Il risentimento nella letteratura americana contemporanea

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Il risentimento nella letteratura americana contemporanea
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
IL RISENTIMENTO NELLA LETTERATURA
AMERICANA CONTEMPORANEA
di Giuseppe Russo
Abstract
When the USA became an economic and political power, at the end of the 19th Century, the
american culture had just set up the pillars of its long-time paradigm. The fulcrum of this pattern
was (and is still today) the image of the free man with countless opportunites ahead of him, the
single man who can change the world he lives in. That’s why in 1860 Ralph W. Emerson wrote:
«One man is made of the same stuff of which events are made; is in sympathy with the course
of thing, can predict it». He can predict it, he can modify it, he can rule it.
But this kind of task can be extremely heavy, if it doesn’t become a reality for any reason. So,
the feeling of resentment is maybe the main risk for the american individualism. This essay
investigates in some of the most relevant cases of resentment developed by modern american
literature, from William Faulkner to Philip Roth. We find out that in the 20th Century the
american culture has outlined a complete history of human types animated by outrage and
resentment, and in some cases these characters have been the richest of human substance.
1.
La parabola storica della soggettività nell’America della seconda rivoluzione industriale
conobbe delle curvature diverse rispetto a quella europea e trovò probabilmente in
Ralph Waldo Emerson la sua massima espressione. Come è noto, Nietzsche rivendicò
Emerson come un suo precursore ideale, dati i numerosi punti di contatto fra le
rispettive riflessioni sulle potenzialità e i limiti dell’essere umano1. La concezione
antropologica emersoniana è ben sintetizzata in una pagina di The Conduct of Life
(1860), nella sezione Power:
«Un uomo è fatto della stessa materia di cui sono fatti gli eventi, è in simpatia
con il corso delle cose, è in grado di predirlo. Qualunque cosa accada, accade a
lui per primo, sicché egli è tutt’uno con tutto ciò che può accadere. Un uomo
che conosca gli uomini, può discorrere con padronanza di politica, commercio,
guerra, diritto, religione. Poiché ovunque gli uomini sono fatti alla stessa
maniera»2.
1
Sui rapporti tra i due, cfr. l’articolo di Paola Capriolo L’ombra di Emerson influenzò Nietzsche, apparso
sul “Corriere della Sera” del 09.09.2008, attualmente disponibile anche in rete al seguente link:
http://archiviostorico.corriere.it/2008/settembre/09/OMBRA_EMERSON_INFLUENZO_NIETZSCHE_c
o_9_080909088.shtml.
2
R.W. Emerson, Conduct of Life, Boston, Houghton Mifflin & Co., 1860, p. 49 (trad. mia).
1
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Il che sottintende il principio complementare a questo: tutto ciò che accade è
necessariamente governabile dall’uomo, che questi abbia la tempra dell’individuo
eccezionale auspicato da Walt Whitman3, dell’uomo rappresentativo emersoniano4 o
anche dell’everyman borghese novecentesco che riesce a distinguersi dalla massa
quando apprende come perseguire gli obiettivi che la società di volta in volta gli mette a
disposizione: il denaro, il successo in guerra o in politica, la popolarità mediatica, etc.
Questa visione trionfalistica dell’individuo impregna di sé i capitoli della storia
letteraria americana al passaggio tra il XIX e il XX secolo, e nel corso del ’900
attraversa una serie di metamorfosi, ma senza mai essere sostituita da un paradigma
significativamente diverso da quello originariamente teorizzato da Emerson. Non
sarebbe corretto vedere questo come il tema dominante della cultura americana, dato
che non sono meno rilevanti la lirizzazione del paesaggio, in particolare degli immensi
spazi aperti, i conflitti fra le diverse classi sociali, la continua rielaborazione di spunti
religiosi o di ispirazione biblica, la creazione di mitologie popolari in grado di rendere
epico il passato e avvincente il futuro. Tuttavia è piuttosto evidente che nella cultura
statunitense mainstream, dal Gatsby di Fitzgerald fino al Mickey Sabbath di Philip Roth
ed oltre, si celebra il trionfo dell’individuo, la sua autolegittimazione a prendere fra le
mani le redini del mondo e condurlo nella direzione voluta5. E il giardino in cui
l’individuo coltiva il proprio ego può essere piccolo come il praticello davanti casa
(mito della quiete domestica) o dilatarsi fino a coprire l’intero territorio compreso fra i
due oceani o che si trova simbolicamente al di là del conosciuto (mito della frontiera).
In ogni caso, l’affermazione del soggetto nel mondo tende ad essere vista come la prova
necessaria alla certificazione della dignità della propria esistenza, della validità delle
proprie ambizioni, della presenza o meno del favore del Dio ebraico-cristiano o di
quello del mercato. Va da sé che un individualismo così spinto è destinato a scontrarsi
con intere porzioni di realtà refrattarie al suo dominio, e quindi il risentimento diventa
uno dei principali rischi che il soggetto ipertrofico corre nel suo sforzo di affermazione,
laddove questo non riesce ma anche laddove riesce con troppi compromessi.
3
In Prospettive democratiche (Democratic Vistas, 1871), Whitman definisce il suo individuo superiore
come «quel Qualcosa che è un uomo o una donna, un essere separato, divino in se stesso e per se stesso,
unico, e su cui né canone di autorità né qualsiasi norma derivata da altre cose, ragion di Stato o atti
legislativi, o anche ciò che viene definito religione (...) ha potere alcuno»; cfr. W. Whitman, Giorni
rappresentativi e altre prose, a c. di M. Meliadò Freeth, Vicenza, Neri Pozza Editore 1968, p. 607. Non a
caso Harold Bloom nel suo Western Canon (1994) cita proprio uno stralcio del testo di Emerson a
sostegno dell’idea di Walt Whitman come baricentro della formazione del canone letterario americano:
cfr. H. Bloom, Il Canone occidentale, a c. di A. Cortellessa, Milano, Rizzoli 2008, pp. 297-298.
4
Cfr. R.W. Emerson, Representative Men: Seven Lectures, London, G. Routledge & Co. 1850.
5
Su questo argomento, cfr. anche: J. Dewey, Individualismo vecchio e nuovo, Parma, Diabasis 2013
(saggio scritto da Dewey nel 1929, proprio nei mesi in cui iniziava la crisi economica); N. Urbinati,
Individualismo democratico: Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Roma, Donzelli 2009.
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Data la significativa presenza del tema del risentimento nella letteratura
americana, soprattutto in quella della seconda metà del Novecento, sono state fatte delle
scelte nella selezione degli autori e delle opere esaminate.
2.
Nell’universo letterario di William Faulkner (1897-1962) ha un peso notevole il
rapporto fra l’individuo e le aspettative sociali. Il singolo viene a trovarsi molto spesso
in una condizione di conflitto rispetto ad una collettività che si basa su ruoli, funzioni,
relazioni interpersonali generalmente molto rigide e refrattarie ad ogni tipo di
cambiamento. Il Sud faulkneriano è diventato così importante nella storia identitaria
della cultura americana proprio perché è presentato in tutta la sua brutale primitività,
senza troppe attenuanti né giustificazioni. Eppure è proprio quel qualcosa di
insopportabilmente primordiale che, in molte sue opere, genera una forma di morbosa,
spesso letale, attrazione da parte di tanti suoi personaggi, espressioni di un’umanità
verso la quale l’autore è indulgente ma che difficilmente prova a difendere sul serio,
perché sa indifendibile. L’elaborazione della contea immaginaria di Yoknapatawpha,
icona vivente e allo stesso tempo morente di un Sud sospeso tra l’aspirazione al codice
morale veterotestamentario e l’iconografia di una modernità di cui gli abitanti sono
quasi soltanto spettatori, contiene anche questo tipo di conflitto. Il modello che ha vinto
storicamente è quello dinamico e iperattivo yankee, mentre Faulkner racconta la vita dei
perdenti, della generazione dei confederati sconfitti e di quella immediatamente
successiva: uomini e donne che si trovano a curarsi le ferite di un conflitto di cui non
hanno capito nulla e che devono proseguire la loro lenta e monotona esistenza sulla scia
dei vincitori, senza condividerne il paradigma di valori ma non avendo alternativa.
