1 Andrea Padovani Forma, ordine, bellezza. Variazioni su un tema 1
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1 Andrea Padovani Forma, ordine, bellezza. Variazioni su un tema 1
Andrea Padovani Forma, ordine, bellezza. Variazioni su un tema M. Bellomo, Elogio delle regole. Crisi sociali e scienza del diritto alle origini dell'Europa moderna. Prefazione di P. Barcellona, Leonforte 2012 1. Alla luce dell'essere Come e perché scaturisce, nell'uomo, l'imperiosa esigenza del diritto? In qual modo essa si stabilisce nella società? Sono domande alle quali i filosofi prima, poi i giuristi hanno cercato, per secoli, di dare una risposta. Non è certo mia intenzione ripercorrere un cammino che altri hanno percorso: e penso qui a Guido Fassò, che mi fu maestro a Bologna. Più modestamente mi soffermerò sul pensiero medievale, convinto, come sono, che esso possa porsi all'attenzione dei tempi ai quali apparteniamo, sebbene così diversi dagli antichi per caratteri culturali, sociali ed economici. La natura umana, infatti, pur nel rivolgimento delle vicende storiche e nell'alterna fortuna di varie ispirazioni ideali, resta pur sempre la medesima. Se non fosse così, non ci sarebbe possibile comprendere ed ammirare – spesso, con intima commozione – le opere dello spirito che sono giunte fino a noi da tempi remoti e trascorsi per sempre. Il colloquio con le anime di quanti ci hanno preceduto su questa terra non conosce cesure o interruzioni: si svolge, piuttosto, sul piano di un continuo presente che tutti ci accomuna oltre le barriere del tempo e della morte. Quando, dunque, si accese nella mente dell'uomo l'urgente necessità di avere leggi capaci di dare forma alla convivenza civile? “Dal dì – scrisse Ugo Foscolo nei suoi Sepolcri – che nozze, tribunali ed are/ diero alle umane belve essere pietose/ di sé stesse e d'altrui”: cioè dal momento in cui, oltrepassato lo stato di barbarie, iniziò – come aveva già intuito Giovanbattista Vico – il culto per i morti, fu istituito il matrimonio a base e fondamento della famiglia, il culto religioso e il diritto. Nella visione del poeta ciascuno di questi elementi non sta a sé soltanto, ma è strettamente legato a tutti gli altri. Fin dal primo scaturire della coscienza, infatti, vita (significata dalla fecondità della famiglia), morte e diritto appaiono reciprocamente coimplicati. La morte insidia la vita, che certo ognuno vorrebbe senza fine. Questo desiderio di eternità, di infinito, è senz'altro inspiegabile a qualunque indagine scientifica. Siamo fatti transeunti, viandanti di pochi giorni: ma a questa amara constatazione ci ribelliamo con forza. Se poi domandassimo, a chi si voglia, cosa egli chieda sopra ogni altra cosa, la risposta sarebbe sempre la medesima: essere felice. Felice, però, per sempre, come invece non ci è dato quaggiù, sulla terra. Non ci basta esserlo per un giorno se quello seguente ci travolge nel dolore, nella noia, nella insoddisfazione. Rechiamo dunque in noi l'idea dell'infinito senza saperne il perché. A Platone bastò riconoscere questo fatto – l'essere noi abitati dalla domanda dell'eterno – per vedere aprirsi, nel Fedone, un destino di immortalità assicurato all'uomo. L'intuizione del filosofo greco passa, tramite Agostino, ad una delle menti più lucide e affascinanti del medioevo, Bonaventura da Bagnoregio. Nell'Itinerarium mentis in Deum egli scrive: “esse igitur est quod primo cadit in intellectu” - “l'essere è ciò ch'è pensato per primo dall'intelletto”. Questa affermazione, davvero centrale nel sistema filosofico del cardinale francescano, significa che l'idea dell'essere pieno, assoluto ed indefettibile è radicata in noi prima (“primo”) di ogni altra idea. Tutto ciò, infatti, ch'è privazione e difetto non si può conoscere se non riferendolo all'essere perfetto; il nostro intelletto non potrebbe giungere alla piena comprensione di nessun essere creato se non fosse sostenuto dalla conoscenza dell'essere purissimo, attualissimo, completissimo e assoluto: essere semplicemente ed essere in eterno in cui vivono nella loro purezza le ragioni di tutte le cose. “Come mai – osserva Bonaventura – l'intelletto potrebbe sapere che un dato essere è difettoso ed incompleto, se non avesse conoscenza dell'essere privo di ogni difetto?”1. Anche se non ce ne 1 Itinerarium mentis in Deum, 5.3. 