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RASSEGNA STAMPA mercoledì 16 aprile 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il FattoQuotidiano.it del 15/04/14 F35, Pd senza accordo: slitta ancora la conclusione dell’indagine conoscitiva Tensioni nel partito del premier tra il blocco che chiede il congelamento del programma in vista di una "sostanziale riduzione" e gli "atlantisti" del partito, tra cui il ministro Mogherini. Appuntamento rinviato a maggio di Enrico Piovesana Slitta ancora, a causa dei dissidi interni al Partito democratico di Matteo Renzi, la conclusione dell’infinita indagine conoscitiva parlamentare sugli F35. La seduta finale dei lavori della commissione Difesa della Camera, rimandata per mesi e infine fissata per questo giovedì, è stata ulteriormente rinviata all’inizio di maggio perché il Pd non ha ancora trovato un accordo sul testo finale della propria relazione conclusiva. L’assemblea dei deputati democratici era pronta a votare mercoledì, a larga maggioranza, la bozza preparata dal capogruppo in commissione Giampiero Scanu, nella quale si chiede il congelamento del programma in vista di una sua “sostanziale riduzione”. Ma l’influente minoranza “atlantista” del partito (Pinotti, Mogherini, Speranza, La Torre, Minniti), spalleggiata indirettamente dal Quirinale, si è messa di traverso per impedire che questa posizione diventi la linea ufficiale dei parlamentari Pd, il che aprirebbe la strada a una risoluzione che impegnerebbe il governo a stoppare veramente il programma F35. Questo ennesimo rinvio ha suscitato fortissimi malumori, fuori e dentro il Pd. “No comment” da Scanu, che si dice comunque fiducioso. Per Pippo Civati, invece, “ormai non è più solo una questione di scelte economiche, politiche e strategiche, è una questione di democrazia: il Parlamento, come prevedono le nuove leggi, ha il diritto di esprimersi su una materia così importante come le spese militari”. E sui dissidi interni al Pd: “Evitare un confronto aperto e una presa di posizione chiara all’interno del Pd su questo argomento è controproducente, visto che la base del partito è largamente contraria agli F35 e che in questo silenzio si lascia la parola a tutti gli altri”. Tra gli “altri” che in questo imbarazzante silenzio si preparano a dire la loro c’è l’intero mondo dell’associazionismo italiano, laico e cattolico (Comboniani, Libera, Cgil, Fiom, Acli, Arci, Emergency, Greenpeace, Rete Disarmo, Beati Costruttori di Pace, Pax Cristi più una sfilza di noti personaggi del mondo della cultura), che il 25 aprile si ritroverà alla “Arena di Pace e Disarmo“ di Verona per ribadire il proprio “no” agli F35. Tra i primi sottoscrittori dell’iniziativa c’è Paolo Beni, presidente Arci e deputato Pd: “Il 25 aprile saremo a Verona per ricordare a tutto il Paese, politici compresi, che pace significa rifiuto della guerra e delle armi nel rispetto dell’articolo 11 della nostra Costituzione”. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/15/f35-pd-senza-accordo-slitta-ancora-laconclusione-dellindagine-conoscitiva/953246/ 2 Da il Tempo.it del 15/04/14 Piccoli gesti per ritrovare il sorriso Ecco l’assistenza nelle new town Parte da Assergi il progetto ideato dall’associazione onlus «180 amici» L'AQUILA C’è una ricostruzione che non ha bisogno di cemento, mattoni e gru. È molto meno rumorosa, probabilmente richiede molto più tempo rispetto a quello che gli operai impiegano per completare un cantiere ed è spesso è fatta di piccoli gesti, un sorriso o una semplice parola di conforto. In una città costellata di "non luoghi" e quartieri dormitorio, realizzati a volte in luoghi lontani dalla città, da servizi e spazi di aggregazione, l’urgenza della ricostruzione sociale "non è più rinviabile" come ha ricordato l’assessore all’assistenza alla popolazione Fabio Pelini. Per questo il suo assessorato, insieme a quello alle politiche sociali guidato da Emanuela di Giovambattista, hanno sposato il progetto ideato dall’associazione onlus "180 amici" che garantirà servizi ed assistenza ai residenti del progetto C.a.s.e. di Assergi. Uno sportello sociale dover poter dialogare ed essere ascoltati, un internet point, servizio di trasporto sociale presso strutture o supermercati per chi non ha la possibilità di poter contare su un mezzo proprio, una piccola biblioteca dove poter prendere in prestito dei libri e persino una radio (on line, "radio stella 180") per raccontare ed approfondire la realtà di una delle situazioni più complicate, soprattutto per l’ubicazione, tra quelle nate dopo il sisma. I fondi, 27.500 euro raccolti e messi a disposizione dalla Tavola Valdese, consentiranno di attivare tutte queste iniziative fino a maggio dell’anno prossimo «ma stiamo cercando di ottenere