11 Psicopatologia e clinica dei disturbi mentali

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11 Psicopatologia e clinica dei disturbi mentali
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Psicopatologia e clinica dei disturbi
mentali
Carla Marzani
Introduzione
Tutti coloro che operano nel campo della riabilitazione dei bambini con paralisi cerebrale infantile (PCI) sperimentano quotidianamente quanto il recupero e la valorizzazione delle potenzialità motorie siano strettamente legati alle caratteristiche psicologiche del bambino, nonché all’attitudine della famiglia e dell’ambiente sociale che lo circonda. L’utilizzo delle funzioni motorie, infatti, non si attua, per il bambino con PCI come per il bambino sano, in maniera spontanea, bensì mediante un lungo percorso di
sperimentazioni e di apprendimenti che impegnano necessariamente la sua intera persona. L’acquisizione di una postura o di un’attività (la marcia, la manipolazione) non
ne garantisce necessariamente l’uso corretto, che deve essere spontaneo, duttile, variabile e adattabile alle diverse situazioni non solo inconsciamente, ma anche coscientemente, e deve quindi poter rispondere alle esigenze dell’intenzionalità e della volontà.
Ogni dominio posturale e motorio sarà cioè frutto non solo della possibilità di organizzare delle prestazioni motorie, ma anche dell’integrazione delle afferenze sensoriali, in
particolare visive e vestibolari, di un sufficiente livello di rappresentazione dello schema
corporeo, del livello di organizzazione dei parametri spazio-tempo e quindi dell’efficienza cognitiva, affettiva ed emozionale. Il bambino cioè in ogni sua espressione motoria, verbale, cognitiva si esprimerà sempre attraverso ciò che viene definito “Sè” e la
sua stessa intera personalità.
Tenendo conto che il percorso riabilitativo si attua nella maggior parte dei casi nei
primi anni di vita, quando la struttura mentale del bambino è in via di organizzazione,
risulta evidente quanto questo dipenda dallo sviluppo mentale e quanto quest’ultimo
possa condizionare le acquisizioni motorie, come più volte sottolineato dall’équipe del
Centro pilota di Barcellona (Aguillar et al., 1980; Aguillar, 1983).
Lo sviluppo mentale, il comportamento e quindi l’eventuale patologia psichiatrica
dei bambini con PCI viene comunque sovradeterminato da molti fattori, che si possono così riassumere:
– il danno del sistema nervoso centrale con le sue diverse caratteristiche;
– le alterazioni senso-percettive ed i condizionamenti neurofunzionali legati alla patologia del movimento, che influenzano non solo l’utilizzo della motricità, ma anche lo
sviluppo cognitivo e l’apprendimento;
– i condizionamenti relazionali, dovuti sia alle distorsioni prodotte dalla situazione
neurologica sullo sviluppo della relazione oggettuale e del Sé, sia alle gravi esperienze che, in genere, accompagnano la nascita (separazione, mancato attaccamento), sia
alla personalità e alle risposte dei genitori;
– la necessità di precoci e prolungati trattamenti che incidono sulla relazione e sui ritmi di vita del bambino e della sua famiglia.
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Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile
Le conseguenze del danno cerebrale sono naturalmente molto diverse in relazione a
tipo, sede ed estensione dello stesso, nonché al momento della sua insorgenza (vedi cap.
3), pur trattandosi generalmente di danni o di lesioni che si esprimono in epoca assai
precoce e influenzano quindi sin dall’inizio il percorso evolutivo, producendo distorsioni nello sviluppo e nell’integrazione delle funzioni nonché peculiarità e alterazioni
nell’organizzazione della diade madre-bambino.
I condizionamenti neurofunzionali sono costituiti dall’intensa eccitabilità neuronale, che rende difficile l’organizzazione del ritmo sonno veglia e/o alimentare, dalle modifiche del tono e dalla patologia del movimento, con conseguente alterazione del feedback propriocettivo e quindi del controllo motorio, dalla messa in gioco di altri canali
sensoriali con funzione di supplenza, ecc. Inoltre il movimento viene spesso attivato
passivamente, a volte in maniera disadatta o eccessiva: tutto ciò comporterà particolari esperienze in relazione al “sentirsi” (sentirsi fermo, sentirsi in movimento) e al “conoscere”, con uno sviluppo disarmonico della rappresentazione del Sé corporeo. Tutto
ciò, unito alla presenza di frequenti limitazioni nell’uso del linguaggio, comporterà una
disarmonia nello sviluppo dei processi cognitivi, affettivi e relazionali.
I condizionamenti relazionali riguardano il versante del bambino e il versante materno. Per quanto riguarda il bambino, le limitazioni neurofunzionali già esposte inducono naturalmente limiti pure nelle capacità relazionali (bambini sofferenti, poco attivi o iperattivi, con esigenze toniche particolari, ecc.), ma esistono spesso altri problemi
ancora (alimentari o respiratori), che riducono lo stato di benessere e la capacità di introiezione positiva (Negri, 1994). Sul versante materno, ciò che caratterizza e condiziona l’attitudine allevante è in genere la presenza di esperienze molto dolorose che riguardano il periodo della gravidanza o del parto o dell’immediato post-partum. Il dubbio che il bambino non sopravvivrà (paura di morte), o non sarà normale (paura di
anormalità), o non verrà curato bene (paura di insuccesso), come nel caso dei grandi
prematuri, spesso rinforzato da comunicazioni affrettate o poco comprensibili da parte dei medici, modificherà o interromperà le fantasie relative al futuro del bambino,
condizionando definitivamente il rapporto madre-bambino (Silbertin-Blanc et al.,
2002).
Esistono naturalmente molte diversità individuali, ma lo stile delle madri dei bambini con PCI si può sostanzialmente dividere in due tipologie: le madri iperstimolanti,
che continuamente cercano di mettere nel o di pretendere dal bambino cose che egli
non può né accettare né offrire, e le madri passive, cioè assenti, depresse, che delegano,
non comunicano, non stimolano.
