L`utilità dell`inutile: Manifesto

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L`utilità dell`inutile: Manifesto
Non è vero – neanche in tempo di crisi – che è utile solo ciò che produce pro tto. Esistono, nelle democrazie mercanti
saperi ritenuti “inutili” che invece si rivelano di una straordinaria utilità.
In questo brillante e originale saggio, Nuccio Ordine attira la nostra attenzione sull’utilità dell’inutile e sull’inutilità dell’uti
Attraverso le ri essioni di grandi
loso
(Platone, Aristotele, Zhuang-zi, Pico della Mirandola, Montaigne, Brun
Campanella, Bacone, Kant, Tocqueville, Newman, Poincaré, Heidegger, Bataille) e di grandi scrittori (Ovidio, Dante, Petrarc
Boccaccio, Alberti, Ariosto, Moro, Shakespeare, Cervantes, Milton, Lessing, Leopardi, Hugo, Gautier, Dickens, Herze
Baudelaire, Stevenson, Kakuzo Okakura, García Lorca, García Márquez, Ionesco, Calvino, Foste Wallace), Nuccio Ordi
mostra come l’ossessione del possesso e il culto dell’utilità niscano per inaridire lo spirito, mettendo in pericolo non solo
scuole e le università, l’arte e la creatività, ma anche alcuni valori fondamentali come la dignitas hominis, l’amore e la verit
Abraham Flexner – nel suo a ascinante saggio tradotto per la prima volta in italiano – ricorda che pure le scienze
insegnano l’utilità dell’inutile. Eliminando la gratuità e l’inutile, uccidendo quei lussi ritenuti super ui, di cilmente l’hom
sapiens potrà rendere più umana l’umanità.
Nuccio Ordine (Diamante, 1958) è professore ordinario di Letteratura Italiana nell’Università della Calabria. A Giordan
Bruno ha dedicato tre libri, tradotti in nove lingue, tra cui cinese, giapponese e russo: La cabala dell’asino (19962), La sog
dell’ombra (20093) e Contro il Vangelo armato (20092). Ha pubblicato anche: Teoria della novella e teoria del riso n
Cinquecento (20092), Le rendez-vous des savoirs (20092), Trois couronnes pour un roi (2011, Bompiani 2014), Les portraits
Gabriel García Márquez (2012). Fellow dell’Harvard University Center for Italian Renaissance Studies e della Alexander vo
Humboldt Stiftung, è stato invitato in qualità di Visiting Professor in diversi istituti di ricerca e università negli Stati Un
(Yale, NYU) e in Europa (EHESS, ENS, Paris-IV Sorbonne, CESR di Tours, IEA Paris, Warburg Institute, Max Planck
Berlino). È Membro d’Onore dell’Istituto di Filoso a dell’Accademia Russa delle Scienze (2010) e ha ricevuto una laur
honoris causa nell’Universidade Federal do Rio Grande do Sul di Porto Alegre (2012). È stato insignito in Francia delle Palm
Accademiche (2009) e il Presidente della Repubblica gli ha concesso la Légion d’Honneur (2012). Il Presidente de
Repubblica lo ha nominato Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2010). In Francia dirige, con
Hersant, tre collane di classici (Les Belles Lettres) e in Italia la collana “Classici della letteratura europea” (Bompian
Collabora al “Corriere della Sera”.
L’UTILITÀ DELL’INUTILE
NUCCIO ORDINE
L’UTILITÀ DELL’INUTILE
MANIFESTO
Con un saggio di Abraham Flexner
Nuccio ordine, L’utilité de l’inutile [AbrAhAm FlexNer, De l’utilité
du savoir inutile], Paris, Les Belles Lettres, 2013
Questa edizione italiana è una versione accresciuta e rivista della prima edizione francese.
© 2013 Nuccio Ordine
© 2013 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-58-76277-6
Prima edizione digitale 2013 da edizione Bompiani settembre 2013
Cover: Polystudio
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
A Rosalia
INTRODUZIONE
di Nuccio Ordine
E il ruolo della
loso a è proprio quello di rivelare agli uomini l’utilità
dell’inutile o, se si vuole, di insegnare loro a distinguere tra i due sensi
della parola utile.
Pierre Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique
L’ossimoro evocato dal titolo L’utilità dell’inutile merita un chiarimento. La paradossa
utilità di cui parlo non è la stessa in nome della quale i saperi umanistici e, più in genera
tutti i saperi che non producono pro tto, vengono considerati inutili. In un’accezione molt
più universale, ho voluto mettere al centro delle mie ri essioni l’idea di utilità di quei sape
il cui valore essenziale è completamente libero da qualsiasi nalità utilitaristica. Esiston
saperi ne a se stessi che – proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana d
ogni vincolo pratico e commerciale – possono avere un ruolo fondamentale nella coltivazion
dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità. All’interno di questo contesto
considero utile tutto ciò che ci aiuta a diventare migliori.
Ma la logica del pro tto mina alle basi quelle istituzioni (scuole, università, centri d
ricerca, laboratori, musei, biblioteche, archivi) e quelle discipline (umanistiche e scienti che
il cui valore dovrebbe coincidere con il sapere in sé, indipendentemente dalla capacità d
produrre guadagni immediati o bene ci pratici. Certo, molto spesso i musei o i si
archeologici possono anche essere fonte di straordinari introiti. Ma la loro esistenz
contrariamente a ciò che alcuni vorrebbero farci credere, non può essere subordinata
successo degli incassi: la vita di un museo o di una scavo archeologico, come quella di u
archivio o di una biblioteca, è un tesoro che la collettività deve gelosamente preservare
ogni costo.
Ecco perché non è vero che in tempo di crisi economica tutto è permesso. Così come, per
stesse ragioni, non è vero che le oscillazioni dello spread possano giusti care la sistematic
distruzione di ogni cosa considerata inutile con il rullo compressore dell’in essibilità e de
taglio lineare alla spesa. Ormai l’Europa sembra un teatro sul cui palcoscenico si esibiscon
quotidianamente soprattutto creditori e debitori. Non c’è riunione politica o vertice dell’alt
nanza in cui l’ossessione dei bilanci non costituisca l’unico punto all’ordine del giorno. In u
vortice che si avvita su se stesso, le legittime preoccupazioni per la restituzione del debit
vengono esasperate a tal punto da provocare e etti diametralmente opposti a quel
desiderati. Il farmaco della dura austerità, come hanno osservato diversi economisti, anzich
risanare il malato lo indebolisce ancora di più inesorabilmente. Senza chiedersi per qua
ragioni le aziende e gli Stati si siano indebitati – il rigore, stranamente, non intacca
corruzione dilagante e i favolosi stipendi di ex politici, manager, banchieri e superconsulent
–, i molteplici registi di questa deriva recessiva non sono per nulla turbati dal fatto che
pagare siano soprattutto la classe media e i più deboli, milioni di esseri umani innocen
espropriati della loro dignità.