Anche le opere ambientate nel Mississippi reale o nella Louisiana reale insistono su
questi temi, che fecero la fortuna dell’autore dopo l’incontro decisivo con Sherwood
Anderson (1925), il quale gli suggerì – per alcuni biografi, gli impose – di insistere nel
raccontare solo e unicamente del posto che conosceva meglio6.
In questo tipo di contesto storico-sociale possono essere numerose le cause del
risentimento: dal mancato riconoscimento dei meriti dopo la guerra civile all’esclusione
dalle nuove attività produttive, dai dolorosi rapporti genitori-figli ai complicatissimi
conflitti razziali. E ancora più numerose possono essere le sue conseguenze, dai
comportamenti criminali alle più perfide strategie di esclusione di quanti sono percepiti
come “diversi” da una collettività che non si sente mai abbastanza sicura di sé. Ci
soffermeremo su due esempi principali: Light in August (1932) e Absalom, Absalom
(1936), entrambi ambientati nel Mississippi, intorno alla cittadina stilizzata di Jefferson,
6
Cfr. Ph. Weinstein, Becoming Faulkner: The Art and Life of William Faulkner, New York, Oxford
University Press USA 2012.
3
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che all’inizio degli anni Trenta sta per diventare il principale centro urbano della
Yoknapatawpha County. Si tratta di una zona in cui la decadenza successiva alla Guerra
di Secessione sembra non poter avere fine e metamorfizzarsi in forme sempre più
oppressive e opprimenti. Qui «i discendenti degli uni guardano ai discendenti degli altri
coi loro fantasmi reciproci, mentre fra loro c’è lo spettro dell’antico sangue versato»7, e
nessuna forza tra quelle che entrano nel gioco sociale appare in grado di aiutare gli
sciagurati abitanti di questa contea a superare un passato di cui non dovrebbero avere
nostalgia, perché la loro ottusità li rende incapaci di desiderare un futuro diverso, anzi
un futuro qualsiasi. La trama conta davvero poco, pur non essendo per questo banale: un
uomo, Joe Christmas, vive una condizione di risentimento crescente perché nelle sue
vene scorre sia sangue bianco che nero, pur avendo l’aspetto di un qualsiasi bianco del
Sud, ed è ovviamente marginalizzato da chi conosce il suo segreto. Dopo una serie di
avvenimenti tipici di quel mondo povero e di poche risorse che era il Mississippi dei
primi anni Trenta, gli capita di conoscere e frequentare una donna che è a sua volta
un’esclusa e finisce per ucciderla. Ne segue una caccia all’uomo che si conclude con un
linciaggio lasciato aristotelicamente fuori campo dall’autore. La strada di Joe si incrocia
ad un certo punto con quella di Lena Grove, una povera ragazza che viaggia nel Sud alla
ricerca dell’uomo che l’ha messa incinta. La donna non troverà esattamente ciò che
cerca ma riuscirà a proseguire nel suo cammino; Joe no perché vittima dei suoi demoni
interiori e dell’ambiente che li ha generati.
Ad alimentare il motore del risentimento in questo personaggio sono diversi
fattori, in parte psicologici e in parte circostanziali, che concorrono nel farlo sentire una
specie di figura mostruosa perché come dotato di una doppia natura: bianca e nera. Non
troppo diversamente da quanto accade al protagonista delle Memorie dal sottosuolo di
Dostoevskij, Joe sente di «avere dentro qualcosa che voleva uscire»8, qualcosa che gli
impedisce di essere come gli altri e glielo impedirà sempre perché non emendabile,
qualcosa di cui ha timore lui stesso per primo. Con lo sviluppo degli avvenimenti,
proprio come accade in Dostoevskij, questo ‘qualcosa’ lo trasformerà in un criminale
secondo una parabola che sembra possedere una dimensione fatale, destinale,
inesorabile. Ma ciò che più di ogni altro fattore è in grado di farlo scoppiare, fino a
provocare la sua trasformazione definitiva in assassino, è l’insostenibile stridore fra i
comportamenti che egli si aspetta dagli altri, secondo il pacchetto di moralità spicciola a
cui è stato educato, e i comportamenti che effettivamente si verificano, spesso stranianti
anche se mai inverosimili. Joe non riesce ad inquadrare questi comportamenti nel suo
7
W. Faulkner, Luce d’agosto, a c. di E. Vittorini, Milano, Mondadori 1990, p. 41. La traduzione di
Vittorini, realizzata nel 1938-1939 e innumerevoli volte riproposta da Mondadori, appare incredibilmente
datata, ma qui ci limiteremo ad usarne pochi brani, accostandola all’originale ove necessario.
8
W. Faulkner, Luce d’agosto, cit., p. 140.
4
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sistema mentale di regole, ed essi causano una sfasatura decisiva tra la sua personalità e
la collettività, trasformando quest’ultima in un insieme indistinto e ostile di ‘altri’.
Laddove questo stridore riguarda i tabù di base come il sesso o la separazione dei ruoli
uomo-donna, un soggetto di questo tipo può letteralmente impazzire e dare libero sfogo
alle sue pulsioni più profonde.
Lo si vede benissimo nell’episodio cruciale del cap. 11: Joe ha ormai avviato una
relazione con la donna che lo sfama e lo ospita, ma che sembra volerlo solo come
giocattolo sessuale. Data la sua formazione, che risente moltissimo della religiosità
popolare caratteristica del Sud-est degli Stati Uniti, Joe si aspetta di incontrare una
qualche forma di resistenza da parte di lei. La donna deve resistere e lui deve vincere la
sua resistenza: entrambe le condizioni fanno parte delle aspettative di Joe ed entrambe
devono verificarsi: egli è stato educato ad aspettarsi questo e, se questo accade, sa come
agire. Invece la donna lascia aperta la porta della cucina di notte per accoglierlo, quasi
che per l’uomo fosse un obbligo contrattuale soddisfarla in cambio del vitto e
dell’alloggio. E cosa accade nella sua mente? «Allora si sentì come insultato. Come se
un nemico ritenuto annichilito fosse là incolume, intatto, a guardarlo con
un’insopportabile aria di pensoso disprezzo»9. Ed ecco materializzarsi il demone per
eccellenza della psiche di Joe: lo sguardo degli altri. O meglio, lo sguardo giudicante
degli altri. In un sistema di relazioni sociali come quello caratteristico degli Stati della
Bible Belt prima della grande depressione, lo sguardo del prossimo può essere mortale,
e per difendersi da esso non è del tutto inconcepibile che si possa arrivare a colpire per
primi: colpire per non essere colpiti, distruggere per non essere distrutti. Si tratta di un
tema facilmente riscontrabile anche in altri autori provenienti dal Sud10 e anche in
decenni successivi, molto più vicini ai nostri giorni, fino ad Ace Atkins. Ma nel caso di
Faulkner e dell’ambiente umano da lui creato con la sua scrittura, è a dir poco decisivo,
e il personaggio di Joe finisce presto per configurarsi come una vittima inevitabile di
questo giudizio pubblico rispetto al quale nessuno fa – e nessuno potrebbe mai fare –
nulla per sottrarsi.