Fra le componenti relazionali che inducono alterazioni nello sviluppo del bambino,
vi sono pure i conflitti e le inevitabili contraddizioni educative che si producono nel nucleo familiare; infatti un bambino malato impegna molte energie sia sul piano pratico
sia sul piano mentale, cosa che può alterare il rapporto di coppia e/o quello con i fratelli.
Infine nella vita del bambino con PCI si introducono da subito altri rapporti molto
pregnanti, soprattutto quello con il suo terapista, che inevitabilmente influiranno sulla
spontaneità della crescita relazionale.
Non esistono per ora dati certi relativi alla percentuale di disturbi psicologici o comportamentali o di vere e proprie patologie psichiatriche nei bambini affetti da PCI e in
particolare è carente la letteratura psichiatrica-psicoanalitica, proprio per l’impostazione individuale data al trattamento dei pazienti. Autori di altra impostazione, come
ad esempio Breslau (1990), in uno studio su 98 pazienti hanno trovato che la maggiore
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percentuale di questi bambini soffriva di isolamento sociale e di comportamenti oppositivi o di dipendenza. Mc Dermott et al. (1996) hanno condotto uno studio epidemiologico sulla frequenza dei disturbi comportamentali nei bambini con PCI e hanno rilevato che questa è di circa cinque volte maggiore rispetto alla media della popolazione
normale, cioè del 25% anziché del 5%.
Come noto, in psicologia e psichiatria dell’età evolutiva è sempre molto difficile
giungere a dati epidemiologici attendibili per i diversi criteri utilizzati nelle valutazioni
cliniche e nelle definizioni dei disturbi. Si può invece affermare che l’acquisita consapevolezza della necessità di tenere conto dello sviluppo globale del bambino nel percorso riabilitativo ci pone con sempre maggiore frequenza in contatto con difficoltà da
attribuirsi allo sviluppo mentale o del Sé. Ciò porta alla convinzione che l’impostazione
del programma terapeutico debba tenere conto il più possibile pure degli aspetti relazionali, familiari, educativi e sociali.
L’importanza del movimento nello sviluppo mentale e del Sé
Il tema dello sviluppo del Sé verrà trattato con preminente riferimento alla teoria psicoanalitica per la specifica competenza di chi scrive; d’altro lato sembra molto importante, per la cura di questi pazienti, arrivare a conoscere in modo preciso le interferenze emotivo-relazionali sull’uso della motricità e quindi il loro peso nella strutturazione
della mente, processo che può risultare più facile utilizzando il pensiero della psicoanalisi infantile.
L’acquisizione della stazione eretta e del cammino sono funzioni essenziali per lo
sviluppo generale e per l’adattamento della specie umana, ma queste attività hanno pure un’importanza particolare per quanto riguarda lo sviluppo mentale. In un ampio lavoro di rassegna, Bela Mittelman (1954) cerca di riassumere i numerosi significati e
l’importanza attribuiti dal pensiero psicoanalitico al movimento nello sviluppo dell’Io
e della personalità, lamentando che la letteratura in tale senso è povera e poco coerente. A distanza di molti anni, i contributi sistematici sull’argomento continuano ad essere poveri. Ritengo che la precocità con cui si organizza la funzione motoria nel bambino sano sia il motivo essenziale per cui la psicoanalisi non riesce con facilità a raccogliere conoscenze proprie in tale senso; penso ancora che lo studio del bambino con PCI
possa essere un campo di grande interesse pure in questa direzione.
Seguendo le conoscenze acquisite in questo ambito, riporterò alcuni concetti relativi alla teoria freudiana dello sviluppo e alla teoria kleiniana.
Secondo la teoria classica, il movimento è una delle componenti più importanti di
espressione dell’Id: mediante il movimento il bambino esprime il piacere, la rabbia, la
sua tensione a vivere.
Osservando i bambini con importanti deficit motori nei primi mesi di vita e la loro
disarmonica capacità di espressione motoria, mi sono chiesta molte volte quali esperienze interne essi riportino e quali eventuali restrizioni possa subire lo stesso impulso
di vita; ciò mi è parso particolarmente possibile in bambini con importanti patologie a
insorgenza prenatale. Il movimento, per il fatto di essere espressione dell’ Id, è una matrice importante della parte inconscia della mente e cioè del nucleo primitivo del Sé. Il
movimento è cioè una via dominante per l’espressione del piacere e della fantasia, un
veicolo per i desideri, quali il mettere in bocca, il toccare, il giocare, ma anche del dispiacere: mediante il movimento il bambino esprime l’angoscia e la rabbia, quando il
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Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile
movimento serve per piangere, agitarsi, cambiare posizione, ecc. Il movimento rappresenta pure un mezzo fondamentale per sperimentare la vicinanza e la lontananza; lo
sviluppo dell’individuazione-separazione è molto collegato ad esso e per questo i bambini con PCI hanno spesso limitazioni in questa funzione. Il movimento, quello del capo o del corpo, è anche essenziale per l’espressione dell’affermazione o del dissenso, del
sì e del no; conosciamo l’importanza di questa acquisizione nei bambini con PCI. Nel
corso dello sviluppo, il movimento è sempre più assunto dall’Io come una funzione sia
adattativa, finalizzata, cosciente, sia difensiva (Mittelman 1954, 1960). Siamo a conoscenza di come la nostra attitudine psicomotoria sia contemporaneamente un aspetto
adattativo e difensivo all’ambiente. Corominas (1983) sostiene che qualunque tipo di
movimento, acquisito o non acquisito da un bambino con PCI, in parte risente delle lesioni e dei condizionamenti neurofunzionali, ma in parte è legato agli aspetti nevrotici
o psicotici della mente, che riguardano l’uso delle funzioni motorie. Il movimento quindi, nelle sue diverse manifestazioni, uso reale o uso fantasmatico, mezzo per esprimere
piacere o dispiacere, per organizzare adattamenti o difese, costituisce uno degli strumenti fondamentali per l’organizzazione del Sé del bambino.