una proroga del finanziamento per proseguire anche nel 2016» ha sottolineato il presidente della onlus Alessandro Sirolli, ricordando che nel progetto verranno coinvolte anche la Tempera Onlus, Arci e ragazzi che lavoreranno e verranno pagati con apposite borse lavoro o contributi. «Abbiamo scelto di iniziare con il progetto C.a.s.e. di Assergi perché tra i 19 nati dopo il terremoto è sicuramente quello più periferico e distante da servizi a cui, soprattutto gli anziani, hanno difficoltà ad accedere» ha spiegato Pelini, augurandosi che il progetto «L’Aquila: insieme si può fare» possa essere in futuro esteso anche alle altre new town. Ad Assergi, come previsto dalle normative vigenti, un alloggio sarà dedicato esclusivamente alle attività per la popolazione, che sarà coinvolta dai ragazzi e dagli specialisti messi in campo per cercare di ricreare una socialità andata ormai perduta e che soprattutto le categorie più in difficoltà chiedono a gran voce. «L’obiettivo è capillarizzare i servizi per la popolazione sul territorio, ed in questo senso il contributo delle associazioni può essere determinante» ha aggiunto l’assessore Di Giovambattista. «Questo esperimento di welfare di comunità - ha concluso Sirolli - può essere il primo passo verso la realizzazione di un percorso virtuoso in grado di garantire un’assistenza completa a chi risiede nei progetti C.a.s.e. dove le persone hanno bisogno di riscoprire la vita di comunità. Per questo busseremo alloggio per alloggio, cercando di coinvolgere il maggior numero di residenti». http://www.iltempo.it/abruzzo/2014/04/16/piccoli-gesti-per-ritrovare-il-sorriso-ecco-lassistenza-nelle-new-town-1.1240883 Da DirettaNews.it del 15/04/14 Scontri Roma, si riapre la polemica sui codici identificativi di polizia 3 Gli scontri di sabato a Roma, con le cariche della polizia e qualche gesto “eccessivo”, come quello dell’agente che è salito con un piede sul costato di una ragazza a terra, intenta a proteggersi, hanno riaperto nuovamente la polemica sulla mancanza di un codice identificativo che possa in maniera immediata ricondurre alle responsabilità soggettive del singolo agente di polizia. Tanti gli interventi in tal senso nelle ultime ore, soprattutto da parte di esponenti dei movimenti e candidati della lista ‘L’Altra Europa con Tsipras’. Tra questi, Raffaella Bolini, esponente di spicco dell’Arci e candidata nella circoscrizione Centro, che si chiede: “Da quanto tempo lo chiediamo? Da quanto tempo diciamo che in altri paesi, inclusa la Germania, è una cosa normale? Quanto tempo dovremo ancora aspettare? Quanti altri difensori dello Stato potranno camminare sulla pancia di una donna a terra?”. Denuncia l’ex leader delle Tute Bianche al G8 di Genova, Luca Casarini, anch’egli candidato al Centro: “Per l’ennesima volta, ci troviamo a vedere pestaggi di gente inerme a terra, umiliazioni, violenze portate a persone con le mani alzate e oggettivamente innocue, da parte di agenti che godono di assoluto anonimato: nessun numero identificativo, nessun segno di riconoscimento personale”. Da parte sua, la Rete della Conoscenza denuncia: “La repressione, alla prima prova di gestione dell’ordine pubblico di una certa rilevanza per il nuovo Governo, è stata pesante: le cariche alle spalle del corteo in Piazza Barberini, la violenza inaudita e ingiustificata con la quale gli agenti si sono accaniti sui manifestanti inermi, che riporta in primo piano la campagna per l’introduzione del numero identificativo per le forze dell’ordine, e infine le due denunce e i cinque arresti ai quali esprimiamo la nostra solidarietà e dei quali chiediamo con forza l’immediato ritiro”. Il senatore di Sel, Peppe De Cristofaro, intanto, rilancia la sua proposta di legge, presentata nel giugno 2013, tesa a introdurre un numero identificativo ben visibile sui due lati e sulla parte posteriore del casco, o comunque un segno distintivo inequivocabile e spiega: “Si tratta di una norma minima di civiltà, già in uso in quasi tutti paesi europei”. Analoga proposta è stata presentata dal pentastellato Marco Scibona, noto anche per l’attivismo No Tav, che ha rilanciato: “Ci hanno scritto anche molti operatori delle forze dell’ordine che erano a favore del numero identificativo”. Secondo Scibona, la proposta “ci riallineerebbe agli altri paesi civili del mondo, a cominciare dall’Europa”. Redazione online http://www.direttanews.it/2014/04/15/scontri-roma-si-riapre-la-polemica-sui-codiciidentificativi-di-polizia/ Da Strill.it del 15/04/14 Reggio: contro la corruzione in arrivo la Carovana Antimafie di Arci e Libera E' partito stamane a Reggio Calabria il conto alla rovescia per il passaggio della Carovana Internazionale Antimafie 2013 organizzata da Arci, Libera, Avviso Pubblico