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Turismo e scrittura creativa: Sulle strade di don Lorenzo Milani
Di Giorgia Londi
Il 29 febbraio 2016 Eraldo Affinati è stato ospite nella Facoltà di Lettere e Filosofia, presso
l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, all’incontro intitolato Sulle strade di don Lorenzo
Milani, organizzato dal Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società e dal
Dipartimento di Studi Letterari, Filosofici e Storia dell’arte, in occasione della pubblicazione del
suo nuovo libro, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani. L’incontro è anche il primo
di una serie di appuntamenti organizzati dal Laboratorio di Scritture di Viaggio, dedicato agli
studenti del Corso di Laurea in Scienze del Turismo. Le parole di Affinati, sono state illuminanti e
profonde. Lo scrittore spiega come l’idea del libro sia stata coltivata nel corso della sua vita pian
piano e che ha preso forma negli anni attraverso gli occhi dei ragazzi difficili che quotidianamente
ha incontrato nella sua scuola. Questo libro, racconta Affinati, è, come tutti i suoi libri, un prodotto
autobiografico in cui centrale è anche la stessa vita dello scrittore. Nasce ancor prima del suo lavoro
alla Città dei Ragazzi, nasce dalla solitudine della sua adolescenza e dalla mancanza di parole. Il
titolo L’uomo del futuro, è legato a un aneddoto della vita di don Lorenzo Milani: prima di morire, a
quarantaquattro anni di una leucemia fulminante, incontrò il vescovo fiorentino che aveva frenato la
sua vocazione e la sua azione pastorale ed educativa, e gli disse:
Sa qual è la differenza tra me e lei, eminenza? È che io sono più avanti di lei di cinquant’anni1.
Don Milani era un uomo del futuro, un profeta, che era riuscito a guardare avanti e prevedere i
giorni nostri, attuando prima di tutto una rivoluzione dentro se stesso. Era figlio di una ricchissima e
acculturata famiglia fiorentina, con tanti terreni e tante proprietà. Nacque in una zona ricca, accanto
però al vecchio quartiere fiorentino di Santa Croce, a contatto, quindi, con i poveri che avrebbe
voluto far entrare, sin da bambino, a giocare con lui nella casa lussuosa dove viveva con i suoi
genitori. E così fece sin da piccolo, buttando giù le tipiche barriere e i pregiudizi di quel tempo,
attraverso un gesto provocatorio e rivoluzionario, facendo entrare i bambini più sfortunati di lui a
giocare nel campo da tennis posto accanto alla villa padronale. Tra i tanti interventi dello scrittore,
quello che senza dubbi ha colpito maggiormente è il suo racconto della lettera a Nadia Neri, che
secondo Affinati dovremmo tutti tornare a rileggere. Don Lorenzo Milani scrisse a una giovane
insegnate napoletana che aveva paura di sbagliare nel suo mestiere di professoressa e chiese al
priore dei consigli. È una lettera simbolicamente dedicata alla famiglia e ai genitori come invito a
1Eraldo Affinati, presentazione del suo nuovo libro, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, all’incontro
“Sulle strade di don Lorenzo Milani”, organizzato nella Facoltà di Lettere e Filosofia, presso l’Università degli Studi di
Roma Tor Vergata, il 26 febbraio 2016.
organizzarsi e migliorarsi. Don Lorenzo Milani nella sua lettera rispose semplicemente queste
parole: «Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse
qualche centinaio. E siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare
evidente che Dio non ci chiede di più2». Don Lorenzo Milani era una figura discussa che tendeva a
dividere più che unire. Ci sono stati diversi fraintendimenti sulle sue idee che, nel corso degli anni
passati, sono state profondamente alterate. Una di queste è proprio quella che lo vede come il padre
dell’egualitarismo indifferenziato del ’68. Eraldo Affinati ci mostra come questo sia un errore. Lui
non credeva nell’appiattimento ideologico, bensì credeva fortemente che bisognava accendere una
passione diversa in ogni allievo. Come scrisse anche Affinati in Elogio del ripetente, la rivoluzione
della scuola è aspettare i ripetenti, parlare con loro, far scattare loro un’autentica e personale
scintilla. Il vero insegnante è colui che si mette in gioco, con tutti i suoi difetti, non è colui che
pensa di finire il suo lavoro in classe, dopo aver spiegato e letto su un libro, ma è quello che si
sporca le mani, che entra nel cuore dei propri alunni, lì dove è più difficile accedere e rimanere.
Don Milani, come lo stesso Eraldo Affinati, è l’insegnante del “faccia a faccia”, dell’insegnamento
uno a uno. L’insegnante è colui che affronta i propri fantasmi interiori, che sceglie di ferirsi, di
avvicinarsi al fuoco, rischiando anche di bruciarsi, ma che attraverso questo doloroso lavoro umano,
riesce comunque a guidare i propri studenti, tenendogli la mano, verso la conoscenza. A scuola,
secondo il priore, non vi devono essere metodi, non bisogna chiedersi cosa bisogna fare, ma cosa
bisogna essere. L’unica qualità che serve, secondo don Milani, è l’autenticità, mettersi in gioco e
mostrarsi sempre per quelli che si è, senza costruzioni di ruoli o mostrando la propria autorità:
Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere3.
Don Milani non ci lascia quindi alcun metodo, alcuna filosofia, nessun progetto, ma il suo spirito
è una forza incontrollabile che ci spinge alla riflessione. Affinati non solo accoglie tale riflessione,
ma attraverso il suo libro, composto da dieci capitoli in seconda persona, attraverso dei viaggi nei
luoghi del priore, ci indica la strada giusta per accogliere le parole di don Milani e farle nostre. La
scelta della seconda persona, tranne i capitoli dei diari di viaggio scritti in prima persona, è una
scelta ben pensata, che gli consente di non allontanarsi troppo dal suo spirito interiore,
permettendogli di portare avanti una profonda riflessione su se stesso, un’analisi di coscienza che,
attraverso la scrittura, prende forma e diviene esperienza:
serve a lasciare le tracce del cammino che ho compiuto4.
2 E. Affinati, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Roma, Mondadori, 2016, p. 65.
3Ivi, p. 67.
4Eraldo Affinati, presentazione del suo nuovo libro, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, all’incontro
“Sulle strade di don Lorenzo Milani”, organizzato nella Facoltà di Lettere e Filosofia, presso l’Università degli Studi di
Roma Tor Vergata, il 26 febbraio 2016.
Eraldo Affinati ha ricercato nella scrittura di questo libro un’oggettività che potesse spingerlo
verso un’autocritica personale e una riflessione sul suo lavoro e su se stesso:
Questo libro mi è costato tanto anche dal punto di vista della scrittura perché l’ho scritto e riscritto tante volte,
proprio per trovare alla fine una spada acuminata, un ferro rovente che potesse però testimoniare tutta la vitalità che ci
ho messo dentro5.
5Ibidem.
Intervista a Eraldo Affinati: Il nemico negli occhi
In questa intervista ho scelto di porre delle domande in qualche modo inedite che possano
aggiungere piccoli tasselli mancanti a quanto già si conosce di lei e soprattutto approfondire
tematiche centrali per questo elaborato. Il primo suo libro che ho letto è stato Vita di vita, da lì la
scelta di utilizzare le sue parole per approfondire il tema trattato. Ho letto in seguito La città dei
ragazzi e molti suoi altri libri. È stato però con la lettura de Il nemico negli occhi che è arrivata la
vera ispirazione. So di aver fatto una scelta “particolare” e azzardata, ma per me è un libro
affascinante, come lo è il suo protagonista, Affo. Il suo ultimo libro, L’uomo del futuro. Sulle strade
di don Lorenzo Milani, è un altro importante viaggio attraverso diversi continenti, questa volta alla
ricerca di uomini del futuro che possano essere i degni eredi spirituali del priore, scomparso circa
quarantanove anni fa. Come lei stesso afferma, i suoi viaggi partono sempre da un’esperienza. Le
emozioni provate durante il percorso servono da filtro per capirne il senso e arricchire, tramite
quest’ultimo, il nostro bagaglio e alla fine ritrovare la strada di casa. La scrittura è messa al servizio
dell’esperienza durante il viaggio ed è fondamentale per fotografare con le parole gli attimi e
rileggerle una volta a casa, per rievocarne, tramite la memoria, le emozioni. Ha scelto di inserire
all’interno del suo libro veri e propri diari di bordo, un po’ come fece in Berlin, per visitare ogni
angolo remoto di città e luoghi, senza perderne e tralasciarne nessun dettaglio. Il turismo, in questo
modo, può diventare esperienza tramite la letteratura. Quest’ultima può stimolare la creatività, per
ritrovare una nuova autenticità nel narrare luoghi mai visti, o per vedere i paesi già conosciuti con
occhi nuovi, con la stessa sorpresa che avrebbe un bambino davanti a qualcosa di mai visto prima.
La scrittura creativa, in riferimento al suo ultimo libro, potrebbe essere e diventare un motivo di
attrazione turistica, combattendo un ormai troppo frequente e diffuso “turismo dei souvenirs”,
specialmente a Roma?
Credo di sì. Andare sul posto dopo aver letto un testo specifico è necessario per orientare il
nostro sguardo, capire il senso del viaggio che stiamo facendo. Nel mio caso è stato sempre così: è
questa fra l’altro la ragione per cui molti miei libri si concludono con una bibliografia. A volte il
viaggio conferma quello che già sai, altre volte lo smentisce. Penso che si possano creare delle
applicazioni per tablet o smartphone, in funzione di guida turistica, come del resto già accade, nelle
quali tuttavia l’elemento testuale acquisti un valore estetico preminente. È un lavoro da fare.