Anche prima che si verifichino gli avvenimenti fatali, Joe Christmas, questo nero
dalla pelle chiara, si sente ossessivamente circondato dallo sguardo giudicante del
prossimo, che nei momenti di maggiore nervosismo si configura come derisione
collettiva nei suoi confronti: altro carburante che va ad alimentare il motore del
risentimento. Ad esempio, nel cap. 8, «Joe si trovò nella strada (…) camminava su un
9
W. Faulkner, Luce d’agosto, cit., p. 215. Il brano risulta più efficace in originale: «When he found that it
was not locked it was like an insult. It was as though some enemy upon whom he had wreaked his utmost
of violence and contumely stood, unscathed and unscathed, and contemplated him with a musing and
insufferable contempt»: W. Faulkner, Light in August, New York, Vintage Books 1972.
10
Cfr. N. Polk, Faulkner and Welty and the Southern Literary Tradition, Jackson, University Press of
Mississippi 2010.
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flutto di risa, di tutte le risa degli uomini, e le risa lo portavano ora nella strada, lo
spingevano e tiravano, poi lo sorpassarono, si spensero, lo lasciarono rimettere piede
sulla terra»11 ma senza permettergli di sentirsi in alcun momento affrancato da queste
attenzioni spesso morbose, mai richieste, e che rappresentano una delle principali
patologie sociali di quest’area degli Stati Uniti. Insomma, in particolare in questo
romanzo, ben più che in The Sound and the Fury (1929) o in Sanctuary (1931),
l’elemento dello sguardo altrui ha un ruolo decisivo, perché qui sono in gioco la
questione razziale12 e, a partire dalla scoperta dell’omicidio, la tendenza di questa
collettività di provincia poco attenta all’etichetta a retrocedere in vera e propria massa
primordiale che si dedica alla caccia all’assassino per sfogare su di lui la propria
aggressività non troppo latente e ripristinare in questo modo l’ordine sociale messo in
bilico dall’atto violento del singolo, del mostro. Fatte queste precisazioni, si comprende
più facilmente l’ammirazione che Sartre – l’autore del celebre motto «l’enfer, c’est les
autres» – provava per Faulkner fin dai primi anni Trenta: Light in August è anche un
trattato di antropologia riguardante un’umanità che non dovrebbe più esistere ma che ci
mette un’infinità di tempo per estinguersi13.
L’oggetto di cui ci stiamo occupando è molto presente ed estremamente attivo
anche tra le pagine di quello che la maggior parte della critica letteraria tende a
considerare il capolavoro supremo di Faulkner: Absalom Absalom! (1936), colossale
vicenda di autodistruzione di una famiglia sulla quale grava una sorta di maledizione,
narrazione apocalittica realizzata dall’autore per mezzo di stratificazioni temporali non
lineari e flussi di coscienza incrociati. Il sostantivo usato da Faulkner per l’emersione,
dal sottosuolo di questo ambiente malsano e condannato, di tutta la sua abissale
negatività e la condensazione di quest’ultima in forza distruttiva è outrage: una
combinazione fatale tra rancore, oltraggio e hybris che come una peste biblica sopprime
la possibilità stessa di un’umanità migliore in tutti i luoghi nei quali si trova a passare e
che alberga sopra e sotto la superficie di Sutpen’s Hundred, la tenuta della famiglia
maledetta, determinando i destini dei suoi abitanti. Fin dalle prime pagine, Faulkner
appare particolarmente spietato nel tratteggiare il mondo di cui intende occuparsi come
un ambiente inaridito, dannato, del tutto immune alla speranza. Lo definisce «il
profondo Sud morto fin dal 1865 e popolato da garruli spettri risentiti e impotenti»14,
che rifiutano strenuamente la loro condizione peritanatica e diventano quasi i burattinai
11
W. Faulkner, Luce d’agosto, cit., p. 164.
Sulla quale cfr. AA.VV., Faulkner and Race, Jackson, University Press of Mississippi 2007.
13
Per ulteriori analisi del romanzo, cfr. O. Robinson, William Faulkner’s “Light in August”, Oxford,
Taylor & Francis Ltd., 2014.
14
W. Faulkner, Assalonne Assalonne!, a c. di G. Cambon, Milano, Garzanti 1989, p. 19. Il testo originale
è il seguente: «the deep South dead since 1865 and peopled with garrulous outraged baffled ghosts»; W.
Faulkner, Absalom Absalom!, New York, Vintage Books 1995.
12
6
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dei viventi. A causare la furia distruttiva e il risentimento inestinguibile del protagonista
principale, Henry Sutpen, concorrono diversi fattori: la tremenda figura del padrepatriarca fondatore della stirpe destinata a vita breve, gli avvenimenti della Guerra di
Secessione e l’abolizione della schiavitù, i cambiamenti economici che investono le
regioni del Sud alla fine del XIX secolo e che tendono ad escludere dai nuovi cicli
produttivi di ricchezza figure parassitarie come la sua, l’attrazione vietata nei confronti
della sorella Judith e l’insoddisfazione provocata dall’imposizione alla giovane donna di
un marito scelto dal padre (padre che è comune a lui e al marito designato) e che Henry
uccide brutalmente dando inizio alla sua personale καταστροϕή , nella quale
risucchierà quanti lo circondano. Ma non possono esserci dubbi sul fatto che l’ambiente
del Mississippi post-secessione sia da ritenersi il principale responsabile di questa
apocalisse di provincia, in quanto humus particolarmente fertile e sul quale certe
tendenze hanno modo di crescere in ogni direzione e senza incontrare ostacoli.
È un ambiente senza scampo, quello descritto in Absalom Absalom!, un piccolo
mondo arcaico sul quale grava un’atmosfera di maledizione solenne e che contamina fin
nei meandri più nascosti le persone, senza fare distinzioni tra i vivi e i morti. Anche se
allo stesso tempo è proprio questa primitività ad esercitare un fascino fortissimo
sull’autore che durerà tutta la vita e che ancora oggi permette all’editoria americana di
sfornare incessantemente interessanti monografie sul valore di questo paesaggio nella
sua opera15. In questo ambiente selvaggio e ancestrale, anche le figure dotate di un
minimo di spessore morale, in quanto “condannate a vivere” (espressione adoperata più
volte nel romanzo, anche in contesti diversi tra loro), sono solo in attesa di essere
contagiate dal morbo e finire strette nella morsa del risentimento individuale e
collettivo. Ad esempio, quando il padre di Quentin Compson scrive una lettera al figlio
nella quale gli comunica la notizia della morte di Rosa Coldfield, ripensando alla
mestizia che ha caratterizzato l’intera esistenza della donna (sorta di vittima designata
dei legami di parentela che governano questo territorio), il mittente si domanda «se ci
può essere un sopraggiungere di conforto o cessazione del dolore nella fuga estrema da
un risentimento cocciuto e stupefatto che per uno spazio di quarantatré anni ha fatto
compagnia e pane e fuoco e tutto»16. E ovviamente la risposta è da ritenersi negativa
perché l’impossibilità della salvezza è qualcosa che il linguaggio stesso fatica ad
accettare e ad elaborare, a maggior ragione laddove tutti sono corresponsabili della
colpa e nessuno è semplicemente e unicamente vittima. Non è facile stilare l’elenco dei
15
Cfr. tra gli altri: E.M. Kerr, William Faulkner’s Yoknapatawpha, New York City, Fordham University
Press 2012; C.S. Aiken, William Faulkner and the Southern Landscape, Chicago, Center for American
Places 2009.