e dalla triplice sindacale con la Ligue de'Enseignement, organizzazione francese che si batte la scuola pubblica e laica. Un'iniziativa che giunge quest'anno alla sua ventesima edizione. Da 20 stagioni, la Carovana sviluppa i temi della legalità democratica, della giustizia sociale, della partecipazione, dei diritti, dell'uguaglianza sociale e della solidarietà. La tappa reggina si terrà il prossimo 17 aprile e sarà dedicata al tema della corruzione, ''intesa come ostacolo alla libera esplicazione dei diritti di cittadinanza'' con un'iniziativa pubblica dal titolo ''Le mani sulla città: impronte di cittadinanza negata''. Alla conferenza stampa di presentazione, tenuta stamane presso la sede provinciale di Libera, erano presenti Davide Grilletto in rappresentanza dell'Arci, Lucia Lipari per Libera, 4 il Sindaco di Condofuri Salvatore Mafrici in rappresentanza di Avviso Pubblico e Francesco Alì per la Cgil. ''Vorremmo focalizzare l'attenzione dei partecipanti sulle ricadeute che le dinamiche correttive esplicano rispetto ai diritti fondamentali dei cittadini. In particolare - spiegano gli organizzatori - ripercorreremo le vicende che hanno riguardato la città di Reggio Calabria dagli anni '80 fino ad oggi, ricostruiremo le conseguenze che i meccanismi di corruzione e negazione della trasparenza amministrativa in materia urbanistica esplicano rispetto alla libera iniziativa privata ed al diritto all'abitazione dei cittadini''. Questa edizione della carovana sarà dedicata al ricordo di due onesti professionisti, l'ingegnere Demetrio Quattrone e il Vigile Urbano Giuseppe Macheda, che pagarono con la vita le loro azioni concrete in materia di lotta all'abusivismo ed alla corruzione. http://www.strill.it/index.php?option=com_content&view=article&id=194036:reggio-controla-corruzione-in-arrivo-la-carovana-antimafie-di-arci-e-libera&catid=40:reggio&Itemid=86 5 ESTERI Del 16/04/2014, pag. 12 Tra i ribelli dell’Est “Kiev attacca, 4 morti ora è guerra civile” Via alle operazioni militari contro i filo-russi Mosca: l’Onu condanni. Usa con gli ucraini PIETRO DEL RE DAL NOSTRO INVIATO «Hanno attaccato l’aeroporto di Kramatorsk? Bene! Noi li stiamo aspettando », dice Boris, facendo sciabolare una pesante spranga di ferro come fosse un fuscello di bambù. L’operazione antiterrorismo lanciata dalle truppe di Kiev nell’Ucraina orientale non sembra spaventare questo gigante incappucciato che da una settimana bivacca assieme a un centinaio di miliziani pro-russi in un edificio amministrativo di Donetsk. Né inquieta i suoi commilitoni che improvvisamente cominciano ad intonare cori con cui confusamente invocano l’annessione alla Russia, un’Ucraina federale e perfino il ritorno del presidente Yanukovich. Eppure il primo tentativo di riportare la normalità nelle città assediate dai separatisti avrebbe provocato ieri «almeno 4 morti e decine di feriti», raccontano i ribelli filorussi. Le autorità di Kiev avevano fissato lunedì come ultimatum per la fine delle occupazioni di commissariati, municipi, ospedali e aeroporti in una decina di città. Ieri con ventiquattr’ore di ritardo, colmato da altri assedi e altre occupazioni, hanno finalmente lanciato operazioni militari che secondo il presidente ucraino, Oleksandr Turcinov, saranno condotte «gradualmente, in maniera equilibrata e responsabile». Nel pomeriggio, un centinaio di chilometri a nord di Donetsk, una colonna di blindati ha ripreso il controllo della città di Sloviansk, divetata il simbolo della rivolta, mentre altri soldati governativi liberavano il vicino aeroporto di Kramatorsk. «Truppe ucraine dotate anche di mezzi blindati e carri armati circondano la città», ha detto poco prima dell’attacco Viaceslav Ponomariov, uno dei capi delle forze di autodifesa che ha assunto le funzioni di sindaco. «È in corso un’operazione importante, veicoli con truppe corazzate ci stanno circondando. Gli uomini sono pronti a difendere la città», ha detto un altro miliziano separatista a un’agenzia di stampa russa, secondo la quale la riconquista di questi luoghi sarebbe costata la vita di quattro se non di undici «martiri». Intanto, giungono voci secondo cui forze speciali di Mosca si sarebbero in questi giorni infiltrate tra i filorussi. Lo dice il vicepremier ucraino, Vitaly Yarema, che denuncia «diverse centinaia di militari russi dispiegati sotto copertura in molte città dell’Ucraina orientale». Sul piano diplomatico immediata è stata la reazione di Mosca, che verosimilmente non si aspettava che Kiev desse seguito alle sue minacce. Il premier russo Dimitri Medvedev, ha dichiarato che l’Ucraina «è sull’orlo di una guerra civile», aggiungendo che «l’unica via è il dialogo con tutte le regioni del paese». Medvedev ha poi ribadito la richiesta di una