Appunti 13 ultimo - Centro Coscienza

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Appunti 13 ultimo - Centro Coscienza
MAIEUTICA
APPUNTII
r i v i s t a
p e r i o d i c a
d i
C e n t r o
C o s c i e n z a
NON È FACILE DECIDERE OGNI VOLTA DI CHE COSA PARLARE SU “APPUNTI”. SONO
TANTI I TEMI CHE SEMBRANO MERITEVOLI DI APPROFONDIMENTO, E CHE PIACEREBBE IMPOSTARE, PROBLEMATIZZARE, COSÌ CHE A PARTIRE DALLE RIFLESSIONI
PROPOSTE CIASCUNO POSSA FARSI UNA PERSONALE OPINIONE, POSSA METTERE
LÌ, PER COSÌ DIRE, UN PICCOLO MATTONE PER LA COSTRUZIONE DEL PROPRIO
ORIENTAMENTO NELLA VITA E QUINDI DEL PROPRIO COMPORTAMENTO. L’IMPOSTAZIONE DELLE PAGINE DELLA RIVISTA, PERÒ, NON PERMETTE DI TRATTARE IN
MODO ESAURIENTE E DEFINITIVO IL TEMA EVENTUALMENTE SCELTO.
SOMMARIO
La parola ai sentimenti
pagina 2
E se giocare diventa
una cosa seria
pagina 4
Il misticismo è un
fatto concreto
pagina 6
Restituito alla terra
pagina 7
Segnalazioni e
bibliografia
pagina 8
Contrappunti
pagina 8
aprile 2006
numero 13 - 3,00 euro
I vincoli grafici sono “tiranni” e compor tano una prova particolare per chi scrive:
non tanto “scorciare”, sintetizzare, come
sembrerebbe considerando i limiti solo
dal punto di vista spaziale; ci si trova, piuttosto, a dover rinunciare all’umanissimo
desiderio di dire tutto, ma proprio tutto,
in modo chiaro e distinto, di essere
profondi e convincenti, esaurienti, perfetti quasi; e, in quanto tali, capiti e possibil mente condivisi e amati da un ipotetico
lettore già formato a immagine e somiglianza del redattore stesso.
La stessa struttura grafica, è chiaro,
chiede un esercizio anche a chi legge, che
non può mai esimersi dal fare la sua parte, connettendo quello che appare sconnesso, completando quello che è parziale,
integrando lacune, affrontando letture di
cui sulla pagina ha trovato solo un saporito assaggio. Insomma, anche Appunti, nel
suo piccolo, come diceva Wittgenstein
non vorrebbe mai impedire a chi legge di
esercitare il proprio pensiero, di pensare
con la propria testa, e aggiungiamo noi,
anche con il cuore. Di essere attivo.
La rinuncia a quella per fezione formale, la cui immagine è un po’ stereoti pata, non implica però l’approssimazione: piuttosto un lavoro attento di chiarificazione del tema, di ricerca delle fonti, di
spoliazione del superfluo. Un lavoro che
la redazione non potrebbe svolgere da sola senza il ricchissimo patrimonio culturale e spirituale di quasi settant’anni di ricerche, studi, sperimentazioni, attività,
dai tempi di Castellani ai giorni nostri.
Percepire questa ricchezza, rapportarsi
con essa, averla davanti agli occhi sotto
forma di scritti, immagini, testimonianze,
risposte pronte da parte di chi viene interpellato per un articolo, consente alla redazione di muoversi in una rete umana e
culturale di grande profondità e valore.
Ma anche e soprattutto di coltivare
una facoltà sottile, difficile da definire: è
fatta di responsabilità che un patrimonio
così grande non rimanga infruttuoso ma
continui, magari in forme nuove e anche
irriconoscibili, ad agire; è fatta dell’incoscienza di farsene interpreti, con l’evidente esposizione a errori, super ficialità, approssimazioni; è fatta di fiducia che anche
un piccolo segno può essere colto da chi
ne ha il bisogno, magari senza saperlo; è
fatta soprattutto della convinzione di essere solo tramiti, strumenti “intelligenti” di
qualcosa che va ben al di là di noi, ma che
sta a noi far circolare, come possiamo, come riusciamo, ma per l’amor di Dio far
circolare! Poi avverrà quello che può.
In una rivista gli argomenti non
possono essere largamente
svolti e perciò per essere
approfonditi devono essere
frammentati, ripresi, sempre
ricostruendo le premesse e
diluendo le conclusioni T. Castellani
APRILE 2006 1
APPUNTI P O E S I A
La parola
ai sentimenti
PROPONIAMO ALCUNI STRALCI DELLA CONFERENZA DI APERTURA
DEL CORSO “LA POESIA D’AMORE TRA EUROPA E ASIA”. IL TESTO
INTEGRALE SARÀ PUBBLICATO NELLA COLLANA QUADERNI DI
MAIEUTICA INSIEME ALLA LEZIONE FINALE SULLA POESIA INDIANA
“LA POESIA D’AMORE tra Euun’invenzione abbastanza recente. In
ropa e Asia”: in questo tema immenlatino non c’era neanche la parola; la
so, qual è il filo conduttore che ci
parola greca, da cui tra l’altro gelosia
proponiamo? L’esperienza dell’amoderiva, è tratta dal verbo da cui deriva
re, apparentemente, è naturale: viviaanche la nostra parola “zelo”, che avemo questo sentimento in molti modi,
va un significato più potente in greco,
con i suoi temi, i suoi ritmi, con sfu significava ardore, calore, impegno,
mature e intonazioni diverse, con le
eventualmente rivalità; rivalità e geloemozioni che lo accompagnano, dal
sia non sono proprio lo stesso. Dundesiderio, alla voglia, alla tenerezza,
que, in Grecia poco sviluppata, solo
delicatezza… e crediamo forse abbaqualche frase; a Roma non c’è del tutstanza spontaneamente che sia stato
to. La sofferenza d’amore per l’evensempre così, cioè che l’amore sia
tuale tradimento non è tanto dovuta
sempre stato così.