16
W. Faulkner, Assalonne Assalonne!, cit., pp. 171-172. In originale: «and if there can be either access of
comfort or cessation of pain in the ultimate escape from a stubborn and amazed outrage which over a
period of forty-three years has been companionship and bread and fire and all, I do not know that either».
7
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motivi che conducono all’escatologia negativa dei Sutpen, ma certo il loro sottosuolo
appare ricco dei fattori ambientali di cui sopra, ai quali si aggiunge la totale assenza di
autocontrollo e di qualsiasi altro valore borghese. La freccia del risentimento trova in
questi personaggi dei bersagli perfetti, addirittura ideali. Qui la φρόνησις aristotelica
non si sa cosa sia, ma è sconosciuto anche il self-control della letteratura vittoriana che
invece interessava gli autori del New England come Henry James, Edith Wharton o
Katharine Lee Bates. Sembra intuirlo uno dei testimoni e narratori della vicenda, Shreve
Mc Cannon, laddove dice: «quando sei abbastanza orgoglioso da essere umile non hai
da strisciare»17, perché impari a creare certe distanze di sicurezza fra la tua personalità e
gli eventi che accadono intorno a te. Ecco, l’aria che si respira nella contea di
Yoknapatawpha sembra rendere impossibile la formazione di punti d’equilibrio fra
orgoglio e umiltà, improbabile la fissazione di queste distanze di sicurezza, a tutto
vantaggio del risentimento e del suo potere letale.
3.
Un autore che senza dubbio ha fatto tutto ciò che era in suo potere per incarnare
l’archetipo emersoniano dell’uomo rappresentativo, e in genere ha tentato di farlo con
grande ostentazione, è stato Ernest Hemingway (1899-1961). Il suo disturbo narcisistico
della personalità, cui si sovrappose nel tempo una sindrome maniaco-depressiva
patologica e crescente, ha deformato più volte il corso dei suoi eventi biografici.
Tuttavia molte ansie tipiche dell’autore egolatra non sono affatto riscontrabili nella
maggior parte dei suoi personaggi, proprio perché il grosso dello sforzo ipertrofico della
soggettività era concentrato su di sé. Pur essendo per ragioni anagrafiche uno scrittore
del Midwest, Hemingway ha mostrato tendenze letterarie tradizionalmente considerate
più caratteristiche degli scrittori del Southeast: dal gusto per l’avventura ad un certo
machismo compulsivo e bozzettistico18. E così anche il rancore e il risentimento hanno
attraversato di tanto in tanto le sue opere e animato alcuni suoi personaggi, soprattutto
dopo i due soggiorni parigini e il ritorno a Key West nel 1931.
Una delle celebri First Forty-Nine Stories (1938), intitolata The Undefeated
(L’invitto, racconto pubblicato per la prima volta in rivista nel 1926), mostra un caso
esemplare di risentimento che, non trovando modo di sfogarsi verso l’esterno per
insufficienza caratteriale, viene interiorizzato troppo a lungo e si trasforma in pulsione
autodistruttiva. Il protagonista è un torero ormai quasi a fine carriera, Manuel, che viene
convinto a partecipare ad una corrida serale piuttosto triste in sostituzione di un altro,
per contribuire allo spettacolo destinato ad illuminare di gloria un più giovane torero
17
W. Faulkner, Assalonne Assalonne!, cit., p. 312.
Argomento ancora oggi piuttosto controverso, sul quale cfr. Th. Strychacz, Hemingway’s Theaters of
Masculinity, Baton Rouge, LSU Press 2003.
18
8
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beniamino del pubblico. La cifra che gli viene offerta è molto bassa, quasi un insulto,
ma viene accettata da Manuel perché l’uomo sente di avere dei conti in sospeso sia con i
tori (il fratello ha perso la vita anni prima in una corrida) che con il pubblico che ormai
non si ricorda più di lui. Un suo amico picador gli chiede perché abbia accettato una
proposta tanto umiliante, e l’uomo sa solo rispondere «Non lo so neanche io, ma
devo»19: egli sente il bisogno di rischiare l’affronto ultimo, il punto più basso della sua
parabola decrescente di matador al quale corrisponde il vertice nella curva del
risentimento. Anche il protagonista delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij avverte
l’esigenza di sprofondare in un abisso personale per poter dirigere verso l’esterno
quell’energia distruttiva accumulata dal rancore nel corso del tempo, anche se è il suo
carattere diverso che lo spinge a trascinare con sé altre persone. Nel caso di Manuel le
cose vanno a finire male perché l’età gli impedisce di essere all’altezza della sfida: non
muore ma resta ferito gravemente e l’umiliazione del pubblico che lo ha fischiato
diventa il rumore di fondo della sua uscita di scena definitiva.
Il tema del risentimento attraversa anche To Have And To Have Not (1937),
romanzo costituito da tre racconti lunghi legati tra loro in successione temporale e che
hanno come protagonista Harry Morgan, il quale fa un lavoro che oggi sarebbe definito
“scafista”: trasporta clandestinamente sia dei cubani che vogliono arrivare in Florida sia
dei rivoluzionari che dal territorio degli USA vogliono tornare a Cuba, ma spesso
alterna queste spedizioni con altre da contrabbandiere. Morgan è trattato molto male più
o meno da tutti, il suo è un tipo di lavoro mal tollerato e che forma intorno alla sua
figura un’aura di disprezzo sociale al quale ben pochi personaggi restano indifferenti. In
certi momenti sembra riuscire a mostrare un certo distacco dal giudizio altrui, ma in
realtà ne è chiaramente vittima. È come se si fosse costruito con le sue stesse mani una
gabbia nella quale si è rinchiuso. La metabolé si verifica quando Morgan accetta di
imbarcare tre rivoluzionari che, subito prima di salire a bordo, rapinano una banca, si
presentano di corsa sul molo impugnando le loro armi e uccidono anche il suo marinaio
Albert. L’uomo riesce a convincere i tre a gettare nell’oceano il corpo del marinaio e
riesce a far cadere in acqua anche un mitra. Ma non era l’unica arma di cui i tre
disponevano e, nella sparatoria che segue, l’uomo resta colpito al ventre. La mattina
seguente la barca viene trasportata indietro fino a Key West dalla corrente, alcuni
soccorritori salgono a bordo e Morgan ormai morente pronuncia a fior di labbra la frase
che lo ha consegnato alla storia della letteratura: «Un uomo solo – disse molto
lentamente – non ha nessuna … non può … un uomo solo … non ha nessuna via
19
I quarantanove racconti, in: E. Hemingway, Opere, vol. II, a c. di G. Monicelli e F. Pivano, Milano,
Mondadori 1962, p. 1054.
9
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d’uscita»20, frase perfetta anche come epitaffio sulla pietra tombale del suo risentimento
sempre covato e mai liberato.
Una tecnica difensiva per non lasciarsi schiacciare dal risentimento e cercare di
elaborarlo in modo da neutralizzarne gli effetti più devastanti consiste nell’affidarsi ad
un sistema artificiale di relazioni ben irreggimentato, nel quale l’individuo possa avere
la ragionevole certezza che ad ogni azione corrisponda sempre una reazione precisa,
certa e prevedibile. Insieme alla sanzione in caso di comportamento sbagliato, è
assicurato anche il riconoscimento reciproco, sebbene ad un livello decisamente non
elevato e per accedere al quale è necessario ridurre le dimensioni del proprio ego.