condivisione internazionale dei problemi economici dell’U-DONETSK . che per Mosca si configurano soprattutto nelle bollette del gas non saldate per un totale di 2,2 miliardi di dollari. Quanto alla Casa Bianca, il portavoce di Obama Jay Carney, ha giustificato l’operato del governo ucraino sostenendo che «Kiev ha il dovere di rispondere alle provocazioni per riportare l’ordine nel paese». Carney ha poi sottolineato come gli Stati Uniti non intendano inviare armi ma non ha escluso nuove sanzioni contro Mosca. A stretto giro è arrivata anche la risposta di Vladimir Putin: «Le Nazioni Unite condannino l’Ucraina per le 6 sue azioni anticostituzionali nel paese», ha detto il presidente russo durante una telefonata al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Prima di lanciare il suo attacco il presidente ucraino Turcinov non ha risparmiato critiche a Mosca accusandola di avere «progetti brutali per destabilizzare il sud-est dell’Ucraina al di là del bacino minerario del Donbass, dove sono scoppiate le rivolte filorusse: vogliono prendersi tutto, compreso l’est e il sud dell’Ucraina, dalla regione di Kharkiv a quella di Odessa». E da Odessa, che già si dichiara annessa alla Russia, è solo a un passo. Per calmare i giochi, il segretario generale della Nato esclude comunque la possibilità di un intervento militare in Ucraina. «Noi continuiamo a pensare che ci sia bisogno di una soluzione politica e sul piano militare il nostro principale compito in questo momento è quello di rafforzare la difesa ai nostri alleati. Ed è quello che stiamo facendo», ha detto Anders Fogh Rasmussen che, però, ha rivolto anche un invito a Mosca: «La Russia dovrebbe smettere di essere parte del problema in Ucraina e dovrebbe invece cominciare ad essere parte della soluzione». del 16/04/14, pag. 1/7 Dov’è l’Europa? Tommaso Di Francesco Alla faccia della dietrologia, lunedì sera la Casa bianca ha annunciato la presenza a Kiev del capo della Cia John Brennan. Dunque è ufficiale: il responsabile delle guerre coperte americane in Iran, Libia e Siria, le ultime due degenerate in disastrosa guerra aperta, è operativo sulla piazza di Majdan pronto a combinare altrettanti effetti disastrosi. Ora la presenza dell’intelligence Usa nella crisi ucraina è ufficiale, ma certo è stata presente da subito nel conflitto intestino che si è innescato per almeno quattro mesi con la protesta diffusa di una parte del popolo ucraino, prima contro la corruzione, poi filo-europeo e antirusso, poi solo antirusso. Una protesta volta a volta eterodiretta e di segno sempre più cangiante e sempre più radicale, fino a diventare violenta sotto la guida organizzata dei gruppi paramilitari della forte estrema destra ucraina. E fino a far saltare l’equilibrio raggiunto a Monaco tra Usa e Russia a metà febbraio che prevedeva elezioni concordate entro l’estate, l’uscita di scena morbida dell’ex presidente Yanukovich, un nuovo assetto istituzionale del paese. Una crisi precipitata fino al pronunciamento d’indipendenza della — di fatto — russa Crimea con pronta adesione, bene accolta, alla Russia. Ora la crisi rasenta ancora una volta il confronto militare tra occidente atlantico e Russia, che fino a prova contraria sempre Europa è. Eppure il nemico sovietico non c’è più da 23 anni e si fa fatica a pensare, se non come ad un vintage, ad una azione militare di Putin come fosse l’invasione dei carri armati di Praga e il ’56 ungherese. Un immaginario che torna utile ai media e all’ideologia guerrafondaia, ma non è così: a Mosca come in tutto l’est, dominano — ancorché in crisi — i valori di mercato dell’Occidente e la Nato ha inglobato tutti i paesi dell’Est tranne la Russia e non ancora completamente l’Ucraina e gli stati della Csi. In Crimea poi le truppe russe sono state accolte davvero come liberatrici. Anche le eventuali forze militari americane che raggiungessero Kiev probabilmente sarebbero accolte così, perché quella piazza più che filoeuropea è filoatlantica e filoamericana. Così mentre da Washington, da diecimila chilometri di distanza, sicuri commentatori italiani (mentre Greenwald viene insignito del premio Pulitzer per aver scoperchiato, con Snowden, lo scandalo Datagate) ci assicurano che si è sfiorato il casus belli con un aereo russo che ha sorvolato una nave militare Usa «di tanto così» — letteralmente, come se il 7 giornalista fosse lì a vederlo – nessuno si chiede che cosa ci stanno a fare le navi militari americane nel Mar Nero a ridosso dei confini russi se non per motivare l’esistenza di un nuovo nemico. E la Nato per bocca dell’uscente di scena Rasmussen ammonisce Mosca a tenere le sue truppe lontano dai confini: vale a dire dice a non avere truppe russe sul territorio russo, quello più sensibile. E questo mentre