Ancora una volta mette sotto la lente di ingrandimento la questione della scuola. Don Lorenzo
Milani è per lei un uomo del futuro perché credeva fortemente nel progetto di una scuola diversa,
anticipando molte delle idee presenti che poi anche lei ha fatto proprie. Purtroppo molte di queste
rimangono ancora un sogno che difficilmente riesce a prendere forma, rimanendo nel
dimenticatoio dei sogni irrealizzabili. Lei, come molti altri insegnanti di cui traccia gli elogi nel
suo libro, invece ha potuto realizzare il suo sogno, quello di creare una scuola nuova e
concretizzarlo effettivamente con la fondazione della Penny Wirton, nonostante le difficoltà
riscontrate di carattere burocratico e le diffidenze di un sistema forse ancora non pronto al
cambiamento. In Elogio del ripetente, lei mostra al mondo la vera rivoluzione scolastica. Bisogna
conoscere uno a uno ogni studente, tirare fuori di loro le capacità e ogni singola personalità,
perché ognuna di loro ha tanto da offrire alla società contemporanea. È questo l’elogio al
ripetente, agli ultimi della classe, ai meno fortunati. Bisogna attrarre lo sguardo su di sé di questi
ultimi e farsene carico. Cosa c’è di don Milani nella sua scuola?
Direi soprattutto l’idea – incarnata nell’esperienza concreta – che il valore dell’insegnamento,
prima ancora che una trasmissione di contenuti o un accertamento delle competenze, scaturisca
della qualità della relazione umana fra docente e alunni. Dovremmo tornare a rileggere la lettera che
il priore scrisse a Nadia Neri, una giovane napoletana che voleva fare la professoressa e gli chiese
consigli. Lui, già malato, staccandosi con fatica dalla brandina, rispose così: “Si può amare una
classe sola. Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto
si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina, forse qualche centinaio. E
siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci
chiede di più”.
Cosa significa per lei il viaggio e perché è un tema costante e centrale in tutti i suoi libri?
Viaggio per scoprire le ragioni del ritorno. Non voglio smarrirmi, ma trovare le radici. Forse
dipende dal fatto che i miei genitori erano orfani.
È nato e cresciuto a Roma. Ha avuto modo di vedere le più svariate sfaccettature della capitale.
Si tratta, come noi tutti sappiamo, di una città che ha molto da offrire e sicuramente gli eterni
spettacoli che esibisce ne sono un esempio. Eppure vivendo a Roma si possono conoscere limiti e
problematiche che tuttavia non intaccano il suo fascino. Credo d’altronde che non ci si debba mai
accontentare e per questo le chiedo, da viaggiatore e scrittore, secondo lei cosa è bene cambiare e
migliorare del turismo e viaggio a Roma?
Roma è una delle mete più importanti del turismo di massa. Io cercherei di favorire percorsi di
apprendimento personali. L’industria ricettiva paradossalmente è più sensibile a questa esigenza,
rispetto all’offerta culturale troppo spesso non ancora degna di una capitale europea. Ci siamo
sempre cullati sugli allori, naturalmente lo potevamo fare pensando alle vestigia artistiche di cui
possiamo disporre. Ma adesso dovremmo fare un passo in avanti in termini di modernizzazione.
Ha spesso dichiarato di nutrire nei confronti della storia una vera ossessione. Il suo obiettivo
primario era, e credo sia ancora, quello di cercare di ricostruire il passato dei suoi genitori, che ha
avuto modo di conoscere solo quando era già grande e dopo numerose sollecitazioni e domande
rivolte loro, durante la sua adolescenza. Si ritrova in molti suoi libri la figura di suo padre e le
ragioni che la spingono a partire. Queste ragioni sono legate alla memoria e una certificazione
d’identità, che la porta a girare il mondo per investigare sul passato. Ha dichiarato che il viaggio è
un percorso atto a ricercare le motivazioni del ritorno. Il suo cammino è quindi rivolto a risarcire
a ogni passo la vita e infanzia non vissuta da suo padre. Anche il suo romanzo tra la realtà e la
fantasia, Il Nemico negli occhi, è una ricostruzione storica di un futuro immaginario. In questo
libro, dove le sue parole vengono personificate da Maria Rosalba Talanga, sceglie quindi di
ricostruire un passato immaginario che potrebbe essere il nostro futuro prossimo. Maria Rosalba
Talanga, con la stessa ossessione storica, indaga su una lotta civile avvenuta sessanta anni prima.
Sulla base di questo, che valore ha per lei la storia? Si sente uno storico?
Non sono uno storico, ma la poetica letteraria che perseguo mi porta a indagare sul passato
perché non riuscirei a scrivere inventando una trama. Parto sempre dall’esperienza che poi
trasfiguro.
Ne Il nemico negli occhi, la voce narrante e protagonista del romanzo, Maria Rosalba Talanga,
ha una forte predilezione per la storia. Si ritrovano, come in altri libri anche in questo, numerose
citazioni storiche, riguardanti importanti avvenimenti passati della Seconda Guerra Mondiale. Che
senso hanno per lei queste digressioni all’interno della storia raccontata ne Il nemico negli occhi?
Mio nonno era un partigiano che venne fucilato dai nazisti. Mia madre fuggì da un treno che la
stava conducendo nei lager tedeschi. Lei, quando io le chiedevo notizie al riguardo, mi concedeva
solo frammenti. Da qui la necessità di ricomporre in un disegno unitario la trama del passato che
non appartiene soltanto a me, ma a noi tutti.
I n Bandiera bianca lascia intravedere un’aspra polemica verso la società di Roma che fa da
sfondo al romanzo. Anche in quel caso il protagonista cerca di combattere una guerra e di
ribellarsi a un sistema che sembra rubargli la libertà. In quel caso però, il protagonista sa fermarsi
in tempo e capire che il suo vero essere è all’interno dell’ospedale psichiatrico, dove può brillare
per la propria personalità, diversamente da fuori dove il mondo sembra non aver notato la sua
mancanza, ma solo punito il suo essere “fuori dagli schemi”. Perché la scelta di un futuro così
familiare e vicino a noi?
Esiste una trilogia all’interno della mia opera composta da Soldati del 1956 – Bandiera bianca –
Il nemico negli occhi. Potremmo definirla la trilogia del Comandante. Infatti il personaggio è
sempre lo stesso. Una sorta di alter ego. Alla fine muore durante l’assalto al Domix. Ma già in
Soldati del 1956 veniva ucciso dai suoi allievi. Dalla sua scomparsa rinasce il maestro (peraltro
annunciato già in Veglia d’armi nel capitolo: Banco di scuola). Come se io avessi rinunciato
all’unicità carismatica del Comandante, accettando la coralità di Villa Felice, per intenderci.
“Benvenuto fra noi, signore”: per l’appunto!
Informandomi sui luoghi che fanno da sfondo a Il nemico negli occhi mi è capitato di leggere il
sito Esquilino Oggi. In esso è contenuta un’aspra critica alla politica e alle amministrazioni
comunali. Il Rione, nonostante la posizione centrale, è tenuto fuori dalle politiche di
riqualificazione del territorio di Roma. Lo si vede protagonista di un forte degrado urbanistico, un
traffico caotico che produce uno smisurato inquinamento ambientale e una diffusa
imprenditorialità cinese, di cui molti abitanti e commercianti si lamentano, perché sembra stia
gradualmente modificando l’assetto tradizionale del luogo, sia dal punto di vista storico, sia dal
punto di vista commerciale e demografico. I residenti sentono un vero senso di abbandono da parte
delle istituzioni. Servirebbe, a detta di molti, un intervent o da parte delle amministrazioni
comunali, che possa guidare questi cambiamenti di carattere sociale. Piuttosto che subire questo
sgretolarsi del loro luogo di nascita e delle loro tradizioni socio-culturali, si stanno muovendo in
molti per la rinascita del loro Rione, unendosi in più associazioni (aggiungerei un po' come la
battaglia di Affo contro il Domix in senso astratto). Tramite questo sito si cerca di dar voce a tutti i
problemi dei residenti e non solo, attraverso un avvicinamento tra culture diverse e un dialogo che
possa associare le persone e non dividerle, per il bene del proprio quartiere. La città che fa da
sfondo a molti dei suoi romanzi, è Roma. Il nemico negli occhi è ambientato in una Roma popolare
dell’Esquilino e di Via Merulana, luoghi in cui si parla molto di una forte ondata migratoria e
coabitazione fra diverse culture. Questo si ritrova anche nel suo libro, dove parla di una vera
invasione migratoria. Per scrivere Il nemico negli occhi si è ispirato alla situazione attuale di
Roma, in questo caso del quartiere Esquilino? Ambientare questo romanzo all’Esquilino quindi, è
una scelta mirata per fare un ritratto della società di oggi e portare alla ribalta un tema così
importante come l’immigrazione?
Io sono nato in Via Filippo Turati, all’Esquilino dove ho sempre vissuto fino ai 35 anni. Posso
dire di conoscere il quartiere palmo a palmo, pietre comprese. In molti miei libri questa parte di
Roma torna come sfondo anche soltanto alluso. Ne Il nemico negli occhi immagino un futuro
fantascientifico nel quale i ricchi sono asserragliati nel Domix e tutti gli altri, immigrati compresi,
vivono fuori. Il Comandante perisce nel tentativo di assaltare la fortezza del privilegio. Devi sapere
che quando io ho pubblicato il libro, nel 2001, ancora non esisteva il lussuoso albergo posto accanto
alle Ferrovie Laziali, ma nel mio romanzo l’ho quasi anticipato.
Il futuro descritto nel finale del libro, potrebbe diventare un nostro futuro prossimo?
Speriamo di no. Conto sulla capacità di ravvedimento dell’essere umano. Il quale, non
dimentichiamolo, si è inventato il patto sociale per superare la barbarie dell’istinto belluino.
Qual è stato l'immaginario letterario e cinematografico a cui ha fatto riferimento?
Nel testo ci molte citazioni cinematografiche da Stanley Kubrick o Terrence Malinck, per fare
soltanto un paio di esempi. Le fonti letteraria invece sono meno esplicite, più sommerse.