La teoria kleiniana dello sviluppo mentale è molto utile per spiegare le anomalie dello sviluppo e della personalità dei bambini con PCI. Il primo nucleo dell’Io, dice la
Klein, è costituito dalla fantasia inconscia, quale mediatore fra l’Id e il mondo esterno.
Questa fantasia inconscia è inizialmente costituita da oggetti parziali: oggetti idealizzati e oggetti persecutori, legati a esperienze provenienti sia dal corpo sia dalle relazioni
con l’esterno, tenuti separati dalla scissione. Le successive esperienze di contatto con
l’ambiente esterno permetteranno un confronto delle diverse esperienze, favorito pure
dall’integrazione sempre più raffinata di esperienze e di schemi senso-motori. Nel bambino con PCI che, specie se grave, ha pochi strumenti per fare delle integrazioni e ha
scarse possibilità di introiezione, i diversi aspetti del tono, i pattern o le esperienze senso-motorie tenderanno a rimanere scissi e resteranno a lungo come oggetti parziali, assumendo valenze piacevoli o spiacevoli, a volte persecutorie, a seconda delle circostanze e dei momenti dello sviluppo. Nei bambini con PCI vi potrà essere anche la compromissione di altre funzioni, quali quelle attentive o mnesiche, con la conseguente presenza di aspetti di smantellamento attivo o passivo delle esperienze (Meltzer, 1975) e
conseguente impoverimento mentale, come accade nei bambini autistici. I bambini con
PCI, per quanto esposto sopra, sono bambini con difficoltà nei processi di introiezione
e di organizzazione delle esperienze primitive; a ciò si aggiunge la loro prolungata necessità di dipendenza dall’altro, che li rende soggetti alla manipolazione e alla proiezione dell’altro, per cui sono spesso invasi da ciò che gli altri sentono o pensano. Per tale
motivo incontrano ulteriori difficoltà nella differenziazione delle esperienze provenienti dall’interno o dall’esterno e quindi nel riconoscimento della realtà esterna e nella sua definizione.
Riporto alcuni contenuti di pensiero relativi al significato e alla strutturazione del Sé.
Freud non parla specificamente del Sé; questo concetto compare successivamente,
mediato dalla psicologia dell’Io, che ha avuto un grande sviluppo negli Stati Uniti a partire dagli anni quaranta.
Un contributo essenziale alla definizione del concetto di Sé è stato offerto dalla Jacobson (1954), che utilizza tale concetto per coniugare quanto rilevato dalla clinica con
le ricerche sullo sviluppo infantile. L’autrice propone una prima fase psicofisiologica
del Sé, che inizia a svilupparsi già nel periodo prenatale e corrisponde ai primi mesi di
vita, e una seconda fase del Sé mentale in cui si evidenziano e si stabilizzano le rappre-
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sentazioni psichiche di Sé e degli altri. Progressivamente, sulla base di tracce mnesiche
gradevoli o frustranti si vanno organizzando immagini di Sé fluttuanti, inizialmente
confuse con immagini dell’oggetto e poi sempre più distinte, sia in relazione al Sé che
all’oggetto, nonché alla loro qualità. La Jacobson conferisce pure importanza alla possibilità del soggetto di attribuire un investimento libidico sufficiente e durevole sia al Sé
sia all’oggetto, al fine di un buon funzionamento dell’Io.
Riportiamo pure la definizione di Sé data da Winnicot (1971), che attribuisce una
preminente importanza nella sua formazione alla qualità dell’accudimento: “Per me il
Sé, che non è l’Io, è la persona che è Me, solo Me, che ha una totalità basata sull’azione
del processo maturativo. Nello stesso tempo il Sé ha delle parti ed in realtà è costituito da
queste parti. Queste parti vengono a saldarsi insieme dal centro verso la periferia nel corso dell’azione del processo maturativo, assistito (soprattutto al principio) dall’ambiente
umano che sostiene, manipola e facilita in modo vivo. Il Sé si trova naturalmente posto
nel corpo, ma in certe circostanze può dissociarsi dal corpo nello sguardo e nell’espressione della madre e nello specchio, che può giungere a rappresentare il viso della madre.
Infine il Sé arriva ad un rapporto significativo tra il bambino e la somma delle identificazioni che (dopo una sufficiente incorporazione e introiezione di rappresentazioni
mentali) si organizzano nella forma di una viva realtà psichica interna”.
Stern (1985), cercando di confrontare e integrare le conoscenze derivate dal pensiero psicoanalitico con quelle derivate dall’osservazione diretta, delinea in maniera molto convincente lo sviluppo del Sé del bambino nelle sue diverse fasi, mettendo al centro
il “senso di Sé”. Sarebbe molto interessante studiare lo sviluppo del Sé in bambini con
PCI, seguendo le linee di Stern, per il grande peso che viene attribuito al bambino come
partner interattivo della madre e per le costanti limitazioni precoci proprie dei bambini con PCI. Questi hanno spesso alla nascita limiti nel sistema visivo, prima fonte di
contatto sociale, e sempre nel sistema motorio, altro veicolo essenziale di contatto e di
distanziamento. In particolare, iniziando dalla nascita e sino ai due mesi circa, il bambino sperimenta l’avvio di un Sé emergente, cioè l’emergenza di un’organizzazione che
inizialmente riguarda il corpo (unità, azioni, stati interni, ricordo degli stessi), integrata dalle esperienze di scambi vitali con la madre. Nella fase successiva, quella del Sé nucleare, viene raggiunta la consapevolezza di essere autori delle proprie azioni, fondata
sulla esperienza di poter determinare una azione, di sperimentare il feed-back propriocettivo e di poterne prevedere le conseguenze. Nella terza fase, quella del Sé soggettivo,
sono attivi e determinanti i processi imitativi, già iniziati subito dopo la nascita, che
conducono alla intersoggettività e alla sintonizzazione degli affetti (Stern, 1985), con il
risultato che il bambino realizza l’esistenza di due mondi mentali separati e distinti. È
facile comprendere in questo percorso le interferenze che le limitazioni percettive e
motorie avranno nello sviluppo mentale del bambino con PCI.