Questo è ciò che fa Joseph, il protagonista di Dangling Man (1944) di Saul Bellow
(1915-2005). Dotato di un’intelligenza superiore alla media dei suoi conoscenti, che per
questo motivo tendono sostanzialmente ad ostracizzarlo, quest’uomo vive una
condizione di frustrazione quotidiana permanente, alla quale non sa come sfuggire
finché non prende la decisione, sorprendente per gli altri, di arruolarsi nell’esercito in
piena Seconda guerra mondiale. Poco prima che la decisione divenga effettiva, in un
dialogo immaginario con un suo alter ego possibile che egli battezza sarcasticamente
Spirito d’Alternativa, Joseph difende la propria scelta sostenendo che è conforme alla
tradizione di quelli che lui chiama le “costruzioni ideali”: «Ve ne sono state varietà
innumerevoli: studio, saggezza, eroismo in guerra, benefizi della crudeltà, arte.
L’Uomo-Dio delle antiche culture, l’uomo intero dell’Umanesimo, l’amante cortigiano,
il cavaliere, l’ecclesiastico, il despota, l’asceta, il milionario, l’impresario. Potrei
nominare centinaia di queste costruzioni ideali, ognuna con le sue asserzioni e i suoi
simboli, ognuna con la sua particolare risposta, ognuna proclamante: “Questa è l’unica
via possibile per affrontare il caos”»21. Un dispositivo come quello militare permette a
Joseph di nascondere le sue difficoltà relazionali e mettere la sordina al suo personale
disadattamento. In questo caso, il risentimento troppo a lungo interiorizzato ha spinto il
soggetto ad implodere anziché esplodere, a contrarsi su se stesso fino a rinunciare alla
propria autodeterminazione anziché misurarsi con l’irredimibile concretezza del mondo
in una sfida che lo vedrebbe perdente. In fondo, si tratta semplicemente di una strategia
di sopravvivenza.
Il Bellow della piena maturità (anni ’60-’80) è un uomo che crede che, finché la
civiltà non è definitivamente e completamente morta, ci sono sempre delle possibilità a
nostra disposizione22, quanto meno per evitare di precipitare noi tutti con essa. E allora
un’altra strategia, caratteristica dei suoi personaggi di questo periodo, consiste nel
20
Avere e non avere, in: E. Hemingway, Opere, vol. II, p. 763.
S. Bellow, L’uomo in bilico, a c. di G. Monicelli, Milano, Mondadori 2000, p. 139.
22
«Maybe civilization is dying, but it still exists, and meanwhile we have our choice»: Conversations
with Saul Bellow, a c. di G. Cronin e B. Siegel, Jackson, University Press of Mississippi 1995, p. 110.
21
10
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sublimare su un campo neutro come quello della scrittura o dello scontro puramente
cerebrale l’impossibile sprigionarsi delle energie distruttive del risentimento. Da Seize
the Day (1956) fino a Humboldt's Gift (1975) questa soluzione viene proposta più volte
in forme e strutture diverse, che tra l’altro permettono all’autore di scatenare la sua forte
carica di ironia, tipica della cultura ebraica ashkenazita assimilata. Questo fattore è
particolarmente evidente in Herzog (1964), biografia parzialmente epistolare di un
umiliato che sembra morbosamente attratto dallo spettacolo della propria umiliazione.
Dato il carattere del personaggio, che è un classico tipo anale freudiano, data la sua
tendenza a subire continuando a rodersi dentro in attesa di un momento in cui poter
esplodere e che non arriverà mai, Herzog è il tipico ossessivo maniacale che ha un
bisogno vitale di qualche nemico sul quale concentrare l’origine dei propri mali. Il
nemico perfetto è la sua seconda moglie, Madeleine, da cui ha appena divorziato e che
oggettivamente fa tutto ciò che è in suo potere per rendersi odiosa, contando sulla
sostanziale incapacità reattiva dell’uomo, il quale si limita a contrattaccare scrivendo
lettere cariche di odio e di rabbia, lettere che non invia perché non sono destinate a
creare rapporti reali e reazioni concrete ma solo a mettere in scena il suo outrage come
spettacolare sfogo verbale con un solo spettatore: se stesso. Nei suoi pensieri, Herzog
arriva a dichiararsi pronto perfino ad uccidere, per vendicarsi di tutti quelli che lo hanno
oltraggiato, umiliato, ferito. Dal suo punto di vista, che è frutto di un risentimento
accumulato per tanti anni, la colpa è sempre degli altri:
«Gli avevano aperto la strada ad un omicidio per legittima difesa. Se lo
meritavano, di morire. Lui aveva diritto di ucciderli. Lo sapevano perfino,
perché morivano: non serviva nessuna spiegazione. Quando se lo sarebbero
trovato di fronte, avrebbero dovuto chinare il capo e accettare (…) Madeleine
invece avrebbe strillato e imprecato. D’odio, che era l’elemento più potente
della sua vita. Assai più potente di qualsiasi altro motivo o forza. In spirito, lei
era l’assassina di Herzog; di conseguenza lui si sentiva le mani libere: poteva
sparare o strozzare senza rimorso»23.
Nulla di tutto ciò accade, ovviamente. O meglio, nulla di tutto ciò accade fuori
dalla mente di Herzog, il cui páthos non riesce tuttavia ad intaccare la voglia di andare
avanti nonostante tutto, pronto a nuove possibili mortificazioni ma anche curioso di
vedere cosa ci sia in serbo per lui e soprattutto non disponibile a darla per vinta al
nemico. I soggetti risentiti della narrativa di Bellow non sono dei tipi esplosivi come
quelli di Faulkner e hanno sempre questa tendenza a fermarsi un attimo prima di dare
sfogo alla propria rabbia, lasciandola sedimentare e rielaborandola in forme
23
S. Bellow, Herzog, a c. di L. Ciotti Miller, Milano, Mondadori 2002, p. 386.
11
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prevalentemente verbali. Perfino un pavido come il prof. Corde, protagonista di The
Dean’s December (1982), ha dei momenti in cui non ne può più, quando si sente
«stanco di false opinioni e delle proprie distorsioni», e riconosce a se stesso che «sì,
aveva voluto dare il fatto suo a Chicago, ai suoi abitanti (…) ficcarglielo su ben bene, in
modo che non potessero più torglieselo»24, ma non lo fa né potrebbe mai farlo perché
quel mondo che non riesce più a capire non merita lo sforzo del suo disprezzo.
Questo tipo di sottosuolo della soggettività sembra complessivamente più
interessante e più sostanzioso di quello allucinogeno, dionisiaco ma abbastanza
fumettistico elaborato da Jack Kerouac pochi anni prima in The Subterraneans (1958),
dove la cosiddetta bop prosody cattura di sicuro il lettore ad ogni pagina (soprattutto nel
testo originale), ma lasciando alla fine una certa sensazione di vuoto.