alla gelosia per l’alIl percorso nelle
tro, per il rivale o la
La poesia è una lente
diverse culture ci morivale, ma è dovuta al
d’ingrandimento sui nostri senso della rottura
strerà invece quanto
la poesia - non solo la
di un patto, il foedus
sentimenti, ci permette
poesia naturalmente,
amoris; è qualcosa
ma qui ci interessia- di amplificarli, “ingrandirli”, più a cavallo tra il
mo di questo - sia regiuridico e il religioe però ce li fa vedere
sponsabile, feliceso, questa sofferenza
con un distacco diverso
mente responsabile
d’amore nel mondo
della nostra esperienantico. Vi sorprenda quando siamo
za dell’amore. Rederà sapere che in
personalmente implicati.
sponsabile perché
India è lo stesso: nelletteralmente ne ha
la letteratura indiana
inventato nel corso del tempo tutti gli
classica non c’è la parola per gelosia,
aspetti, tramutando una premessa in
la più vicina, come in latino, è invidia,
sostanza fisiologica in una facoltà intema noi facciamo una bella distinzione
riore espressiva culturale.
tra invidia e gelosia. Allora l’atto di naVi faccio un’esempio abbastanza
scita della gelosia, almeno con tutto
clamoroso che ha sorpreso anche me:
quello che si tira dietro, è quasi in una
credo che tutti noi scommetteremmo
poesia specifica che è del Sannazzaro,
che la gelosia è da sempre una delle
siamo alla fine del ’400, e in noi non
componenti fondamentali dell’amosuscita particolari pulsioni, è un sonetre, al punto, credo, che molti di noi,
to che comincia “o gelosia, d’amanti
se non tutti, sottoscriverebbero il fatto
orribil freno”…
che tutto sommato se non si è gelosi
Questo è un esempio intenzionaldella persona amata, non la si ama vemente clamoroso di come qualcosa
ramente, o qualcosa del genere. Sorche per noi è ovvio, e che proviamo efprenderà sapere che la gelosia è
fettivamente, non intellettualmente, è
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stata letteralmente un’invenzione. Si
è preso qualcosa, quel magma sordo
della rivalità e a furia di pensarci,
ascoltarlo, esprimerlo, ne è venuta
fuori una connotazione del sentimento che prima non c’era. C’era
l’embrione, ma la gelosia non c’era,
non aveva importanza, non aveva
neanche la parola.
Il clima cambia con la famosa poesia lirica che nasce nella Ionia, nelle co lonie greche d’Asia intorno al VII secolo
a.C. Vedremo due poeti in particolare che sono Archiloco e Saffo. Leggiamo qualche frammento di Archiloco: “Potessi toccare la mano di
Neobule”; “Un ramicello portava di
mirto e una bella rosa/ E ne gioiva/
La chioma ombrava gli omeri e il
dorso”; “Odoravan d’unguento chioma e seno./Anche un vecchio ella
avrebbe innamorato”. Tanto per verificare quello che si diceva, anche
senza essere specialisti, nessuno metterebbe in bocca a Circe o a Odisseo
delle riflessioni come queste. Queste
sono la nascita della dimensione soggettiva del sentimento, dello sguar do a ciò che accade fuori, affascina to, e dentro di sé.
Un’ultima: “nella brama d’amore,/ io giaccio, infelice,/ senz’anima,
dai pesanti dolori per volontà degli
dei/ trafitto nelle ossa”. È l’atto di nascita della passione profonda, cieca,
come fosse la forza di gravità, non
contrastabile, oscura, non rende affatto felici tanto è vero che la chiamiamo passione, che anche etimologicamente significa che fa male, che
fa soffrire. Ho cambiato “aspri” con
“pesanti” perché è il significato letterale del termine greco e meglio rende l’idea di qualcosa che ti schiaccia,
che non riesci a sollevare, quindi che
ti fa mancare anche l’aria. A riprova
“senza più vita”, il termine greco è
apsucos che vuol dire senz’anima o letteralmente “senza più fiato”. C’è poco da fare, almeno per quello che noi
sappiamo, prima non c’era, nessuno
l’aveva mai guardato così a fondo, e
quindi non c’era.
Archiloco rappresenta una condizione in cui si è immersi interamente
in un presente assoluto, non c’è un
prima o un dopo, il presente di
un’immagine che incalza, il presente
di un desiderio delicato (Neobule…),
il presente senza fiato, senza luce, senza scampo, in un certo senso, della passione profonda. Eppure Archiloco è
evidentemente capace, questa condizione, di contemplarla, perché se fosse
solo immerso, turbato, schiacciato, in calzato o affascinato, non scriverebbe.