1 accorgiamo, viviamo ogni momento al cospetto dell'infinito, sicché ogni giudizio ne dipende radicalmente. È quanto ci accade di solito: vediamo il colore dei fiori e le onde che si rincorrono nel mare senza considerare che tutta quella bellezza è resa possibile solo per la presenza della luce. Eppure, senza di essa, avremmo l'oscurità. Allo stesso modo è alla luce dell'essere in sé che riconosciamo quanto passa, è piccolo e limitato. 2. La giustizia, madre del diritto Ora, l'idea dell'essere ch'è signora della nostra mente compendia in sé ogni pienezza: illimitata verità, bontà in sommo grado, bellezza inesauribile, giustizia totale e senza difetto. Ciascuna di queste manifestazioni dell'essere si lega indissolubilmente alle altre giacché tutte partecipano della medesima natura. Ciò ch'è vero non può non essere insieme buono, bello e giusto. Per altro verso, l'ordine delle cose, nell'universo creato, è il prodotto di una superiore ragione che opera secondo verità; la giusta proporzione instaurata tra di esse si rivela come armonia e bene da custodire. Attratto da questi orizzonti sconfinati, il cuore dell'uomo li insegue, senza però raggiungerli e possederli. Così, quanto operiamo con i nostri sforzi, anche i più generosi – nell'arte, nella conoscenza, nelle leggi – è solo un balbettio, realizzazione inadeguata ogni volta da rivedere, ritentare, aggiustare. La realizzazione della giustizia – compito irrinunciabile per la stessa presenza dell'essere, in noi – genera le leggi definite nel tempo e nello spazio: approssimazioni deboli ed imperfette di un modello superiore che giudica la loro imperfezione. In questa prospettiva si comprende la nota affermazione di Accursio 2: “ius... ergo iustitiam habet matrem” ovunque ripresa dagli interpreti posteriori: è la giustizia a generare il diritto. Come scaturisce, però, il diritto positivo? Esso nasce, l'ho appena detto, dall'impellente esigenza di giustizia, ma la riflette solo imperfettamente. In un contesto teoretico di matrice neoplatonica la norma subisce il limite necessario della storia, della condizione umana. I primi glossatori, traendo lo spunto da un passo di Ulpiano - “il diritto civile è quello che non si discosta in tutto dal diritto naturale o delle genti, né gli obbedisce in tutto: così è che, quando aggiungiamo o togliamo qualcosa al diritto comune, produciamo il diritto proprio, cioè il diritto civile” - sono consapevoli dell'inevitabile distanza che separa la norma ideale dagli istituti giuridici volti a regolare nel concreto la società nel suo sviluppo storico. Così la schiavitù contravviene alla volontà divina che ha pensato tutti gli uomini pienamente liberi; così, ancora, la proprietà individuale si allontana dall'ideale comunione dei beni richiesta dall'eterna giustizia. Ciò non significa, tuttavia, che il precetto ideale costituisca un dato tanto lontano da riuscire inefficace: al contrario, esso permane come perenne istanza critica del diritto positivo, come meta assegnata, in faticoso cammino, alle generazioni che vivono sulla terra. Per questo motivo si può dire che il diritto posto situazionalmente dall'uomo costituisce una conquista provvisoria e in continua evoluzione. Lo ammette lo stesso Giustiniano nella costituzione Tanta, 18: se le “divinae quidem res perfectissimae sunt”, la “humani vero iuris condicio semper in infinitum decurrit et nihil est in ea, quod stare perpetuo possit: multas etenim formas natura novas deproperat” (“mentre le cose divine sono perfettissime, la condizione del diritto umano procede all'infinito e non v'è nulla, in essa, che possa restare salda in perpetuo: la natura, infatti, produce di continuo forme nuove”). Qui è davvero pronunciata la parola decisiva ed illuminante: “formae”. Il diritto è, infatti, essenzialmente forma col compito di sottrarre l'infinita varietà dei comportamenti umani all'arbitrio e al caos. Essa – la forma – introduce l'ordine desiderato e dà origine a nuovi rapporti, a nuovi negozi. D. 10.4.9.1 offre lo spunto testuale, agli interpreti medievali, per ribadire il notissimo adagio scolastico: “forma dat esse rei” (“la forma conferisce l'essere alle cose”). 