Tra pagina 239 e pagina 240 non ho potuto non notare le sue citazioni «veglia d’armi» e
«bandiera bianca», titoli di due suoi libri molto famosi. Si tratta di una firma d’autore?
Mi capita spesso di citare titoli miei. Lo faccio per sottolineare che la letteratura è un ritmo del
respiro. In ogni nostra azione tornano, sebbene n modo diverso, quelle che abbiamo già compiuto.
Il nome del protagonista, Affo, racconta nel libro per voce di Abid Bouilat, un ergastolano che
affiancò Affo e partecipò quando aveva solo quindici anni alla rivolta del Domix, è un appellativo
di battaglia: le prime due lettere del cognome, le prime due lettere del nome, legate insieme. Si
tratta di Fortunato Affinati, suo padre?
Sì, è proprio così. Inoltre devi sapere che il negozio di abbigliamento di mio padre si chiamava
Affo, in via Carlo Alberto, angolo via San Vito, dove oggi c’è una bottega cinese.
Quanto vi è di Affinati in Affo, l’eroe imperturbabile, muscoloso, sportivo, alla ricerca di
giustizia contro il suo mulino a vento, il Domix, che poi fu anche la sua rovina e la sua morte? O si
identifica più con l’impavida Maria Rosalba Talanga, donna coraggiosa alla ricerca della verità a
ogni costo?
M’identifico in entrambi. Con una differenza: il Comandante è morto. Maria Rosalba Talanga
invece, con la sua volontà conoscitiva, ancora vive in me, altrimenti avrei smesso di scrivere.
Sulla base della visione di una scuola diversa, innovativa e al passo con i giovani di oggi, le
scuole potrebbero utilizzare il suo romanzo per visitare dei luoghi di Roma, sconosciuti a chi non
ha la fortuna di abitarvi, e rivisitarli da un punto di vista turistico?
Bisognerebbe organizzare un percorso, ispirato al mio romanzo, ma tutto sommato autonomo
rispetto al testo nel quale i luoghi sono trasfigurati, sebbene riconoscibili.
Ha letto o visto il film trilogia, Hunger Games? Si tratta di un racconto di fantascienza, uscito
per la prima volta in Italia il 20 agosto 2009, edito da Mondadori. L’idea del film nasce dal
romanzo scritto da Suzanne Collins, pubblicato in edizione rilegata il 14 settembre 2008. In breve,
la storia è ambientata nella nazione di Panem, governata dal dispotico Snow, che governa dodici
distretti che in passato si erano ribellati al suo controllo e a quello della capitale di Panem,
Capitol City, regno della stravaganza e della ricchezza al contrario dei distretti. Per punire questi
ultimi vennero istituti gli Hunger Games, nei quali i 24 partecipanti estratti nei distretti dovevano
affrontarsi e combattere su un terreno pieno di pericoli e di trappole, finché uno solo rimaneva in
vita. L’autrice ha dichiarato che l’dea del libro è nata mentre stava facendo zapping, guardando
un reality show e un notiziario di guerra. In quel momento l’illuminazione. È interessante dal mio
punto di vista quello che racconta Suzanne Collins rispetto a ciò che la spinse a scrivere il suo
romanzo. La donna ricorda quando era bambina e la paura di perdere suo padre che stava
combattendo la guerra in Vietnam, e quanto questo l’abbia profondamente influenzata nella
crescita. Da bambina suo padre la portava spesso a visitare, durante le vacanze, celebri campi di
battaglia. Sin da piccola, quindi, inizia a interessarsi di storia, diventando per lei una vera
ossessione. L’ispirazione della nazione di Panem e Capitol City, dove si svolge il racconto, è pieno
di riferimenti all’Antica Roma. Il riferimento classico è legato ai giochi dei gladiatori dell’Impero
Romano, quando il governo costringeva degli uomini a battersi fino alla morte per intrattenere i
cittadini. Lo stesso nome “Panem” viene dall’espressione latina “panem et circenses”, “pane e
giochi circensi”, in riferimento ai terribili giochi che si svolgevano nella Roma Imperiale. Un altro
importante riferimento storico è quello legato al mito greco di Teseo, nel quale la città di Atene era
costretta a inviare giovani uomini e giovani donne a Creta come sacrifici umani, per essere
divorati dal Minotauro. Anche l’autrice, come lei, ha quindi una forte predilezione per la storia e il
contesto del racconto nasce sulla base di ricordi legati alla guerra in Vietnam e a storie
mitologiche che amava leggere da bambina. La data è successiva al suo libro. Nonostante questo
ho potuto ritrovare molto del suo libro nel film e romanzo Hunger Games. Il nemico negli occhi
potrebbe allora diventare un Hunger Games all’italiana, attrarre i giovani di oggi e spingerli alla
ricerca di quei luoghi scenario del suo libro, tutti intorno all’Esquilino?
Potrebbe, certo. Considera che in un mio libro di racconti, Uomini pericolosi, ce n’è uno,
intitolato Il combattente, in cui puoi ritrovare molte delle suggestioni in stile Hunger Games. E’un
racconto di fantascienza, come del resto L’11 settembre di Eddy il ribelle.
Cosa metterebbe in evidenza del suo libro in un progetto scolastico per colpire l’attenzione dei
giovani ragazzi di oggi, alle prese con la tecnologia 2.0 che hanno già visto tutto e saturato la loro
immaginazione?
La mappa dei luoghi; la vecchia lotta fra patrizi e plebei; la figura del Comandante; il tentativo di
ripristino, da parte di Maria Rosalba Talanga, del mosaico distrutto; la dimensione multietnica del
quartiere Esquilino; la nuova responsabilità etica che ci impone la civiltà informatica.
Per le strade di Roma con Il nemico negli occhi
Oggi giorno è essenziale, soprattutto per quanto riguarda i giovani, generare attraverso la lettura,
nuovi stimoli, che possano riaccendere la creatività e attivare un movimento e una dinamicità, che
via via sta andando perduta, a favore dell’inerzia prodotta dai social network e gli strumenti
elettronici. Tutto ciò che vogliamo conoscere, vedere, approfondire, è a prova di tempo, a portata di
click e incoraggia l’inattività. La scrittura creativa può esercitare un fascino incredibile sui giovani,
permettendo loro di imparare a scrivere, a leggere e generare molte idee originali e innovative, che
possano ricongiungersi a livello pratico e attivo al turismo del nuovo millennio, rinominato, già
nelle pagine precedenti, turismo 2.0. Nonostante in ambito turistico, questo nuovo modo di
scegliere la meta e i luoghi di un viaggio è poco conosciuto e condiviso, è importante credere in un
progetto e la sua realizzazione. L’idea in questo specifico caso, è quella di invogliare le classi delle
superiori a mettersi sulle tracce di un romanzo ambientato nella Capitale, Il nemico negli occhi,
partendo da una lettura precedente e interiore a casa. Il mondo degli adolescenti di oggi è molto
interessante, perché ricco di sfumature, di eccezioni e può generare grandi risultati in termini di
aspettative e di soprese, nonostante le premesse non siano sempre positive. Durante le lezioni
scolastiche, un qualsiasi libro, anche un romanzo, può essere visto da loro come una costrizione, un
compito svolto per un solo fine ultimo, quello del voto. Si è scelto questo testo di Eraldo Affinati,
perché è un libro adatto ai giovani, che può stimolare la lettura, in quanto si tratta di una storia
fantastica e avvincente. Non mancano però gli spunti di riflessione che possono essere attualizzati e
recepiti dagli studenti come un insegnamento etico e morale, attualizzato e messo al servizio dei
giorni nostri: il fascino ma anche i pericoli della rivoluzione tecnologica che sta alterando i nostri
comportamenti e i nostri pensieri, l’inquinamento ambientale che rende l’aria irrespirabile, proprio
come nel futuro immaginato de Il nemico negli occhi, la legittimità del potere e della rivoluzione, la
violenza, l’eterna lotta tra poveri e ricchi, tanto lontana e passata, ma in realtà ancora oggi attuale, la
giusta misura di giustizia e ragione, la fame di potere e ancora, la sete di conoscenza e di verità, la
realtà degradata di un quartiere, la vera amicizia e quella tradita. Il romanzo di Affinati è ambientato
in un luogo reale descritto nei minimi dettagli dallo scrittore, in quanto è il luogo dove ha trascorso i
primi trent’anni di vita, l’Esquilino, uno dei quartieri più importanti di Roma, in quanto a storia e a
luoghi che ne testimoniano la veridicità. Le vie attraverso cui prende vita la rivolta, vengono
trasfigurate dalla fantasia, ma possono diventare dei validi punti di riferimento concreti, al punto
tale da poter essere ricamminati e percorsi da chiunque. In seguito alla lettura del libro, attraverso le
parole dell’autore e dei suoi protagonisti fedeli, ogni ragazzo potrà riconoscersi nella personalità di
uno dei protagonisti e provare insieme a loro le stesse sensazioni, nel succedersi degli avvenimenti e
tra lo scorrere delle pagine del romanzo. Il lavoro degli insegnanti, avrà la responsabilità di rendere
sistematica e interattiva la lettura del libro, parlandone in classe e soprattutto coinvolgendo i ragazzi
in un progetto creativo che parta dal romanzo e arrivi a ripercorrere un percorso letterario, in questo
caso per le vie della Capitale, in luoghi che sono conosciuti da pochi, sottovalutati e mortificati dal
punto di vista turistico. In seguito alla lettura del libro, dopo un approfondimento didattico in classe
che si svolga non in maniera tradizionale ma interattiva, tramite lo scambio di opinioni e idee, si
dovrà cercare di ideare un progetto che termini con la realizzazione di un vero percorso letterario
all’Esquilino e nei principali luoghi raccontati nel libro. I ragazzi si sentiranno gli unici privilegiati
a conoscere una vicenda fantastica di un futuro legato a un passato mai esistito, in un luogo
marginale di Roma, dove nessuna classe sarà mai stata protagonista di un percorso turistico
letterario. Si darà vita a un misterioso viaggio, nei luoghi tramandati dall’autore e dai suoi
protagonisti al fortunato lettore. La scelta de Il nemico negli occhi è una scelta azzardata e
particolare, anche perché il libro è uno dei pochi libri dello scrittore non conosciuto da molti, come
invece tanti suoi altri romanzi e testi più famosi. A detta dello stesso Affinati, nonostante la critica
finora non gli abbia dato la giusta attenzione che merita, Il nemico negli occhi è però uno snodo
fondamentale della sua letteratura e maturità espressiva, perché ripercorre tutti i temi più cari della
sua opera e della sua riflessione, come l’immigrazione, la violenza, l’importanza delle proprie radici
e della propria storia. Il progetto appena descritto nasce quindi con la volontà di ricercare autenticità
nel caos della normalità, anche nella descrizione, nella ricerca e nella conoscenza di luoghi e paesi
già visti. Dopo aver stimolato la curiosità dei ragazzi nella lettura del romanzo e dopo averli spinti
verso l’azione concreta di conoscenza, attraverso una gita a Roma non nei luoghi già ampiamente
centrali per il turismo di massa, si dovrà lavorare per un progetto che riesca a rendere interattivo il
percorso e l’itinerario, attraverso un’applicazione per tablet o smartphone, in funzione di guida
turistica, in cui il libro funga da stimolo principale. In questo modo si creeranno percorsi personali
in cui ogni ragazzo potrà interagire con gli altri, indicando, sulla piattaforma online, il percorso che
ha scelto e inserire infine commenti che possano confrontare la fantasia del racconto con la realtà
dei luoghi come sono oggi, e studiarli e conoscerli dal punto di vista storico-artistico. Roma ha
molto da raccontare e i ragazzi di oggi devono necessariamente conoscere la sua immensa storia,
ma devono anche essere invogliati, come lo stesso Affinati insegna, a vedere con i propri occhi, a
conoscere attivamente e non solo sulle pagine di un libro e sui banchi di scuola. L’offerta culturale
di Roma, purtroppo, è ancora acerba e poco all’avanguardia rispetto ad altre capitali europee,
proprio perché si è sempre pensato che Roma potesse essere attrattiva da sola per i gioielli che
esibisce, ma a lungo andare questo modo di pensare non gli ha reso giustizia e in alcune zone si
percepisce una mancanza di stimoli e di modernizzazione. Questa potrebbe essere una valida
iniziativa che oltre a riqualificare una parte di Roma, che di solito è esterna ai consueti itinerari
turistici e viene messa in secondo piano rispetto a siti archeologici maggiormente conosciuti e
richiesti, per incoraggiare l’impulso creativo dei ragazzi delle superiori e per invogliarli allo studio
della Capitale, non solo sui libri di arte o di geografia, ma unendo le loro più grandi passioni, come
internet, un viaggio e l’eterno fascino delle bellezze di Roma.