Per riassumere, vorrei sottolineare alcuni parametri che mi sembrano fondamentali
quali riferimento per il concetto di Sé, e cioè: il Sé è un’istanza intrapsichica, nasce dalla relazione fra il bambino, con le sue specifiche caratteristiche genetiche e neurofunzionali, la madre e l’ambiente; presuppone una differenziazione fra sé, l’altro e gli oggetti, per cui le sue caratteristiche possono essere percepite e forse riconosciute solo dopo l’inizio della separazione. Il Sé nella sua interezza è un’istanza mentale che tende ad
assumere per il soggetto delle caratteristiche di tipo simbolico. Per il bambino e per ciascuno di noi, il “se stessi” è qualcosa che continua ad essere vissuto, pensato, rielaborato in una dimensione che tende a un continuo cambiamento, pure all’interno di una
grande continuità. Tutto questo spiega le particolari difficoltà che il bambino con PCI
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incontra nella organizzazione del Sé, dovendo egli integrare in età molto precoce complesse esperienze provenienti dal corpo connesse con l’espressione degli impulsi e il loro controllo e mediate, oltre che dal rapporto con la madre, da quello con altre persone
(medici, terapisti), che interferiscono significativamente nella spontaneità del movimento e quindi della relazione.
Rapporti fra disturbi percettivi e disturbi della
organizzazione mentale
Nella valutazione delle difficoltà di movimento dei bambini con PCI, viene spesso chiamato in causa il problema “percettivo”; molte difficoltà incontrate da questi bambini
nel controllarsi, o nel muoversi correttamente, sembrano potersi attribuire a sensazioni molto sgradevoli provate nel trovarsi liberi nello spazio o a difficoltà nel mantenere
un’attenzione continuativa e sufficiente alle posture necessarie per il mantenimento
della stazione eretta o del cammino; tutto ciò è ben descritto da Ferrari nel capitolo 7 e
nel capitolo 16.
Risulta per altro evidente la problematicità e la complessità di interpretazione dei fenomeni cosiddetti percettivi quando si considera che ogni percezione, non solo è sempre il risultato di uno stretto rapporto fra integrazioni senso-percettive ed emozioni, ma
anche frutto di una memoria e di una storicizzazione delle esperienze; le percezioni accumulate dal Sé sincronico, momento per momento, lo trasformano in un Sé diacronico, sino a costruire una coscienza percettiva soggettiva, unica per ciascun individuo.
Berthoz (1997) sostiene che ai cinque sensi tradizionali vanno aggiunti molti altri
“sensi” fra i quali cita il movimento nello spazio, l’equilibrio e pure sensi (funzioni?) a
contenuto più comunemente inteso come psichico, come la decisione, la responsabilità, l’iniziativa. Egli sottolinea soprattutto l’importanza di considerare il sistema nervoso centrale (SNC) come un sistema che interroga i recettori, regolando la sensibilità,
combinando i messaggi, prespecificando i valori stimati, in funzione di una simulazione interna delle conseguenze dell’azione.
Lo studio della percezione e dei suoi rapporti con il movimento ha interessato da
sempre pure gli psicoanalisti e gli psichiatri infantili, essendo l’apparato percettivo l’elemento costitutivo essenziale dell’Io. Il funzionamento percettivo, da un punto di vista
psicoanalitico, va visto come il progressivo liberarsi della percezione, quale più fedele
rappresentazione del mondo esterno, da un funzionamento più primitivo, denso di indifferenziazione, proiezione, onnipotenza. In particolare Tustin e Corominas, essendosi prevalentemente occupate di bambini piccoli e con patologie organiche e psichiche
gravi, hanno portato contributi importanti alla conoscenza dello sviluppo della percezione e delle sue caratteristiche nei bambini con PCI.
Corominas (1991) propone quattro livelli di risposta alla sensazione, che si presentano come evoluzione l’uno dell’altro, ma che possono pure coesistere sia in condizioni di normalità sia di patologia:
puri tropismi sensoriali: la risposta dipenderà unicamente dalla qualità dello stimolo e dal livello di maturazione neurologica; la risposta non dipenderà dall’elaborazione corticale dello stimolo;
autosensorialità: il bambino sentirà come propria la qualità sensitiva proveniente
dall’oggetto; questa viene assimilata e confusa con il mondo sensuale precedente allo stimolo; questo è ciò che avviene ad esempio per l’oggetto autistico;
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impronta sensoriale (o shape): il bambino è in grado di rapportarsi con la sensazione che proviene dall’oggetto, che è definita, specifica e sentita nel proprio corpo come una forma, o stampo, legata all’oggetto che la produce, ma tuttavia questa non è
riconosciuta come un non Sé stesso. In particolare i bambini colpiti da PCI grave
possono rimanere a lungo a questo livello; essi differenziano le sensazioni, ma restano molto passivi di fronte alle stesse, non potendo elaborare in tempi utili risposte
motorie adeguate;
oggetto fonte di sensazione: questo è il livello precedente al riconoscimento dell’oggetto come “non Sé stesso”: il bambino differenzia percettivamente l’oggetto-sensazione in modo chiaro (prende il ciuccio e lo mette in bocca); egli quindi riconosce sia
la sensazione sia l’oggetto che la produce, ma non è consapevole che questi siano
unità del tutto distinte. Questo periodo assume una grande importanza per il futuro
sviluppo mentale: si tratta di un tempo illusorio nel quale il bambino non si sente ancora separato dalla madre, pur riconoscendone le qualità proprie.