le truppe americane stazionano nei quattro punti cardinali del mondo e in Iraq, Afghanistan, sono pure impegnate in guerre sporche. Come finirà? E’ legittimo immaginare che ci troviamo di fronte all’ennesimo risiko di dichiarazioni e mosse militari sullo scacchiere delicato dei confini tra Europa orientale e occidentale. E la telefonata di Putin a Obama è lì a testimoniarlo. Il leader russo assicura che non ha interesse a fomentare le rivolte nell’est ucraino per fare come con la Crimea, spinge solo sulla federalizzazione del paese e sulla sua neutralità dalla Nato. La cui strategia di allargamento a est è all’origine della crisi con la Russia, non il contrario. Intanto continuano le rivolte violente e spesso di massa nell’Ucraina orientale, delle quali si rimane stupiti come fosse l’orrore tout court. Dimenticando, smemorati, di quanto sia stata molcita, applaudita, apprezzata, decantata in Europa e negli Usa la rivolta degli «eroi» (come li apostrofò, ancora dal carcere, la «principessa del gas» Iulia Tymoshenko) anche armati di piazza Majdan mentre ancora si tace sulle reali responsabilità del lavoro dei cecchini su quella piazza. Ma è difficile immaginare che finirà come per la Crimea: i russi nelle regioni dell’est sono assai inferiori di numero che non in Crimea, e radicalizzare lo scontro vorrebbe dire rieditare la sanguinosa guerra interetnica dei Balcani negli anni Novanta. Prodromo di una deflagrazione ancora maggiore e dagli esiti a dir poco incerti. Né Putin né Obama possono volerlo e infatti trattano. Ma dov’è l’Unione europea? Non esiste, non ha ruolo alcuno. È all’origine della crisi con il suo improbabile allargamento che si riduce all’associazione, ma tace. Al posto della diplomazia di Bruxelles parla la Nato. Ecco l’altro limite dell’Europa reale: non solo è una moneta che affama buona metà del vecchio Continente, ma è in politica estera solo un patto militare, l’Alleanza atlantica. Gli interessi strategici di politica estera, per le fonti di energia e sulla sicurezza, sono nelle mani di un altrove che non è la sede delle istituzioni comunitarie. Fino a quando? del 16/04/14, pag. 1/15 La Troika come l’usuraio Shylock Tonino Perna La visita dI Angela Merkel ad Atene è coincisa con il ritorno sul mercato finanziario dei titoli di stato greci per un valore di 2.5 miliardi. Il fatto di averli collocati ad un tasso inferiore al 5,5%, come preventivato, ha fatto dire al premier greco Samaras che la Grecia è ormai uscita dal tunnel. Non si capisce bene di quale tunnel parli, se è quello del Monte Bianco in cui Monti vedeva la luce alla fine del percorso (ma la leggeva male, altrimenti avrebbe capito che diceva adieu Monti ) o quella di Letta che prevedeva già nel 2014 una crescita dell’1% per l’Italia, già rivelatasi errata. L’abbraccio con la Merkel del premier greco non è stato sufficiente a rassicurare chi conosce bene la situazione economica e finanziaria della Grecia. ». Dello stesso tenore altri commenti di esperti di grandi banche ed istituzioni finanziarie, apparse sulla pagina 8 economica di Le Monde l’11 aprile : » stima Jesus Castillo. Ed aggiunge Christopher Dembik, della Banca Saxo: ». Il debito pubblico della Grecia era all’inizio della crisi (2008) pari al 112,9 % del Pil, su un livello pari a quello italiano. Tre anni dopo era arrivato al 170.3%, dopo le prime misure di austerity. I titoli di stato non riuscivano più ad essere venduti sul mercato globale se non a tassi di interesse sempre più alti ed insostenibili. A quel punto, nel 2011, lo Stato greco era chiaramente in default, come sosteneva su questo giornale Guido Viale. Ma i tempi della politica sono diversi da quelli del mercato e della razionalità contabile. Accettando il fallimento della Grecia la troika avrebbe ammesso il fallimento delle politiche di austerity e, soprattutto, avrebbe lasciato le banche tedesche, francesi, ecc. con miliardi di titoli di stato greci inesigibili. Per evitare tutto questo fu deciso di cancellare una parte del debito pubblico (123 miliardi) e di chiedere come contraccambio dure politiche di austerità che in poco tempo hanno prodotto un tasso di disoccupazione altissimo (27.3% al 2014), la fine della sanità pubblica e del diritto all’istruzione, la perdita della casa per centinaia di migliaia di famiglie ed una povertà di massa che non si vedeva dal tempo della seconda guerra mondiale. Dopo tre anni di questa disonorata macelleria sociale il risultato è che il rapporto debito pubblico /Pil ha toccato un nuovo record: 177% agli inizi di quest’anno. E quindi si richiede una nuova, parziale, cancellazione del debito, che avverrà con il contraltare di altre odiose misure di austerità. C’è da chiedersi: a chi giova questo gioco al massacro, visto che