD, ma penso anche che a lei non sarà difficile capire perché una simile prospettiva mi sia
infinitamente lontana.
Il punto è che non esiste un partito in cui una come me potrebbe militare: qualunque partito non
saprebbe che farsene di me e, a dirla tutta, io non saprei bene che farmene di un partito come quelli
che ci sono a disposizione.
Ben diverso è lo scenario se invece parliamo di «fare politica». Quella io credo di averla fatta
sempre da quando ho l’età della ragione e, a differenza di molti compagni, soprattutto maschi, della
mia generazione, non ho mai smesso di farla. Sui maschi della mia generazione potrei aggiungere
che quelli che dalla politica attiva si sono ritirati, magari dando il loro contributo alla causa
antifascista solo più attraverso azioni capillari come l’insegnamento, l’ecologia, la ricerca, sono
secondo me la parte migliore di quello che è stato il movimento del ’68, dato che da quel vivaio
escono anche individui come Bondi e Mughini… Poi ci sono anche esempi di appassionata
misoginia che non appartengono a quella generazione. Sono giovani e di grande attualità, tipo
quell’energumeno (non chiedetemi il nome, l’ho rimosso) che scrive sul “Fatto” di Travaglio.
Chiusa la parentesi sulle derive maschili, vado al cuore della questione politica che lo scritto di
Mariagrazia ha sollevato: il deserto delle relazioni. Certo che il problema è lì! La politica ignora la
gente comune e la gente comune perché non dovrebbe ignorare la politica? La lega a quella gente
va a parlare, dice cose comprensibili, dice anche che evadere il fisco è giusto e credo che questo
venga molto apprezzato e così la lega vince.
Poi di un elemento l’analisi fatta alla Galleria mi sembra non avere tenuto conto e io mi sono
attardata troppo ad ascoltare altrimenti ne avrei parlato. Io ho votato nel comune di Moncalieri dove
al ballottaggio ha vinto una bellissima sindaca, giovane, carina, colta. Che meraviglia! Ma devo
dirvi che la campagna elettorale era una cosa da brivido: i materiali che arrivavano nella mia
cassetta delle lettere avevano una proporzione uno a dieci tra la sinistra e la destra. La destra ci ha
letteralmente bombardati. Perché? Be’, evidentemente perché aveva molte più risorse da investire.
Pensate che la domenica del ballottaggio a noi cittadin* di Moncalieri è stata annunciata solo da
Zacà, l’avversario della Meo, con una ridistribuzione di dépliant. Lei evidentemente non aveva più
le risorse per chiamarci al voto. Eppure ha vinto. Penso che si dovrebbe riflettere a fondo sul
segreto del suo successo. Io non la conosco ancora, ma mi viene da sospettare che ci sia stata da
parte sua un’attenzione alle relazioni: proprio ciò di cui lo scritto di Mariagrazia lamenta la
mancanza.
Ecco come Elena Pulcini, che prova a prendere in esame i problemi partecipativi nell’era della
globalizzazione, parla della perdita di interazione tra individui e comunità. «Tra individui
unicamente sensibili alla seduzione del mercato e del consumo da un lato e comunità arroccate nella
difesa della propria identità dall’altro, ciò che viene sacrificato o distorto è lo spazio della relazione:
nel primo caso perché questa dimensione è assente (ossessione dell’Io), nel secondo perché assume
forme essenzialmente fusionali ed entropiche (ossessione del Noi).1»
*******
Riprendo questi appunti parecchio tempo dopo. In mezzo c’è stato il documento diffuso da Terry
Silvestrini, un incontro del laboratorio politico proposto da Laura Cima, la riunione preparatoria de
«I diritti sono il nostro Pride», una festa del primo Maggio molto partecipata.
In tutte queste attività il mio contributo è stato essenzialmente un contributo di lavoro: ho raccolto i
temi toccati da un’assemblea nella confezione di un volantino, ho partecipato agli incontri e ho
aiutato ad organizzare il corteo del primo maggio. In tutte queste attività la mia riflessione politica
se ne stava un po’ in incubazione, in una sorta di limbo abbastanza confuso, dal quale un balzo
diretto al «che fare?» mi sarebbe parso prematuro e fuori luogo. E d’altra parte ho avuto
l’impressione che anche le altre, rispetto ad una scelta di prassi, fossero ancora, come me, in una
fase riflessiva. Ma devo dire che ogni volta che è stato menzionato il «bisogno di narrazione»
dentro la mia confusione risuonava una specie di segnale che chiedeva attenzione.
Connotare la politica come ambito per eccellenza del soggetto relazionale, volto al bene comune e
in grado di integrare il molteplice è secondo me il compito che noi possiamo (dobbiamo) assumere.
La descrizione del compito – è immane, ma va affrontato – deve essere raccontata, narrata appunto.
Affermo che farlo è un compito etico e politico che si può collegare alle ambizioni individuali di
1
Elena Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2009 (p. 112)
singole donne, purché in relazione, e che per realizzare tali ambizioni sia determinante un passaggio
inteso come autorizzazione collettiva di desideri individuali.
La dignità del desiderio autorizzato (autorizzato da noi) secondo me ha alcuni compiti
imprescindibili: deve smascherare l’avidità, il narcisismo, l’individualismo esasperato e la violenza
della politica maschile. E ovviamente deve farlo senza pietà anche quando questo modello viene
assunto da una donna. Credo però che alla donna che sente il desiderio di proporsi in politica e lo
dichiara mettendosi in relazione con le altre donne, l’autorizzazione che viene da questa relazione
possa dare molta forza. E che questa forza possa essere rimessa in circolo e non finire dispersa, ma
incrementarsi nei passaggi.
Qui però sento il bisogno di precisare qualcosa: io credo poco nella strategia nota come «fare
lobby». Le donne non sono un gruppo di pressione. Sono metà dell’umanità e come tale è giusto
che si esprimano su tutti i problemi dell’umanità. Il mondo è un insieme plurale di esseri singolari
in relazione tra loro. La narrazione di cui c’è bisogno deve poter rappresentare tanto la pluralità
quanto la singolarità e questo è molto, molto lontano dalla scelta di essere gruppo di pressione. Le
lobbies servono a far valere in politica gli interessi di un gruppo e questa mi sembra una prospettiva
che immiserisce i nostri obiettivi, che invece sono planetari.
Alle mie riflessioni si aggiunge da ultimo il fraintendimento – animato credo dalle migliori
intenzioni – dei nostri obiettivi nell’articolo di Vera Schiavazzi apparso su “Repubblica” del 3
maggio sul lancio della manifestazione “I diritti sono il nostro Pride”. «Come è possibile» scrive lei
«che per trovare sostegno e energie per condurre una battaglia di civiltà e di legalità le donne, o
quel che rimane di organizzato tra loro, debbano travestirsi da minoranza? Forse perché il tema
imbarazza e divide quasi tutti i partiti? Forse perché è troppo difficile affrontarlo nelle istituzioni?
La questione è aperta.» È talmente aperta che un inedito gesto di unificazione viene interpretato
come un accodarsi dei brandelli di quello che rimane del femminismo a un movimento che appare
più energico e compatto. Il bisogno di una narrazione nostra, autonoma anche rispetto ai media,
diviene davvero un passo della massima urgenza.
Ai prossimi incontri
Ferdinanda