L’immobilità o la scarsa mobilità dei bambini con PCI inducono necessariamente il
mantenimento più prolungato di certe posture e quindi la permanenza in una situazione percettiva (propriocettiva, tattile, ecc.) unimodale; ciò favorirà il persistere di una indifferenziazione fra sensazioni provenienti dall’interno e dall’esterno, con tendenza all’assimilazione fra le due e ritardo nell’acquisizione di un’esperienza di Sé corporeo
differenziato e stabile.
Il bambino con disturbi percettivi di tipo “cado-cado” (vedi cap. 16), che ha cioè una
intolleranza percettiva, ha probabilmente sperimentato situazioni angoscianti nelle
quali il movimento lo staccava da qualche cosa di essenziale: le braccia materne? L’appoggio a un oggetto? O una parte stessa del suo corpo? Per alcune situazioni sembra che
il bisogno di contiguità o di appoggio sia reale, per altre invece pare che la funzione
mancante sia più di carattere fantasmatico, come quando questi disturbi si attenuano
per la sola presenza di un familiare, o per l’uso della voce come sostegno al movimento. A volte non si conosce, o si può solo supporre, quale sia il livello di differenziazione
percettiva fra quel bambino e l’ambiente; in genere i terapisti ne hanno una certa consapevolezza, ma sicuramente l’attenzione alle limitazioni o alle devianze percettive ed
emotive può ancora aumentare per migliorare i risultati della riabilitazione.
Più complesso o pluriderminato sul piano della sua dinamica sembra il problema dei
bambini di tipo “tirati su” (vedi cap. 16), per i quali la limitazione può sembrare forse
più di integrazione corticale o di stabilità interna della sensazione del Sé corporeo, o un
disinteresse per l’autonomia motoria; questo problema pare cioè legato ad un maggiore intreccio di fattori percettivi, cognitivi ed emotivi.
Mentre la presenza di problemi percettivi nei bambini con PCI è un fatto conosciuto
e questi fanno ormai parte del quadro della PCI, minore attenzione viene a tutt’oggi data alle interferenze emotive che condizionano sia il processo percettivo sia gli altri
aspetti del mentale.
Profili psicopatologici nelle diverse forme di paralisi
cerebrale infantile
Proverò a riassumere alcune caratteristiche psicopatologiche e alcuni stili del Sé che frequentemente si ritrovano nei bambini con PCI e a descrivere, senza la pretesa di porta-
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Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile
re un contributo definitivo, alcune possibili corrispondenze fra forma clinica di PCI e
caratteristiche mentali dei bambini.
Si possono fare alcune premesse che faranno da cornice a quanto vorrei trattare.
Tutti i bambini con danno cerebrale pre- peri- o postnatale, che comporti alterazioni tonico-posturali e/o motorie, soprattutto se gravi, vanno incontro ad un prolungamento del normale periodo di fusionalità mentale fisiologica e ad un processo di separazione-individuazione torpido, spesso non riconoscibile con evidenza. Ciò è spesso aggravato dalle condizioni relative alla nascita e agli eventi a essa collegati (basso peso,
permanenza in culla termica, difficoltà respiratorie, alimentari, del sonno), con impossibilità di accudimento materno, nonché alle inevitabili interferenze sulle attitudini materne prodotte da sentimenti depressivi o da delusioni narcisistiche.
Si possono facilmente individuare diversi livelli di entità del problema.
– Indifferenziazione Sé/mondo esterno – fondata su una difficoltà di differenziazione
molto primaria e cioè di tipo senso-percettivo, per cui il bambino non riesce per lungo tempo, o non riuscirà mai, a riconoscere la sensazione come prodotta da un oggetto esterno, separato da lui. Questa difficoltà potrà essere più o meno estesa, nel
senso che il bambino potrà rimanere in uno status di indifferenziazione totale, e
cioè privo di conoscenza in merito all’appartenenza del corpo alla sua mente, o parziale, nel senso che alcune esperienze relative al corpo e al movimento non vengono
mentalizzate ed altre sì, per cui vi è una percezione sincretica per alcune parti del
corpo, ad esempio il tronco e non per altre, ad esempio gli arti in movimento.
Molti bambini con PCI, soprattutto se totalmente immobili per molto tempo e tanto
più se con aspetti deficitari, rimangono ancorati, almeno per una parte delle loro
esperienze, al livello sensoriale delle percezioni, o raggiungono appena quello delle
shapes o impronte sensoriali (stadio 2 e 3 secondo Corominas). Spesso nei bambini
con PCI si osservano shapes di tipo tattile, come degli “stampi”, delle “orme”, che richiamano la presenza dell’oggetto, del quale tuttavia il bambino non ha né conoscenza, né coscienza.
Questi bambini che si sentono un tutt’uno con l’oggetto o che ne colgono solo qualche caratteristica, hanno molto timore del movimento, spesso non beneficiano di
una rieducazione precoce e/o richiedono molta prudenza nel far loro utilizzare la
motricità residua o nel pretendere l’apprendimento e l’utilizzo di nuovi schemi. In
questi casi la struttura mentale è spesso molto indifferenziata, a volte con aspetti autistici, ma più spesso con le caratteristiche dell’identificazione adesiva. Questi bambini sviluppano quadri di tipo Ritardo Mentale o Disturbo generalizzato dello sviluppo, con aspetti di tipo disintegrativo o psicotico deficitario.