2 Gl. iustitia ad D. 1.1.1. 2 3. Le beau est le frère du juste (J. Michelet) Come e in qual modo, però, il diritto si proponga fin da principio come forma non è stato ancora detto. Quando un caso è proposto all'attenzione del giurista – poniamo, l'antico giureconsulto o ancor prima, il pontefice della Roma arcaica – la sua decisione esige, da subito, una profonda riflessione. Finalmente, essa appare come una rivelazione che squarcia le nebbie dell'incertezza, del dubbio tormentoso. La regola di giustizia, a lungo cercata, appare nella sua luminosità a rischiarare le tenebre, prima fitte. Non per caso, certo, nel mondo greco-romano la legge è celebrata come dono degli dei che dall'alto perviene a questa terra. Una medesima ispirazione anima Baldo degli Ubaldi: “ut ait ille Demostenes summus stoyce sapientie philosophus, lex est inventio et donum Dei cui omnes homines obedire decet dogma omnium sapientium”3 (“come dice il famoso filosofo stoico Demostene, la legge è invenzione e dono di Dio al quale conviene che tutti gli uomini obbediscano: questo è dogma dei sapienti tutti”). A ragion veduta il verso foscoliano dei Sepolcri lega l'apparizione del diritto – o, altrimenti, la sua retta interpretazione – all'esperienza sacrale: come dimostra, ad esempio, un noto episodio che ha per protagonista Iacopo Baldovini4. Il momento in cui la la norma è trovata (l'inventio, di cui parla Baldo) spezza la successione monotona del tempo profano, sempre uguale, ponendosi come irruzione del vero, del giusto, dell'eterno, infine di quella bellezza che decora le apparizioni della giustizia celeste (“celestis instar convivii”) nelle Quaestiones de iuris subtilitatibus, della Iurisprudentia nella piacentiniana Summa cum essem Mantue, della mulier formosa che incita Bartolomeo da Saliceto a comporre il commento al Codice5. Ancor prima del giurista bolognese Dante aveva scritto che il diritto è proporzione (“proportio”)6: un termine che, da Agostino a Bonaventura7, indica ogni armonia percepita dall'uomo e costituisce l'intima, autentica legge dell'intero creato. Per altre vie Jules Michelet giungerà ad affermare che dalla manifestazione dell'ordine ritrovato scaturisce l'incanto ch'è fratello della giustizia8. Tanto basta a fare, di quel momento privilegiato, un evento memorabile che – staccato dal suo contesto storicamente determinato – diviene modello, luce che illumina dalle spalle tutti i casi analoghi che si presenteranno. L'istituzione dei μνήμονες, nella Grecia arcaica, consente proprio di osservare, nel diritto e nel culto religioso, l'avvento di una essenziale funzione sociale della memoria. Così sottratto alla morte, all'oblio, il passato vivrà nel futuro raccogliendolo sotto i propri schemi, investendoli della propria forma: già voluto che di nuovo si vuole in atto9 finché una nuova illuminazione, una nuova rivelazione non ne mostrerà i limiti, l'insufficienza, l'inadeguatezza. Allora – ma solo allora – da quel frammento di storia conservata cui si riduce, in definitiva, un libro di leggi10, 3 Ms. Barberino Latino 1410, fol. 332r. Pubblicherò tra breve larghi estratti di questo scritto, singolarmente importante. Di fronte a una antinomia inconciliabile tra due frammenti del Digesto, Iacopo trascorre la notte pregando davanti all'altare e all'alba trova la risposta alla sua domanda. Così Th. Diplovatatius, Liber de claris iuris consultis (pars posterior), ed. F. Schulz, H. Kantorowicz, G. Rabotti, Bononiae 1968 (Studia Gratiana post octava Decreti saecularia, 10), p. 103. L'episodio è ripreso da F. Calasso, Introduzione al diritto comune, Milano 1951, p. 177 e in ultimo da M. Bellomo, Elogio delle regole. Crisi sociali e scienza del diritto alle origini dell'Europa moderna, Leonforte 2012, p. 63. 