Non si tratta di sfuggire stupidamente alla responsabilità dei conti che non tornano. Ma no
è neanche possibile ignorare la sistematica distruzione di qualsiasi forma di umanità e d
solidarietà: le banche e i creditori reclamano senza pietà, come Shylock ne Il Mercante
Venezia, la libbra di carne viva di chi non può restituire il debito. Così, con crudeltà, molt
aziende (che hanno goduto, per decenni, della privatizzazione dei pro tti e del
socializzazione delle perdite) licenziano gli operai, mentre i governi sopprimono i posti d
lavoro, l’istruzione, l’assistenza sociale per i disabili e la sanità pubblica. Il diritto di aver
diritti – per riprendere un importante saggio di Stefano Rodotà, il cui titolo evoca una frase d
Hannah Arendt – viene, di fatto, subordinato al dominio del mercato, con il rischi
progressivo di cancellare qualsiasi forma di rispetto per la persona. Trasformando gli uomin
in merce e in denaro, questo perverso meccanismo economico ha dato vita a un mostro, senz
patria e senza pietà, che nirà per negare anche alle future generazioni qualsiasi forma d
speranza.
Gli ipocriti sforzi per scongiurare la fuoriuscita della Grecia dall’Europa – ma le stess
ri essioni potrebbero valere per l’Italia o per la Spagna – sono frutto di un cinico calcolo (
prezzo da pagare sarebbe ancora più grande di quello provocato dal mancato rimborso d
debito stesso) e non di un’autentica cultura politica fondata sull’idea che un’Europa senza
Grecia sarebbe inconcepibile, perché i saperi occidentali a ondano le loro remote radici nell
lingua e nella civiltà greca. I debiti contratti con le banche e con la nanza possono avere
forza di cancellare con un solo colpo di spugna i più importanti debiti che, nel corso dei secol
abbiamo contratto con chi ci ha o erto in dono uno straordinario patrimonio artistico
letterario, musicale e filosofico, scientifico e architettonico?
In questo brutale contesto, l’utilità dei saperi inutili si contrappone radicalmente all’utilit
dominante che, in nome di un esclusivo interesse economico, sta progressivamente uccidend
la memoria del passato, le discipline umanistiche, le lingue classiche, l’istruzione, la liber
ricerca, la fantasia, l’arte, il pensiero critico e l’orizzonte civile che dovrebbe ispirare ogn
attività umana. Nell’universo dell’utilitarismo, infatti, un martello vale più di una sinfonia, u
coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro: perché è facile capir
l’e cacia di un utensile mentre è sempre più di cile comprendere a cosa possano servire l
musica, la letteratura o l’arte.
Già Rousseau aveva notato che gli “antichi politici parlavano senza posa di costumi e d
virtù; i nostri non parlano che di commercio e di denaro”. Quelle cose che non producon
pro tto, infatti, vengono considerate come un lusso super uo, come un pericoloso ostacolo
“Tutto ciò che non è utile viene disdegnato,” osserva Diderot, perché “il tempo è tropp
prezioso per perderlo in speculazioni oziose”.
Basta rileggere gli splendidi versi di Charles Baudelaire per cogliere il disagio del poet
albatros, gigantesco dominatore dei cieli che, una volta disceso tra gli uomini, viene deriso d
un pubblico attratto da ben altri interessi (“Com’è go o e incapace, il viaggiatore aligero!
Lui, così bello, com’è bu o, com’è brutto!/ Gli mettono la pipa sotto il becco, o lo mimano,
zoppicando, il malfermo che dianzi volava!” [“Ce voyageur ailé, comme il est gauche e
veule!/ Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid!/ L’un agace son bec avec un brûl
guele,/ L’autre mime, en boitant, l’in rme qui volait!”]). E non senza un’ironica desolazion
Flaubert nel suo Dizionario dei luoghi comuni de nisce la poesia come “del tutto inutile
perché “fuori moda” e il poeta come “sinonimo di scemo” e di “sognatore”. A nulla sembr
essere valso il sublime verso nale di una lirica di Hölderlin in cui si ricorda il ruol
fondatore del poeta: “Ma solo il poeta fonda ciò che resta” (“Was bleibet aber, stiften d
Dichter”).
Le pagine che seguono non hanno nessuna pretesa di formare un testo organico. Ri etton
la frammentarietà che le ha ispirate. Perciò anche il sottotitolo – Manifesto – potrebb
sembrare sproporzionato e ambizioso se non fosse giusti cato dallo spirito militante che h
costantemente animato questo mio lavoro. Ho voluto solo raccogliere, all’interno di u
contenitore aperto, citazioni e pensieri collezionati in tanti anni di insegnamento e di ricerc
E l’ho fatto nella più totale libertà, senza alcun vincolo e con la coscienza di aver sol
abbozzato un ritratto incompleto e parziale. E come spesso accade nei orilegi e nell
antologie, le assenze niscono per essere più signi cative delle presenze. Consapevole d
questi limiti, ho suddiviso il mio saggio in tre parti: la prima dedicata al tema dell’uti
inutilità della letteratura; la seconda consacrata agli e etti disastrosi prodotti dalla logica de
pro tto nel campo dell’insegnamento, della ricerca e delle attività culturali in generale; nel
terza parte, utilizzando qualche brillante esempio, ho riletto alcuni classici che, nel corso d
secoli, hanno mostrato la carica illusoria del possedere e i suoi e etti devastanti sulla dignita
hominis, sull’amore e sulla verità.
Ho pensato di a ancare alle mie brevi ri essioni anche un eccellente (e purtroppo poc
conosciuto) saggio di Abraham Flexner del 1937, poi ripubblicato nel 1939 con nuov
aggiunte, che per la prima volta viene tradotto in italiano. Tra i più autorevoli fondato
dell’Institute for Advanced Study di Princeton – nato proprio con lo scopo di proporre un
quête libera da qualsiasi vincolo utilitaristico e ispirata esclusivamente dalla curiositas dei suo
illustri membri, tra cui vorrei almeno ricordare Albert Einstein e Julius Robert Oppenheime
–, questo celebre scienziato-pedagogo americano ci presenta un a ascinante racconto dell
storia di alcune grandi scoperte per mostrare come proprio le ricerche scienti che teorich
considerate più inutili, perché prive di qualsiasi scopo pratico, hanno inaspettatament
favorito applicazioni, dalle telecomunicazioni all’elettricità, rivelatesi poi fondamentali pe
l’umanità.
Il punto di vista di Flexner mi è sembrato molto e cace per sgombrare il campo da ogn
equivoco: creare contrapposizioni tra saperi umanistici e saperi scienti ci – come è più volt
accaduto a partire dagli anni cinquanta, dopo il famoso saggio di Charles Percy Snow
avrebbe inevitabilmente fatto scivolare il dibattito nelle sabbie mobili di una steri
polemica. E, soprattutto, avrebbe confermato un totale disinteresse per la necessaria unità d
saperi – per quella indispensabile nouvelle alliance, su cui ha scritto pagine illuminanti
premio Nobel Ilya Prigogine – purtroppo oggi sempre più minacciata dalla parcellizzazione
dalla ultraspecializzazione delle conoscenze. Flexner ci mostra egregiamente che la scienza h
molto da insegnarci sull’utilità dell’inutile. E che, assieme agli umanisti, anche gli scienzia
hanno giocato e giocano un ruolo importantissimo nella battaglia contro la dittatura d
profitto, per difendere la libertà e la gratuità della conoscenza e della ricerca.
