Appunti 13 ultimo - Centro Coscienza
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Appunti 13 ultimo - Centro Coscienza
MAIEUTICA APPUNTII r i v i s t a p e r i o d i c a d i C e n t r o C o s c i e n z a NON È FACILE DECIDERE OGNI VOLTA DI CHE COSA PARLARE SU “APPUNTI”. SONO TANTI I TEMI CHE SEMBRANO MERITEVOLI DI APPROFONDIMENTO, E CHE PIACEREBBE IMPOSTARE, PROBLEMATIZZARE, COSÌ CHE A PARTIRE DALLE RIFLESSIONI PROPOSTE CIASCUNO POSSA FARSI UNA PERSONALE OPINIONE, POSSA METTERE LÌ, PER COSÌ DIRE, UN PICCOLO MATTONE PER LA COSTRUZIONE DEL PROPRIO ORIENTAMENTO NELLA VITA E QUINDI DEL PROPRIO COMPORTAMENTO. L’IMPOSTAZIONE DELLE PAGINE DELLA RIVISTA, PERÒ, NON PERMETTE DI TRATTARE IN MODO ESAURIENTE E DEFINITIVO IL TEMA EVENTUALMENTE SCELTO. SOMMARIO La parola ai sentimenti pagina 2 E se giocare diventa una cosa seria pagina 4 Il misticismo è un fatto concreto pagina 6 Restituito alla terra pagina 7 Segnalazioni e bibliografia pagina 8 Contrappunti pagina 8 aprile 2006 numero 13 - 3,00 euro I vincoli grafici sono “tiranni” e compor tano una prova particolare per chi scrive: non tanto “scorciare”, sintetizzare, come sembrerebbe considerando i limiti solo dal punto di vista spaziale; ci si trova, piuttosto, a dover rinunciare all’umanissimo desiderio di dire tutto, ma proprio tutto, in modo chiaro e distinto, di essere profondi e convincenti, esaurienti, perfetti quasi; e, in quanto tali, capiti e possibil mente condivisi e amati da un ipotetico lettore già formato a immagine e somiglianza del redattore stesso. La stessa struttura grafica, è chiaro, chiede un esercizio anche a chi legge, che non può mai esimersi dal fare la sua parte, connettendo quello che appare sconnesso, completando quello che è parziale, integrando lacune, affrontando letture di cui sulla pagina ha trovato solo un saporito assaggio. Insomma, anche Appunti, nel suo piccolo, come diceva Wittgenstein non vorrebbe mai impedire a chi legge di esercitare il proprio pensiero, di pensare con la propria testa, e aggiungiamo noi, anche con il cuore. Di essere attivo. La rinuncia a quella per fezione formale, la cui immagine è un po’ stereoti pata, non implica però l’approssimazione: piuttosto un lavoro attento di chiarificazione del tema, di ricerca delle fonti, di spoliazione del superfluo. Un lavoro che la redazione non potrebbe svolgere da sola senza il ricchissimo patrimonio culturale e spirituale di quasi settant’anni di ricerche, studi, sperimentazioni, attività, dai tempi di Castellani ai giorni nostri. Percepire questa ricchezza, rapportarsi con essa, averla davanti agli occhi sotto forma di scritti, immagini, testimonianze, risposte pronte da parte di chi viene interpellato per un articolo, consente alla redazione di muoversi in una rete umana e culturale di grande profondità e valore. Ma anche e soprattutto di coltivare una facoltà sottile, difficile da definire: è fatta di responsabilità che un patrimonio così grande non rimanga infruttuoso ma continui, magari in forme nuove e anche irriconoscibili, ad agire; è fatta dell’incoscienza di farsene interpreti, con l’evidente esposizione a errori, super ficialità, approssimazioni; è fatta di fiducia che anche un piccolo segno può essere colto da chi ne ha il bisogno, magari senza saperlo; è fatta soprattutto della convinzione di essere solo tramiti, strumenti “intelligenti” di qualcosa che va ben al di là di noi, ma che sta a noi far circolare, come possiamo, come riusciamo, ma per l’amor di Dio far circolare! Poi avverrà quello che può. In una rivista gli argomenti non possono essere largamente svolti e perciò per essere approfonditi devono essere frammentati, ripresi, sempre ricostruendo le premesse e diluendo le conclusioni T. Castellani APRILE 2006 1 APPUNTI P O E S I A La parola ai sentimenti PROPONIAMO ALCUNI STRALCI DELLA CONFERENZA DI APERTURA DEL CORSO “LA POESIA D’AMORE TRA EUROPA E ASIA”. IL TESTO INTEGRALE SARÀ PUBBLICATO NELLA COLLANA QUADERNI DI MAIEUTICA INSIEME ALLA LEZIONE FINALE SULLA POESIA INDIANA “LA POESIA D’AMORE tra Euun’invenzione abbastanza recente. In ropa e Asia”: in questo tema immenlatino non c’era neanche la parola; la so, qual è il filo conduttore che ci parola greca, da cui tra l’altro gelosia proponiamo? L’esperienza dell’amoderiva, è tratta dal verbo da cui deriva re, apparentemente, è naturale: viviaanche la nostra parola “zelo”, che avemo questo sentimento in molti modi, va un significato più potente in greco, con i suoi temi, i suoi ritmi, con sfu significava ardore, calore, impegno, mature e intonazioni diverse, con le eventualmente rivalità; rivalità e geloemozioni che lo accompagnano, dal sia non sono proprio lo stesso. Dundesiderio, alla voglia, alla tenerezza, que, in Grecia poco sviluppata, solo delicatezza… e crediamo forse abbaqualche frase; a