Ricamminando il testo: Il nemico negli occhi6
Sfogliando le prime pagine di questo romanzo firmato Eraldo Affinati, si viene trasportati
immediatamente in una dimensione temporale diversa, ma difficilmente definibile. Continuando poi
nella lettura, si possono ritrovare indizi e dettagli che via via aggiungono maggiori informazioni,
per delineare il contesto dentro il quale prende forma il racconto. La voce narrante di Affinati viene
personificata da una signora ormai settant’enne, Maria Rosalba Talanga, le cui parole ricostruiscono
una Roma inedita, forse mai esistita, in un tempo non precisato del futuro che potrebbe essere anche
il nostro. Al centro di questo contesto, si snoda il racconto di una rivolta urbana, sui cui fatti e
avvenimenti si trovò a indagare la donna, appena quarant’enne, circa sessant’anni dopo l’accaduto.
Il racconto di Maria Rosalba Talanga, dal punto di vista temporale, alterna le parole di un’anziana
settant’enne, sul ricordo di un’indagine di circa trenta anni prima, a quelle legate al ricordo di una
giovane impavida, piena di entusiasmo, pronta a tutto pur di trovare la verità e mettere luce su un
avvenimento riguardante uno scontro civile passato, storicamente troppo importante per essere solo
archiviato. Tutto il testo è accompagnato dalle parole che l’anziana dedica ad Affo, protagonista
della rivolta civile, sulla quale la donna si trovò a indagare. Durante tutte le indagini, svolte
scrupolosamente quando aveva solo quarant’anni, la donna instaura un rapporto quasi morboso con
il ricordo dell’uomo e si rivolge a lui, come potesse parlargli veramente, nonostante fosse morto da
molti anni. La giovane Rosalba Talanga, che lavorava per i Servizi dello Stato, fu scelta dagli alti
funzionari del Ministero degli Interni, perché nota era la responsabilità storica che quasi la
ossessionava. Questa predilezione per la storia, è una caratteristica propria dell’autore del libro e
viene, per questo, trasmessa al personaggio a cui lui dà voce. Anche Eraldo Affinati, nonostante non
si definisca uno storico in senso pieno, ammette di sentire nei confronti della storia una forte
responsabilità, come quella di trasmettere, soprattutto ai più giovani, avvenimenti importati e
decisivi per la costruzione del nostro futuro, quali ad esempio la Seconda Guerra Mondiale. Si
documenta perciò costantemente sui nuclei tematici principali passati, come la guerra, i lager etc. e
inserisce, in ogni suo libro, piccoli frammenti di storia, con l’intento di ricordare e rendere il testo
maggiormente avvincente. Anche in questo libro lo scrittore sceglie di accompagnare il racconto del
suo romanzo, con brevi digressioni riguardanti ricostruzioni storiche di avvenimenti passati
6E. Affinati, Il nemico negli occhi, Roma, Arnoldo Mondadori Editore, 2001.
fondamentali. La donna perciò, durante tutto il racconto, si ritrova spesso a informarsi e leggere, su
specifici siti storici di approfondimento, e svolgere dei veri viaggi virtuali sui campi di battaglia
della Seconda Guerra Mondiale. Questa fissazione per la storia, la rendeva perfetta agli occhi degli
alti funzionari del Ministero degli Interni, che le affidarono, per questo motivo, un semplice
compito di tipo bibliotecario, per archiviare e occultare definitivamente le vicende del Domix.:
[…] ma si sbagliarono, perché io soffiai con tutta la forza dei miei polmoni sulla polvere accumulata negli archivi,
fino al punto di scoprire notizie che loro, dopo aver catalogato, avrebbero voluto nascondere7.
Dopo trent’anni dal suo impegnativo lavoro di ricostruzione, le inizia ad apparire in sogno affo,
giovane intrepido e audace, mente e guida della rivolta, che la chiama insistentemente scandendo a
gran voce il suo nome, «MARIA ROSALBA TALANGA! MARIA ROSALBA TALANGA!». Parallelamente su
internet, le appare un file criptato, era il Dossier J3, il frutto del suo lavoro, l’inchiesta riservata del
Ministero degli Interni, ma manomessa e alterata. A nome della verità, della giustizia e per rispetto
di quella giovane impavida e del suo faticoso lavoro di ricostruzione fedele dei fatti, decise di
incoraggiare l’impulso irrazionale di questo richiamo. La donna, dopo trent’anni, decise di
ripercorrere nuovamente il succedersi degli avvenimenti, per riportare di nuovo a galla la storia vera
della rivolta e capire la motivazione profonda che si celava dietro i richiami insistenti di Affo. Già
trent’anni prima, Rosalba Talanga, percepiva una forte alchimia con l’uomo e quello che era un
semplice lavoro di ricostruzione, diventò ben presto un’ossessione. Anche Affo, l’anima profonda
della rivolta, il fantasma che la perseguita nel presente ogni notte, era un grande appassionato di
storia, tanto che secondo la donna, ipnotizzato dallo sbarco alleato in Normandia, avvenuto solo
poche generazioni prima della sua, ha voluto ripeterlo insieme ai ragazzi dell’Esquilino, nel palazzo
del Domix. Ma cos’era questo palazzo? Cosa si celava al suo interno?
Il domix
Il momento storico della rivolta era stato segnato da anni orribili e avvenimenti che portarono via
via al decadere della Roma Imperiale. Le metropoli erano sovraffollate, distrutte e protagoniste di
ondate migratorie, provenienti da Africa e Asia. La crisi economica aveva gettato sul lastrico la
popolazione, le campagne erano invase da parassiti, gli animali giravano per le strade delle città.
Erano tempi difficili, ed è proprio in quei momenti di disperazione che solitamente il più potente
decide di padroneggiare sul più debole. È quello che avvenne a Roma nel racconto di Affinati. I
ricchi, spietati e assetati di potere, si rifugiarono nei Palazzi delle principali città italiane e si
sottrassero a ogni controllo governativo. Chiusero le porte al mondo esterno, che, in questo modo,
riuscirono completamente a dominare. Si rifugiarono nel lusso e nella piacevolezza dello svago.
7Ivi, p. 10.