Del resto, la coscienza della di erenza tra una scienza puramente speculativa
disinteressata e una scienza applicata era ampiamente di usa tra gli antichi, com
testimoniano le ri essioni di Aristotele e alcuni aneddoti attribuiti a grandi scienziati de
calibro di Euclide e di Archimede.
Si tratta di questioni a ascinanti che potrebbero però condurci troppo lontano. Ora m
preme sottolineare la vitale importanza di quei valori che non si possono pesare e misura
con strumenti tarati per valutare la quantitas e non la qualitas. E, nello stesso tempo
rivendicare il carattere fondamentale di quegli investimenti che producono ritorni no
immediati e, soprattutto, non monetizzabili.
Il sapere si pone di per sé come un ostacolo al delirio d’onnipotenza del denaro
dell’utilitarismo. Tutto si può comprare, è vero. Dai parlamentari ai giudici, dal potere
successo: ogni cosa ha il suo prezzo. Ma non la conoscenza: il prezzo da pagare per conoscer
è di ben altra natura. Neanche un assegno in bianco potrà consentirci di acquisir
meccanicamente ciò che è esclusivo frutto di uno sforzo individuale e di una inesauribi
passione. Nessuno, insomma, potrà compiere al nostro posto quel faticoso percorso che
permetterà di apprendere. Senza grandi motivazioni interiori, la più prestigiosa laure
acquistata con i soldi non ci apporterà nessuna vera conoscenza e non favorirà nessun
autentica metamorfosi dello spirito.
Già Socrate lo aveva spiegato ad Agatone, quando nel Simposio contesta l’idea che
conoscenza possa essere trasmessa meccanicamente da un essere umano all’altro come l’acqu
che scorre attraverso un filo di lana da un recipiente pieno a uno vuoto:
Sarebbe davvero bello, Agatone, se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, solo che ci
mettessimo in contatto l’uno con l’altro, come l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un lo di lana da quella più
piena a quella più vuota.
Ma c’è di più. Solo il sapere può s dare ancora una volta le leggi del mercato. Io poss
mettere in comune con gli altri le mie conoscenze senza impoverirmi. Posso insegnare a u
allievo la teoria della relatività o leggere assieme a lui una pagina di Montaigne dando vita
un miracoloso processo virtuoso in cui si arricchisce, nello stesso tempo, chi dona e ch
riceve.
Certo non è facile capire, nel nostro mondo dominato dall’homo oeconomicus, l’utilit
dell’inutile e, soprattutto, l’inutilità dell’utile (quanti beni di consumo non necessari
vengono venduti come indispensabili?). Fa male vedere gli esseri umani, ignari del
crescente deserti cazione che so oca lo spirito, consacrati esclusivamente ad accumular
soldi e potere. Fa male vedere trionfare nelle televisioni e nei media nuove rappresentazion
del successo, incarnate nell’imprenditore che riesce a creare un impero tru ando o nell’uom
politico impunito che umilia il Parlamento facendo votare leggi ad personam. Fa male veder
uomini e donne impegnati in una folle corsa verso la terra promessa del guadagno, dove tutt
ciò che li circonda – la natura, gli oggetti, gli altri esseri umani – non suscita alcun interess
Lo sguardo puntato sull’obiettivo da raggiungere non permette più di cogliere la gioia d
piccoli gesti quotidiani e di scoprire la bellezza che pulsa nelle nostre vite: in un tramonto, i
un cielo stellato, nella tenerezza di un bacio, in un ore che sboccia, in una farfalla che vol
nel sorriso di un bambino. Perché, spesso, la grandezza si percepisce meglio proprio nel
cose più semplici.
“Se non si comprende l’utilità dell’inutile, l’inutilità dell’utile, non si comprende l’arte” h
osservato giustamente Eugène Ionesco. E non a caso, molti anni prima, Kakuzo Okakura, n
descrivere il rituale del tè, aveva individuato nel piacere di raccogliere un ore per regalarl
alla propria compagna il momento preciso in cui la specie umana si era elevata al di sopr
degli animali: “Quando intuì l’uso che si poteva fare dell’inutile – spiega lo scrittor
giapponese ne Lo Zen e la cerimonia del tè – l’uomo fece il suo ingresso nel regno dell’arte”. I
un solo colpo, un doppio lusso: il ore (l’oggetto) e l’atto di raccoglierlo (il gesto
rappresentano entrambi l’inutile, mettendo in discussione il necessario e il profitto.
I veri poeti sanno bene che solo lontano dal calcolo e dalla fretta è possibile coltivare
poesia: “Essere artisti – confessa Rainer Maria Rilke in un passaggio delle Lettere a un giovan
poeta – vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suo
succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non poss
venire”. I versi non si piegano alla logica della precipitazione e dell’utile. Anzi, talvolta, com
suggerisce il Cirano di Edmond Rostand nelle battute nali della pièce, l’inutile è necessari
per rendere ogni cosa più bella: “Che dite?… È vana… la resistenza adesso,/ ma non si pugn
nella speranza del successo!/ No, no: più bello è battersi quando è in vano” (“Que ditesvous
… C’est inutile?… Je le sais!/ Mais on ne se bat pas dans l’espoir du succès!/ Non! non, c’e
bien plus beau lorsque c’est inutile!”).
Abbiamo bisogno dell’inutile come abbiamo bisogno per vivere delle funzioni vita
essenziali. “La poesia, – ci ricorda ancora Ionesco – il bisogno di immaginare, di creare
fondamentale quanto quello di respirare. Respirare è vivere e non evadere dalla vita
Proprio questo respiro, come evidenzia Pietro Barcellona, viene a esprimere “l’eccedenz
della vita rispetto alla vita stessa,” diventando “energia che circola in forma invisibile e ch
va oltre la vita, pur essendo immanente alla vita”. È nelle pieghe di quelle attivit
considerate super ue, infatti, che possiamo percepire lo stimolo a pensare un mond
migliore, a coltivare l’utopia di poter attenuare, se non cancellare, le di use ingiustizie e l
penose disuguaglianze che pesano (o dovrebbero pesare) come un macigno sulle nostr
coscienze. Soprattutto nei momenti di crisi economica, quando le tentazioni dell’utilitarismo
del più bieco egoismo sembrano essere l’unica stella e l’unica ancora di salvezza, bisogn
capire che proprio quelle attività che non servono a nulla potrebbero aiutarci a evadere dal
prigione, a salvarci dall’as ssia, a trasformare una vita piatta, una non-vita, in una vita uid
e dinamica, orientata dalla curiositas per lo spirito e per le umane cose.