Roma non c’è del tutstanza spontaneamente che sia stato to. La sofferenza d’amore per l’evensempre così, cioè che l’amore sia tuale tradimento non è tanto dovuta sempre stato così. alla gelosia per l’alIl percorso nelle tro, per il rivale o la La poesia è una lente diverse culture ci morivale, ma è dovuta al d’ingrandimento sui nostri senso della rottura strerà invece quanto la poesia - non solo la di un patto, il foedus sentimenti, ci permette poesia naturalmente, amoris; è qualcosa ma qui ci interessia- di amplificarli, “ingrandirli”, più a cavallo tra il mo di questo - sia regiuridico e il religioe però ce li fa vedere sponsabile, feliceso, questa sofferenza con un distacco diverso mente responsabile d’amore nel mondo della nostra esperienantico. Vi sorprenda quando siamo za dell’amore. Rederà sapere che in personalmente implicati. sponsabile perché India è lo stesso: nelletteralmente ne ha la letteratura indiana inventato nel corso del tempo tutti gli classica non c’è la parola per gelosia, aspetti, tramutando una premessa in la più vicina, come in latino, è invidia, sostanza fisiologica in una facoltà intema noi facciamo una bella distinzione riore espressiva culturale. tra invidia e gelosia. Allora l’atto di naVi faccio un’esempio abbastanza scita della gelosia, almeno con tutto clamoroso che ha sorpreso anche me: quello che si tira dietro, è quasi in una credo che tutti noi scommetteremmo poesia specifica che è del Sannazzaro, che la gelosia è da sempre una delle siamo alla fine del ’400, e in noi non componenti fondamentali dell’amosuscita particolari pulsioni, è un sonetre, al punto, credo, che molti di noi, to che comincia “o gelosia, d’amanti se non tutti, sottoscriverebbero il fatto orribil freno”… che tutto sommato se non si è gelosi Questo è un esempio intenzionaldella persona amata, non la si ama vemente clamoroso di come qualcosa ramente, o qualcosa del genere. Sorche per noi è ovvio, e che proviamo efprenderà sapere che la gelosia è fettivamente, non intellettualmente, è 2 APRILE 2006 stata letteralmente un’invenzione. Si è preso qualcosa, quel magma sordo della rivalità e a furia di pensarci, ascoltarlo, esprimerlo, ne è venuta fuori una connotazione del sentimento che prima non c’era. C’era l’embrione, ma la gelosia non c’era, non aveva importanza, non aveva neanche la parola. Il clima cambia con la famosa poesia lirica che nasce nella Ionia, nelle co lonie greche d’Asia intorno al VII secolo a.C. Vedremo due poeti in particolare che sono Archiloco e Saffo. Leggiamo qualche frammento di Archiloco: “Potessi toccare la mano di Neobule”; “Un ramicello portava di mirto e una bella rosa/ E ne gioiva/ La chioma ombrava gli omeri e il dorso”; “Odoravan d’unguento chioma e seno./Anche un vecchio ella avrebbe innamorato”. Tanto per verificare quello che si diceva, anche senza essere specialisti, nessuno metterebbe in bocca a Circe o a Odisseo delle riflessioni come queste. Queste sono la nascita della dimensione soggettiva del sentimento, dello sguar do a ciò che accade fuori, affascina to, e dentro di sé. Un’ultima: “nella brama d’amore,/ io giaccio, infelice,/ senz’anima, dai pesanti dolori per volontà degli dei/ trafitto nelle ossa”. È l’atto di nascita della passione profonda, cieca, come fosse la forza di gravità, non contrastabile, oscura, non rende affatto felici tanto è vero che la chiamiamo passione, che anche etimologicamente significa che fa male, che fa soffrire. Ho cambiato “aspri” con “pesanti” perché è il significato letterale del termine greco e meglio rende l’idea di qualcosa che ti schiaccia, che non riesci a sollevare, quindi che ti fa mancare anche l’aria. A riprova “senza più vita”, il termine greco è apsucos che vuol dire senz’anima o letteralmente “senza più fiato”. C’è poco da fare, almeno per quello che noi sappiamo, prima non c’era, nessuno l’aveva mai guardato così a fondo, e quindi non c’era. Archiloco rappresenta una condizione in cui si è immersi interamente in un presente assoluto, non c’è un prima o un dopo, il presente di un’immagine che incalza, il presente di un desiderio delicato (Neobule…), il presente senza fiato, senza luce, senza scampo, in un certo senso, della passione profonda. Eppure Archiloco è evidentemente capace, questa condizione, di contemplarla, perché se fosse solo immerso, turbato, schiacciato, in calzato o affascinato, non scriverebbe. È in questa capacità di contemplazione che si distingue il poeta che crea poe sia, da noi che ne siamo gli ascoltatori. Con Saffo la condizione è un po’ diversa, è quella del Tiaso, cioè una scuola per fanciulle dove l’amore omosessuale che Saffo esalta è inteso e utilizzato sul piano educativo come preludio all’amore eterosessuale. Le fanciulle frequentavano la scuola di Saffo come preparazione al matrimonio e