– Indifferenziazione Sé/mondo esterno – fondata su difficoltà di separazione mentale,
particolarmente di tipo identificazione proiettiva e scarsa introiezione. In questi casi, il bambino assume caratteristiche di dipendenza psicologica importante e di incapacità all’autonomia pure per prestazioni motorie o cognitive a lui possibili. Il
soggetto che ha sviluppato una sufficiente quantità di rappresentazioni mentali corrispondenti alla percezione del proprio corpo e a quello dell’altro e che inizia a sperimentare la separazione, tende ad attribuire le proprie esperienze emotive all’altro o
a vivere dentro l’altro per evitare l’ansietà e la sofferenza. Il bambino con PCI ha poche o nulle possibilità di elaborare le ansietà di separazione tramite il movimento,
per cui, utilizzando molto la proiezione, tende all’illusione della non separatezza per
sentirsi sia sicuro sia importante. Per lo stesso motivo spesso osserveremo pure
aspetti di narcisismo patologico e difese dalla depressione di tipo negazione mania-
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cale, aspetti di dominio e di controllo sull’ambiente. Questi bambini risultano spesso molto legati ai loro genitori, fratelli o insegnanti; si fanno illusioni di non avere limitazioni motorie, facendosi muovere dagli altri, facendo finta e sviluppando intensamente l’imitazione. In questi casi la struttura mentale è spesso di tipo disarmonico, con aspetti nevrotici e psicotici combinati o presenza di falso Sé. I quadri clinici
saranno quelli della Disarmonia evolutiva cognitiva o psicotica o del quadro Borderline con falso Sé, o dell’inibizione nevrotica o depressiva.
Quadri psicopatologici e clinici specifici
Nei gravi tetraplegici spastici (vedi cap. 15), ma a volte anche nei discinetici, sarà più frequente che lo sviluppo mentale subisca un arresto a causa del prolungarsi dell’esperienza
fusionale e dei problemi senso-percettivi; il bambino potrà rimanere a lungo in uno stato
di indifferenziazione, completamente dipendente dall’ambiente e incapace di proporsi
come parte attiva nel proprio trattamento rieducativo. Sovente l’assenza del linguaggio
(anartria, disartrie gravi), fa sì che venga a mancare questo secondo importante mezzo di
differenziazione, per cui in alcuni casi l’indifferenziazione sé-altro si protrae negli anni ed
a volte diventa permanente. Il tentativo di dare vita al processo di differenziazione-separazione mediante tecniche riabilitative di tipo motorio, cognitivo o strumentale, può produrre intense angosce, con disturbi del sonno, impossibilità a stare da soli, persecutorietà, ecc., sino all’inevitabile decisione di ridurre o di sospendere il trattamento.
Il fine costante da perseguire, affidato a genitori e terapisti, deve essere quello di favorire nel piccolo paziente l’integrazione delle esperienze senso-motorie e la loro rappresentazione tramite l’attuarsi di uno stato di benessere fisico che permetta che ciò avvenga. Solo se la mente avrà organizzato un abbozzo di Sé corporeo, potranno comparire gli altri aspetti del processo di individuazione. In altri casi, le difficoltà di individuazione percettiva e di definizione del Sé corporeo hanno caratteristiche più limitate e
sono più settoriali, riguardano cioè solo certe aree funzionali o distretti corporei, pure
in relazione a condizioni di vita ed attitudini educative diverse. Si possono ad esempio
osservare bambini o giovani adolescenti con PCI che hanno sviluppato una discreta autonomia, ma che non riescono ad acquisire il controllo sfinterico o che mantengono
aspetti di dipendenza solo in certi ambienti, ad esempio a casa, e non in altri come la
scuola.
I bambini discinetici, per i quali il contatto con il mondo esterno è reso molto complesso per il continuo dissolversi dell’assetto tonico-posturale e dell’integrazione degli
schemi motori, incontrano una difficoltà più specifica a superare la situazione sensoriale e a organizzare il nucleo primario del Sé. Questi soggetti hanno un feed-back troppo rapido fra acquisizioni percettive e motorie, per cui ogni esperienza si modifica e si
dissolve in maniera involontaria e improvvisa. Questo meccanismo rende molto difficile la costruzione mentale di un Sé corporeo e quindi viene a mancare la consistenza
emotiva e la differenziazione. La distonia può diventare a volte l’unico modo per esprimersi, altre volte essa viene invece assunta come difesa, per non esserci, non stare in relazione, evitare il rapporto con cose e persone. Corominas dice che uno dei grandi interrogativi che si è posta quale psicoanalista del Centro per le paralisi cerebrali di Barcellona è stato quello di cercare di dare un senso alle gravi distonie, che non sembravano affatto sostenute da un substrato neurofunzionale.
Nei bambini affetti da forme meno gravi di PCI, soprattutto emiplegici (vedi cap. 18)
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o diplegici (vedi cap. 17), si osservano più spesso difficoltà di separazione-individuazione di tipo mentale, causate da angoscia di separazione o depressione. In questi casi
lo sviluppo dell’immagine del Sé corporeo e del Sé nella sua globalità subirà dei condizionamenti particolari, dovuti alle diverse esperienze percettive provenienti dalle parti
sane o rispettivamente malate del corpo e dalle caratteristiche delle loro integrazioni.
Naturalmente, come in ogni sviluppo anche normale, vi saranno aspetti diversi a seconda dei singoli casi. Si osserva comunque con frequenza l’utilizzo di meccanismi di
scissione, ove buono e cattivo sono tenuti tenacemente divisi. In alcune esperienze di
supervisione di casi in psicoterapia, ho osservato che buono e cattivo erano sinonimi di
parte sana e malata del corpo. In altri casi, con una certa frequenza, si osserva la presenza di un narcisismo patologico molto spiccato, con un’assoluta impossibilità di accettare la limitazione se non come catastrofe totale. In altri casi ancora si osservano come preminenti i meccanismi dell’eccitazione maniacale, con negazione della realtà, in
altri manifestazioni di depressione o di altre difese a stile nevrotico. In questi casi le
strutture mentali corrispondono spesso al quadro della Disarmonia evolutiva di cui
Mises (1975), Flagey (1977) e Gibello (1984) hanno descritto molto bene il meccanismo
patogenetico e patodinamico. Si tratta generalmente di strutture caratterizzate da un
inadeguato rapporto con l’oggetto, a causa di limitazioni funzionali e dell’utilizzo di
meccanismi psicotici, che tendono a mantenere la relazione a livello di oggetti parziali.