Se il bio sico e losofo Pierre Lecomte du Noüy ci ha invitato a ri ettere sul fatto ch
“nella scala degli esseri, solo l’uomo compie atti inutili,” due psicoterapeuti (Migu
Benasayag e Gérard Schmit) ci suggeriscono che “l’utilità dell’inutile è l’utilità della vita, del
creazione, dell’amore del desiderio,” perché “l’inutile produce ciò che ci è più utile, che
crea senza scorciatoie, senza guadagnare tempo, al di là del miraggio creato dalla società
Ecco perché Mario Vargas Llosa, in occasione del conferimento del premio Nobel nel 2010, h
giustamente evidenziato che un “mondo senza letteratura si trasformerebbe in un mond
senza desideri né ideali né disobbedienza, un mondo di automi privati di ciò che rende uman
un essere umano: la capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in un altro, in altri, modella
dall’argilla dei nostri sogni”.
E chissà se attraverso le parole di Mrs Erlynne – “Nella vita moderna il super uo è tutto”
Oscar Wilde (ricordandosi probabilmente di un celebre verso di Voltaire: “le super u, chos
très necéssaire” [“il super uo, cosa necessarissima”]) non abbia voluto alludere proprio all
superfluità del suo stesso mestiere di scrittore. A quel “di più” che – lontano dal connotare, i
negativo, una “superfetazione” o un qualcosa di “sovrabbondante” – esprime, invece, ciò ch
eccede il necessario, ciò che non è indispensabile, ciò che va oltre l’essenziale. Quindi, ciò ch
viene a coincidere con l’idea vitale di un usso che scorre rinnovandosi continuament
(fluěre) e anche – come aveva già accennato qualche anno prima nella prefazione a Il ritratto
Dorian Gray: “Tutta l’arte è perfettamente inutile” – con la nozione stessa di inutilità.
A pensarci bene, però, un’opera d’arte non chiede di venire al mondo. O meglio, ricorrend
ancora una volta a una splendida ri essione di Ionesco, l’opera d’arte “chiede di nascere” all
stessa maniera di “come il bambino chiede di nascere”: “Il bambino non nasce per la società
ci spiega il drammaturgo – benché la società se ne impadronisca. Egli nasce per nascer
Anche l’opera d’arte nasce per nascere, s’impone al suo autore, chiede di esistere senza tene
conto o senza domandarsi se è richiesta o no dalla società”. Ciò non toglie che la società poss
“appropriarsi dell’opera d’arte”: e anche se “può utilizzarla come vuole” – “può condannarla
o “può distruggerla” – rimane il fatto che “l’opera d’arte può adempiere o no a una funzion
sociale, ma essa non è questa funzione sociale” (p. 140). E se “è assolutamente necessario ch
l’arte serva a qualcosa, io dirò – conclude Ionesco – che deve servire ad insegnare alla gent
che ci sono attività che servono a nulla e che è indispensabile che ve ne siano” (p. 142).
Senza questa consapevolezza, sarebbe di cile capire un paradosso della storia: proprio ne
momento in cui la barbarie prende il sopravvento, l’accanimento del fanatismo si rivolge no
solo contro gli esseri umani ma anche contro le biblioteche e le opere d’arte, contro
monumenti e i grandi capolavori. La furia distruttrice si abbatte su quelle cose ritenut
inutili: il saccheggio della biblioteca reale di Luoyang operato dagli Xiongnu in Cina, il rog
dei manoscritti pagani ad Alessandria decretato dall’intolleranza del vescovo Teo lo, i lib
eretici consumati nelle amme dell’Inquisizione, le opere eversive distrutte negli autodaf
messi in scena dai nazisti a Berlino, gli splendidi buddha di Bamiyan rasi al suolo dai taleban
in Afghanistan o ancora i manoscritti del Sahel e le statue di Alfarouk a Timbuctù minacciat
dagli jihadisti. Cose inutili e inermi, silenziose e ino ensive, ma percepite come un pericol
per il semplice fatto di esistere.
Nelle macerie di un’Europa distrutta dalla cieca violenza della guerra, Benedetto Croc
individua i segni dell’avvento dei nuovi barbari, capaci di polverizzare in un solo momento
lunga storia di una grande civiltà:
[…] quando gli spiriti barbarici [riprendono vigore] non solo soverchiano e opprimono gli uomini che la [civiltà]
rappresentano, ma si volgono a disfarne le opere che erano a loro strumenti di altre opere, e distruggono monumenti
di bellezza, sistemi di pensieri, tutte le testimonianze del nobile passato, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando
musei e biblioteche e archivi […]. Di ciò di esempi non occorre cercarli nelle storie remote, perché le offrono quelle dei
giorni nostri in tanta copia che perfino se n’è in noi attutito l’orrore.
Ma anche chi erige muraglie, come ci ricorda Jorge Luis Borges, può facilmente incenerire
libri nelle fiamme di un rogo, perché in entrambi i casi si finisce per “bruciare il passato”:
Lessi giorni addietro, che l’uomo che ordinò l’edi cazione della quasi in nita muraglia cinese fu quel primo
imperatore, Shi Huang Ti, che dispose anche che venissero date alle amme tutti i libri scritti prima di lui. Il fatto che
le due vaste imprese – le cinque o seicento leghe di pietra opposte ai barbari, la rigorosa abolizione della storia, cioè
del passato – procedessero da una persona e fossero in un certo modo i suoi attributi, inesplicabilmente mi soddisfece
e, al tempo stesso, mi inquietò.
Il sublime scompare quando l’umanità, essendo precipitata nella parte bassa della ruot
della Fortuna, tocca il fondo. L’uomo diventa sempre più povero proprio mentre crede d
arricchirsi: “se, a ogni piè sospinto, inganni e defraudi, cerchi e combini a ari – ammonisc
Cicerone nei Paradossi degli Stoici – derubi e togli con la violenza, se rapini i tuoi soci, s
depredi l’erario […] – allora, dimmi: tutti questi sono comportamenti tipici di chi si trov
nella più grande abbondanza di beni o di chi ne è totalmente privo?”
Non a caso nelle pagine nali del trattato Del sublime, una delle più importanti oper
antiche di critica letteraria che ci siano pervenute, lo pseudo-Longino individua con chiarezz
le cause che hanno prodotto la decadenza dell’eloquenza e del sapere a Roma, impedendo
nascita di grandi scrittori dopo la ne del regime repubblicano: “la brama di ricchezze, per
quale tutti noi siamo insaziabilmente malati [ci porta] alla schiavitù […]. L’amore per
denaro è una malattia che rimpicciolisce l’animo” (XLIV, 6, p. 209). Inseguendo questi fal
idoli, l’uomo egoista non rivolge “più il suo sguardo verso l’alto” e nisce per disseccare “
grandezza spirituale” (XLIV, 8, pp. 209-211). In questo degrado morale, “quando
corruzione è arbitro dell’intera vita di ciascuno di noi,” non c’è spazio per nessun tipo d
sublime (XLIV, 8, p. 211). Ma il sublime, ci ricorda ancora lo pseudo-Longino, per esistere h
anche bisogno della libertà: “La libertà, si dice, è quel che basta a nutrire i sentimenti deg
spiriti grandi, a dar loro speranza” (XLIV, 2, p. 205).