Uno dei più accaniti coltivatori del proprio ego nella letteratura statunitense è stato
senza dubbio l’instancabile Norman Mailer (1923-2007). Nato nel New Jersey ma
cresciuto dapprima a Brooklyn e poi nelle zone più calde di New York City, è stato fra i
grandi animatori del Greenwich Village negli anni ’50 e ’60, durante l’esplosione della
cultura beatnik e hippie. Combattente nell’area del Pacifico durante la Seconda guerra
mondiale25, sperimentatore di sostanze allucinogene, catalizzatore del malcontento
borghese negli anni più difficili della guerra fredda e gran collezionista di mogli (ne
ebbe sei, la seconda delle quali fu da lui accoltellata nel novembre del 1960 e
sopravvisse quasi per miracolo), Mailer ha sempre avuto una concezione molto
muscolare dei modi in cui il suo Ego doveva farsi strada nel mondo, ai limiti del
parossismo se non oltre. Amante dello scandalo in ogni sua forma, gli piaceva finire
sulle pagine dei giornali per motivi non letterari, e ci finì molte volte. Fra i tanti episodi
utili ad inquadrare la sua vulcanica personalità, ricordiamo quando sfidò a boxe il padre
della seconda moglie, che era un pugile professionista, e le prese di santa ragione, cosa a
cui reagì stringendo amicizia con l’allora campione mondiale dei pesi medio-massimi
José Torres; nonché quando staccò a morsi mezzo lobo dell’orecchio sinistro del figlio
Michael durante una partita a football sul prato davanti casa26. Si è scritto molto sulla
sproporzione fra l’esplosività del suo Io e la corporatura piuttosto ridicola dell’autore.
Perfino dopo la sua morte, l’Independent ironizzò sull’origine del ‘machismo’
iperaggressivo di Norman Mailer come possibile sindrome compensativa per una scarsa
24
S. Bellow, Il dicembre del professore Corde, a c. di P.F. Paolini, Milano, Mondadori 2000, p. 223.
L’esperienza bellica nelle Filippine fu rielaborata con straordinaria efficacia in The Naked and the
Dead (1948), romanzo che gli garantì il successo di pubblico a soli 25 anni.
26
Cfr. A. Wilson, Norman Mailer: An American Aesthetic, New York City, Peter Lang International
Academic Publishers 2008, p. 99.
25
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generosità della natura nei suoi confronti27. E presumibilmente è proprio questo il
motivo adleriano per cui il tema del risentimento compare solo di riflesso nella sua
vasta opera, quasi si trattasse di un morbo di cui temeva il contagio. Ma seppe
svilupparlo come fenomeno sociale diffuso nell’America repressiva dell’amministrazione Johnson in uno dei suoi migliori libri, The Armies of the Night (1968)28, con
cui vinse sia il premio Pulitzer che il National Book Award. E la componente del
risentimento come percorso di una frustrazione personale che sfocia nella
autodistruzione è molto vivida anche nella lunga e dolorosa storia del condannato a
morte Gary Gilmore, la cui esecuzione fu sospesa per tre volte e infine eseguita nel
gennaio del 1977 in un carcere dello Utah, vicenda rielaborata dall’autore e narrata nelle
mille pagine di The Executioner’s Song (1979)29.
Il tema del risentimento non è fra quelli maggiormente trattati da Flannery
O’Connor (1925-1964), altra autrice proveniente dal Sud (nata a Savannah, Georgia, da
genitori di origini irlandesi) ma che ha trascorso buona parte della sua breve vita nel
Midwest (a Chicago, proprio come Bellow) e nel New England (a Saratoga Springs e
nelle campagne del Connecticut), prima di tornare in Georgia nel vano tentativo di
curare un lupus eritematoso ereditato dal padre e che le viene diagnostico già nel 1951,
a soli ventisei anni. La formazione cattolica ricevuta in famiglia provoca una spinta
inconsapevole in questa grande maestra della short story a superare i meccanismi che
possono intrappolare i suoi soggetti nella gabbia del risentimento e della rabbia, in
direzione di soluzioni che anelano a forme di soteriologia morale ovvero, al contrario,
verso intrecci con twist ending nei quali sembra non salvarsi nessuno. Pur non essendo
un suo Leitmotiv, tuttavia il risentimento fa capolino fra le pagine dei due romanzi
pubblicati, Wise Blood (1952) e The Violent Bear It Away (1960), nonché fra quelle dei
numerosi racconti che le hanno garantito il prestigio letterario sia in America che in
Europa. In particolare trova una collocazione in primo piano nel racconto Il profugo
(The Displaced Person), pubblicato in rivista nel 1954 e poi nella stesura definitiva
nella raccolta A Good Man Is Hard To Find (1955). In questa narrazione ambientata
durante la Seconda guerra mondiale la protagonista, Mrs. McIntyre, è una donna
sopravvissuta a tre matrimoni poco riusciti ma che le hanno garantito l’eredità di un
possedimento di terra piuttosto esteso, nel quale lavorano molti neri con le loro
27
«His relentless machismo seemed out of place in a man who was actually quite small – though perhaps
that was where the aggression originated»; cfr. http://www.independent.co.uk/news/obituaries/normanmailer-400006.html.
28
Prima trad. ital.: N. Mailer, Le armate della notte, a c. di E. Capriolo, Milano, Mondadori 1968.
29
L'edizione più recente, con prefazione di Dave Eggars, è: N. Mailer, The Executioner’s Song, New
York City, Grand Central Publishing 2012; trad. it.: N. Mailer, Il canto del boia, a c. di E. Capriolo,
Milano, Mondadori 1981.
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famiglie. Un prete locale di scarsa intelligenza la induce a dare ospitalità e lavoro ad una
famiglia di profughi polacchi scappati dall’occupazione nazista, e il capofamiglia si
distingue rapidamente per la sua dedizione al lavoro nei campi e nelle stalle. Ma la
signora McIntyre vive questa presenza come una forma di intrusione negli equilibri
precari della sua tenuta, quasi come una violazione della sua personalissima dottrina
Monroe, e in tempi piuttosto rapidi il ‘diverso’ comincia ad essere circondato da un’aura
di sospetto crescente. La sua presenza causa risentimento, dapprima nella famiglia di
fittavoli che Mrs. McIntyre aveva eletto a sua prediletta e che preferisce andar via, poi
nella donna stessa che non può tollerare certe decisioni prese dal profugo e comincia ad
interpretare la sua ottusità comunicativa come una forma di opposizione alla sua
vacillante autorità. Presto l’insieme di relazioni degenera, provocando disturbi della
personalità nella signora McIntyre e perfino un principio di dissociazione con corredo di
allucinazioni: «Aveva una visione dentro di sé. Vedeva i dieci milioni di profughi che si
facevano strada a gomitate nei paesi nuovi mentre lei, un angelo gigante con le ali
grandi come una casa, diceva ai negri che dovevano trovarsi un altro posto»30. Tenta più
volte di licenziare il profugo per eliminare questo fattore di alterazione dei rapporti, ma
qualcosa puntualmente la frena, e il fallimento nel tentativo di allontanarlo – in quanto
dimostrazione ulteriore della sua perdita di autorità – non fa che incrementare il suo
rancore. Ma un incidente piuttosto sospetto provoca la morte improvvisa del polacco ad
opera proprio del fittavolo reintegrato, e da quel momento per la donna si apre la strada
a senso unico verso la disgrazia, finché precipita rapidamente nel baratro di una
vecchiaia fatta di solitudine, malattia e abbandono. Come dire che, non avendo saputo
affrontare i propri demoni interiori, la donna non è riuscita a liberare l’energia
distruttiva del risentimento, che ha continuato a lavorare dentro di lei portandola
all’autopunizione non espiatrice.
4.