Non si curarono della miseria che vi era al di fuori dei loro fortini, ma anzi, sfruttarono, per i lavori
più umili, la manodopera della gente che viveva nel degrado della periferia. Saccheggiarono e
risucchiarono ogni risorsa disponibile alla sopravvivenza di quei sfortunati che trascorrevano la loro
vita nell’abbandono e nella povertà, fuori dai grattacieli del potere. I partiti politici, inizialmente,
cercarono di operare contro le oligarchie al comando dei Palazzi, cavalcando l’opinione pubblica e
dando voce alla parte di popolazione debole e sfruttata. La protesta fu presto eclissata e soffocata
dagli stessi dirigenti dei Palazzi che erano i giudici e i commissari che avrebbero dovuto muovere le
indagini e le accuse e andare in questo modo contro sé stessi. Le inchieste furono quindi insabbiate
e i governi, incuranti di quello che sarebbe potuto accadere, cedettero di fronte a questo potere e
iniziarono ad acconsentire, di fronte alla formazione e l’insediamento di queste «isole dorate 8». I
Palazzi divennero autonomi e le unità di Pubblica Sicurezza, divennero ben presto strumenti di
repressione contro coloro che intendevano ribellarsi. Le condizioni ambientali non aiutavano la
situazione dei più sfortunati. L’aria all’esterno diventava sempre più irrespirabile e il tenore di vita
della popolazione era sempre più tragico. Solo dopo molti anni, le autorità politiche italiane,
colpevoli di incuranza degli anni prima, decisero di riprendere il controllo. I fortini e i grattacieli, di
un potere illegittimo e tirannico, furono rasi al suolo dalle Forze Armate. La popolazione dei civili
umiliati non partecipò mai alle rivolte, mai tranne una volta, nel caso dell’Esquilino, contro il
grattacielo di Piazza Vittorio, il Domix. Questo Palazzo, come gli altri, era una struttura
indipendente, completamente integrata all’interno degli apparati governativi statali e difesa da un
esercito addestrato, per sopprimere ogni insurrezione di uomini, nella più totale disperazione e
fame. Grazie al sistema di depurazione e purificazione dell’aria, Ecotex, l’aria all’interno di questo
palazzo era pura. Il Domix era una torre conica alta milleduecento metri che si innalzava
sull’Esquilino, sfidando la legge di gravità come una «piramide del Terzo Millennio 9». In cima alla
torre vi erano tre eliporti che rappresentavano tre basi di lancio per velivoli, impegnati in voli di
ricognizione sul territorio e affiancavano le autoblindo di terra che si occupavano di quotidiane
ronde nel quartiere:
[…] s’innalzava sull’Esquilino come la più bella piramide del Terzo Millennio, capace di ridicolizzare, per altezza e
prestigio, sia le Torri Sears di Chicago, sia le Torri Petronas di Kuala Lumput 10.
Il Domix era costituito da centinaia di cubi d’acciaio e cristallo trasparenti e al suo interno il
lusso e l’agio più sfrenato. Possedeva succursali di rifornimento, in maggioranza disposte nella zona
sud-est di Roma e ancora:
8Ivi, p. 138.
9Ivi, p.139.
10Ivi, p.139.
Biblioteche, piscine, palestre, teatri, uffici e sale conferenze, spazi multifunzionali, garage, portinerie, parchi, fiumi
d’acqua vera e campagne con piante rigogliose: nel Domix la vita scorreva come in un vagone di lusso che attraversi la
foresta tropicale. […] Dopo la gigantesca esplosione attuata dagli artificieri del Genio, gli agenti dei Servizi portarono
alla luce ciò che quel Palazzo era diventato: il colosso divoratore, ciclopico mostro inventato dagli umani, titanico e
ingordo ghiottone tecnologico capace di rubare risorse, accaparrarsi vantaggi, sfruttare il nucleo urbano; insomma un
luogo dove si commettevano reati, vero pericolo per la comunità nazionale11.
Iniziarono a circolare notizie riservate che sembravano tutte confermare l’intenzione di una
banda di “terroristi”, che operavano nei sotterranei intorno a Piazza Dante, di far saltare in aria
questo fortino di lusso. Pochi mesi dopo l’ultimo tentativo di assalto della banda di ribelli, guidati
da Affo, intervenne lo Stato che distrusse il Domix, ultimo Palazzo superstite, simbolo di un potere
improprio. Ripristinarono un antico giardino pubblico con una galleria di plexiglas, al cui interno vi
era l’impianto di purificazione dell’aria, finalmente disponibile a tutta la popolazione.
La banda dell’Esquilino
Grazie allo scrupoloso lavoro di ricostruzione dei fatti redatto dalla donna, il Dossier J3 iniziò a
prendere di nuovo la forma originale e veritiera di trenta anni prima. Esso conteneva l’anonimo
verbale delle esecuzioni, intitolato dalla donna I fucilieri e gli estratti degli interrogatori precedenti,
facenti parte di un processo istituito nel Domix, contro i due presunti ribelli infiltratosi nel
grattacielo. Questi ultimi erano i due compagni fedeli di Affo, catturati durante la prima incursione
e infine giustiziati e uccisi dai dirigenti del Domix. I loro nomi erano Giuseppe Melchiorri, un
infermiere del Colle Oppio, una clinica di cura per anziani, e Alfredo Castro, commerciante in un
mercato di utensili sotto i portici di Piazza Vittorio. Con loro durante la rivolta, anche i due uomini
di colore che lavoravano nel banco di Alfredo Castro, Madu e Said, e due fratelli egiziani, Umu
Nofal, il pugile che servì come cavallo di troia, cioè come chiave di ingresso per le porte del Domix
e sua sorella Rosarita Nofal. Il Dossier J3 conteneva anche un piccolo quaderno scritto da un altro
importante uomo che affiancò Affo nella sua impresa, Bruno Costa. Si trattava di un professore di
storia antica ormai di tarda età, che decise di ritirarsi, in seguito alla morte della moglie, nell’ospizio
dove lavorava Giuseppe Melchiorri. Ebbe modo lì di conoscere Affo, con il quale strinse da subito
amicizia, in quanto ad accumunarli era la vasta conoscenza storica e l’erudita intelligenza. Il
documento Costa, ritrovato nei resti del Domix, fu da subito centrale per le indagini, anche se per
molto tempo fu occultato dal Governo. Il professore, dopo il primo assalto e poco prima che gli
agenti dei Servizi trovassero il suo nascondiglio e lo uccidessero, decise di lasciare un testamento.
All’interno di questo, l’uomo decise di ricomporre i piccoli tasselli e gli avvenimenti precedenti la
rivolta e soprattutto, quali fossero le vere intenzioni di quei ragazzi allo sbaraglio, che seguivano
fedelmente un uomo tutto di un pezzo e il suo obiettivo. Costa racconta della Sala Combi, posta
11Ivi, p.140.
all’interno del Palazzo, dove avvenivano i combattimenti di pugilato, tra gli uomini del Domix e
quelli della popolazione dei poveri al suo esterno:
Immagino che i cittadini del grattacielo, eleganti e composti sui loro seggiolini di pelle imbottita, ci osservassero
con sentimento di commiserazione e disprezzo, ma tant’è: per quanto ci riguardava, le possibilità di svago erano
limitate. Essi al contrario, avrebbero potuto scegliere, in quello stesso istante, fra cinema, palestra, piscina, ristorante e
sala massaggi. E allora, non venissero a romperci le scatole!12.
Affo era uno dei scommettitori che presidiava sempre ai combattimenti, e fu lì che conobbe Umu
Nofal, decidendo di diventare il suo procuratore. Già aveva in mente il suo piano, doveva solo
radunare la banda e colpire nel momento più opportuno:
Non che Affo non avesse bene in mente chi fossero i nemici: era stata l’ossessione di tutta la sua vita! […] Il nostro
capo, nella sua paranoia, stava pensando al colpo unico, al tiro preciso capace di abbattere il bufalo. Lo progettava senza
dircelo. Noi, in quei primi momenti, non sapevamo ancora nulla. Sentivamo forse soltanto un’elettricità che passava sui
nostri corpi, originata da lui13.
Continuando nella lettura del Documento Costa, emerge un ulteriore nome della banda dei
ragazzi dell’Esquilino, che si rivelò decisivo per il racconto, Luciano Scoglio, anche egli un leader,
una personalità forte come quella di Affo e una vita interamente dedicata alle proteste contro il
Domix e l’agio al suo interno. Le settimane passavano, Affo si occupava anima e corpo della
preparazione di Umu Nofal. Era il momento di agire e soprattutto, di affinare il piano di rivolta,
cercando di infiltrarsi prima in maniera pacifica, senza destare sospetti e poi avviare il piano
decisivo, per scatenare la rivolta civile contro il Palazzo. Il giorno in cui Affo, Luciano Scoglio e il
Professore entrarono all’interno del Domix, a riceverli vi era Raffaello Todaro, il capo dirigente
della Ecotex, referente principale dell’oligarchia del Palazzo. Solo dopo il primo assalto, il
Professore e gli altri componenti della banda, poterono capire, troppo tardi ormai, che in realtà
Raffaello Todaro non era all’oscuro delle loro intenzioni, perché all’interno della banda vi era un
traditore doppiogiochista, Luciano Scoglio. Nella prima riunione, Affo presentò il suo progetto. I
tornei pugilistici avrebbero dovuto essere a eliminazione diretta, fra i Pretendenti, chiamati solo una
volta in tutta la vita ad affrontare il match decisivo. Gli incontri avrebbero dovuto essere trasmessi
solamente via cavo all’interno del Palazzo. Le scommesse potevano procedere in maniera consueta
nei giorni precedenti l’evento. I vincitori, una volta finito il match, sarebbero dovuti entrare nella
categoria Veterani e avrebbero dovuto ricevere una pensione vitalizia. Gli sconfitti non avrebbero
potuto ricevere cariche all’interno del Domix, ma sarebbero tornati nei quartieri esterni. Nella
12 Ivi, p. 68.
13Ivi, p. 70.
seconda riunione successiva, Raffaello Todaro presentò il suo progetto, con decisive modifiche, che
Affo e i suoi compagni avrebbero dovuto accettare senza poter controbattere, in quanto il coltello
dalla parte del manico era nelle sue mani. Il dirigente Ecotex propose allora il suo, aggiungendo a
quanto già pianificato da Affo, anche le figure degli Uccisori, selezionati accuratamente tra le file
dei Veterani. Erano necessari secondo l’uomo per evitare la formazione di individui pericolosi per
la vita del Palazzo. Ogni match doveva avere anche una vittima, gli sconfitti. La banda, gli ultimi
giorni prima del combattimento, mise appunto il piano d’attacco. Esso consisteva nell’infiltrarsi,
durante il match, nel Palazzo, con mitra, pistole, bombe e razzi, quando tutti i dirigenti erano
impegnati a guardare il combattimento. Alfredo Castro aveva l’incarico di passare attraverso la
dogana al pianterreno. Giuseppe Melchiorri lo avrebbe raggiunto dai magazzini, dopo aver fatto
saltare i ponti elettrici creando nella Sala Combi un black out. In quel momento, Affo sarebbe
entrato in azione, mentre Luciano Scoglio sequestrava Raffaello Todaro. Rosarita e il professore
sarebbero intervenuti in un secondo momento, al fine di lanciare il segnale agli uomini all’esterno.