poi alla fine il debito pubblico deve essere comunque in parte cancellato ed in parte ristrutturato? Per comprenderlo dobbiamo approfondire il rapporto che passa tra l’usuraio e le sue vittime. L’usuraio non ha interesse ad uccidere le sue vittime, ma a succhiargli il sangue, a torturarle con ogni mezzo per costringerle a vendere tutti i propri beni. Gli presta ancora del denaro quando la vittima non onora i pagamenti, ma lo fa ogni volta chiedendo in cambio tassi più alti fino alla consunzione delle persone che cadono nella sua rete. Questo rapporto sadico e perverso è stato magistralmente espresso da Shakespeare nel “Il mercante di Venezia”. Come è noto, Shylock, l’usuraio, fa firmare ad Antonio, un armatore in difficoltà, un contratto in cui se non restituisce i soldi, dovrà offrire all’usuraio una libbra della sua carne. Quando si arriva al processo e gli amici di Antonio offrono a Shylock i tremila ducati dovuti, l’usuraio li rifiuta e pretende che venga rispettato il contratto: ». E’ quello che a preteso la troika (Commissione europea, Bce e Fmi) dal popolo greco. Non ha pensato tanto a recuperare i denari prestati dalle banche e dalle istituzioni pubbliche, quanto a tagliare la carne viva del corpo sociale, come pretendeva il personaggio shakespeariano. L’odiosa punizione, il rituale sacrificale è stato imposto anche alla Spagna e al Portogallo, ma non all’Italia che ha deciso di punirsi da sé per soddisfare la sete di sangue dei padroni della finanza. Non è servito a niente: anche il nostro paese di avvia sulla strada del default: il rapporto debito pubblico/Pil era a 118% quando è venuto il turno del governo Monti, oggi è arrivato al 134%! Ed è sicuro che continuerà a crescere, dato il deficit previsto per l’anno in corso si aggira intorno al 3% ed il Pil nella migliore delle ipotesi arriverà ad un 0.8%. In sostanza il nostro debito pubblico è insostenibile ed impagabile. Il programma che prevede in venti anni di ridurre il rapporto debito/Pil al 60% è pura follia: si dovrebbero tagliare ogni anno 50 miliardi dalla spesa pubblica. Come se ne esce ? Come diciamo da anni: attraverso una alleanza forte tra i paesi europei più indebitati, i cosiddetti Piigs, per costituire una massa critica in grado di bilanciare lo strapotere tedesco del governo delle larghe intese che vorrebbe continuare a dettare legge nella Ue. E’ quello che ci insegna la storia delle vittime dell’usura: solo quando si ribellano, si uniscono, non hanno più paura dell’usuraio e riescono a riacquistare il diritto a vivere. 9 del 16/04/14, pag. 17 Gru, trivelle e i 31 siti del petrolio La partita dietro il voto in Algeria Bouteflika malato, ma il regime ha in mano le chiavi del rilancio DAL NOSTRO INVIATO ALGERI – Meglio guardare alle gru e alle trivelle, anziché ai manifesti e ai comizi, per cercare di cogliere l’importanza delle elezioni presidenziali in Algeria. Il capo dello Stato Abdelaziz Bouteflika, anziano (77 anni) e malato (ictus nel 2013) domani, 17 aprile, otterrà dalle urne il suo quarto mandato. Ma davanti a sé e al suo regime si potrebbe aprire una situazione di pericoloso stallo politico. Il popolo algerino, dopo decenni di sonno profondo, comincia a dare qualche segnale di risveglio. Confuso, contraddittorio, talvolta violento, ma comunque ancora senza un leader riconoscibile. Forse non è più sufficiente il narcotico delle sovvenzioni e dei calmieri: 50 miliardi di dollari, un quarto del prodotto interno lordo, distribuito a cittadini con stipendi medi di 200300 dollari al mese, ma che possono fare il pieno di benzina con 8 dollari e comprare per un niente pane, latte, zucchero, olio. L’establishment, invece, è seduto su un tesoro da 190 miliardi di dollari: sono le riserve valutarie accumulate esportando idrocarburi in Spagna, Italia, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, al ritmo di 65-70 miliardi di ricavi all’anno. Il regime si regge su tre forze: il clan del presidente, l’esercito e i servizi segreti. Bouteflika, l’erede dell’epopea indipendentista (il suo partito si chiama ancora Front de Libération nationale) e il campione dell’anti terrorismo islamico, non è più la guida indiscussa. Vincerà anche stavolta con percentuali plebiscitarie, gonfiate come sempre dall’efficiente macchina del consenso, o come dicono gli oppositori, della frode sistematica. In Algeria, 36 milioni di abitanti, non esiste un registro elettorale unico. L’apparato del ministero è in grado di far votare qualcuno anche tre o quattro volte, per esempio le 830 mila divise, tra soldati, poliziotti e altre forze di sicurezza. Domani sera le fonti ufficiali indicheranno un’affluenza intorno al 50-60%, ma si stima che solo il 20-25% degli elettori (conteggiati sommariamente mettendo insieme