Il bambino, sin da quando è molto piccolo, riconosce la presenza di una limitazione
funzionale e la vive come uno scacco, un’inadeguatezza importante, favorito in questo
da un eccesso di attenzione dovuto alla rieducazione. Egli mette quindi in atto meccanismi di misconoscimento e/o di compenso narcisistico, investendo in eccesso in altre
funzioni. È molto frequente che bambini con emiplegia o diplegia compensino l’immagine carente del Sé con un superinvestimento della funzione verbale, o che le funzioni
motorie imperfette o gli schemi acquisiti vengano poi perduti. A volte conquiste importanti, come la stazione eretta o il cammino, vengono abbandonate a causa di una
piccola caduta o di un incidente, come se si attuasse una perdita di rappresentazioni già
acquisite dal Sé corporeo. Si ritiene che in molte situazioni ciò sia dovuto ad una difficoltà nel poter conservare un sufficiente appoggio narcisistico alla propria immagine,
quando, nel corso della crescita, è necessaria una maggiore integrazione di tutte le
componenti psichiche. Lo studio di questi bambini rivela la presenza di aree di conoscenza e coscienza corporee e mentali del tutto inesistenti: raramente ad esempio viene
mentalizzata una reale paura di cadere o è presente la coscienza del servirsi degli altri
come stampelle; raramente ho riscontrato un vero dispiacere per aver ridotto le proprie
disponibilità motorie dopo acquisizioni già avvenute, o la disponibilità a parlarne, come se vi fosse un impedimento primario, che viene accettato senza alcun passaggio o
conflitto cosciente. Un’altra caratteristica di questi bambini può consistere nel differente utilizzo delle proprie funzioni in ambienti o con persone diverse; questa caratteristica è descritta pure nei casi di Disarmonia evolutiva senza PCI: il quadro disarmonico è infatti caratterizzato dalla contemporanea esistenza a livello mentale di parti sane, parti nevrotiche e parti psicotiche, che possono essere utilizzate in modo diverso in
contesti differenti. L’attitudine familiare ha pure un forte peso nel favorire quanto esposto; generalmente infatti la famiglia non riesce a parlare al bambino della sua patologia
o, mantenendo essa stessa incertezze o illusioni sul suo sviluppo, preferisce attendere e
comunque non sollecita domande nel bambino. Si osserva che, ove le aspettative genitoriali sono più elevate, o incongrue, anche i bambini presentano maggiori difficoltà di
mediazione con le loro difficoltà e hanno organizzazioni del Sé più fragili.
11 • Psicopatologia e clinica dei disturbi mentali
227
La paralisi intenzionale
Sono stata sollecitata dai lavori e dai seminari di Adriano Ferrari a riflettere sull’uso del
termine “paralisi intenzionale”, termine che egli usa per quelle situazioni in cui il bambino ha una sufficiente dotazione di posture e schemi motori per poter produrre dei
movimenti efficaci, ma si rifiuta di muoversi, o si limita molto. Ferrari (1995) tratta
questo problema dal “punto di vista dell’intenzionalità”: nella PCI “la paralisi è prima
di tutto un problema di azione (disordine concettuale) e solo secondariamente un disturbo del movimento”, quindi l’intenzionalità in tutte le sue componenti, motivazione,
piacere-dispiacere, possibilità di adattamento alla realtà, capacità d’uso della spontaneità-volontà, ecc., entra in maniera prepotente in ogni successo o insuccesso terapeutico.
Nella pratica clinica della neuropsichiatria infantile, osserviamo molto spesso bambini che non sviluppano o non utilizzano la motricità in maniera adeguata, sia da un
punto di vista quantitativo sia qualitativo. Nei casi in cui il SNC è integro, ci si orienta
facilmente verso un disturbo psicomotorio o un’interferenza emotiva nell’utilizzo del
movimento, sino a un disturbo di organizzazione della personalità, che include un alterato utilizzo del movimento. Per i casi, invece, in cui è supposto o accertato un danno
del SNC, e tanto più nella PCI, il problema diventa più complesso e, caso per caso, dovremo cercare di comprendere quanto di ciò che osserviamo sia legato al deficit motorio, quanto a un problema di organizzazione funzionale, quanto a un problema emotivo, che complica il quadro, o quanto alle diverse cause riunite assieme.
Ci si può domandare se le caratteristiche dell’organizzazione del mentale e la struttura della personalità, incidano maggiormente sullo stile motorio nei casi in cui vi sia
un’integrità del SNC o nei casi in cui vi siano dei deficit motori. Negli anni dell’esordio
della neuropsichiatria infantile europea, le sindromi psicomotorie erano considerate
per definizione proprie di bambini con integrità del SNC o con solo possibili disfunzioni, vedi ad esempio Bergès (1997) e De Ajuriaguerra (1961), i cui lavori sono stati molto autorevoli in tale senso e offrono modelli di definizione e di semeiotica di queste patologie.
Trascurando la terminologia o le esigenze nosografiche, possiamo con certezza affermare che molti bambini con PCI soffrono di serie interferenze emotive nella loro capacità di acquisire o utilizzare il movimento. Come già detto, si debbono comunque differenziare i casi in cui entrano in gioco fattori molto precoci, capaci di produrre un’alterazione o un rallentamento importante nell’acquisizione dell’identità corporea e della rappresentazione di Sé, da quelli in cui lo sviluppo mentale non è sostanzialmente alterato e il movimento si configura come una funzione che incontra difficoltà di organizzazione, ma che viene via via mentalizzata per i suoi significati.