Epilogo: Affo e il suo nemico negli occhi
Ne sai più tu di me. Io ricordo soltanto quest’uomo oscuro, torvo, cacciatore di se stesso, assetato d’umanità,
ingenuo, smunto e snello, uno che potrebbe condurti ovunque tu voglia. Da dove veniva? Dal nulla. Nessuna tradizione.
Nessun punto fermo. Una specie di antenato vivente. Solo il celebre appellativo di battaglia: le prime due lettere del
cognome, le prime due lettere del nome, legate assieme. Capisci? Senza terra d’origine che non fosse questa patria
linguistica: Affo14.
Nella lettura dei documenti chiave che la donna riuscì a raccogliere e studiare, si delineava pian
piano il profilo fisico e soprattutto la personalità complessa dell’uomo, che portò avanti la sua
battaglia, al pari di don Chisciotte contro i giganteschi mulini a vento, in questo caso contro il
maestoso palazzo del Domix. Ogni pagina e riga che parlava di lui, era per la donna un passo in più
che le permetteva di sentire più vicino l’uomo del quale era segretamente innamorata e che lei
stessa definiva «Imperturbabile. Solenne15». Nell’interrogatorio da parte dei dirigenti del Domix ad
Alfredo Castro, Affo appare come un uomo alto e snello, che viveva tutto con un’intensità superiore
alla media, che non tollerava imposizioni, che lottava quotidianamente contro se stesso, in quanto
tormentato da una doppia personalità, che da giovane lo costrinse al ricovero in un ospedale
psichiatrico. Combatteva contro ogni genere di innovazione. Il grattacielo era per lui una
profanazione, un meteorite piombato sulla terra per distruggere il passato che era per lui un cordone
ombelicale dal quale non voleva staccarsi, forse perché aveva vissuto da sempre tra Santa Maria
Maggiore e San Giovanni:
14Ivi, p. 242.
15Ivi, p. 10.
Non ho mai visto nessun uomo così legato agli spazi fisici, quasi fossero protuberanze del suo stesso corpo 16.
Come si legge nelle pagine scritte dal Professor Costa, Affo nacque in una casa in Via Filippo
Turati al numero civico 155. I suoi genitori morirono presto e lui dovette crescere in fretta, ma
grazie alla nobiltà d’animo e la sua profonda intelligenza, seppe proteggere se stesso e anche chi
come lui aveva bisogno di aiuto, perché rimasto solo al mondo. I dirigenti Domix, i primi anni,
cercarono tra la popolazione dei civili, giovani con personalità dotate da inserire nei ruoli
dirigenziali del Palazzo. Chiamarono Affo, per la sua vasta conoscenza e le sue profonde capacità.
Quest’ultimo, in virtù dei suoi solidi principi, si rifiutò di lasciare il suo quartiere, prediligendo le
strade povere che lo avevano visto nascere e crescere, perché amava conquistare il potere e i suoi
obiettivi e non i privilegi già serviti su un piatto d’argento. È per questo che quando scelse di
entrare nel Domix, «lo fece come soldato in terra nemica17»:
Era alto, intenso, fantastico. Negli occhi sentivi l’innocenza ferita che già rantolava come un leone morente e nei
gesti – quel modo di girare la testa, quelle mani che si muovevano sulla cintura – decifravi il carisma offeso dei veri
consapevoli18.
Amava girare con la sua motocicletta e lo sport era per lui una nevrosi, come la boxe, l’atletica
leggera, il ciclismo e il calcio del Millenovecento. Il Dossier J3 era ricco di testimonianze. Oltre
l’illuminante Documento Costa, conteneva anche il Documento Todaro. Si trattava di un eloquio, in
cui Raffaello Todaro decise di far leggere, davanti i principali delegati del Domix, riuniti in
assemblea nella sala comando in seguito al primo attacco, il quaderno di Costa, per motivare la
scelta di un’apertura diplomatica che secondo molti avrebbe permesso l’attacco al Palazzo. Egli
doveva giustificare, davanti agli altri importanti dirigenti, le sue azioni, in quanto venne messo sotto
accusa dall’assemblea, a causa delle sue discutibili decisioni strategiche. Il documento di Raffaello
Todaro conteneva anche altre deposizioni. Una era quella del caposquadra che guidò il nucleo
incaricato di scoprire il nascondiglio di Bruno Costa. Le altre deposizioni erano quelle di una
guardia semplice che partecipò all’irruzione nell’ospizio del Colle Oppio, le ore successive il
ritrovamento del Professore e infine quella del tenente protagonista dell’incursione nei sotterranei di
Piazza Dante. Raffaello Todaro fece testimoniare anche il traditore della banda, Luciano Scoglio,
per sottolineare come il piano d’attacco dei ribelli fosse stato già ampiamente studiato e distrutto
dall’interno da uno di loro, sotto il comando dello stesso Todaro. Gli altri tre testimoni ascoltati
dall’assemblea erano Ruggero Vicentini, il combattente che dovette scontrarsi con Umu Nofal nella
16Ivi, p. 24.
17Ivi, p. 98.
18Ivi, p. 58.
Sala Combi, la donna che viveva in casa con Affo, che tutti pensavano essere la sua amante e che si
finse pazza per non raccontare nulla di quello che i Servizi, una volta catturata, volevano
estrapolarle su Affo e la banda dell’Esquilino. L’ultima deposizione fu quella di Padre Arturo Kosic
che conosceva molto bene i piani di Affo e cercò sino all’ultimo di dissuaderlo dal suo attacco,
immaginando molto bene che sarebbe stato solo un vano massacro. E così fu. Traditi da un
componente della banda a loro insaputa, Raffaello Todaro, era pronto a difendersi da un eventuale
attacco. Gli Uccisori diedero il colpo finale togliendo la vita a Umu Nofal durante il combattimento.
Poi il trambusto, Alfredo Castro e Giuseppe Melchiorri furono catturati, Affo sparì e il Professore e
Rosarita scapparono in Via Giacomo Leopardi. Da lì poterono vedere Affo, ancora vivo pronto per
il secondo attacco:
Affo è vestito come un guerriero interplanetario; ha il giubbotto nero, gli stivali e una cintura carica di granate
intorno alla vita; porta occhiali scuri fissati dietro il cranio da un grosso elastico rosso. Mi chiedi se noto i ragazzi
accanto a lui: sì che li vedo! Avranno dai tredici ai quindici anni, la pelle sfigurata dalle ustioni, le fratture ricomposte.
Sono pieni di rabbia. Maneggiano armi automatiche e guardano Affo come se fosse Dio 19.
Rosalba Talanga poté ricostruire anche la dinamica del secondo attacco, grazie alle
testimonianze di tre ergastolani ormai anziani, in carcere fin dai quindici anni, quando affiancarono
Affo nella sua battaglia finale contro il Palazzo del potere, il Domix. Questi erano: Romolo Sarti,
Fabio Liti e Abid Bouilat, che la donna incontrò in carcere circa sessant’anni dopo l’accaduto.
Anch’essi nel descrivere Affo, usarono parole piene di rispetto, nonostante la vita trascorsa
interamene in cella per averlo affiancato. Lo descrivono come un uomo alto un metro e ottanta,
robusto ma longilineo, calvo, dalle poche parole, ma quelle giuste che lasciavano il segno. Il suo
scopo era la libertà non solo per se stesso. Odiava le ingiustizie e questo lo spingeva a sacrificare se
stesso, dedicando anima e corpo agli altri che non potevano vantare una personalità forte come la
sua. L’ultimo uomo, a cui la donna fece visita, sembrava il più lucido dei tre. Voleva dimenticare
l’accaduto e soprattutto non credeva più al valore della rivolta che, dopo tutti quegli anni in carcere,
sembrava apparirgli sempre di più solo un’individuale lotta tra Affo e “il nemico negli occhi” che
viveva in lui. Sembrava voler andare avanti ed emanciparsi dall’uomo, a differenza degli altri due
che in tutti quegli anni non avevano mai smesso di restargli fedeli, come dei sudditi nei confronti di
un re sull’altare. Abid Bouilat invece no e questo racconta alla donna, quando ella chiede di Affo:
Mi chiedi di Affo. Era introverso, timido, solitario. Vedi, esistono persone che possono muoversi, parlare, agire
senza spostare enormi pesi. Io li chiamo i frombolieri. Affo non era uno di loro. Per lui, ogni giorno si trasformava in
un’impresa. Era forte e fragile, allo stesso tempo. Saggio e immaturo. Intelligente e ingenuo. Egoista e generoso. Chi
sono gli individui che hanno la sensibilità a fior di pelle? Prova a immaginarlo. Tutto ciò che devi affrontare ti brucia ti
19Ivi, p. 95.
esalta. Sei vulnerabile, non ha la corazza protettiva. E allora può accaderti di tutto. Io lo vedevo come un mito. Oggi no.
Oggi capisco i suoi limiti. Che erano tanti e neppure lui conosceva20.