5 Bartolomaei a Salyceto I.C. In primum et secundum Codicis libros commentaria. Doctissimorum quamplurium I.C. adnotationinbus illustrata... (Venetiis 1586) 2ra-rb. 6 Monarchia, 2.5. 7 Il tema, estesamente trattato nel De ordine e nel De musica, percorre in realtà tutta l'opera del vescovo di Ippona. Per Bonaventura cf. almeno l'Itinerarium, 2.5. 8 “Le beau est le frère du juste”: J. Michelet, Origines du droit français cherchées dans les symboles et formules du droit universel (Paris 1857) CXXIV. 9 F. Battaglia, Corso di filosofia del diritto, II, Il concetto del diritto (Roma 1962), 3-108. 10 O. Spengler, Il tramonto dell'Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, cur. R. Calabrese Conte, M. Cottone, F. Jesi (Milano 1981) 763. Cf. A. Padovani, 'Il diritto, un passato monumentalizzato?', Roma antica nel Medioevo. Mito, rappresentazioni, sopravvivenze nella ‘Respublica Christiana’ dei secoli IX-XIII. Atti della quattordicesima Settimana internazionale di studio, Mendola, 24-28 agosto 1998 (Milano 2001) 49-70. 4 3 sarà tolto ciò che ormai appare mero passato – ramo secco, privato di linfa vitale, trascurabile appendice di un albero che continuamente chiede di accrescersi. 4. La forma come limite Ho detto, poco sopra, “ne mostrerà i limiti, l'insufficienza e l'inadeguatezza”. È nell'ordine delle cose, perché se certo la forma dà l'essere, essa è, contestualmente ed inevitabilmente, limite. Per supremo paradosso, ciò conferisce la vita è pure ciò che, da ultimo, somministra la morte. Dire “forma” è anche dire “limite” e “finitezza” cui – alla stessa maniera delle altre cose – la norma soggiace. Non mi riferisco solo alla norma ingiusta ed ormai sorpassata da nuovi sentimenti sociali. Così Dante, nella sua celebre descrizione del diritto (richiamata poc'anzi) lo dice “proporzione tra uomo ed uomo relativa alle cose e alle persone che, finché viene conservata, conserva la società umana e che, quando si guasta, la guasta”. La questione è in realtà più estesa, perché ogni norma, scritta o non scritta, è espressa attraverso parole e da essa resta vincolata. Sebbene del tutto necessarie alla conoscenza del precetto, esse costituiscono – per così dire – un recinto talvolta insuperabile (“strictum ius, sed ius”), talaltra valicabile, quando si insegua la ratio legis piuttosto che i verba, l'equità invece che la lettera. In ogni caso la forma si pone come limite: in un caso costrittivo, vincolante; nell'altro, come testimone della propria inadeguatezza ad accogliere le esigenze della giustizia. Dalle ceneri del vecchio dettato normativo spicca il volo una nuova creatura: viva, ma a sua volta inevitabilmente costretta nel guscio di una configurazione verbale. Essa cinge il nuovo prodotto come l'armatura di un cavaliere: lo difende, lo identifica, ne custodisce la vita, ma allo stesso tempo ne limita i movimenti e talora – quando il cavaliere cade a terra – può divenire causa della sua stessa morte. Nel mondo dell'esperienza giuridica il flusso inarrestabile della vita, spesso percorso dal veleno della violenza e dell'anarchia, viene dunque raccolto – come ci insegna Manlio Bellomo – nelle reti del diritto positivo, immagine deformata della superiore giustizia ideale: “quasi per speculum” (“come in uno specchio”) si riflette, leggiamo nelle Quaestiones de iuris subtilitatibus, l'immagine della iustitia rivestita “ineffabili dignitatis habitu” (“dall'ineffabile veste della sua superiore dignità”) 11. Sappiamo bene, però, che assai raramente gli schemi precostituiti dal legislatore riescono a contenere la molteplicità e la varietà dei casi umani dedotti in giudizio. Come un vaso immerso in un ruscello non riesce a contenere che una parte soltanto dell'acqua