All’amore per il denaro anche Giordano Bruno attribuisce la distruzione della conoscenza
dei valori essenziali su cui si fonda la vita civile: “La saggezza e la giustizia – scrive nel D
immenso – iniziarono ad abbandonare la Terra allorquando i dotti, organizzati in sett
cominciarono ad usare la loro dottrina a scopo di lucro. […] Sia la religione che la loso
giacciono annullate da simili atteggiamenti, sia gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolt
rovinati, banditi assieme ai saggi, ai principi e ai popoli.”
Finanche John Maynard Keynes, padre della macroeconomia, ha rivelato in una conferenz
del 1928, che “gli dèi” su cui si fonda la vita economica sono inevitabilmente geni del mal
Di un male necessario che per “almeno un altro centinaio di anni” ci avrebbe costretto
“ ngere con noi stessi che il bene è male, e il male bene; perché il male è utile e il bene no
L’umanità, insomma, avrebbe dovuto continuare ( no al 2028!) a considerare “l’avarizi
l’usura e l’avidità” come vizi indispensabili per “condurci oltre il tunnel della necessit
economica, a vedere la luce”. E solo allora, raggiunto un benessere di uso, i nipoti – il titol
del saggio, Possibilità economiche per i nostri nipoti, è molto eloquente! – avrebbero nalment
potuto capire che il buono è sempre meglio dell’utile:
A questo punto, penso che siamo liberi di recuperare alcuni princìpi religiosi e valori più solidi, e tornare a sostenere
che l’avarizia è un vizio, l’usura un comportamento reprensibile, e l’avidità ripugna; che chi non pensa al futuro
cammina più spedito sul sentiero della virtù e della saggezza. Dobbiamo tornare a porre i ni avanti ai mezzi, e ad
anteporre il buono all’utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose
persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo, i gigli del campo che non lavorano e non filano.
Anche se la profezia di Keynes non si è avverata – l’economia prevalente, purtroppo
persiste ancora oggi a guardare solo alla produzione e al consumo disprezzando tutto ciò ch
non è funzionale alla logica utilitaristica del mercato e, quindi, continuando a sacri care
“arti della gioia” al pro tto – resta però preziosa, per noi, la sua sincera convinzion
l’autentica essenza della vita coincide con il buono (con ciò che le democrazie commercia
hanno sempre considerato inutile) e non con l’utile.
Una decina di anni più tardi, da un’angolazione molto diversa, anche Georges Bataille si
interrogato, ne Il limite dell’utile, sulla necessità di pensare un’economia attenta al
dimensione dell’antiutilitarismo. A di erenza di Keynes, il losofo francese non si è fatt
illusioni sui presunti scopi nobili dei processi utilitaristici, perché “il capitalismo si distingue i
modo netto dalla preoccupazione di migliorare la condizione umana”. Solo apparentement
sembra avere “come ne il miglioramento del livello di vita,” ma si tratta di una “prospettiv
ingannevole”. Di fatto, “la produzione industriale moderna eleva il livello medio senz
attenuare la disuguaglianza tra le classi e, tutto sommato, pone rimedio solo casualmente
disagio sociale” (p. 73). In questo contesto, soltanto il sovrappiù – quando non è utilizzato “i
funzione della produttività” – può essere legato “agli esiti più belli dell’arte, alla poesia,
pieno rigoglio della vita umana”. Senza questa energia superflua, lontana dall’accumulazione
dalla crescita delle ricchezze, sarebbe impossibile liberare la vita “da considerazioni servi
che dominano un mondo consacrato alla crescita della produzione” (pp. 246-247).
Eppure George Steiner – grande difensore dei classici e dei valori umanistici “ch
privilegiano la vita della mente” – ha ricordato che, nello stesso tempo, in manier
drammatica “l’alta cultura e la correttezza illuminata non hanno rappresentato un’e cac
barriera alla barbarie del totalitarismo”. Più volte, purtroppo, abbiamo visto pensatori
artisti mostrarsi indi erenti a scelte e erate o, addirittura, moralmente complici di dittatori
regimi che le mettevano in atto. È vero. Questo grave problema sollevato da Steiner mi f
venire in mente uno stupendo dialogo tra Marco Polo e Kublai Kan che chiude Le città invisib
di Italo Calvino. Incalzato dalle preoccupazioni del sovrano, l’infaticabile viaggiatore ci o r
un drammatico affresco dell’inferno che ci circonda:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni,
che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non so rirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e
diventarne parte no al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Ma cosa potrà aiutarci a capire, in mezzo all’inferno, ciò che non è inferno? È di cil
rispondere in maniera assoluta a questo interrogativo. Lo stesso Calvino nel suo saggio Perch
leggere i classici, pur riconoscendo che i “classici servono a capire chi siamo e dove siam
arrivati,” ci mette in guardia dal pensare che “i classici vanno letti perché ‘servono’
qualcosa”. Nello stesso tempo, però, Calvino sostiene che “leggere i classici è meglio che no
leggere i classici”.
“La cultura, come l’amore, – osserva giustamente Rob Riemen – non ha il potere d
costringere. Non o re garanzie. Ciò nonostante, l’unica possibilità di conquistare e difender
la nostra dignità di uomini ce la o rono proprio la cultura e un’educazione libera.” Ecc
perché credo che, in ogni caso, sia meglio continuare a batterci pensando che i classici
l’insegnamento, che la coltivazione del super uo e di ciò che non produce pro tto, possan
comunque aiutarci a resistere, a tenere accesa la speranza, a intravedere quel raggio di luc
che ci permetta di percorrere un cammino dignitoso.
Tra le tante incertezze, tuttavia, una cosa è certa: se lasceremo morire il gratuito, s
rinunceremo alla forza generatrice dell’inutile, se ascolteremo unicamente questo mortifer
canto delle sirene che ci spinge a rincorrere il guadagno, saremo solo in grado di produrre un
collettività malata e smemorata che, smarrita, nirà per perdere il senso di se stessa e del
vita. E allora, quando la deserti cazione dello spirito ci avrà ormai inariditi, sarà verament
di cile immaginare che l’insipiente homo sapiens potrà avere ancora un ruolo nel rendere pi
umana l’umanità…
NOTA
In questo saggio sono con uite una serie di ri essioni sparse che negli ultimi dieci anni h
anticipato in diversi interventi, tra cui la conferenza tenuta nell’aprile del 201
nell’Universidade Federal do Rio Grande do Sul a Porto Alegre, in occasione del conferiment
di una laurea honoris causa. Vorrei ringraziare l’amico Irving Lavin, dell’Institute fo
Advanced Study di Princeton, per avermi segnalato il saggio di Abraham Flexner. Nel giugn
2011, nel corso di una tavola rotonda svoltasi a Napoli nella sede dell’Istituto Italiano per g
Studi Filoso ci, Lavin, colpito dal titolo del mio intervento L’utile inutilità delle disciplin
umanistiche, mi ha fatto dono delle pagine di Flexner che io non conoscevo. Questo lavoro
debitore di indimenticabili e appassionate conversazioni inutili con George Steiner e Alai
Segonds. Senza i miei studenti dell’Università della Calabria e delle varie università estere i
cui ho insegnato in questi anni di cilmente avrei potuto capire molti aspetti dell’utilit
dell’inutile. Alla difesa dei classici e della cultura, Gerardo Marotta, presidente dell’Istitut
Italiano per gli Studi Filosofici, ha dedicato tutta la sua vita e le sue risorse economiche.