È in questa capacità di contemplazione
che si distingue il poeta che crea poe sia, da noi che ne siamo gli ascoltatori.
Con Saffo la condizione è un po’
diversa, è quella del Tiaso, cioè una
scuola per fanciulle dove l’amore omosessuale che Saffo esalta è inteso e utilizzato sul piano educativo come preludio all’amore eterosessuale. Le fanciulle frequentavano la scuola di Saffo come preparazione al matrimonio e
quindi l’amore era al centro della riflessione, anzi dell’esperienza: ciò consente questo ordine di ricerca a Saffo,
di approfondire la conoscenza psicologica. Leggiamo per primo il frammento dove il sentimento è analogo a quello espresso da Archiloco: “Scuote l’anima mia Eros,/ come vento sul monte/
che irrompe entro le querce;/ e scio glie le membra e le agita,/ dolce amara indomabile belva.”
Passiamo a “A me pare uguale agli
dèi” che mostra lo stato di ascolto più
ampio, la capacità di orchestrazione di
Saffo di una vicenda psicologica:
A me pare uguale agli dèi
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
Se mi permettete l’espressione, qui è
l’atto di nascita dei sintomi della passione. Archiloco dà uno stato, fa come
una fotografia, anzi una radiografia;
qui c’è tutta la sintomatologia: il rombo del sangue alle orecchie, sudore,
tremore, trascolorare, sbiancare…
Dunque, qui la situazione è quella
TI VOGLIO BENE MA NON TI AMO?
Non esiste sulla faccia della terra, salvo in Italia, perché
l’ha inventata Catullo, la distinzione tra amare
e volere bene. Anche in inglese ci sono due espressioni
differenti, ma I love you corrisponde a ti amo, mentre
a ti voglio bene potrebbe corrispondere I like you, che però
letteralmente significa mi piaci, e c’è un’immensa
differenza tra i due sentimenti. Catullo inventa, utilizza
almeno, in una situazione erotica tra uomo e donna,
la distinzione che il latino offre tra amare - quindi l’insieme
di passione, eccitazione fisica, attrazione - e voler bene.
Tutte quelle gamme di sentimento che lui stesso dice
di avere provato nei confronti di Lesbia:
Ti ho amato allora non come si ama un’amante,/ ma come
un padre ama i figli e i generi./ Ora ti ho conosciuto, e anche
se brucio più forte,/ ai miei occhi vali molto di meno./
Come può essere dici? Perché l’offesa che tu mi hai fatto
costringe/ un amante ad amare di più, ma a voler bene di meno.
di un uomo che vede davanti a sé parlare, ridere amorosamente una fanciulla. A Saffo che guarda, questi pare
simile a un Dio. Saffo invidia, per così
dire, la calma di quest’uomo, invidia
colui che in una circostanza del gene re gode delle manifestazioni d’amore
dell’altro e resta non indifferente,
piuttosto calmo. Alzi la mano chi almeno una volta nella vita non avrebbe voluto essere così… cioè essere non freddo, non indifferente, ma non perdersi
in quel modo che Saffo descrive con
una precisione quasi sintomatica.
Un’altra condizione che trova in
Saffo espressione molto ricca e variata
è quella della nostalgia: “Tramontata è
la luna/ e le Pleiadi a mezzo della notte;/ anche giovinezza già dilegua, e ora
nel mio letto dormo sola”. Molto toccante l’analogia tra il tramontare della
luna e delle stelle, di qualcosa che rendeva lucente e incantata la notte e ri chiama lo svanire dell’incanto notturno e lo svanire della giovinezza, il dileguare... e poi la chiusa straordinaria,
oggettiva: “ora nel mio letto dormo sola”. Grande anche l’ascolto dei vari registri dell’espressione: i primi tre versi
sono incantati, sottili, l’ultimo è quasi
una cruda constatazione. Anche in
questo caso non lascia scampo, è la fo tografia di una situazione che allude al
rimpianto, alla solitudine, in un certo
senso all’inappellabilità di questa con dizione. Un’ultima poesia di Saffo,
molto importante perché mostra la relazione tra amore, sentimenti in generale, e poesia, ed è proprio un atto di
fede nella poesia, senza la quale - dice
Saffo - l’essere umano non dura, svanisce, diventa un fantasma. È una poesia rivolta presumibilmente a una rivale, rivale di una delle altre scuole:
Tu morta, finirai lì. Né mai di te
si avrà memoria; e di te nel tempo
mai ad alcuno nascerà amore,
poi che non curi le rose della Pieria.
E sconosciuta anche nelle case dell’Ade,
andrai qua e là fra oscuri
morti, svolazzando.
Terribile sentenza che indirettamente
dice quello che ci salva dallo sparire
completamente: la capacità di amare e
la poesia. Salvazione che nega a questa
rivale proprio perché lei non ha amore per la poesia , e quindi “di te nel
tempo mai ad alcuno nascerà amore…”, anche nell’aldilà se ne andrà
“fra oscuri morti svolazzando”.
APRILE 2006 3
APPUNTI S P E C I A L E
S C H O L A
E se giocare diventa
INTERVISTA A MARCO MERLINI, RESPONSABILE DEL LABORATORIO DI TEATRO ALLA SCHOLA DI MOROSOLO
Prima un po’ di storia. Quando nasce l’attività del teatro alla Schola, come e perché.