quindi l’amore era al centro della riflessione, anzi dell’esperienza: ciò consente questo ordine di ricerca a Saffo, di approfondire la conoscenza psicologica. Leggiamo per primo il frammento dove il sentimento è analogo a quello espresso da Archiloco: “Scuote l’anima mia Eros,/ come vento sul monte/ che irrompe entro le querce;/ e scio glie le membra e le agita,/ dolce amara indomabile belva.” Passiamo a “A me pare uguale agli dèi” che mostra lo stato di ascolto più ampio, la capacità di orchestrazione di Saffo di una vicenda psicologica: A me pare uguale agli dèi chi a te vicino così dolce suono ascolta mentre tu parli e ridi amorosamente. Subito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e la voce si perde sulla lingua inerte. Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, e ho buio negli occhi e il rombo del sangue alle orecchie. E tutta in sudore e tremante come erba patita scoloro: e morte non pare lontana a me rapita di mente. Se mi permettete l’espressione, qui è l’atto di nascita dei sintomi della passione. Archiloco dà uno stato, fa come una fotografia, anzi una radiografia; qui c’è tutta la sintomatologia: il rombo del sangue alle orecchie, sudore, tremore, trascolorare, sbiancare… Dunque, qui la situazione è quella TI VOGLIO BENE MA NON TI AMO? Non esiste sulla faccia della terra, salvo in Italia, perché l’ha inventata Catullo, la distinzione tra amare e volere bene. Anche in inglese ci sono due espressioni differenti, ma I love you corrisponde a ti amo, mentre a ti voglio bene potrebbe corrispondere I like you, che però letteralmente significa mi piaci, e c’è un’immensa differenza tra i due sentimenti. Catullo inventa, utilizza almeno, in una situazione erotica tra uomo e donna, la distinzione che il latino offre tra amare - quindi l’insieme di passione, eccitazione fisica, attrazione - e voler bene. Tutte quelle gamme di sentimento che lui stesso dice di avere provato nei confronti di Lesbia: Ti ho amato allora non come si ama un’amante,/ ma come un padre ama i figli e i generi./ Ora ti ho conosciuto, e anche se brucio più forte,/ ai miei occhi vali molto di meno./ Come può essere dici? Perché l’offesa che tu mi hai fatto costringe/ un amante ad amare di più, ma a voler bene di meno. di un uomo che vede davanti a sé parlare, ridere amorosamente una fanciulla. A Saffo che guarda, questi pare simile a un Dio. Saffo invidia, per così dire, la calma di quest’uomo, invidia colui che in una circostanza del gene re gode delle manifestazioni d’amore dell’altro e resta non indifferente, piuttosto calmo. Alzi la mano chi almeno una volta nella vita non avrebbe voluto essere così… cioè essere non freddo, non indifferente, ma non perdersi in quel modo che Saffo descrive con una precisione quasi sintomatica. Un’altra condizione che trova in Saffo espressione molto ricca e variata è quella della nostalgia: “Tramontata è la luna/ e le Pleiadi a mezzo della notte;/ anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto dormo sola”. Molto toccante l’analogia tra il tramontare della luna e delle stelle, di qualcosa che rendeva lucente e incantata la notte e ri chiama lo svanire dell’incanto notturno e lo svanire della giovinezza, il dileguare... e poi la chiusa straordinaria, oggettiva: “ora nel mio letto dormo sola”. Grande anche l’ascolto dei vari registri dell’espressione: i primi tre versi sono incantati, sottili, l’ultimo è quasi una cruda constatazione. Anche in questo caso non lascia scampo, è la fo tografia di una situazione che allude al rimpianto, alla solitudine, in un certo senso all’inappellabilità di questa con dizione. Un’ultima poesia di Saffo, molto importante perché mostra la relazione tra amore, sentimenti in generale, e poesia, ed è proprio un atto di fede nella poesia, senza la quale - dice Saffo - l’essere umano non dura, svanisce, diventa un fantasma. È una poesia rivolta presumibilmente a una rivale, rivale di una delle altre scuole: Tu morta, finirai lì. Né mai di te si avrà memoria; e di te nel tempo mai ad alcuno nascerà amore, poi che non curi le rose della Pieria. E sconosciuta anche nelle case dell’Ade, andrai qua e là fra oscuri morti, svolazzando. Terribile sentenza che indirettamente dice quello che ci salva dallo sparire completamente: la capacità di amare e la poesia. Salvazione che nega a questa rivale proprio perché lei non ha amore per la poesia , e quindi “di te nel tempo mai ad alcuno nascerà amore…”, anche nell’aldilà se ne andrà “fra oscuri morti svolazzando”. APRILE 2006 3 APPUNTI S P E C I A L E S C H O L A E se giocare diventa INTERVISTA A MARCO MERLINI, RESPONSABILE DEL LABORATORIO DI TEATRO ALLA SCHOLA DI MOROSOLO Prima un po’ di storia. Quando nasce l’attività del teatro alla Schola, come e perché. Il teatro come attività formativa è sempre stato