I tre uomini raccontarono che Affo strinse con loro appena quindicenni un patto giurato: se ci
fossero stati problemi, si sarebbero dovuti ritrovare tutti nell’oratorio chiamato don Galli. L’uomo
comparve dopo una settimana dal primo agguato. Il secondo attacco era stato già pianificato da
Affo. Organizzò un paio di attacchi diversivi per distrarre le guardie. Mentre le Forze Armate dello
Stato stavano per intervenire, la banda riuscì a entrare sotto i reticolati davanti al grattacielo. Ma
quando l’esercito intervenne ormai erano rimasti in pochi. L’esquilino era circondato, il Domix era
in fiamme, l’esercito entrò con le maschere antigas e gli elicotteri lanciavano bombe dall’alto. Affo,
invece di arrendersi, si lanciò nelle macerie e morì. Molti interrogativi rimasero irrisolti. Maria
Rosalba Talanga decise allora di iniziare un giro di perlustrazione all’Esquilino, ripercorrendo tutti i
luoghi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per le indagini, iniziate circa due anni prima. Il giro di
ricognizione terminò in un vecchio stabile di Via Filippo Turati, dove abitava, ancora viva, Rosarita
Nofal, che, ormai anziana, morì pochi giorni dopo la visita della donna. La casa era piena di oggetti
che ricordavano la battaglia e all’interno di diverse cornici di legno, vi era la foto di Affo e di tutti i
componenti della banda dell’Esquilino. La donna finalmente riuscì a dare un volto a quell’uomo che
tutte le sere veniva a farle visita in sogno:
Eccoti abbracciato a lei, nell’unica immagine dalla cornice dorata. Alto, fulvo, snello, con una smorfia dolorosa fra
occhi e bocca: la consapevolezza anticipata della sconfitta cui saresti andato incontro? Vestito di scuro, autorevole,
aristocratico, mi sembrasti, dico la verità, bellissimo e solo, fiero e umile, esibizionista e introverso, campione e maglia
nera. […] Mi piacquero gli occhi: chiari, sinceri, senza inganni, e poi avevano un bel taglio. Mi appassionò la bocca: le
labbra grosse, carnose, eppure modellate, i baffi austriaci, la barba da condottiero del Rinascimento italiano.
M’intenerirono la fronte ampia, la testa calva, il busto eretto in una positura non naturale, bensì acquisita per decisione
imperiosa che deriva da lunghe, inenarrabili avventure dello spirito21.
Dopo la visita alla donna e una volta concluse le indagini, passò qualche mese dalla consegna del
Dossier J3 alle autorità. Fu triste scoprire che il Ministero non aveva neanche aperto ed esaminato
quanto raccolto ed elaborato, con tanto sacrificio, dalla giovane donna. Dopo circa trent’anni, la
ormai anziana Rosalba Talanga, aveva di nuovo tra le mani la verità. Il Dossier J3 diventò per lei un
«guerriero22» che risorse dalle ceneri a nome della giustizia. Era arrivato per lei il momento di fare i
conti con la realtà. Non era più una giovane avventuriera, con la forza dell’entusiasmo, era ormai
un’anziana stanca, che vedeva intorno a lei solo tanto degrado. Si accorse che da quella battaglia
non cambiò nulla, quello della banda dell’Esquilino fu un sacrificio non ripagato. Decise per questo
20Ivi, p. 236.
21Ivi, pp. 307, 308.
22Ivi, p. 318.
di dare di nuovo un’opportunità a quella lotta civile, non curandosi delle conseguenze e rimettendo
di nuovo in rete il Dossier J3, vero e non più alterato, ricco di commenti della ormai anziana donna,
con un nome nuovo, Il nemico negli occhi. Un secondo dopo aver diffuso in rete il nuovo dossier, la
donna si accorse che il fantasma di Affo non era più vicino a lei, ormai aveva raggiunto il suo
obiettivo. La vera testimonianza di quella lotta era finalmente sotto gli occhi di tutti e tutti potevano
conoscere la verità sulle proprie radici e sul proprio passato, che era fondamentale per la
costruzione di un futuro migliore. In quel momento la lotta del Domix aveva di nuovo un senso e la
banda dell’Esquilino vinse finalmente la sua battaglia:
Signori, questo è l’ultimo appello. A partire da adesso, siete in orbita, pulviscolo atmosferico nei canali informatici,
antichi scheletri di un mondo lontano, con tutto l’amore che vi ho dato, e la legittima integrità che sono stata capace di
restituirvi. ADDIO RAGAZZI, ADDIO MIO EROE, ADDIO AMICI !23.
La trilogia del Comandante
Il titolo di questo paragrafo nasce in seguito all’intervista rilasciata da Eraldo Affinati nella quale
l’autore nel parlare de Il nemico negli occhi, racconta anche del protagonista imperturbabile, Affo,
il suo alter ego, che nonostante sia molto diverso da lui, in qualche modo completa una parte
significativa del suo carattere. Si tratta di una trilogia, la trilogia del Comandante, in cui il filo
conduttore è la storia di un eroe di altri tempi, il Comandante, la cui esistenza inizia in Soldati del
’56 (il primo romanzo, sin dal titolo fortemente autobiografico, firmato Eraldo Affinati e il primo
tomo della trilogia), e, nonostante viene ucciso dai suoi allievi, dalla sua morte rinasce, in Bandiera
Bianca, un maestro, la guida per tutti i ricoverati nella clinica di Villa Felice, che rinuncia alla sua
individualità, a favore della coralità dove può realizzarsi la sua carismatica unicità, e infine trova il
suo tragico epilogo e la scelta della morte ne Il nemico negli occhi, terzo e ultimo tomo della
trilogia, pur di non farsi imprigionare dai dirigenti del Domix. Il Comandante, in Soldati del ’56,
viene descritto dallo «scritturale della sua armata interiore 24», Stefano Rondella, come un uomo
fedele alla propria giovinezza, che non poteva accettare lo status della propria normalità e ricercava
per questo una lotta interiore, non avendo altro per cui combattere, diventando l’eroe di se stesso e
il Comandante della sua armata:
Gli piaceva sembrare una specie di eroe risorgimentale. Non avendo nessuna utopia per cui combattere, cercava di
costruire un monumento commemorativo di questa assenza. Senza saperlo, lottava per affermare il proprio diritto a
un’immagine leggendaria25.
23Ivi, p. 325.
24E. Affinati, Soldati del ’56, Roma, Mondadori, 1997.
25Ibidem.
E così si presenta sotto le gru giganti dei cantieri, immaginando di essere un vero Comandante,
con i suoi gradi, l’arma e il cappello, sotto lo sguardo incredulo di geometri e capicantiere. Il
comandante ricorda don Chisciotte il quale, poiché non era più nella Spagna della cavalleria e non
vi erano più avventure e nemici da combattere da cavaliere ed eroe, inizia a guardare la realtà con i
suoi occhi e i suoi desideri. Inizia a pensare di essere nel mondo cavalleresco e scambia i mulini a
vento con giganti dalle braccia rotanti, i burattini con demoni, combattendo questi avversari
immaginari sotto gli occhi della popolazione che lo asseconderà, come presa in giro, nella sua follia.
Sancho Panza, il suo compagno di viaggio e avventure, sarà la parte razionale del protagonista, che
cercherà di riportarlo con i piedi per terra, anche se in alcuni momenti si farà coinvolgere dalla folle
immaginazione del padrone. Il Comandante, come don Chisciotte, predispone la sua armata
interiore: Eusebio che gestisce una rosticceria, sarà l’organizzatore delle emozioni dell’armata; ad
Alessandro, rappresentante di prodotti farmaceutici, saranno affidate le emozioni sentimentali più
rischiose; Lepic che vendeva bibite nelle sale cinematografiche, sarà utilizzato dal Comandante
come colui che dovrà rendergli la vita quotidiana meno noiosa, decorando la sfera pratica della sua
esistenza; Jorio, Sauro e Cobra, tre ragazzi dello stabilimento balneare, saranno sempre fedeli e a
disposizione del Comandante; e infine, ma non meno importante, Stefano Rondella, a cui il
Comandante affiderà il compito di scrivere tutte le sue gesta e racchiuderle in un documento. Il
Comandante, un professore di una quarta classe superiore dell’istituto tecnico per periti elettronici,
diventa un punto di riferimento per i suoi allievi, difficili e quasi tutti ripetenti e sceglierà di
difenderli da un sistema scolastico sbagliato, spinto da Cobra, un soldato della sua armata, che si
identifica con loro:
Il Comandante, scartando i programmi ministeriali, imposta le sue lezioni su un tema monografico dal titolo:
L’autenticità esistenziale. Ogni allievo deve cercare dentro di sé una passione capace di farlo sentire autonomo e
raccontarla in classe. Il professore, favorendo elaborazioni scritte e orali, si occupa di trovare le opportune pezze
d’appoggio letterarie26.
Di fronte ai suoi alunni, il Comandante sembra risolvere le sue lotte interiori e i suoi soldati
possono stare a riposo: Eusebio appare soddisfatto dalla disciplina dei ragazzi in aula; Alessandro e
Lepic appaiono fiduciosi; Cobra, Sauro e Jorio si sentono a proprio agio tra i loro coetanei. Il
Comandante e la sua armata abbassano la guardia, si fidano di loro non curanti che saranno proprio
questi allievi a portarli alla loro sconfitta e fine. L’ultima operazione dell’armata sarà quella di
fotocopiare e mettere in circolazione il resoconto sul Comandante, seguendo le sue disposizioni
precise, in un’ultima operazione che i soldati sentono sarà quella che gli costerà la morte. Dopo aver
“combattuto” l’ultima lotta per il Comandante, tornano a casa ma non lo trovano, si sentono distrutti
26Ibidem.
e pieni di sangue. a un certo punto la casa viene assediata, i soldati si accorgono che i nemici sono
gli allievi del professore, ma ormai è troppo tardi, si ritrovano a combattere l’ultima battaglia.