Il teatro come attività formativa è sempre stato presente, fin dalle origini della Schola
e già ai tempi del Liceo Unificato. Le prime rappresentazioni un po’ più strutturate,
però, risalgono all’inizio degli anni novanta. Il primo spettacolo importante, “Sogno
di una notte di mezza estate” nel 1992, fu anche il frutto di una collaborazione con
Dario Del Corno: insegnava alla scuola del Piccolo e io lo conoscevo già dai tempi
dell’università, così gli chiesi di usare la sua traduzione. Poi lui si è appassionato all’idea del lavoro con i ragazzi ed è venuto a Morosolo. Già nasceva l’idea, nella quale
credo molto, di dare l’occasione ai ragazzi di lavorare insieme a professionisti: sono
persone che portano una visione e un’esperienza di qualità, non limitata al “mettere
insieme due cose” che spesso caratterizza il teatro di livello amatoriale.
Dopo “Sogno di una notte di mezza estate”
quali altri testi avete scelto?
L’anno dopo abbiamo rappresentato
l’Orestea: alcuni ex allievi, tutti univer sitari, erano interessati a continuare
l’attività teatrale e venivano a Morosolo
una volta alla settimana, poi un’altra
volta si vedevano tra loro a Milano. La
traduzione usata era quella di Pasolini,
Del Corno ci diede comunque qualche
indicazione; ma si trattava di una cosa
monumentale, tutte e tre le tragedie,
non la rifarei mai più, all’aperto, in
maggio, con un freddo, e la gente “moriva” perché era troppo lunga…
Nel ’94 abbiamo messo in scena
“Difficoltà di concentrazione” di Havel, un testo bellissimo, poco conosciuto, che parla di un’umanità piena di
grandi ideali ma poi inetta nell’azione;
è stato rappresentato a Morosolo e poi
ripetuto a Centro Coscienza, in una
“tre giorni” dedicata alla Schola.
Il progetto di un laboratorio di teatro che avesse una struttura più delineata risale al ’95, quando ricevetti una
borsa di studio di tre anni per preparare un gruppo di giovani. All’epoca an che le Sezioni avevano chiesto di poter
fare qualcosa sul teatro, così organizzammo un grande seminario a fine anno scolastico in preparazione all’anno
successivo, al quale parteciparono anche i giovani delle sezioni. Da lì nacque
un gruppo più stabile composto da
una ventina di persone con cui abbiamo realizzato “Il drago” di Schwarz.
L’obiettivo che è sempre stato rispettato negli anni, anche adesso che il
4 APRILE 2006
laboratorio di teatro è solo per i ragazzi
della Schola, è produrre uno spettacolo all’anno. I più recenti sono stati “Il
piccolo principe” nel 2004 a una festa
di Centro Coscienza e “Trapianti di
cervello e altre storie” nel 2005. Quest’ultimo è tratto dal libro di due scienziati che abbraccia fisica, epistemolo gia, filosofia: hanno scritto delle sce nette dove per esempio una persona
dice: “ho un grande mal di testa e voglio farmi trapiantare il cer vello”, e gli
chiedono: “ma lei vuol essere donatore
o ricevente?”, e intorno a questo c’è un
gioco molto divertente, perché se si dona il cervello che cosa resta? siamo noi
in un altro corpo o è un altro cer vello
nel nostro corpo? E noi dove siamo?
Non siamo un cervello trapiantato in
un corpo, siamo un tutt’uno che concettualmente separiamo. Con i ragazzi
è importante poter fare lavori che stimolano queste riflessioni. Dall’altra
parte però bisogna anche imparare a
recitare, imparare la tecnica, se no tu
lavori su dei concetti e poi quando porti le cose al pubblico dicono “interessante ma non esiste, non è la vita”.
Imparare la tecnica come avviene? Come si
esercitano i ragazzi?
Si lavora insieme una volta alla settimana, principalmente sui testi: ci si esercita cercando di scoprire anche tutti i
“sottotesti”. Per esempio, ci sono dei
momenti in cui un attore arriva in scena e dice una cosa che gli altri personaggi nella storia conoscono già; allora
quella frase potrebbe essere stata volu -
ta dall’autore per informare il pubblico. Individuare queste cose in un testo
ne sposta il senso: se la sto dicendo
perché devo informare il pubblico, come faccio a reggere una situazione in
cui gli altri miei astanti, attori, la sanno
già? Magari posso ripeterla perché non
la capiscono, oppure perché pur sapendola non la vogliono sapere, con la
recitazione devo reggere questi sensi
diversi. Un esempio sull’opera su cui
stiamo lavorando adesso, l’Or feo: dei
pastori parlano tra loro di vitellini, e
uno dice “guarda non voglio parlare di
queste cose perché ho visto una bellissima donna che è Euridice”, si tratta di
Aristeo, il pastore innamorato che poi
causerà la morte di Euridice; “stai attento - gli risponde Mopso - che l’amo re è pericoloso”; arriva un altro pastore
e Aristeo si rivolge a lui: “vai a vedere
per favore tu se vedi il vitello, e intanto
tu Mopso stai qui con me che ti devo
raccontare…” Ma Mopso vorrà sentire
il racconto delle sue passioni, o no?
Noi ci siamo inventati che Mopso non
vuole e dice delle cose così sopra le righe che sembra uno appena svegliato.