presente, fin dalle origini della Schola e già ai tempi del Liceo Unificato. Le prime rappresentazioni un po’ più strutturate, però, risalgono all’inizio degli anni novanta. Il primo spettacolo importante, “Sogno di una notte di mezza estate” nel 1992, fu anche il frutto di una collaborazione con Dario Del Corno: insegnava alla scuola del Piccolo e io lo conoscevo già dai tempi dell’università, così gli chiesi di usare la sua traduzione. Poi lui si è appassionato all’idea del lavoro con i ragazzi ed è venuto a Morosolo. Già nasceva l’idea, nella quale credo molto, di dare l’occasione ai ragazzi di lavorare insieme a professionisti: sono persone che portano una visione e un’esperienza di qualità, non limitata al “mettere insieme due cose” che spesso caratterizza il teatro di livello amatoriale. Dopo “Sogno di una notte di mezza estate” quali altri testi avete scelto? L’anno dopo abbiamo rappresentato l’Orestea: alcuni ex allievi, tutti univer sitari, erano interessati a continuare l’attività teatrale e venivano a Morosolo una volta alla settimana, poi un’altra volta si vedevano tra loro a Milano. La traduzione usata era quella di Pasolini, Del Corno ci diede comunque qualche indicazione; ma si trattava di una cosa monumentale, tutte e tre le tragedie, non la rifarei mai più, all’aperto, in maggio, con un freddo, e la gente “moriva” perché era troppo lunga… Nel ’94 abbiamo messo in scena “Difficoltà di concentrazione” di Havel, un testo bellissimo, poco conosciuto, che parla di un’umanità piena di grandi ideali ma poi inetta nell’azione; è stato rappresentato a Morosolo e poi ripetuto a Centro Coscienza, in una “tre giorni” dedicata alla Schola. Il progetto di un laboratorio di teatro che avesse una struttura più delineata risale al ’95, quando ricevetti una borsa di studio di tre anni per preparare un gruppo di giovani. All’epoca an che le Sezioni avevano chiesto di poter fare qualcosa sul teatro, così organizzammo un grande seminario a fine anno scolastico in preparazione all’anno successivo, al quale parteciparono anche i giovani delle sezioni. Da lì nacque un gruppo più stabile composto da una ventina di persone con cui abbiamo realizzato “Il drago” di Schwarz. L’obiettivo che è sempre stato rispettato negli anni, anche adesso che il 4 APRILE 2006 laboratorio di teatro è solo per i ragazzi della Schola, è produrre uno spettacolo all’anno. I più recenti sono stati “Il piccolo principe” nel 2004 a una festa di Centro Coscienza e “Trapianti di cervello e altre storie” nel 2005. Quest’ultimo è tratto dal libro di due scienziati che abbraccia fisica, epistemolo gia, filosofia: hanno scritto delle sce nette dove per esempio una persona dice: “ho un grande mal di testa e voglio farmi trapiantare il cer vello”, e gli chiedono: “ma lei vuol essere donatore o ricevente?”, e intorno a questo c’è un gioco molto divertente, perché se si dona il cervello che cosa resta? siamo noi in un altro corpo o è un altro cer vello nel nostro corpo? E noi dove siamo? Non siamo un cervello trapiantato in un corpo, siamo un tutt’uno che concettualmente separiamo. Con i ragazzi è importante poter fare lavori che stimolano queste riflessioni. Dall’altra parte però bisogna anche imparare a recitare, imparare la tecnica, se no tu lavori su dei concetti e poi quando porti le cose al pubblico dicono “interessante ma non esiste, non è la vita”. Imparare la tecnica come avviene? Come si esercitano i ragazzi? Si lavora insieme una volta alla settimana, principalmente sui testi: ci si esercita cercando di scoprire anche tutti i “sottotesti”. Per esempio, ci sono dei momenti in cui un attore arriva in scena e dice una cosa che gli altri personaggi nella storia conoscono già; allora quella frase potrebbe essere stata volu - ta dall’autore per informare il pubblico. Individuare queste cose in un testo ne sposta il senso: se la sto dicendo perché devo informare il pubblico, come faccio a reggere una situazione in cui gli altri miei astanti, attori, la sanno già? Magari posso ripeterla perché non la capiscono, oppure perché pur sapendola non la vogliono sapere, con la recitazione devo reggere questi sensi diversi. Un esempio sull’opera su cui stiamo lavorando adesso, l’Or feo: dei pastori parlano tra loro di vitellini, e uno dice “guarda non voglio parlare di queste cose perché ho visto una bellissima donna che è Euridice”, si tratta di Aristeo, il pastore innamorato che poi causerà la morte di Euridice; “stai attento - gli risponde Mopso - che l’amo re è pericoloso”; arriva un altro pastore e Aristeo si rivolge a lui: “vai a vedere per favore tu se vedi il vitello, e intanto tu Mopso stai qui con me che ti devo raccontare…” Ma Mopso vorrà sentire il racconto delle sue passioni, o no? Noi ci siamo inventati che Mopso non vuole e dice delle cose così