che vi scorre, così è della previsione legislativa, che solo l'interpretazione del giurista può tentare di adeguare, con sufficiente approssimazione, al dato concreto. A questo fine soccorrono gli strumenti offerti dalla dialettica che già i primi maestri bolognesi e molto più gli interpreti successivi vennero esplorando nei trattati de modo arguendi. I luoghi dialettici – dall'autorità, dall'analogia, dall'assurdo, da maggiore o minore ragione, dalla causa all'effetto e tanti altri ancora – operano però su un terreno ch'è quello della probabilità laddove – come insegnava già Aristotele – le opinioni dei sapienti o del senso comune divergono apertamente scontrandosi in un contrasto dagli esiti incerti. La condizione umana, infatti, è talmente avvolta nel dubbio che in essa – osserva Tommaso d'Aquino - “non si può avere prova dimostrativa ed infallibile, sicché deve ritenersi sufficiente una qualche congettura probabile indotta persuasivamente dal retore”12. Chi procede attraverso argomentazioni è dunque consapevole di usare tecniche solo plausibili, esposte di continuo al contrattacco dell'avversario, mai definitive e necessarie come quelle di cui dispongono il matematico o il fisico. A ben vedere, i luoghi dialettici – specifici della scienza giuridica, 11 12 Exordium, 3. Evidente il richiamo a I Cor., 13.12. S. Th. I.II, q. 105, a. 2 ad 8: “in negotiis humanis non potest haberi probatio demonstrativa et infallibilis, sed sufficit aliqua coniecturalis probabilitas, secundum quod rhetor persuadet”. 4 oppure comuni – sono sempre forme. Sono forme precostituite, schemi di ragionamento collaudati che orientano il pensiero disciplinandolo. “Regulae ad directionem ingenii” le potremmo dire, prendendo a prestito una celebre espressione di René Descartes, che forniscono la “rectitudinis forma”13, la struttura di un argomentare diretto, semplice ed efficace al fine di persuadere chi ascolta e provocarne la fiducia. 5. Medioevo del diritto (F. Calasso) Da quanto s'è detto fino ad ora risulta con chiarezza che l'attribuzione della forma appare l'esito naturale dello spirito umano che tutto tende a ridurre ad ordine, bellezza, regolarità per esercitare su ogni dato esterno il proprio controllo. Tale funzione dello spirito non sfuggì certo all'attenzione degli uomini medievali che, anzi, trovarono nella psicologia di ascendenza aristotelica – rivisitata, tra altri, da Bonaventura e Tommaso – la ragione teoretica che la giustificava e la spiegava. Se, infatti, l'anima è forma del corpo e forma sussistente (avente l'essere in proprio), non soltanto essa è in grado di conoscere la forma che esiste nella materia corporea, ma ancor più, proietta sul mondo esteriore l'ordine, la misura, l'armonia di cui essa stessa vive e verso cui tende14. Per sua stessa essenza l'anima è liberamente creatrice a somiglianza ed immagine di quel Dio ch'è – come afferma Teodorico di Chartres – “forma formarum”, dal momento che “mens divina generat et concipit intra se formas, id est naturas rerum” (“la mente divina genera e concepisce entro di sé le forme, cioè le nature delle cose”)15. Il conferimento dell'ordine al caos primordiale appartiene alla parola divina creatrice che “nihil aliud est quam in coeterna sibi sapientia future rei formam disponere” (“non fa altro che disporre la forma delle cose future nella sapienza che le è coeterna”). Per questo ogni cosa viene all'esistenza determinata nella misura, nel numero e nel peso16: dunque circoscritta nella forma che la fa essere ciò che è. L'intera civiltà medievale, nella varietà delle sue espressioni, è animata dalla ricerca della forma perché essa costituisce la via verso la bellezza, l'ordine, la giustizia e la verità opposte alla deformità, all'imprevisto, alla violenza, all'errore. Posta questa premessa, diviene agevole comprendere il motivo per il quale nessuna altra età concepì il diritto come una delle espressioni più alte dello spirito. Roma, certo, fu patria delle leggi: ma la riflessione dei