Cosa sta facendo durante la conversazione? Come ascolta? I fili di queste relazioni vanno costruiti, perché sul palco si recita sempre, non solo con le
FABULA DI ORFEO
La messa in scena del testo
di Poliziano alla festa di Pasqua
è stata opera della Schola. Nel
campus ragazzi e genitori sono
aiutati a vivere il complesso
periodo dell’adolescenza.
I giovani frequentano le scuole
a Varese e risiedono a Morosolo
svolgendo varie attività con
la guida di educatori; tornano in
famiglia a fine settimana.
Per informazioni: www.laschola.it
una cosa seria
battute, anzi la cosa più difficile è recitare quando non si hanno battute da
dire. Questo crea il filo delle relazioni
che diventa la vita: così è teatro, altrimenti sono solo persone che si agitano
in una stanza vuota.
Prendo un altro esempio da Eugenio Barba, che raccontava di uno spet tacolo per ragazzi dove venivano rappresentati degli animali, e Barba diceva a suo figlio che assisteva con lui: “vedi, quello è un serpente che sta minacciando…”, e suo figlio: “ma papà quello non è un serpente, è uno che sta recitando con una calza in mano”; questo non è teatro. Nel momento in cui
vedi solo il serpente allora diventa teatro. Come si fa a farlo avvenire? Dipende da come si recita, ma non solo. Non
si può prendere un ragazzo, che ha anche buone capacità, dargli una “spolveratina”, e pensare che reciti. È impor tante aiutarlo a tirar fuori cose anche
lontane da ciò che immaginava, fargli
fare un percorso, e in più sostener lo
con atmosfere, musica, luci, costumi
che fanno avvenire il teatro. A volte un
giovane che ha fatto progressi, ma che
è sul livello “di galleggiamento”, messo
in una situazione che noi professionisti
sappiamo costruire, di qualità, crea
una scena credibile perché è in una
macchina corale che sta in piedi. Il teatro non è un lavoro di singoli, i singoli
non fanno niente - nemmeno il regista
- è assolutamente corale.
Dal punto di vista educativo questo vuol
dire permettere ai ragazzi di conoscere
anche i propri limiti…
Strehler diceva che la via per arrivare
a un buon risultato è pro prio quella
di fare i personaggi più lontani da te,
perché li puoi conoscere facilmente,
se sono troppo vicini ti impasticci.
“Entrare nel personaggio” è un’espressione che non condivido: il personaggio non è lì come una scatola,
bisogna lavorare, costruirlo e costruire le sue coerenze. Però misurarti
con quella umanità, proprio a te che
sei lontano, ti può far conoscere nuove realtà e decidere come rappresentarle. Non parlo mai di immedesimazione, affronto con i ragazzi il tema
del “come facciamo a farlo”, che poi
diventa tecnicamente come recitare
le battute. Tecnica vuol dire imparare
a “usare il pennello”, e se parti da
questo a un certo punto arrivi al per sonaggio, ma non sei immedesimato,
hai compreso chi è e come si muove.
Il teatro è un lavoro di conoscenza e
un gioco nel senso elevato del termine, nel senso delle parole jouer o to
play: è come un cerchio magico all’interno del quale si diventa una persona diversa da noi; allora si smuove
qualcosa perché si toccano zone dell’umanità diverse da sé, ci si confronta e si può anche godere di un senso
di calma perché non si è sempre dentro la propria persona.
Quindi, quando si parla di funzione sociale
del teatro come momento di aggregazione,
è così anche per chi lo fa…
Sì. Su questo punto ci sono due scuole
di pensiero: lavorare all’interno di un
gruppo nella ricerca di qualcosa che
sia espressione dell’energia corale, oppure concentrarsi solo sulle qualità dei
singoli. Noi utilizziamo il primo metodo: quando abbiamo rappresentato
“Nozze di sangue” ai due protagonisti
maschi diedi le parti “contrarie”, a
quello più scafato la parte del giovane
sposo candido e tutto d’un pezzo,
mentre la parte del seduttore la assegnai al ragazzo più semplice.
Essere insegnante alla Schola per te, personalmente, che esperienza è?
Professionalmente insegno educazione del movimento, quindi spesso lavoro al servizio di altri linguaggi, e
poi faccio le mie regie e coordino
una compagnia di professionisti.
L’attività alla Schola è una sintesi.
Adesso stiamo lavorando sull’Or feo
come se facessimo lezioni di musica:
abbiamo passato un intero pomerig gio a cantare endecasillabi, proprio
come quando si solfeggia; imparato
quello allora si lavora anche sull’interpretazione, ma l’importante è proprio partire da un linguaggio lontano
che i ragazzi non possono confonde re con quello quotidiano, e quindi
non possono rappresentare se stess i.
L’errore che spesso si commette con
loro è che per rendere la cosa più
amichevole si usa un linguaggio finto
colloquiale. A me interessa fare un lavoro di altro tipo: anche se non sarai
mai un attore famoso, però il teatro ti
ha aiutato ad ampliare la tua umanità, a scoprire personaggi diversi da
te, linguaggi diversi, a scoprire, per
esempio, modi di dire “ti amo, sono
innamorato” nuovi per te - pensa a
Shakespeare -, che tu non ti sogni
neanche. E quando dici certe cose
scopri dei mondi.