sopra le righe che sembra uno appena svegliato. Cosa sta facendo durante la conversazione? Come ascolta? I fili di queste relazioni vanno costruiti, perché sul palco si recita sempre, non solo con le FABULA DI ORFEO La messa in scena del testo di Poliziano alla festa di Pasqua è stata opera della Schola. Nel campus ragazzi e genitori sono aiutati a vivere il complesso periodo dell’adolescenza. I giovani frequentano le scuole a Varese e risiedono a Morosolo svolgendo varie attività con la guida di educatori; tornano in famiglia a fine settimana. Per informazioni: www.laschola.it una cosa seria battute, anzi la cosa più difficile è recitare quando non si hanno battute da dire. Questo crea il filo delle relazioni che diventa la vita: così è teatro, altrimenti sono solo persone che si agitano in una stanza vuota. Prendo un altro esempio da Eugenio Barba, che raccontava di uno spet tacolo per ragazzi dove venivano rappresentati degli animali, e Barba diceva a suo figlio che assisteva con lui: “vedi, quello è un serpente che sta minacciando…”, e suo figlio: “ma papà quello non è un serpente, è uno che sta recitando con una calza in mano”; questo non è teatro. Nel momento in cui vedi solo il serpente allora diventa teatro. Come si fa a farlo avvenire? Dipende da come si recita, ma non solo. Non si può prendere un ragazzo, che ha anche buone capacità, dargli una “spolveratina”, e pensare che reciti. È impor tante aiutarlo a tirar fuori cose anche lontane da ciò che immaginava, fargli fare un percorso, e in più sostener lo con atmosfere, musica, luci, costumi che fanno avvenire il teatro. A volte un giovane che ha fatto progressi, ma che è sul livello “di galleggiamento”, messo in una situazione che noi professionisti sappiamo costruire, di qualità, crea una scena credibile perché è in una macchina corale che sta in piedi. Il teatro non è un lavoro di singoli, i singoli non fanno niente - nemmeno il regista - è assolutamente corale. Dal punto di vista educativo questo vuol dire permettere ai ragazzi di conoscere anche i propri limiti… Strehler diceva che la via per arrivare a un buon risultato è pro prio quella di fare i personaggi più lontani da te, perché li puoi conoscere facilmente, se sono troppo vicini ti impasticci. “Entrare nel personaggio” è un’espressione che non condivido: il personaggio non è lì come una scatola, bisogna lavorare, costruirlo e costruire le sue coerenze. Però misurarti con quella umanità, proprio a te che sei lontano, ti può far conoscere nuove realtà e decidere come rappresentarle. Non parlo mai di immedesimazione, affronto con i ragazzi il tema del “come facciamo a farlo”, che poi diventa tecnicamente come recitare le battute. Tecnica vuol dire imparare a “usare il pennello”, e se parti da questo a un certo punto arrivi al per sonaggio, ma non sei immedesimato, hai compreso chi è e come si muove. Il teatro è un lavoro di conoscenza e un gioco nel senso elevato del termine, nel senso delle parole jouer o to play: è come un cerchio magico all’interno del quale si diventa una persona diversa da noi; allora si smuove qualcosa perché si toccano zone dell’umanità diverse da sé, ci si confronta e si può anche godere di un senso di calma perché non si è sempre dentro la propria persona. Quindi, quando si parla di funzione sociale del teatro come momento di aggregazione, è così anche per chi lo fa… Sì. Su questo punto ci sono due scuole di pensiero: lavorare all’interno di un gruppo nella ricerca di qualcosa che sia espressione dell’energia corale, oppure concentrarsi solo sulle qualità dei singoli. Noi utilizziamo il primo metodo: quando abbiamo rappresentato “Nozze di sangue” ai due protagonisti maschi diedi le parti “contrarie”, a quello più scafato la parte del giovane sposo candido e tutto d’un pezzo, mentre la parte del seduttore la assegnai al ragazzo più semplice. Essere insegnante alla Schola per te, personalmente, che esperienza è? Professionalmente insegno educazione del movimento, quindi spesso lavoro al servizio di altri linguaggi, e poi faccio le mie regie e coordino una compagnia di professionisti. L’attività alla Schola è una sintesi. Adesso stiamo lavorando sull’Or feo come se facessimo lezioni di musica: abbiamo passato un intero pomerig gio a cantare endecasillabi, proprio come quando si solfeggia; imparato quello allora si lavora anche sull’interpretazione, ma l’importante è proprio partire da un linguaggio lontano che i ragazzi non possono confonde re con quello quotidiano, e quindi non possono rappresentare se stess i. L’errore che spesso si commette con loro è che per rendere la cosa più amichevole si usa un linguaggio finto colloquiale. A me interessa fare un lavoro di altro tipo: anche se non sarai mai un attore famoso, però il teatro ti ha aiutato ad ampliare la tua umanità, a scoprire personaggi diversi da te, linguaggi diversi, a scoprire, per esempio, modi di dire “ti amo, sono innamorato” nuovi per te - pensa a Shakespeare -, che tu non ti sogni neanche. E quando dici certe cose scopri dei mondi. Pluto: Chi è costui che con sì dolce nota/ muove l’abisso, e con l’ornata cetra?