Questa versione italiana, accresciuta di nuovi paragra e nuove citazioni, l’ho elaborat
durante il mio soggiorno a Berlino (marzo-giugno 2013) in qualità di visiting scholar nel Ma
Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte: al direttore Jürgen Renn, e ai colleghi con cui h
discusso i temi sviluppati nel volume, va la mia immensa gratitudine.
Ringrazio i redattori che hanno curato il volume (Oliviero Toscani e Silvia Trabattoni) e
giovani colleghi che hanno rivisto accuratamente le bozze (Marco Dondero, Maria Cristin
Figorilli e Zaira Sorrenti). Un grazie di cuore anche a Elisabetta Sgarbi, a Mario Andreose e
Eugenio Lio per i loro preziosi suggerimenti e per aver voluto accogliere il mio lavoro.
PARTE PRIMA
L’UTILE INUTILITÀ DELLA LETTERATURA
Gavroche era in effetti a casa sua.
O inattesa utilità dell’inutile!
Victor Hugo, I miserabili
1. “Chi non ha non è”
In un racconto autobiogra co, Vincenzo Padula – un prete rivoluzionario vissuto in u
paese di Calabria tra il 1819 e il 1893 – ricorda la prima lezione di vita ricevuta in famigli
quando era ancora un giovane studente. Avendo dato una risposta insoddisfacente
un’insidiosa domanda del padre (“come si fa che nell’alfabeto di ogni lingua l’A sia prima e l
sia dopo?”), il seminarista ascolta con viva curiosità la spiegazione fornitagli dal suo genitor
“In questo misero mondo chi à è, e chi non à non è,” per questo la lettera a precede sempre
lettera e. Ma c’è di più: coloro che non hanno costituiscono “nel civile consorzio” la mass
delle consonanti, “perché consuonano alla voce del ricco, e si conformano agli atti di lui,
quale è la vocale, senza di cui sfido io a fare che la consonante abbia suono”.
A distanza di quasi due secoli, l’immagine di una società dicotomica rigidamente distinta i
padroni e servi, in ricchi sfruttatori e in poveri degradati a bestie, così come l’aveva descritt
Padula, non corrisponde più, o quasi, al ritratto del mondo in cui viviamo. Resta però, i
forme molto diverse e più so sticate, una supremazia dell’avere sull’essere, una dittatura d
pro tto e del possesso che domina ogni ambito del sapere e ogni nostro comportament
quotidiano. L’apparire conta più dell’essere: ciò che si mostra – un’auto di lusso o un orologi
di marca, un incarico prestigioso o un posto di potere – ha molto più valore della cultura
del grado di istruzione.
2. I saperi senza profitto sono inutili!
Non a caso negli ultimi decenni le discipline umanistiche vengono considerate inutil
vengono marginalizzate non solo nei programmi scolastici, ma soprattutto nelle voci d
bilanci statali e nelle risorse di enti privati e di fondazioni. Perché impegnare denaro in u
ambito condannato a non produrre pro tto? Perché destinare fondi a saperi che no
apportano un rapido e tangibile utile economico?
All’interno di questo contesto fondato esclusivamente sulla necessità di pesare e misurare i
base a criteri che privilegiano la quantitas, la letteratura (ma lo stesso discorso potrebb
valere per altri saperi umanistici e per quei saperi scienti ci liberi da un immediato scop
utilitaristico) può invece assumere una funzione fondamentale, importantissima: proprio
suo essere immune da qualsiasi aspirazione al pro tto potrebbe porsi, di per sé, come form
di resistenza agli egoismi del presente, come antidoto alla barbarie dell’utile che è arrivat
per no a corrompere le nostre relazioni sociali e i nostri a etti più intimi. La sua esistenz
stessa, infatti, richiama l’attenzione sulla gratuità e sul disinteresse, valori ormai considera
controcorrente e fuori moda.
3. Cos’ è l’acqua? Un aneddoto di Foster Wallace
Ecco perché all’inizio di ogni anno accademico mi piace leggere ai miei studenti u
passaggio di un discorso tenuto da David Foster Wallace ai laureandi di Kenyon College, neg
Stati Uniti. Lo scrittore – morto tragicamente nel 2008, a quarantasei anni – il 21 maggi
2005 si rivolge ai suoi studenti raccontando una breve storiella in cui sono egregiament
illustrati il ruolo e la funzione della cultura:
Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta,
fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno
guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?
Lo stesso autore ci fornisce la chiave di lettura del suo racconto: “Il succo della storiella d
pesci è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le pi
di cili da capire e da discutere”. Come i due pesci più giovani, noi non ci rendiamo conto d
cosa sia veramente l’acqua nella quale viviamo ogni minuto della nostra esistenza. No
abbiamo coscienza, infatti, che la letteratura e i saperi umanistici, che la cultura e l’istruzion
costituiscono il liquido amniotico ideale in cui le idee di democrazia, di libertà, di giustizia, d
laicità, di uguaglianza, di diritto alla critica, di tolleranza, di solidarietà, di bene comun
possono trovare un vigoroso sviluppo.
4. I pesciolini d’oro del colonnello Buendía
Mi sia permesso di so ermarmi un momento su un romanzo che ha fatto sognare divers
generazioni di lettori. Penso a Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Forse, nel
lucida follia di Aureliano Buendía è possibile ritrovare la feconda inutilità della letteratur
Rinchiuso nel suo segreto laboratorio, infatti, il colonnello rivoluzionario fabbrica pesciolin
d’oro in cambio di monete d’oro che poi vengono fuse per produrre nuovamente alt
pesciolini. Circolo vizioso che non sfugge alle critiche di Ursula, all’occhio a ettuoso dell
madre preoccupata per il futuro del figlio:
Col suo terribile senso pratico, Ursula non poteva capire quale fosse il guadagno del colonnello, che cambiava i
pesciolini con monete d’oro, e poi trasformava le monete d’oro in pesciolini, e così via, di modo che era costretto a
lavorare sempre più a mano a mano che aumentavano le vendite, per soddisfare un esasperante circolo vizioso. In
verità, ciò che gli interessava non era il guadagno ma il lavoro (p. 765).