Fra gli autori viventi, quelli che maggiormente hanno trattato il problema del
risentimento appartengono alla generazione dei nati durante la Grande depressione,
negli anni Trenta, e diventati adulti nei decenni del boom economico postbellico. In
massima parte si tratta di scrittori che hanno mostrato una sincera attrazione verso certe
forme più o meno estreme di individualismo e che hanno narrato nelle loro opere
vicende biografiche caratterizzate, quanto meno in non pochi casi, da un’attenzione ai
territori del conflitto fra la collettività e il soggetto che cerca di affermarsi secondo le
diverse varianti possibili del mito del self made man. Le condizioni economico-sociali
degli anni ’50-’60 erano tali da permettere a molti uomini (poche donne, per la verità)
30
F. O’Connor, Tutti i racconti, a c. di M. Caramella, Milano, Bompiani 2011, p. 219.
14
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della media borghesia di partecipare alla corsa verso il successo secondo le opportunità
allora a disposizione: dalla carriera politica a quella aziendale, dall’onda crescente del
mercato pubblicitario (si pensi al serial TV Mad Men) al mondo dello show business in
senso stretto. E, sia in questi campi che in altri, il rischio di non farcela, lo spettro del
loser incombente, ha sempre avuto la tendenza a farsi annunciare dallo scacco nei
rapporti con altri soggetti, più autorevoli o più potenti o anche più determinati, causando
fenomeni di risentimento. Gli scenari che ospitano queste narrazioni vanno dalla
famiglia conservatrice che impedisce l’emancipazione del singolo al mondo del lavoro
particolarmente spietato, ma in linea di principio le conseguenze tendono ad essere
simili tra loro perché la psiche umana è caratterizzata da un’uniformità di fondo anche
nei meccanismi stimolo/risposta.
L’esordio di Don DeLillo (nato a New York nel 1936 da genitori molisani
emigrati) è un romanzo postmodernista, Americana, pubblicato nel 197131 e nel quale
tra i fattori che determinano il malessere del cittadino statunitense oggetto del libro c’è
anche il mancato riconoscimento della dignità del singolo, ritenuta superflua in un
sistema di relazioni interpersonali basato essenzialmente sull’agonismo e sulla
sopraffazione. E in uno dei suoi grandi capolavori, Libra (1988), l’autore trasfigura il
personaggio di Lee H. Oswald, l’assassino di John F. Kennedy, fino a farne un autentico
campione del risentimento da entrambi i versanti della cortina di ferro. Il suo soggiorno
in Unione Sovietica è interamente caratterizzato da una rabbia crescente per il mancato
riconoscimento da parte delle autorità moscovite dei rischi da lui corsi voltando le spalle
agli USA, esattamente come il ritorno in America con moglie e figlia ha come spinta
principale il suo furore inespresso verso i russi irriconoscenti, i quali avevano vidimato
la sua mediocrità di proletario che «non partecipava alla vita sociale della comunità
operaia (…) [che] non mostrava spirito di iniziativa e reagiva con suscettibilità alle
proficue osservazioni del caposquadra»32. In questo modo, anche i bramati compagni
avevano alimentato il suo risentimento. La genialità di DeLillo in questo romanzo sta
nel proporre Oswald essenzialmente come un passivo-aggressivo in rabbiosa attesa di
riscatto, un piccolo uomo insofferente della sua patologica mediocrità, al punto che non
c’è bisogno che le trame dei servizi segreti americani o degli esuli anticastristi
raggiungano con lui un accordo perché maturi in lui l’intenzione di sparare al presidente
e si metta insieme il necessario per attuare tale proposito. Non c’è alcun bisogno di
alterare il corso degli eventi: basta assecondarlo e le due rette che raccontano la vita di
Oswald e la morte di Kennedy finiranno per incrociarsi.
31
Prima traduzione italiana: D. DeLillo, Americana, a c. di M. Pensante, Milano, Mondadori 2000; poi
ripubblicato più volte da Einaudi nella medesima traduzione.
32
D. DeLillo, Libra, a c. di M. Bocchiola, Torino, Einaudi 2002, p. 197.
15
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Tra le grandi conquiste della cultura americana del XX secolo c’è la rimozione
sistematica degli ostacoli che si frappongono tra l’autore e l’oggetto della sua opera. Se
la società genera mostri, ben presto emergeranno scrittori, registi, artisti, perfino
disegnatori che affronteranno di petto tali mostri, senza troppi filtri né apparati
simbolici. È possibile ironizzare su tutto o quasi, trasformare ogni cosa in un oggetto
della cultura popolare, schernire, denigrare, ridimensionare ma senza negare. Lo stesso
risentimento può perciò essere trattato in molte chiavi, senza idolatrarlo né nasconderlo,
trasformando ciò che altrimenti tenderebbe sempre a conservare un registro drammatico
in qualcosa di grottesco e di umoristico. Questo è ciò che fa Joyce Carol Oates
(Lockport, NY, 1938) in un suo romanzo del 1994 intitolato What I Lived For, libro che
ha vinto il National Book Award ed è stato anche finalista al premio Pulitzer. Si narra la
storia quasi fumettistica di Jerome A. Corcoran, detto Corky, tracotante venditore di
auto usate a Union City, la cui posizione sociale è costantemente derisa da persone della
medio-alta borghesia locale, uomini affermati in società, imprenditori e politici, che lo
trattano dall’alto in basso fin da quando era un semplice studente. Lui fornisce ai suoi
nemici tutti gli argomenti possibili per essere umiliato: è un rozzo, un cafone sessista,
un provinciale che ha trascorso la sua esistenza a cercare di costruirsi un’immagine
pubblica di successo al solo scopo di impedire agli altri di ricordargli le sue umili
origini. Ma la sindrome del parvenu non lo ha mai abbandonato e dentro di sé ha
continuato a sapere ogni singolo giorno che per gli altri, per quelli che hanno avuto
successo, «sarai sempre merda sotto le scarpe», frase lapidaria che l’uomo ripete
innumerevoli volte anche al figlio cercando di salvarlo da un destino come il suo. I
tentativi di spostare sul lavoro l’impossibile rivalsa finiscono per divorare Corky giorno
dopo giorno, ma senza mai piegarlo del tutto perché più forte di ogni cosa è il
risentimento che per lui è diventato istinto di sopravvivenza. Corky ha infatti un solo
obiettivo nella vita, che si ripete talvolta mentre si guarda nello specchio per radersi:
«salire abbastanza in alto per poter cacare in testa a tutti quanti»33, obiettivo ovviamente
irrealizzabile ma conforme al risvolto quasi fumettistico che la sua esistenza assume nel
tempo, prima di disgregarsi in un fatidico Memorial Day. Il modo irriverente in cui la
Oates tratta questo argomento desacralizzandolo rende estremamente umani i suoi
personaggi, sia in questo romanzo che in altri della sua sterminata produzione, e questo
tipo di demitizzazione e di smascheramento fa parte a pieno titolo del percorso che la
lunga parabola storica dell’individualismo ha conosciuto in America nell’ultimo scorcio
del XX secolo.
Anche l’immenso Philip Roth (Newark, NJ, 1933), in quanto specialista
nell’esplorazione di certi meandri oscuri della psiche sia dell’everyman che
33
J.C. Oates, Per cosa ho vissuto, a c. di S. Rota Sperti, Milano, Il Saggiatore 2007, p. 146.
16
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dell’intellettuale americano contemporaneo, si è occupato del problema del risentimento
e lo ha trattato in alcune delle sue narrazioni non dedicate all’eterna questione del
conflitto con il padre simbolico e con l’autorità. Il risentimento sfocia ad esempio in
pulsione autodistruttiva in When She Was Good (1967), la cui protagonista, Lucy, vive
nel centro ideale di una specie di costruzione geometrica fatta di odio e frustrazione.