/ Io veggo fissa d’Issïon la rota,/ Sisifo assiso sopra la sua petra/ e le Belide star con l’urna vota,/ né più l’acqua di Tantalo s’arretra;/ e veggo Cerber con tre bocche intento/ e le Furie aquetar al suo lamento. (...) Proserpina: Io non credetti, o dolce mio consorte,/ che Pietà mai venisse in questo regno:/ or la veggio regnare in nostra corte/ et io sento di lei tutto ’l cor pregno;/ né solo i tormentati, ma la Morte/ veggio che piange del suo caso indegno:/ dunque tua dura legge a lui si pieghi,/ pel canto, per l’amor, pe’ giusti prieghi. Angelo Poliziano APRILE 2006 5 APPUNTI A T T I V I T À Il misticismo è un fatto concreto RICERCA RELIGIOSA “VIVERE IN PIENEZZA ORA E QUI”: IL GRUPPO È AL CENTRO DI DUE ATTIVITÀ IN CUI INTUIZIONE E PRASSI SONO INDISSOLUBILMENTE LEGATE DA DUE ANNI un socio di Centro Coscienza partecipa allo sportello giuridico nel carcere di Bollate: un lavoro di consulenza legale per i detenuti, di cui abbiamo dato notizia nel numero 11 di Appunti. Ora si è formato un piccolo gruppo di soci che si è proposto per svolgere un’azione formativa per detenuti all’interno della struttura penitenziale. Il 25 gennaio essi han no incontrato la direttrice del carcere e una educatrice ministeriale: è stata una sorta di presentazione reciproca in cui la direttrice si è dimostrata molto interessata alle attività di Centro Coscienza e anche fiduciosa nella funzione di stimolo che possono avere perché la vita nel carcere si umanizzi e i detenuti non si sentano solo ed esclusivamente reclusi. Il carcere di Bollate è stato aperto con un progetto sperimentale che prevedeva di ospitare detenuti impegnati in attività lavorative o formative, che avessero volontariamente optato per questa destinazione detentiva. A partire dal 2002, però, la necessità di ridurre il numero di de tenuti a San Vittore ha fatto affluire nella struttura di Bollate molti carcerati con pene brevi, prevalentemente stranieri, che, pur 6 APRILE 2006 godendo delle stesse condizioni di custodia dei detenuti con pene mediolunghe (per esempio l’apertura delle celle in determinati orari e la libera circolazione nel reparto), non sono inseriti nell’originario programma di lavoro e formazione. La direttrice del carcere di Bollate è particolarmente attenta alla qualità della vita dei suoi “ospiti” e all’interno della struttura operano molti gruppi di volontari e si svolgono attività formative ed educative, tra cui un laboratorio teatrale, un servizio biblioteca con prestito libri, corsi di scolarizzazione, dalla alfabetizzazione alla preparazione professionale. Sono i detenuti del secondo reparto che, però, a causa della brevità della pena da scontare, non riescono a inserirsi con successo in questi programmi - che prevedono una certa continuità - e rimangono quindi in una situazione priva di stimoli e di occa sioni di formazione e crescita personale. Per loro soprattutto occorrono urgentemente interventi che qualifichino il tempo da trascorrere in carcere, lo sottraggano a un pigro e monotono stillicidio che rende i reclusi passivi e demotivati e in generale contribuisce a una sorta di abbrutimento della persona. E proprio questi la direttrice ha in certo qual modo “affidati” al gruppetto di volontari di Centro Coscienza: il primo obiettivo è quello di instaurare un dialo go umano, aperto all’ascolto delle loro difficoltà e delle loro aspirazioni, e poi di progettare delle attività ricrea tive e formative che tengano conto della brevità del periodo di detenzione e della varietà delle loro culture di appartenenza, e di tutto ciò che potrà emergere solo nell’incontro reale con loro. Per il momento sono state concluse le pratiche burocratiche per avere accesso al carcere. Inizierà ora un periodo di “osser vazione reverente” della situazione e di ascolto delle persone, e di ascolto anche di sé in una situazione così difficile in cui si può dare solo ciò che si sente profondamente e autenticamente valido, e con grande umiltà. In seguito nasceranno dei progetti concreti e operativi. SEMINARE INTERCULTURALITÀ Il seminario svoltosi dal 17 al 19 marzo su “Interculturalità e rinnovamento umano” ha approfondito il tema della tavola rotonda di presentazione dell’edizione italiana della rivista canadese “Interculture”. A Morosolo, nel seminario aperto a tutti i soci e frequentatori, il tema è stato approfondito culturalmente, ma anche tradotto in progetti di intervento in realtà di emarginazione sociale. Si è lavorato sull’atteggiamento interculturale