Del resto, è il colonnello stesso a confessare che “i suoi unici attimi di felicità, d
pomeriggio remoto in cui il padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio, erano trascor
nel laboratorio di oreficeria, dove passava il tempo montando pesciolini d’oro”:
Aveva dovuto promuovere 32 guerre – speci ca ancora García Márquez – e aveva dovuto violare tutti i suoi patti con
la morte e rivoltolarsi come un maiale nel letamaio della gloria, per scoprire con quasi quarant’anni di ritardo i
privilegi della semplicità (p. 734).
Probabilmente, proprio su questa semplicità, motivata solo da un’autentica gioia e lontan
da qualsiasi aspirazione al pro tto, si fonda l’atto creativo che dà vita a ciò che chiamiam
letteratura. Un atto gratuito, privo di una precisa nalità. Capace di sfuggire a qualsiasi logic
commerciale. Inutile, quindi, perché non monetizzabile. Ma necessario per esprimere con
sua stessa esistenza un valore alternativo alla supremazia delle leggi del mercato e d
guadagno.
5. Dante e Petrarca: la letteratura non va asservita al guadagno
Su questi temi, del resto, si erano già espressi con chiarezza alcuni padri fondatori del
letteratura occidentale. Per citare solo un illustre esempio, Dante condanna nel Conviv
quegli pseudo-letterati che non “acquistano le lettere per lo suo uso” ma solo per asservirle
guadagno:
E a vituperio di loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in
quanto per quella guadagnano denari o dignitate; sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in casa per
prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare.
Le “lettere,” insomma, non hanno nulla a che fare con scopi utilitaristici e vili lega
all’accumulo di denaro. E proprio all’amore disinteressato per la sapienza, lo stesso Petrarc
dedica una serie di ri essioni in prosa e in versi, tese a denunciare il disprezzo di una “turba
smarrita che vive esclusivamente per ammassare ricchezze (“Povera et nuda va
Philosophia,/ dice la turba al vil guadagno intesa”). In questo celebre sonetto del Canzonier
il poeta incoraggia un suo illustre amico a non abbandonare la “magnanima impresa” d
comporre opere, anche se la dura fatica potrà essere ricompensata, nel migliore dei casi, sol
con la nobile gloria del mirto e del lauro:
La gola e ’l somno et l’otïose piume
ànno del mondo ogni vertù sbandita,
ond’è dal corso suo quasi smarrita
nostra natura vinta dal costume;
et è sì spento ogni benigno lume
del ciel, per cui s’informa humana vita,
che per cosa mirabile s’addita
chi vòl far d’Elicona nascer fiume.
Qual vaghezza di lauro, qual di mirto?
Povera et nuda vai, Philosophia,
dice la turba al vil guadagno intesa.
Pochi compagni avrai per l’altra via;
tanto ti prego più, gentile spirto:
non lassar la magnanima tua impresa.
6. La letteratura dell’utopia e i pitali d’oro
Lo stesso disprezzo per il denaro, per l’oro, per l’argento e per ogni attività
nalizzata
guadagno e al commercio si ritrova nella letteratura rinascimentale dell’utopia. Nelle famos
isole, collocate in luoghi misteriosi e lontani rispetto alla civiltà occidentale, ogni forma d
proprietà individuale viene condannata in nome di un interesse collettivo. Alla rapacità d
singoli si contrappone un modello fondato sull’amore per il bene comune. Tralasciando
indiscutibili di erenze tra questi testi e i limiti oggettivi di alcuni aspetti dell’organizzazion
sociale che vi viene proposta, emergono in maniera inequivocabile le severe critiche a un
realtà contemporanea dove regna il disprezzo per la giustizia sociale e per il saper
Attraverso la letteratura dell’utopia, insomma, gli autori mostrano i difetti e le contraddizion
di una società europea che ha smarrito i valori essenziali della vita e della solidarietà umana
Nell’Utopia (1516) di Tommaso Moro, testo fondatore del genere, gli isolani detestano l’or
a tal punto che lo destinano alla fabbricazione di pitali:
Poiché, mentre mangiano e bevono in vasi di creta o di vetro, bellissimi senza dubbio, ma di nessun valore, dell’oro e
dell’argento, non negli alberghi comuni soltanto, ma anche nelle case private, fanno comunemente vasi da notte o
destinati agli usi più vili […]. Così in tutti i modi cercano presso di loro di far avere in ispregio l’oro e l’argento […]
(pp. 77-78).
Per gli utopiani, infatti, laddove “c’è la proprietà privata […] si commisura ogni cosa co
denaro,” impedendo “che tutto si faccia con giustizia” e a favore dello Stato:
A meno che non pensiate che si agisca con giustizia là dove le cose migliori vanno nelle mani dei peggiori furfanti, o
che lo Stato fiorisca dove tutti i beni sono distribuiti fra un esiguo numero di cittadini (p. 50).
Alla stessa maniera, ne La Città del Sole (1623) di Tommaso Campanella, i sola
individuano nella proprietà e nel desiderio del possesso le cause principali della corruzion
che spingono l’uomo a diventare “rapace pubblico”:
Dicono essi [i solari] che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e gli e moglie propria, onde nasce l’amor
proprio; ché, per sublimar a ricchezze o a dignità il glio o lasciarlo erede, ognuno diventa […] rapace pubblico […]
(p. 53).
Campanella, che pone la sapienza al centro della sua civitas, è convinto che “le ricchezz
[fanno gli uomini] insolenti, superbi, ignoranti, traditori, disamorati, presumitori di quel ch
non sanno” (p. 65). I solari – al contrario degli spagnoli che “vanno per avarizia di dana
cercando novi paesi” (p. 91) – viaggiano solo per acquisire nuove conoscenze.
Finanche Francesco Bacone – che nella letteratura dell’utopia occupa un posto a sé, no
solo perché la proprietà non viene bandita nella sua Nuova Atlantide (1627) – ci tien
comunque a sottolineare che i suoi isolani non commerciano “per guadagnare oro, argento
gioielli, seta o spezie, né alcuna mercanzia di sorta” ma solo per “accrescere la conoscenza
per essere informati sulle “invenzioni di tutto il mondo” e per procurarsi “ogni sorta di libr
(p. 97). E sebbene i princìpi elitari che ispirano la casa di Salomone si fondano sul progress
illuminato, su un sapere pratico e su una tecnica legata ai bisogni dell’umanità, il progetto d
Bacone, come suggerisce Raymond Trousson, “non è a carattere economico” ma si bas
soprattutto sulle “esigenze di una scienza moderna”.
Perseguire il benessere, permettere la circolazione dell’oro e dell’argento (p. 63), signi c
anche fare i conti con le ambiguità della tecnica e con i pericoli della corruzione. I
quest’isola, infatti, i funzionari si considerano leali servitori dello Stato e del bene comune.
il loro codice etico gli impedisce di accettare doni in denaro, come raccontano stupiti g
stranieri approdati casualmente a Bensalem:
Sul punto di andarsene, gli [al funzionario] abbiamo o erto alcuni ducati; ma egli sorrise, rispondendo che non
intendeva essere pagato due volte per un solo servigio: con ciò, intendeva dire, io credo, che percepiva già un salario
su ciente. In seguito ho avuto modo di imparare, infatti, che un impiegato che avesse ricevuto dei compensi in
aggiunta al proprio stipendio, veniva chiamato uomo dal doppio salario (p. 51).