giuristi, da Bologna in poi, vide quelle leggi partecipi dell'ordine cosmico voluto da Dio. In origine e al più alto livello, anzi, il Logos-Verbo è la prima regola dell'universo creato, norma suprema dell'essere, modello esemplare di ogni regolarità osservabile in natura – diritto naturale – e tentativamente attuata dall'uomo vivente in società – diritto positivo. Proprio il vincolo strettissimo che strinse insieme teologia e diritto fece di quest'ultimo il carattere distintivo dell'età di mezzo: al punto che forse per questa ragione Francesco Calasso intitolò il suo più celebre lavoro “Medioevo del diritto”. Quasi, appunto, che quel grande maestro avesse voluto significare, con quelle parole, l'epopea – probabilmente irripetibile – di una espressione spirituale, il diritto, che allora raccolse e compendiò in sé le più profonde istanze, le più alte tensioni di un'intera civiltà. La reductio ad unum che più volte ritroviamo come motivo caratterizzante le pagine calassiane può essere colta – se non mi inganno – quale centro aggregante di varie ispirazioni etiche, religiose, sociali e politiche attorno a un centro, il diritto, appunto, inteso come forma e regola. Termini, entrambi, ai quali approda, da ultimo, lo splendido saggio di Manlio Bellomo. 6. L'età moderna. Il mito di Faust Se le mie riflessioni colgono nel segno – il tentativo di ripercorrere in breve la genesi del diritto 13 Gl. non est novum ad X, De regulis iuris, 1. S. Th., I, q. 85, a. 1. 15 E. Maccagnolo, Rerum universitas (saggio sulla filosofia di Teodorico di Chartres) (Firenze 1976) 43. 16 Sapientia, 11.21. 14 5 nel mondo antico e medievale e il suo innestarsi nella cultura di quelle età – se, dicevo, questa mia lettura appare condivisibile, si può meglio comprendere la distanza che separa la modernità da quelle epoche. A mio parere, uno dei caratteri culturali che identificano il nostro tempo è dato dall'abbandono della nozione di forma. “Formale” ha ormai assunto un significato prevalentemente negativo, almeno nel linguaggio corrente, a designare gli aspetti esteriori, meramente convenzionali di una attività umana o di un sistema di vita. Di contro, si vorrebbe privilegiare ciò ch'è “sostanziale” e “reale”, però dimenticando che nella sua accezione originaria “sostanza” è sinolo – convergenza – di forma e di materia. Rimossa la forma, resta solo quella materia che non a caso Aristotele diceva prossima al nulla. Non è certo, di nuovo, mia intenzione ripercorrere la vicenda assai complessa che ci ha condotto a questo esito. Mi soffermerò sul primo, forse l'unico mito del mondo moderno, quello di Faust. Posto di fronte al prologo del vangelo di Giovanni, l'eroe di Goethe sospira: “Eccomi al primo intoppo, io non ardisco... Ecco: ho trovato! E a cuor tranquillo scrivo: 'In principio era l'azione'”. Così è spezzata la legge dell'essere con la forza dell'azione: l'uomo diviene il Titano, l'individuo eslege ed eccezionale, lo spirito vulcanico che penetra con violenza nelle leggi della natura. Prima Karl Marx, poi Max Stirner, infine Thomas Mann (per non citare che pochi nomi) hanno visto disegnato, nel Faust goethiano, il fervido dinamismo dell'era moderna (non solo borghese) che nessun limite presuppone alla volontà di vita, di potenza, di azione per l'azione: “in Angang war die Tat”. A ragion veduta, pertanto, i massimi esponenti dell'Idealismo videro nel personaggio di Goethe la tragedia filosofica assoluta, poiché in essa si intravede una tensione infinita destinata a mai placarsi. Senza obiettivi e senza meta. Infranto il vincolo necessario che lega l'universo all'eterno Logos – la “sapienza eterna di Dio, manifestata in tutte le cose e massimamente nella mente umana” di cui ancora scriveva Spinoza nella lettera 73 ad Oldenburg – all'uomo moderno non è restato che il potere di una libertà assoluta, tragico privilegio, come dice Sartre, di una esistenza senza essenze e senza forma. Il punto di svolta è segnato dalla rottura col pensiero greco e