che prevede “mutua fecondazione perchè c’è reciprocità d’amore”, come ha detto Arrigo Chieregatti, direttore di “Interculture”. Si è visto che il rapporto con l’altro comporta di relativizzare la propria cultura. Una sorta di “conversione” reciproca, che faccia comprendere più a fondo il proprio l’altrui cammino. Come ha testimoniato con la sua umanità e la sua consapevolezza un ex detenuto, nero e musulmano, che ha partecipato ai lavori, in un dialogo schietto e di mutuo scambio. M O R O S O L O APPUNTI Restituito alla terra LAVORARE ALL’ARIA APERTA A MOROSOLO OFFRE PRESUMIBILI SVILUPPI E INSOSPETTATI PIACERI AVEVO SCOPERTO nel mio primo seminario di Ricerca Spirituale, alla fine di luglio 2001, l’esistenza di un luogo di nome Morosolo e di un posto chiamato “Schola”. Questi nomi risuonavano nell’ambiente che frequentavo, ma per me erano misteriosi; fino ad allora ne avevo solo sentito parlare, e trovavo singolare, e anche un po’ incomprensibile, che alcuni miei colleghi della ricerca rinunciassero a una settimana di vacanze, per trascorrere del tempo in quel posto. Mi dicevo: “che ci sarà mai, che possa valere più di una settimana al mare o in montagna?”. All’Assemblea di apertura del seminario, un’altra parola inusuale: “il territorio”. Che cosa significava? Non lo avevo capito subito, ma di istinto mi ero infilato in quel gruppo che si era spontaneamente costituito, al termine dell’assemblea. E avevo fatto bene, perché da subito mi era parso di intuire che “il territorio” volesse dire affiancare al lavoro spirituale e intellettuale di quel seminario il piacere di rotolarsi nella terra (questa immagine suggerita da un socio, non l’ho mai dimenticata), il piacere di curare un ambiente che tutti sentivano proprio, il dovere di contribuire alla bellezza di un posto, che tanta bellezza e cura aveva visto passare attraverso gli anni. Quella terra lontana mille miglia dalla mia Terra aveva risvegliato in me il gusto di lavorare a stretto contatto con la natura, il gusto della stanchezza fisica, di riprendere in mano un rastrello, di assaggiare i frutti appena colti da un albero. Sembrava proprio una chiamata, che c’è poi stata effettivamente: a settembre fui invitato a partecipare a una riunione del gruppo “provveditorato”. Capii allora che non c’era solo il gruppo improvvisato durante il seminario, ma c’erano vere e proprie strutture organizzate: il provveditorato che aveva in cari co i lavori di manutenzione e di cura degli ambienti di Centro Coscienza a Milano; i gruppi di lavoro della Scho la che si occupavano allo stesso modo degli edifici e del parco di Morosolo. Ho accettato senza riser ve quell’invito, e così è cominciata questa bella avventura, che ancora oggi mi coinvolge. Che cosa mi ha spinto ad aderire? L’impulso iniziale era stato un forte bisogno di ritrovare un con- tatto con la natura che fosse più fisico: dopo anni in cui avevo sempre affiancato allo studio piccoli lavori in campagna, mi ero ritrovato a dover fare i conti con la realtà della città, della vita in ufficio, dove il massimo sforzo fisico consisteva nel muovere le dita su una tastiera. Più tardi ho riprecisato il senso di quella mia adesione istintiva. Sento che oltre al mio amore per la terra, per la natura, per la fatica, c’è qualcosa di ancora più for te: la voglia di contribuire in un modo fattivo alla crescita di questo ambiente. Lo sento strettamente legato alla mia crescita. Mi arricchisco, confrontandomi continuamente con un gruppo eterogeneo, cui partecipano i genitori dei ragazzi della Schola che arric chiscono così la loro scelta educativa di un aspetto estremamente concreto, e dove altri soci dedicano parte del loro tempo per rendere quel luo go più accogliente per i ragazzi, e anche per se stessi. E dopo aver rastrellato, potato, tagliato siepi, costruito sentieri, dopo aver pranzato insieme e condiviso sentimenti e progetti, ora io mi sento uno di loro… uno di noi. MOLTO È STATO FATTO, ALTRETTANTO RESTA DA FARE Imbocchiamo l’ultima curva, e lo vediamo opposta formando un circuito che consentirà lì sotto: il nostro sentiero ‘estetico meditativo’ di godere ancor più la bellezza del luogo. è sbucato da sotto la neve insieme ai crochi Domenica 21 maggio i soci di Centro viola. Protetto dalla coltre nevosa per tutto Coscienza, le loro famiglie e i loro amici sono l’inverno, ci viene incontro ordinato, pulito, invitati a lavorare con noi, per proseguire con i rametti di nocciolo che lo delimitano ai la costruzione del sentiero. Lo scorso anno lati, tutti perfettamente legati uno all’altro, e il c’erano anche molti bambini, che hanno tappeto di scaglie di corteccia al suo posto, rastrellato, posato picchetti, raccolto legnetti, nonostante la recente bufera. Il sentiero, ma anche compiuto bei giri nella carriola di però, non