7. Jim Hawkins: cacciatore di tesori o numismatico?
Ma le isole fantastiche non sono state solo modelli di società in cui si disprezzano
ricchezze e l’ingiustizia. Robert Louis Stevenson, in uno dei più celebri romanzi d’avventur
ne ha fatto anche un mitico luogo dove storie di pirati e di omicidi si intrecciano con enorm
fortune. Ne L’isola del tesoro, infatti, tutto il racconto ruota attorno a un travagliato viaggi
dell’Hispaniola per recuperare il favoloso bottino sotterrato dal capitano Flint in un oscur
atollo del Mar dei Caraibi:
Quanto fosse costato ammassarlo, quanto sangue e quanto dolore, quante belle navi a ondate, quanti valorosi
marinai costretti bendati a percorrere l’asse, quanti colpi di cannone, quante vergogne, quante menzogne e crudeltà,
forse nessun uomo vivente era in grado di raccontarlo (p. 231).
Nel concitato dialogo con il dottor Livesey, il cavaliere Trelawney non solo non nasconde
sua ammirazione per il libustiere Flint (“Gli spagnoli ne avevano una tale paura, che v
confesso, caro signore, di essermi a volte sentito orgoglioso che fosse un inglese” p. 41), m
dà vita immediatamente a una società per armare una nave e partire alla conquist
dell’immane capitale accumulato illecitamente dai pirati. Questa impresa, come suggerisc
Geminello Alvi, svela nello stesso tempo la “doppiezza dei due gentiluomini” e il rapporto d
“parentela tra l’industria societaria della pirateria e il capitalista”. Così i nuovi conquistadore
pronti ad appropriarsi delle ruberie del mitico Flint, si a rettano per cogliere al vol
l’occasione:
– Denari! – gridò il cavaliere – Non avete sentito il racconto? Di che altro andavano in cerca quei ribaldi se non di
denari? Che altro stava loro a cuore se non i denari? Per che cos’altro metterebbero a repentaglio le loro carcasse
miserabili se non per denari? (p. 41).
Anche il giovane Hawkins, protagonista del romanzo, si imbarca con i suoi soci. E dop
aver superato mille traversie e aver rischiato più volte la vita, finalmente il ragazzo raggiung
la grotta dove era stato nascosto il colossale malloppo. Ma qui il lettore si trova di fronte
un colpo di scena: una volta entrato in possesso della fortuna accumulata dai corsari senz
scrupoli, Jim inizia a imballare quei tesori per trasportarli sulla nave, mostrando una tota
indifferenza per il valore materiale delle monete:
Erano una bizzarra collezione, analoga a quella di Billy Bones per la diversità dei conii, ma tanto più vasta e tanto più
svariata, che non credo di essermi mai tanto divertito quanto a catalogarle. Monete inglesi, francesi, spagnole,
portoghesi, giorgi e luigi, dobloni e doppie ghinee, moidori e zecchini, con i ritratti di tutti i sovrani d’Europa degli
ultimi cent’anni, strane monete orientali con impressi disegni che parevano matassine di cordicelle o frammenti di
ragnatele, pezzi tondi, pezzi quadri e pezzi forati al centro, come se fossero da portare al collo, credo non ci fosse
varietà di moneta al mondo che non avesse trovato posto in quella collezione; e per il numero, erano tante quante le
foglie di autunno, che mi doleva la schiena dal gran curvarmi e le dita dal gran scegliere (pp. 233-234).
Alla ne di un travagliato percorso iniziatico in cui impara soprattutto a conoscere i diver
volti del male, il ragazzo protagonista del romanzo guarda quei pezzi d’oro e d’argento con l
stupore dell’esordiente numismatico, senza provare nessuna attrazione per il loro poter
d’acquisto. A di erenza degli avidi membri dell’equipaggio, si diverte a catalogare le monete
a ascinato dalla varietà dei volti dei sovrani e giati e dalla stranezza dei disegni gravat
Come se il loro valore, privo di qualsiasi interesse economico, si limitasse esclusivamente al
sfera storico-artistica. Tanti rischi per scoprire, alla ne dell’avventura, che il vero tesoro no
coincide con i dobloni e gli zecchini ma con la cultura di cui essi stessi sono espressione. Co
– in sintonia con la convinzione di Stevenson, manifestata esplicitamente altrove, che l’esse
valga più dell’avere – nel misterioso atollo dei Caraibi, Jim capisce, grazie a un’inuti
curiositas, che quelle incisioni contano molto di più della loro quotazione venale perché, oltr
a testimoniare varie espressioni del bello, documentano anche momenti memorabili del
vicende di popoli e regni. Ormai immune dalla febbre dell’oro, nelle ultime righe na
confessa di non aver nessun rimpianto per i lingotti lasciati sepolti nell’isola:
I lingotti d’argento e le armi si trovano ancora, a quanto so, dove Flint li ha sotterrati, e per conto mio ci possono
restare. Nemmeno dieci paia di buoi mi riporterebbero a quell’isola dannata (p. 238).
8. Il Mercante di Venezia: la libbra di carne, il regno di Belmonte e l’ermeneutica del Sileno
Ma anche Shakespeare immagina un regno immune dalla febbre del pro tto
Nell’entroterra veneto è collocato uno dei due scenari in cui è ambientata la trama de
Mercante di Venezia. Nel fantastico regno di Belmonte, infatti, l’oro e l’argento son
disprezzati, come si evince dai versi contenuti negli scrigni legati alla scelta del futuro marit
della bella e saggia Porzia. Il principe del Marocco – che preferisce aprire lo scrigno d’oro co
la scritta “Chi sceglie me, guadagnerà ciò che molti/ Uomini desiderano” (II. 7, 37) – anzich
trovare il ritratto della bramata sposa, sarà sbe eggiato dai versi vergati in una pergamen
inserita “nell’occhio cavo” di una “testa di morto”:
Non è oro tutto ciò che luccica./ Te l’hanno detto spesso e sai che molti/ La vita hanno venduto per vedere/ Di me solo
l’esterno./ Vermi contengono le tombe dorate./ Se saggio fossi stato quanto audace,/ Vecchio nel giudizio quanto nel
corpo/ Giovane, nessuno questa risposta/ Avrebbe scritto. Addio./ Fredda è la tua richiesta (II. 7, 65-73).
La stessa sorte spetta al principe di Aragona attratto dallo scrigno d’argento su cui è incis
la promessa: “Chi sceglie me, avrà quanto merita” (II. 7, 5). E, al posto di Porzia, riceverà i
cambio un aspro rimprovero:
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