Pluto: Chi è costui che con
sì dolce nota/ muove
l’abisso, e con l’ornata cetra?/
Io veggo fissa d’Issïon
la rota,/ Sisifo assiso sopra
la sua petra/ e le Belide
star con l’urna vota,/ né più
l’acqua di Tantalo s’arretra;/
e veggo Cerber con tre
bocche intento/ e le Furie
aquetar al suo lamento.
(...)
Proserpina: Io non credetti,
o dolce mio consorte,/
che Pietà mai venisse
in questo regno:/
or la veggio regnare
in nostra corte/ et io sento
di lei tutto ’l cor pregno;/
né solo i tormentati,
ma la Morte/ veggio che
piange del suo caso
indegno:/ dunque tua
dura legge a lui si pieghi,/
pel canto, per l’amor,
pe’ giusti prieghi.
Angelo Poliziano
APRILE 2006 5
APPUNTI A T T I V I T À
Il misticismo è un
fatto concreto
RICERCA RELIGIOSA “VIVERE IN PIENEZZA ORA E QUI”: IL GRUPPO È AL CENTRO
DI DUE ATTIVITÀ IN CUI INTUIZIONE E PRASSI SONO INDISSOLUBILMENTE LEGATE
DA DUE ANNI un socio di Centro Coscienza
partecipa allo sportello
giuridico nel carcere di
Bollate: un lavoro di consulenza legale per i detenuti, di cui abbiamo dato
notizia nel numero 11 di
Appunti. Ora si è formato
un piccolo gruppo di soci
che si è proposto per svolgere un’azione formativa
per detenuti all’interno
della struttura penitenziale. Il 25 gennaio essi han no incontrato la direttrice
del carcere e una educatrice ministeriale: è stata una
sorta di presentazione reciproca in cui la direttrice si
è dimostrata molto interessata alle attività di Centro
Coscienza e anche fiduciosa nella funzione di stimolo che possono avere perché la vita nel carcere si
umanizzi e i detenuti non
si sentano solo ed esclusivamente reclusi.
Il carcere di Bollate è
stato aperto con un progetto sperimentale che
prevedeva di ospitare detenuti impegnati in attività
lavorative o formative, che
avessero volontariamente
optato per questa destinazione detentiva. A partire
dal 2002, però, la necessità
di ridurre il numero di de tenuti a San Vittore ha fatto affluire nella struttura
di Bollate molti carcerati
con pene brevi, prevalentemente stranieri, che, pur
6 APRILE 2006
godendo delle stesse condizioni di custodia dei detenuti con pene mediolunghe (per esempio l’apertura delle celle in determinati orari e la libera
circolazione nel reparto),
non sono inseriti nell’originario programma di lavoro e formazione.
La direttrice del carcere di Bollate è particolarmente attenta alla qualità
della vita dei suoi “ospiti” e
all’interno della struttura operano molti gruppi di volontari
e si svolgono attività formative ed educative, tra cui un
laboratorio teatrale, un
servizio biblioteca con prestito libri, corsi di scolarizzazione, dalla alfabetizzazione alla preparazione
professionale.
Sono i detenuti del secondo reparto che, però, a
causa della brevità della
pena da scontare, non riescono a inserirsi con successo in questi programmi
- che prevedono una certa
continuità - e rimangono
quindi in una situazione
priva di stimoli e di occa sioni di formazione e crescita personale. Per loro
soprattutto occorrono urgentemente interventi che
qualifichino il tempo da
trascorrere in carcere, lo
sottraggano a un pigro e
monotono stillicidio che
rende i reclusi passivi e demotivati e in generale contribuisce a una sorta di abbrutimento della persona.
E proprio questi la direttrice ha in certo qual modo
“affidati” al gruppetto di
volontari di Centro Coscienza: il primo obiettivo è
quello di instaurare un dialo go umano, aperto all’ascolto
delle loro difficoltà e delle loro aspirazioni, e poi di progettare delle attività ricrea tive e formative che tengano conto della brevità del
periodo di detenzione e
della varietà delle loro culture di appartenenza, e di
tutto ciò che potrà emergere solo nell’incontro reale
con loro.
Per il momento sono
state concluse le pratiche
burocratiche per avere accesso al carcere. Inizierà
ora un periodo di “osser vazione reverente” della situazione e di ascolto delle
persone, e di ascolto anche
di sé in una situazione così
difficile in cui si può dare
solo ciò che si sente profondamente e autenticamente valido, e con grande
umiltà. In seguito nasceranno dei progetti concreti
e operativi.
SEMINARE INTERCULTURALITÀ
Il seminario svoltosi dal 17 al 19 marzo su “Interculturalità e rinnovamento
umano” ha approfondito il tema della tavola rotonda di presentazione
dell’edizione italiana della rivista canadese “Interculture”. A Morosolo, nel
seminario aperto a tutti i soci e frequentatori, il tema è stato approfondito
culturalmente, ma anche tradotto in progetti di intervento in realtà
di emarginazione sociale. Si è lavorato sull’atteggiamento interculturale
che prevede “mutua fecondazione perchè c’è reciprocità d’amore”,
come ha detto Arrigo Chieregatti, direttore di “Interculture”. Si è visto che
il rapporto con l’altro comporta di relativizzare la propria cultura.