è terminato: deve proseguire per nonno Giorgio o sul trattore, e hanno giocato completare il percorso che dal viale d’ingresso a pallone e goduto la novità del pic - nic della Schola porta al piccolo rivo che scorre sul prato. Per adesioni e informazioni ci si in fondo. Dovrà poi risalire le balze dalla parte può rivolgere in segreteria o a Gino Bonetti. APRILE 2006 7 APPUNTI O T T A V A segnalazioni Incontri in sede Gruppi di lettura di Appunti giovedì 4 maggio ore 19,00 leggeremo insieme questo numero Seminario da venerdì 5 maggio alle ore 17,00 a domenica 7 maggio alle ore 18,00 Alla Schola di Morosolo Materia e spirito nelle filosofie dellʼIndia Mostre in corso 11 marzo - 23 luglio 2006 LʼUomo del Rinascimento - Leon Battista Alberti e le arti a Firenze tra ragione e bellezza Firenze, palazzo Strozzi Orari di apertura: tutti i giorni dalle 9 alle 20; il venerdì dalle 9 alle 23. Oltre 160 le opere, in parte di Alberti, in massima parte di artisti sui quali si è esercitato lʼascendente delle sue teorie, tra cui Donatello e Beato Angelico da dicembre 2005 e per un anno ancora Dialogo nel buio. Milano, Istituto dei Ciechi, via Vivaio 7 Orari di apertura: martedì, mercoledì e giovedì dalle 9,00 alle 18,30; venerdì dalle 9,00 alle 23,30; sabato dalle 9,30 alle MAIEUTICA APPUNTI Appunti di Maieutica periodico di Centro Coscienza. C.so di Porta Nuova 16, Milano. Autorizzazione Tribunale di Milano n. 59 del 8/2/2003; Direttore Responsabile: Cristina Strata. Stampato da Arte Grafica, via dei Cybo 3, Milano. 8 APRILE 2006 P A G I N A 23,30; domenica dalle 11,30 alle 20,00 “Mostra-che-non-mostra” ma che insegna a vedere: i visitatori percorrono nel buio assoluto, con una guida non vedente, un itinerario in cui sono riprodotti vari ambienti, che non vengono svelati ma che si possono riconoscere ed esplorare senza lʼaiuto della vista ma “solo” con gli altri sensi. Per informazioni: www.istciechimilano.it La mostra si visita in gruppi di otto persone che al termine del percorso si scambiano le loro impressioni. 18 marzo - 25 giugno 2006 Antonello da Messina Roma, Scuderie del Quirinale Orari di apertura: da domenica a giovedi, dalle 10,00 alle 20,00; venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30 Riunite per la prima volta quasi tutte le opere di Antonello da Messina, tra le quali le famose Madonne, i Ritratti, le Crocifissioni e San Girolamo nel suo studio. Letture Tavola rotonda Interculturalità e rinnovamento umano Quaderni di Maiuetica marzo 2006 Anna Fabbrini, Qui e là. Visioni dai luoghi Archinto 2005 Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio Longanesi 2006 Giuliano Boccali, Verso lʼeducazione dei sentimenti Editoriale Nuova 1983 Il libro può essere richiesto in prestito alla biblioteca di Centro Coscienza contrappunticontrappunti C’era qualcos’altro lassù che col passare del tempo divenne per me sempre più importante: il silenzio. È un’esperienza a cui non siamo più abituati. Lassù faceva da sottofondo a tutte le esperienze. C’erano vari silenzi e ognuno aveva le sue qualità. Di giorno il silenzio era la somma del cinguettare degli uccelli, del gridare degli animali, del soffiare del vento su cui non compariva mai un suono che non venisse dalla natura: non il rumore di un motore, nè quello prodotto da un uomo. Di notte il silenzio era un unico, sordo rimbombo che usciva dalle viscere della terra, attraversava i muri, entrava dappertutto. Il silenzio lassù era un suono. Un simbolo dell’armonia dei contrari a cui aspiravo? I miei orecchi, mi accorgevo, non sentivano assolutamente nulla, ma quel rimbombo era fuori e dentro la mia testa. La voce di Dio? La musica delle sfere? Stando in ascolto anch’io cercavo di definirlo e immaginavo solo un enorme pesce sul fondo del mare. Meraviglioso silenzio! Eppure noi moderni, forse perchè lo identifichiamo con la morte, lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura. (...) Uno sbaglio, perchè il silenzio è l’esperienza originaria dell’uomo. Senza silenzio non c’è parola. Non c’è musica. Senza silenzio non si sente. Solo nel silenzio è possibile tornare in sintonia con noi stessi, ritrovare il legame fra il nostro corpo e tutto-quello-che-ci-sta-dietro. (...) Col passare dei giorni avevo l’impressione che al silenzio fuori dal mio rifugio nelle montagne corrispondesse sempre di più un silenzio dentro di me e questo, unito alla solitudine, mi dava momenti di vera esaltazione. Senza distrazioni, senza stimoli esterni, la mente era libera di seguire i suoi fili, di uscire dai suoi limiti e alla fine di calmarsi. Una mente silenziosa non vuole dire una mente senza pensieri. Vuole dire che i pensieri avvengono in quella quiete e possono essere meglio osservati. Possono essere pensati meglio. T. Terzani, “Un altro giro di giostra”, Longanesi