medievale che vede la libertà nell'obbedienza alla verità (“liberi in veritate”); in breve, la massima è stata capovolta: “liberi dalla verità”, dalla forma prima dell'essere che conferisce ordine alle cose (Baldo degli Ubaldi: “ordo est modus entium”17). La domanda di libertà radicale che contrassegna i nostri tempi, in quanto vocata ad infrangere ogni limite dato, rifiuta di conseguenza il limite ch'è intrinseco alla nozione di forma. I contraccolpi di siffatta impostazione teoretica si avvertono nell'arte come nell'esperienza del diritto. Prima nell'arte. Così Marinetti, nei suoi manifesti: “I nostri corpi – proclama – entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano”. In pagine lucidissime Nicolaj Berdjaev18 commenta così quelle parole: “Vengono violati tutti i confini solidi dell'essere, tutto perde la cristallinità, si sfalda, si polverizza. L'uomo trapassa negli oggetti, gli oggetti nell'uomo, un oggetto sconfina nell'altro, tutte le superfici si spostano, tutti i piani dell'essere si confondono”. La libera creazione dell'artista ha liquefatto il mondo, ne ha distrutto i confini ai quali s'erano disciplinatamente attenuti gli antichi suoi predecessori. Da ultimo è incenerita l'immagine dell'uomo che – conclude Berdiaev - “ha sempre preso forza dall'immagine, distinta da lui, del mondo materiale”. Resta da parlare del diritto, che qui ci interessa. Le diagnosi della malattia che oggi ne percorre il corpo e la mente ormai non si contano, tanto sono numerose e diversificate. Dal mio punto di vista – per quello che conta – la sua crisi è inseparabile da quella del mondo nel quale ci è toccato di vivere. In 17 Baldi Ubaldi Perusini iureconsulti omnium suae tempestatis celeberrimi, ingenio acutissimi, sensuque profundissimi in Sextum Codicis librum commentaria, doctissimorum hominum aliis omnibus hactenus impressis adnotationibus illustrata... (Venetiis 1586) 118rb, n. 7 ad C. 6.33 (Quaestio de schismate); Id., In primum Digesti Veteris partem commentaria (Venetiis 1586) 1rb, nn. 1-4, Prohemium. 18 S. Bulgakov-N. Berdjaev, Il cadavere della bellezza: la crisi dell'arte. Postfazione di M. Vallora (Milano 2012) 6 breve, la rottura con la tradizione degli antichi seppur prodottasi, dapprima, in ambito teoretico non ha tardato ad imprimersi nei comportamenti sociali, nel sentire collettivo. Se si vuole restare ancorati alla definizione di verità propagata più di sette secoli fa da san Tommaso – “adeguazione tra l'intelletto e la realtà”19 – è evidente che la dissoluzione del concetto di forma, attraverso la quale opera l'intellectus, trascina con sé la distruzione della res – la realtà tutta, ormai indistinguibile dal virtuale – e della ragione, privata dei suoi punti di riferimento non più dati come oggettivi ma liberamente creati dalla volontà individuale. In questo contesto storico proporre di nuovo, con forza appassionata, l'elogio delle regole può apparire operazione inattuale, appello destinato a risuonare nel deserto, vagheggiamento di un mondo eclissatosi per sempre, senza speranza di ritorno. Eppure, se nel paesaggio che ci circonda molte luci si sono spente, una resta ancora accesa, e dentro di noi: quella che esigendo l'infinito ha destato e desta perennemente l'aspirazione all'essere ideale, perciò all'eterna bellezza e alla indefettibile giustizia. La verità che non siamo noi, ma abita in noi è voce che nessuna forza umana, nessuna crisi, nessuna contingenza storica può ridurre al silenzio. 19 Quaestio disputata de veritate, q.1, a. 1; Summa contra Gentiles, 59.1; S. Th., 1, q. 16, a. 2: “Cum autem omnis res sit vera secundum quod habet propriam formam naturae suae, necesse est quod intellectus, inquantum est cognoscens, sit verus inquantum habet similitudinem rei cognitae, quae est forma eius inquantum est cognoscens”. È noto che la formul7a, destinata ad essere comunissima nel pensiero scolastico, appartiene ad un filosofo giudeo, Isaac ben Salomon Israeli, vissuto in Egitto tra l'850 e il 950. 7