Una sorta di “conversione” reciproca, che faccia comprendere più a
fondo il proprio l’altrui cammino. Come ha testimoniato con la sua
umanità e la sua consapevolezza un ex detenuto, nero e musulmano,
che ha partecipato ai lavori, in un dialogo schietto e di mutuo scambio.
M O R O S O L O APPUNTI
Restituito alla terra
LAVORARE ALL’ARIA APERTA A MOROSOLO OFFRE PRESUMIBILI SVILUPPI E INSOSPETTATI PIACERI
AVEVO SCOPERTO nel mio primo seminario di Ricerca Spirituale, alla fine
di luglio 2001, l’esistenza di un luogo di nome Morosolo e di un posto chiamato
“Schola”. Questi nomi risuonavano nell’ambiente che frequentavo, ma per me
erano misteriosi; fino ad allora ne avevo solo sentito parlare, e trovavo singolare, e
anche un po’ incomprensibile, che alcuni miei colleghi della ricerca rinunciassero a una settimana di vacanze, per trascorrere del tempo in quel posto. Mi dicevo:
“che ci sarà mai, che possa valere più di una settimana al mare o in montagna?”.
All’Assemblea di apertura del seminario, un’altra parola inusuale: “il territorio”.
Che cosa significava? Non lo avevo capito subito, ma di istinto mi ero infilato in quel gruppo che si era spontaneamente costituito, al termine dell’assemblea. E avevo fatto bene, perché da subito mi era parso di intuire
che “il territorio” volesse dire affiancare al lavoro spirituale e intellettuale di
quel seminario il piacere di rotolarsi nella
terra (questa immagine suggerita da
un socio, non l’ho mai dimenticata),
il piacere di curare un ambiente che
tutti sentivano proprio, il dovere di
contribuire alla bellezza di un posto,
che tanta bellezza e cura aveva visto
passare attraverso gli anni.
Quella terra lontana mille miglia
dalla mia Terra aveva risvegliato in
me il gusto di lavorare a stretto contatto con la natura, il gusto della stanchezza fisica, di riprendere in mano
un rastrello, di assaggiare i frutti appena colti da un albero. Sembrava
proprio una chiamata, che c’è poi stata effettivamente: a settembre fui invitato a partecipare a una riunione del
gruppo “provveditorato”. Capii allora
che non c’era solo il gruppo improvvisato durante il seminario, ma c’erano vere e proprie strutture organizzate: il provveditorato che aveva in cari co i lavori di manutenzione e di cura
degli ambienti di Centro Coscienza a
Milano; i gruppi di lavoro della Scho la che si occupavano allo stesso modo
degli edifici e del parco di Morosolo.
Ho accettato senza riser ve quell’invito, e così è cominciata questa
bella avventura, che ancora oggi mi
coinvolge. Che cosa mi ha spinto ad
aderire? L’impulso iniziale era stato
un forte bisogno di ritrovare un con-
tatto con la natura che fosse più fisico: dopo anni in cui avevo sempre affiancato allo studio piccoli lavori in
campagna, mi ero ritrovato a dover
fare i conti con la realtà della città,
della vita in ufficio, dove il massimo
sforzo fisico consisteva nel muovere
le dita su una tastiera. Più tardi ho riprecisato il senso di quella mia adesione istintiva. Sento che oltre al mio
amore per la terra, per la natura, per
la fatica, c’è qualcosa di ancora più for te: la voglia di contribuire in un modo fattivo alla crescita di questo ambiente. Lo
sento strettamente legato alla mia
crescita. Mi arricchisco, confrontandomi continuamente con un gruppo
eterogeneo, cui partecipano i genitori dei ragazzi della Schola che arric chiscono così la loro scelta educativa
di un aspetto estremamente concreto, e dove altri soci dedicano parte
del loro tempo per rendere quel luo go più accogliente per i ragazzi, e anche per se stessi.
E dopo aver rastrellato, potato,
tagliato siepi, costruito sentieri, dopo
aver pranzato insieme e condiviso
sentimenti e progetti, ora io mi sento
uno di loro… uno di noi.
MOLTO È STATO FATTO, ALTRETTANTO RESTA DA FARE
Imbocchiamo l’ultima curva, e lo vediamo
opposta formando un circuito che consentirà
lì sotto: il nostro sentiero ‘estetico meditativo’
di godere ancor più la bellezza del luogo.
è sbucato da sotto la neve insieme ai crochi
Domenica 21 maggio i soci di Centro
viola. Protetto dalla coltre nevosa per tutto
Coscienza, le loro famiglie e i loro amici sono
l’inverno, ci viene incontro ordinato, pulito,
invitati a lavorare con noi, per proseguire
con i rametti di nocciolo che lo delimitano ai
la costruzione del sentiero. Lo scorso anno
lati, tutti perfettamente legati uno all’altro, e il
c’erano anche molti bambini, che hanno
tappeto di scaglie di corteccia al suo posto,
rastrellato, posato picchetti, raccolto legnetti,
nonostante la recente bufera. Il sentiero,
ma anche compiuto bei giri nella carriola di
però, non è terminato: deve proseguire per
nonno Giorgio o sul trattore, e hanno giocato
completare il percorso che dal viale d’ingresso
a pallone e goduto la novità del pic - nic
della Schola porta al piccolo rivo che scorre
sul prato. Per adesioni e informazioni ci si
in fondo. Dovrà poi risalire le balze dalla parte
può rivolgere in segreteria o a Gino Bonetti.