Stefano Rondella viene ucciso per mano di Romolo, e con lui il Comandante. Il Comandante
rinasce in Bandiera Bianca, nel momento in cui diviene cosciente del senso stesso della sua vita,
quando inizia ad accettarsi per quello che realmente è e per l’autorità che i malati della clinica gli
riconoscono. L’accettazione di sé stessi e di ogni difetto fisico e caratteriale lo rende unico e libero
in una società “normale”. Affo, nelle pagine del romanzo de Il nemico negli occhi, viene descritto
come un uomo malato e ossessionato dalla giustizia, che non conosce limiti o compromessi, ma
sceglie di vivere la sua vita prediligendo gli estremi da cui sembra fortemente tormentato, il bianco
o il nero, il giusto o lo sbagliato, i poveri o ricchi, i buoni o i cattivi. Questo continuo categorizzare
la realtà e non accettare compromessi dagli altri e neanche da se stesso, lo porterà poi alla sua
sconfitta, nonché la sua morte. Nonostante l’avanzamento tecnologico, il futuro descritto nel
romanzo è un’inquietante previsione di un mondo diviso in due metà: l’élite privilegiata che si è
appropriata in modo tirannico dei suoi agi e i poveri sconfitti che vivono al di fuori del Castello
dall’aria pura. Affo, più forte degli altri, nemico dell’ingiustizia, decide di combattere, insieme alla
sua banda, nella speranza che il mondo possa ostacolare l’avanzamento tecnologico, rappresentato
nello scenario de Il nemico negli occhi, dal palazzo del potere, il Domix, e ritrovare gli antichi
valori nella storia che accumuna tutti gli uomini e li rende tutti uguali e senza privilegi. Affo non si
arrende neanche dopo la sua morte, la profanazione del suo nome e di chi come lui ha donato la vita
per rendere migliore l’esistenza degli altri, spingono il suo fantasma a ossessionare Maria Rosalba
Talanga, al fine di ripristinare la verità sul sacrificio estremo, fatto dai ragazzi dell’Esquilino, per
troppo tempo messo a tacere. Affo, ultimo «cavaliere medievale 27», ultimo ribelle dell’epoca
moderna, ed eroe anarchico della Roma del Sud 28, vuole impedire che la verità venga falsificata e
usata impropriamente contro gli sfortunati che ha sempre voluto difendere. Combatte il ricco
palazzo povero di valori, il mondo dell’illusione e preconfezionato, fatto di uomini di plastica al suo
interno, che vivono dimenticandosi della realtà malata che li circonda. Affo appare un uomo privo
di disincanto per le bellezze e ricchezze che il Domix esibisce, non è affascinato da queste e non si
lascia tentare da quegli agi. Ha scelto di non salire su quel piedistallo dorato che gli è stato proposto
tante volte in passato. È consapevole di avere su di lui una forte responsabilità da cui non può tirarsi
indietro, dovrà sacrificare la sua vita per quella degli altri, per cercare di ripristinare la giustizia nel
mondo, abbattendo il simbolo della discordia che «come un meteorite 29» si è abbattuto sulla terra,
disonorando l’eterna storia di Roma. Affo combatte in un mondo distrutto, senza più valori, tra
fantasia e realtà. Il Domix potrebbe allora essere per lui un sogno, un immaginario grande mulino a
27G. Amoroso, Solo se inganno: narrativa italiana 2001, Catanzaro, Rubettino Editore, 2004, p. 68.
28Ivi, p. 69.
29E. Affinati, Il nemico negli occhi, Roma, Arnoldo Mondadori Editore, 2001, p. 24.
vento, o le gru del Comandante. È questo che confessa a Maria Rosalba Talanga Abid Bouilat,
descrivendo Affo con tanti limiti, vulnerabile, un uomo tutto di un pezzo, che non avrebbe potuto
mai sopportare l’idea di sopravvivere da reduce, come un «morto vivente30». Per questo motivo
scelse la morte. Abid Bouliat sembra l’unico dei fedeli compagni di Affo a rendersi conto che il
grattacielo non esisteva, vi era un grande centro commerciale al suo posto. Sopra di esso Affo aveva
inventato il Domix con le sue parole e le sue paranoie, convincendo tutti, i “Sancho Panza”, suoi
fedeli amici, sebbene fossero più razionali di lui, da Bruno Costa, con la razionalità dello studioso,
sino ad Abid Bouilat che si rese conto troppo tardi, in carcere, dopo sessant’anni dall’attacco al
Domix, della verità. Quest’ultima era legata al sogno di Affo: l’eden, l’eterna felicità da conquistare
tra avventure e lotte, contro dei nemici che non erano altro che un’invenzione scolastica, in un
mondo che nel frattempo stava cadendo a pezzi. C’è un tratto dell’interrogatorio ad Abid Bouilat
che rievoca una poesia, scritta da Affo e consegnata al giovane ragazzo, che può essere ritrovata
nelle pagine di Soldati del ’56. Si tratta di una scelta ben pensata da Eraldo Affinati, per trasmettere
l’idea di continuità e della trilogia, con uno stesso protagonista, il Comandante, morto, risorto e poi
ancora ucciso dal suo nemico interiore:
Ho costruito la mia disperazione, o dolcezza infranta o prematura scorciatoia, con malcelata noncuranza, come
fanno gli uomini nella vita. Ora non so a chi mostrare questa bandiera bianca. I nemici sono un’invenzione scolastica.
Siamo al di qua dalla vetrata – c’è un’osmosi continua, indifferenziata fra di noi. Certe volte sono stato in piedi dietro il
banco dove misteriosi avventori mi chiedevano da bere. Altre volte sono stato seduto in mezzo alla sala anch’io insieme
a loro. L’impressione non è cambiata: di mosca che spezza il suo volo posandosi sul miele, spezza e riprende. Uno di
quei segreti che tutti sanno, qualcuno ne va pazzo e nasconde la sua pazzia come un gioiello. Io vorrei comunicarla,
farmi amare per questo ma lo spettacolo sensazionale dell’esistenza mi confonde le idee, mi fa pensare ad altro 31.
In questo messaggio Affo sembra voler urlare la sua volontà di essere amato. L’epilogo
romantico della sua morte potrebbe essere ritrovato nel palazzo in Via Filippo Turati, dove viveva,
in un mausoleo domestico dedicato all’uomo, Rosarita Nofal, eterna fidanzata di Affo, in attesa
della morte, l’unica speranza di ricongiungimento al suo amato e il suo eroe. Affo voleva essere
ucciso perché non poteva sopportare la fine della sua giovinezza, vissuta da sempre con
l’invenzione di un nemico negli occhi. Restargli fedele dopo tutti quegli anni, come stavano facendo
Romolo Sarti e Fabio Liti, significava tradire il Comandante nell’unica richiesta da lui manifestata:
Perché arriva sempre il momento in cui qualcuno ti chiama per metterti solo davanti a te stesso. Prendi il coltello e
taglia! – ti dicono – prendi il coltello e falla finita!32.
30Ivi, pp. 236-237.
31Ivi, pp. 239-240.
32Ivi, p. 243.
Purtroppo in seguito alla lotta civile, il suo sacrificio di sessant’anni prima è stato vano. Maria
Rosalba Talanga confessa al suo fantasma che gli eredi spirituali della banda dell’Esquilino, hanno
preso il posto nelle ricche case di coloro che Affo ha combattuto fino alla morte. A testimoniare
questo, vi è l’esempio dell’occultamento del Dossier J3 da parte degli stessi funzionari dello stato,
che avrebbero dovuto lottare per la verità, ma che invece hanno utilizzato la storia del Domix per
ordinare e giustificare azioni repressive contro nuovi bersagli e per legittimare la loro presa di
potere. Ne Il nemico negli occhi, Affinati si pone da osservatore antropologico e analizza il
comportamento umano in una situazione estrema (come può esserlo la guerra) in cui l’uomo si
rivela per quello che davvero è, mostrando la sua inclinazione violenta. Soprattutto i giovani di oggi
devono, secondo Eraldo Affinati, confrontarsi con il proprio nemico interiore, che può essere una
paura, un proprio limite, un proprio errore, ma in ognuno di questi casi, il confronto è fondamentale,
perché è un’occasione di crescita interiore. In Soldati del ’56, dopo un lungo cammino
caratterizzato da una serie di avventure, errori, emozioni, vittorie e sconfitte, il momento finale, il
porto ultimo e sicuro in cui approdare, è, per Eraldo Affinati, la scrittura e il linguaggio:
Caro Rondella, essendo il linguaggio la nostra vera vita, siamo condannati all’esperienza33.
L’autore crede fortemente che la scrittura possa intensificare la vita e solo attraverso di essa si
può fare esperienza, fondamentale per scrivere le pagine della nostra vita. Ecco perché Eraldo
Affinati parte sempre da esperienze fatte sulla propria pelle prima di scrivere i suoi libri e come
tutte le sue opere, anche nel caso della trilogia, ha visitato tutti luoghi che fanno da sfondo ai
romanzi: gli ospedali psichiatrici, Roma, l’Esquilino, nei luoghi dove ha abitato per tutta la sua
infanzia. Nella trilogia del Comandante vi è quindi un’evoluzione, dalla morte si rinasce, accettando
sé stessi. È quello che accade in Bandiera Bianca, dove il Capofrago sceglie di rimanere nella
società corrotta, mentre il Comandante torna e accetta la propria natura di essere come gli altri
malati del manicomio, dove può comunque raggiungere la piena libertà da ogni condizionamento
esterno che lo imprigionava, senza fuggire, ma guardando nel buio, al fine di cercare una luce di
speranza e di crescita per il futuro, un po' come il Comandante ne Il nemico negli occhi, Affo. In
questa trilogia, come in tanti altri libri di Eraldo Affinati, si rintraccia la volontà dell’autore di
realizzare una pedagogia che sembra voler recuperare gli antichi valori e le radici rintracciabili nella
nostra storia. La memoria è vista dall’autore come la certificazione dell’identità, al fine di poter
imparare sui propri errori passati e prendere le giuste decisioni future. Oggi dobbiamo essere
all’altezza del nostro passato, come l’eterno patrimonio di Roma e le sue bellezze antiche che
vengono invece mortificate nella realtà. È quello che accade nel romanzo di fantascienza di Eraldo
Affinati, che ricalca perfettamente il profilo critico e di degrado del quartiere Esquilino.
33E. Affinati, Soldati del ’56, Roma, Mondadori, 1997.