Figlia di un alcolista violento che finisce in galera mentre lei è ancora una bambina e di
una madre irrilevante e totalmente passiva, Lucy cresce oscillando per molti anni tra la
sindrome dell’“io ti salverò” e il disprezzo verso il prossimo, un disprezzo che però non
può mai esprimere. Più il tempo passa, più cresce in lei l’odio verso la vita che le è
capitata, verso i genitori disfunzionali, poi verso l’uomo che decide di sposare senza
amarlo, infine verso il mondo intero che non si assoggetta alle sue esigenze morali e
materiali. Il risentimento è la sua via di fuga (fallita) da un’adolescenza nella quale, lei
ragazzina presbiteriana, si è lasciata affascinare dalla parabola di Teresa di Lisieux, per
scoprire progressivamente la sua ineffettualità e constatare che soffrire per gli altri non
serve a niente. Ma è anche un meccanismo di fascinazione che fa scaturire in lei
un’attrazione irresistibile per l’abisso, con ovvie conseguenze sulla sua vicenda
biografica. Quando prova per l’ultima volta a modificare le vite degli altri, percepisce la
sensazione che «per sostenersi non avrebbe avuto altro che la forza del suo odio»34, il
che è esattamente ciò che la conduce verso un epilogo tragico di cui lei è l’unica
artefice, vittima del proprio risentimento che la consuma giorno dopo giorno.
In Zuckerman Unbound (1980-1981), seconda parte della tetralogia che ha per
protagonista il celebre alter ego di Roth, opera più matura nonché uno dei romanzi più
freudiani dell’autore, il risentimento si intreccia con una curiosa angoscia da castrazione
e con una forma piuttosto contorta di Edipo nei confronti di una madre che Nathan si
trova improvvisamente costretto a porre in primo piano nella sua vita e quasi a dover
proteggere, non essendo capace né desideroso di farlo. Ogni tentativo di allontanarsi dai
propri doveri (ansia primaria per il kierkegaardiano protagonista) viene vanificato dagli
avvenimenti che si verificano intorno a lui e che lo fanno retrocedere da scrittore di
successo a poveraccio ignorato dai più. Se la vicenda non si gonfia fino a farne una
sorta di Cognizione del dolore ebraico-newarkese è solo grazie ad una fortissima carica
ironica, che ricorda al protagonista che, in fondo, «non devi fare altro che aspettare, e la
vita ti insegna tutto ciò che bisogna sapere sull’arte dell’irrisione»35. In effetti,
l’irrisione può bastare ad evitare di restare schiacciati sotto la pressa dell’umiliazione
(pubblica o privata) e quindi del risentimento non superato, infatti è una delle tecniche
di difesa che Nathan apprende man mano che la sua storia si sviluppa nei romanzi che
34
35
Ph. Roth, Quando lei era buona, a c. di N. Gobetti, Torino, Einaudi 2012, p. 301.
Ph. Roth, Zuckerman scatenato, a c. di V. Mantovani , Torino, Einaudi 2004, p. 73.
17
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Roth gli ha dedicato, libri nei quali la parziale proiezione dell’autore si mescola con la
contrapposizione frontale36.
Meno riuscito è invece il modo in cui risentimento e frustrazione vengono
sviluppati in uno degli ultimi romanzi di Philip Roth, Indignation (2008), pubblicato
quattro anni prima dell’annunciato ritiro. Siamo nel pieno della Guerra di Corea e lo
studente Marcus, un tipico ragazzo americano degli anni ’50, vive una situazione molto
conflittuale tra il college estremamente rigoroso nel suo disciplinamento del soggetto in
formazione, le aspettative di una ragazza lì conosciuta, Olivia, e la concretezza del
conflitto armato che, a dispetto della sua incommensurabile distanza geografica, riesce a
farsi sentire con la sua cruda realtà. Il tremendo interrogatorio a cui Marcus viene
sottoposto dal decano Caudwell dopo uno sciocco episodio molto comune tra gli
studenti di college anche in quegli anni, viene da lui vissuto come un affronto personale
di dimensioni colossali, apocalittiche, e di fatto si traduce nel primo passo da lui
compiuto verso la propria catastrofe, come è tipico di certe personalità disturbate. Ad un
certo punto l’anziano garante dell’ordine nella struttura educativa si rende conto che
l’inquisito potrebbe perdere i sensi e gli offre un secondo bicchiere d’acqua perché
ritiene che il ragazzo ne abbia un gran bisogno. Per Marcus è un affronto colossale:
«Ero irritato, ero umiliato, ero risentito, e non avevo intenzione di degnare il bicchiere
nemmeno di uno sguardo»37, per non formalizzare la sua pur evidente inferiorità nei
confronti dell’uomo che incarna l’autorità accademica. Eppure, nel resto del romanzo, la
vicenda di Marcus non viene sviluppata secondo tutte le sue potenzialità, alcuni
momenti decisivi sono appena accennati, e l’autore non sembra provare nei suoi
confronti quell’empatia dimostrata invece per molti altri suoi personaggi.
Dunque, la seconda metà del Novecento ha visto all’opera numerosi autori che si
sono cimentati con le più diverse e spesso imprevedibili conseguenze del self-made
man, ideale sociale che è un prodotto storico molto elaborato e la cui genealogia è
sempre stata ricca di risvolti sia epici che ingloriosi. Questo mito popolare ha permesso
di narrare affascinanti saghe familiari di grandi industriali38, vicende biografiche
esemplari di uomini venuti fuori dal nulla, episodi caratterizzati da dosi incredibili di
coraggio e tenacia. Ma nella sua ombra è sempre cresciuta la pianta del risentimento,
che potremmo considerare il mood per eccellenza del suo opposto: il fallimento, il
mancato riconoscimento degli sforzi compiuti, o anche il vedere tramontare la propria
36
Sul complesso rapporto tra Roth e il suo più famoso alter ego, cfr. P. Masiero, Philip Roth and the
Zuckerman Books: The Making of a Storyworld, Amherst, Cambria Press 2011.
37
Ph. Roth, Indignazione, a c. di N. Gobetti , Torino, Einaudi 2011, p. 57.
38
Che questo tipo di narrazione, se sviluppata nel modo giusto, eserciti ancora oggi un grande fascino è
dimostrato dal notevole romanzo di Richard Powers Gain (tit. ital. Sporco denaro, pubblicato negli USA
nel 1998), che ha una struttura binaria, dove una delle due storie raccontate è l’epopea industriale della
famiglia Clare nel XIX secolo, da piccoli produttori artigianali di sapone a holding imprenditoriale.
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stella troppo presto e in modo traumatico. Per tornare a quanto scritto in apertura, è stato
possibile sviluppare narrazioni di individui esemplari, rappresentativi o titanici, e questa
esigenza storico-sociale è stata soddisfatta a tal punto che, soprattutto nella seconda
metà del secolo, gli autori hanno decostruito e declinato il mito in tutte le sue possibili
varianti, dal drammatico al grottesco.
Forse il XXI secolo non avrà più bisogno di questa esigenza, forse la società
americana produrrà nuovi paradigmi e quindi nuovi mostri, ma la letteratura li
affronterà di petto come è abituata a fare, poiché resterà affezionata a quell’idea
splendidamente esposta da Walt Whitman in un suo celebre, solenne verso:
«Io celebro me stesso, io canto me stesso, e ciò che io suppongo devi
supporlo anche tu, perché ogni atomo che mi appartiene è come se
appartenesse anche a te».
19
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