APRILE 2006 7
APPUNTI O T T A V A
segnalazioni
Incontri in sede
Gruppi di lettura
di Appunti
giovedì 4 maggio ore
19,00 leggeremo
insieme questo numero
Seminario
da venerdì 5 maggio
alle ore 17,00 a domenica
7 maggio alle ore 18,00
Alla Schola di Morosolo
Materia e spirito
nelle filosofie dellʼIndia
Mostre in corso
11 marzo - 23 luglio 2006
LʼUomo del Rinascimento
- Leon Battista Alberti
e le arti a Firenze
tra ragione e bellezza
Firenze, palazzo Strozzi
Orari di apertura:
tutti i giorni dalle 9 alle 20;
il venerdì dalle 9 alle 23.
Oltre 160 le opere, in
parte di Alberti, in
massima parte di artisti
sui quali si è esercitato
lʼascendente delle sue
teorie, tra cui Donatello
e Beato Angelico
da dicembre 2005 e per
un anno ancora
Dialogo nel buio.
Milano, Istituto dei Ciechi,
via Vivaio 7
Orari di apertura: martedì,
mercoledì e giovedì dalle
9,00 alle 18,30; venerdì
dalle 9,00 alle 23,30;
sabato dalle 9,30 alle
MAIEUTICA
APPUNTI
Appunti di Maieutica
periodico di Centro
Coscienza. C.so di Porta
Nuova 16, Milano.
Autorizzazione Tribunale
di Milano n. 59
del 8/2/2003;
Direttore Responsabile:
Cristina Strata.
Stampato da Arte Grafica,
via dei Cybo 3, Milano.
8 APRILE 2006
P A G I N A
23,30; domenica dalle
11,30 alle 20,00
“Mostra-che-non-mostra”
ma che insegna a vedere:
i visitatori percorrono nel
buio assoluto, con una
guida non vedente, un
itinerario in cui sono
riprodotti vari ambienti,
che non vengono svelati
ma che si possono
riconoscere ed esplorare
senza lʼaiuto della vista
ma “solo” con gli altri
sensi. Per informazioni:
www.istciechimilano.it
La mostra si visita in
gruppi di otto persone
che al termine del
percorso si scambiano le
loro impressioni.
18 marzo - 25 giugno
2006
Antonello da Messina
Roma, Scuderie
del Quirinale
Orari di apertura:
da domenica a giovedi,
dalle 10,00 alle 20,00;
venerdì e sabato dalle
10,00 alle 22,30
Riunite per la prima volta
quasi tutte le opere
di Antonello da Messina,
tra le quali le famose
Madonne, i Ritratti,
le Crocifissioni e San
Girolamo nel suo studio.
Letture
Tavola rotonda
Interculturalità e
rinnovamento umano
Quaderni di Maiuetica
marzo 2006
Anna Fabbrini,
Qui e là.
Visioni dai luoghi
Archinto 2005
Tiziano Terzani,
La fine è il mio inizio
Longanesi 2006
Giuliano Boccali,
Verso lʼeducazione
dei sentimenti
Editoriale Nuova 1983
Il libro può essere
richiesto in prestito
alla biblioteca
di Centro Coscienza
contrappunticontrappunti
C’era qualcos’altro lassù che col passare del tempo divenne per me
sempre più importante: il silenzio. È un’esperienza a cui non siamo
più abituati. Lassù faceva da sottofondo a tutte le esperienze.
C’erano vari silenzi e ognuno aveva le sue qualità. Di giorno il silenzio
era la somma del cinguettare degli uccelli, del gridare degli animali,
del soffiare del vento su cui non compariva mai un suono che non
venisse dalla natura: non il rumore di un motore, nè quello prodotto da
un uomo. Di notte il silenzio era un unico, sordo rimbombo che usciva
dalle viscere della terra, attraversava i muri, entrava dappertutto.
Il silenzio lassù era un suono. Un simbolo dell’armonia dei contrari a cui
aspiravo? I miei orecchi, mi accorgevo, non sentivano assolutamente
nulla, ma quel rimbombo era fuori e dentro la mia testa. La voce di Dio?
La musica delle sfere? Stando in ascolto anch’io cercavo di definirlo
e immaginavo solo un enorme pesce sul fondo del mare. Meraviglioso
silenzio! Eppure noi moderni, forse perchè lo identifichiamo con la
morte, lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura. (...) Uno sbaglio, perchè
il silenzio è l’esperienza originaria dell’uomo. Senza silenzio
non c’è parola. Non c’è musica. Senza silenzio non si sente. Solo nel
silenzio è possibile tornare in sintonia con noi stessi, ritrovare il legame
fra il nostro corpo e tutto-quello-che-ci-sta-dietro. (...) Col passare
dei giorni avevo l’impressione che al silenzio fuori dal mio rifugio nelle
montagne corrispondesse sempre di più un silenzio dentro di me
e questo, unito alla solitudine, mi dava momenti di vera esaltazione.
Senza distrazioni, senza stimoli esterni, la mente era libera di seguire
i suoi fili, di uscire dai suoi limiti e alla fine di calmarsi. Una mente
silenziosa non vuole dire una mente senza pensieri. Vuole dire che i
pensieri avvengono in quella quiete e possono essere meglio osservati.
Possono essere pensati meglio. T. Terzani, “Un altro giro di giostra”, Longanesi