Nel bambino con PCI, la grande pressione ambientale affinché egli si muova autonomamente, a fronte della maggiore o minore difficoltà reale, costituisce di per sé un
fattore di rischio per l’uso libero e spontaneo del movimento. Così il bambino che potrà soddisfare rapidamente l’ambiente andrà incontro a minori difficoltà rispetto a
quello che si troverà costretto a deludere o a quello che desidererebbe essere investito di
attenzioni diverse da quelle connesse alla sua autonomia motoria. Va pure considerato
che il movimento può acquistare o avere investimenti diversi in diversi periodi dello
sviluppo: quando il bambino è piccolo è più “normale” non essere autonomi, in seguito lo è sempre di meno, come pure il “cammino brutto” o “supportato da ausili” può
non essere più accettato a una certa età.
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Le forme spastiche della paralisi cerebrale infantile
Tenendo in considerazione quanto già esposto nel precedente paragrafo, e cioè le
gravi limitazioni al movimento per motivi di “mancata separazione dall’oggetto” di diversa entità e/o di “aspetti patologici specifici”, ritengo si potrebbe riservare il termine
di “paralisi intenzionale” a quelle situazioni in cui il movimento nella sua globalità o in
alcune sue componenti, assume per il bambino un aspetto conflittuale, al pari di quanto può avvenire per altre funzioni o per l’espressione dei desideri. Seguendo la psicopatologia del mentale secondo le indicazioni classiche della teoria psicoanalitica, potremmo caso per caso domandarci se ci troviamo di fronte a una forma particolare di “conversione” (isteria) o a una “inibizione” o a una “fobia” o a un “aspetto depressivo”. Solo lo studio della personalità del bambino e quello del rapporto fra lui, i genitori, la sua
comunità e il suo ambiente ci potranno fornire elementi utili per la valutazione. In questi casi sarà particolarmente di aiuto un lavoro psicologico con i genitori e una psicoterapia per il bambino. Sarei comunque dell’avviso di chiamare “paralisi intenzionali” sia
le forme collegate a un’inibizione globale, quelle cioè in cui il bambino è globalmente
inibito, sia quelle in cui l’inibizione investe solo il movimento, pure unicamente in singoli distretti o in singoli aspetti.
Indicazioni per il trattamento
Il contenuto di questo capitolo ci invita a riflettere in merito alle modalità di presa in
carico e di organizzazione dei Servizi per i bambini con PCI. Risulta infatti evidente che
le competenze dell’équipe che si occupa di questi casi non può essere limitata alle sole
competenze neurologiche o fisiatriche o fisioterapiche in senso stretto, ma richiede una
uguale capacità di osservazione e valutazione dello sviluppo mentale del bambino, anche in funzione dell’eventuale necessità di trattamenti psicologici, educativi o psicoterapici sui genitori o sul bambino stesso. Ritengo di primaria importanza che i professionisti con cui la famiglia viene in contatto siano in grado di orientare da subito l’attenzione dei genitori sullo sviluppo complessivo del bambino, spostando il loro interesse dalle limitazioni motorie verso le risorse generali del piccolo paziente. In particolare il neuropsichiatra infantile dovrà attuare in questi casi una presa in carico longitudinale, aiutando i genitori a comprendere le particolari necessità relazionali ed educative di cui necessita un bambino con PCI.
Fondamentale importanza ha naturalmente la formazione del fisioterapista, che deve essere sempre comprensiva degli aspetti relazionali e cognitivi, in modo da permettere un rapporto con il bambino e i genitori improntato a una visione globale dello sviluppo e tale da favorire il più possibile l’utilizzo sociale delle competenze acquisite.
Quando il servizio al quale si rivolge la famiglia non sia a impostazione neuropsichiatrica, sarà necessario che l’équipe venga integrata con la presenza di consulenti che
possano, tramite osservazioni separate, apportare i contributi necessari ad una valutazione complessiva sullo sviluppo dei loro piccoli pazienti.
Le competenze sullo sviluppo mentale sono pure indispensabili per aiutare il bambino a utilizzare le sue valenze cognitive e per potersi rapportare con le componenti
scolastiche e riabilitative in senso allargato.
Si deve infatti pensare che i bambini con PCI incontrano di fatto difficoltà di sviluppo psicologico e con grande frequenza vanno incontro a disturbi comportamentali e di
tipo psichiatrico. I servizi si devono quindi attrezzare per poter fornire supporto psicologico ai genitori, nonché eventuali trattamenti psicoterapici ai bambini. Anche chi si
11 • Psicopatologia e clinica dei disturbi mentali
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occupa di questi problemi con modelli interpretativi diversi sostiene la necessità di lavorare con i genitori per sostenerli e aiutarli a una migliore comprensione delle difficoltà del loro bambino, avviando progetti educativi mirati onde evitare l’insorgere di
problemi comportamentali (Harris, 1998).
Nel percorso del trattamento sono inoltre sempre presenti momenti particolari che
richiedono una più precisa valutazione della situazione emotiva e di sviluppo; ad esempio quando viene deciso l’utilizzo di un’ortesi o si intravede la necessità di attuare un
intervento di chirurgia ortopedica funzionale. I genitori e gli operatori constatano infatti gli scarsi risultati o lo scarso utilizzo di un intervento di riduzione delle deformità,
sia pure pensato e studiato a lungo sul piano fisiatrico. Questo è spesso dovuto a una
scarsa preparazione in merito alle aspettative di risultato sia da parte dei genitori sia dei
bambini, ma pure a interventi eseguiti di fatto in situazioni in cui il bambino non è in
grado di integrare le nuove opportunità fornitegli dall’intervento nella struttura corporea e mentale del Sé.
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