gli schedari locali) si scomoderà per compiere una finta scelta: gli avversari del presidente sono outsider senza seguito, con la sola eccezione dell’ex primo ministro di Bouteflika, Ali Benflis, 69 anni, che pur di farsi notare è arrivato addirittura a evocare il ricorso alla violenza in caso di sconfitta. Basta aspettare fino a venerdì. Bisognerà, invece e più seriamente, tenere in conto l’azione di disturbo del «fronte del boicottaggio» («no alle urne») che tiene insieme quel che resta dell’Islam politico, triturato dalla repressione degli anni Novanta, e quel che viene avanti di un movimento laico e modernizzatore per ora più presente su Facebook e Twitter che nelle piazze, come il gruppo Barakat che significa Basta! Posizioni coraggiose in un Paese quasi militarizzato, che lesina i visti di ingresso ai giornalisti e agli osservatori internazionali. E largheggia con le facilitazioni agli uomini d’affari. Tuttavia le vere preoccupazioni dei centri di comando sono concentrate altrove: nell’attuazione dell’ambizioso piano di investimenti pubblici, già partito con il consueto e nutrito corollario di corruzione e tangenti (coinvolta anche l’italiana Saipem). Strade, trasporti pubblici, case, ospedali. Se ne vedono le tracce strisciando dentro il traffico assurdo, lungo la strada che conduce all’aeroporto. A sinistra i cinesi stanno costruendo la moschea più grande del mondo arabo (e chi meglio di loro?), superando quella di Casablanca, in Marocco. 10 Qualche chilometro più avanti, nella sede, anzi nella cittadella occupata da Sonatrach, la compagnia petrolifera nazionale, i tecnici stanno definendo la mappa delle nuove esplorazioni petrolifere. Trentuno siti da setacciare nell’immenso deserto partendo dalla linea segnata da Hassi R’mel e Hassi Massoud e scendendo verso sud. Le multinazionali già presenti nell’area, da Eni a British Petroleum, dalla spagnola Repsol all’americana Conoco hanno iniziato quella che è forse la vera campagna elettorale in corso nel Paese. In gioco ci sono commesse per diversi miliardi di dollari, ma soprattutto posizioni geostrategiche su cui scommettere. L’Italia importa dall’Algeria il 33% del suo fabbisogno di gas. Il governo di Roma, dunque, e il nuovo vertice dell’Eni si troveranno davanti un dossier di importanza capitale e dovranno guardarsi soprattutto dall’attivismo degli spagnoli. Il regime algerino, invece, vuole stabilità prima ancora che la continuità del mandato di Bouteflika. Gli alti gradi dell’esercito hanno fatto pressione per l’avvicendamento, ma il clan del presidente non ha ceduto e si è impegnato in una surreale campagna senza la presenza fisica del candidato. E’ probabile che il confronto nella cupola del potere riprenderà non appena saranno richiuse le urne. Con discrezione e tra un affare e l’altro con le società straniere. Giuseppe Sarcina Del 16/04/2014, pag. 15 Rivolta nel polo che rifornisce le multinazionali La protesta nel 25esimo della scintilla di Tienanmen Schiavi delle scarpe Via al maxi-sciopero e ora Pechino trema GIAMPAOLO VISETTI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO Migliaia di operai si sono fermati ieri nel distretto industriale di Dongguan e in tutta la Cina sono scattate misure di sicurezza straordinarie. Ad allarmare la leadership, non solo lo sciopero più vasto da molti anni nel Guangdong, cuore dell’export globale. Le autorità hanno mobilitato esercito e polizia perché quello di ieri, per i cinesi, non era un giorno qualsiasi. Il 15 aprile 1989 morì Hu Jiaobang, che due anni prima era stato costretto a dimettersi da segretario generale del partito comunista. Il delfino di Deng Xiaoping fu stroncato da un infarto, ma tutti collegarono la sua morte all’espulsione dal politburo, a causa delle aperture ai giovani che invocavano riforme democratiche. Nel giorno del funerale, il 22 aprile, migliaia di universitari invasero piazza Tiananmen e rimasero davanti alla Città Proibita fino alla notte del 4 giugno, data tragicamente entrata nella storia del mondo. Venticinque anni dopo, l’anniversario di Hu Jiaobang, scintilla da cui partì l’incendio delle proteste represse nel sangue a Pechino, ma non nell’Urss e nell’Europa orientale, in Cina resta un tabù. Perfino la foto dell’ex presidente Hu Jintao, nei giorni scorsi in visita ai famigliari del leader-simbolo dei riformisti, è stata censurata su Internet e media di Stato. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza ancora esplosiva, i vertici del potere sono in fibrillazione e le forze dell’ordine hanno ricevuto l’ordine di blindare la nazione. Famigliari delle vittime di Tiananmen, dissidenti e sopravvissuti alle cariche di allora, sono già isolati, messi sotto controllo, o trasferiti con la forza lontano dalla capitale. E’ a causa di questo clima di repressione preventiva che lo sciopero di Dongguan, in una data ad alta sensibilità politica, ha fatto temere ai dirigenti comunisti lo scoppio di 11 simboliche proteste di massa anche nel resto del Paese. A fine febbraio la metropoli industriale del Sud, vicina a Shenzhen e a Hong Kong, è già stata scossa dall’operazione “Spazzare via il giallo” ordinata dal presidente Xi Jiping. Nel mirino 300 mila prostitute del più grande mercato a luci rosse del pianeta, primo business della regione. Era insorta l’intera città, preoccupata che i sigilli ai bordelli avrebbero messo in ginocchio l’economia. Questa volta a ribellarsi sono invece gli operai della Yue Yuen, colosso mondiale delle scarpe con proprietà a Taiwan, come la vicina Foxconn, gigante dell’elettronica nota come «la fabbrica dei suicidi ». Diecimila dipendenti su 60 mila hanno bloccato due dei dieci stabilimenti per denunciare condizioni di lavoro disastrose e il mancato pagamento dei contributi per sanità, casa e pensione. E’ il nervo scoperto della Cina di oggi: oltre 400 milioni di operai migranti, privi di welfare perché la legge lo assicura solo nel luogo di nascita. A innescare la rivolta, l’ennesimo infortunio di un giovane operaio. Cui Tiangang, simbolo dello sciopero, solo dopo il ferimento in reparto ha scoperto che l’azienda non versava l’extra per assicurarlo. Il governo da mesi promette di riformare l’odiato istituto dell’ hukou, ma si scontra contro funzionari locali e industriali, che non vogliono costi aggiuntivi. Ieri migliaia di persone hanno marciato per le strade chiedendo «assistenza», «casa» e le condizioni per ricongiungere le famiglie, esplose con l’urbanizzazione forzata. Per arginare le manifestazioni sono intervenuti reparti speciali della polizia e cani anti-sommossa: decine gli operai che hanno denunciato «pestaggi e torture», non verificabili. I vertici della Yue Yuen per tutto il giorno si sono rifiutati di trattare, ma la pressione di partito e mercato globale a tarda sera sembra aver aperto un varco alle trattative. La multinazionale, che ha stabilimenti anche in Vietnam, Indonesia, Messico e Usa, produce le scarpe sportive per i marchi più famosi, tra cui Adidas, Nike, Puma, Reebok, New Balance, Timberland, Asics e Crocs. Lo sciopero degli operai di Dongguan, dove si cuciono 300 milioni di scarpe all’anno, rischia di lasciare scalzo l’Occidente. A poche settimane dal 4 giugno, per Pechino il pericolo è però prima di tutto arrivare all’anniversario di Tiananmen con una Cina che cresce sempre meno, in rivolta contro la corruzione dei dirigenti e percorsa da rinnovate tensioni sociali. La saldatura tra dissenso politico e rivolte operaie: un’opposizione che i successori di Mao sono decisi ad impedire, ancora una volta a qualsiasi prezzo. Del 16/04/2014, pag. 14 Area insicura, chiusa Abu Ghraib Era da qua che i militari statunitensi spedivano le loro personali cartoline dall’inferno: immagine scattate con i telefoni cellulari, corpi nudi, offesi, denigrati a far da sfondo al sorriso dei vincitori. Le autorità irachene hanno chiuso Abu Ghraib, la prigione tristemente nota per gli abusi commessi dal regime di Saddam Hussein e dalle forze americane durante l’occupazione dell’Iraq. Il ministero della Giustizia ha motivato la decisione con problemi di sicurezza nella zona occidentale di Baghdad, dove si trova il penitenziario. «Il ministro della Giustizia ha annunciato la chiusura completa della prigione centrale di Baghdad e il trasferimento dei detenuti in collaborazione con i ministri della Difesa e della Giustizia», si legge nel comunicato diffuso on line, in cui si precisa che sono 2.400 i prigionieri trasferiti in altre strutture nel centro e nel nord del Paese. «Il ministero ha adottato questa decisione nell’ambito delle misure preventive collegate alla sicurezza delle prigioni», ha detto il ministro Hassan al-Shammari, ricordando come Abu Ghraib si trovi «in un’area calda». Non è chiaro al momento se la chiusura del carcere sia temporanea o definitiva. Tra le mura di Abu Ghraib si stima che siano stati uccisi circa 4000 detenuti, 12 sotto il regime di Saddam. Ma il carcere deve la sua triste notorietà soprattutto agli abusi commessi dai militari americani a partire dal 2003, quando nella speranza di sradicare la resistenza venivano rastrellati quartieri interi, procedendo ad arresti indiscriminati. Chi finiva dentro con la presunzione di terrorismo - e bastava trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato - subiva torture e umiliazioni sistematiche, il cui scopo era essenzialmente la raccolta di intelligence. Nel luglio scorso il carcere è stato attaccato da miliziani insieme ad un’altra prigione. In quell’occasione vennero liberati centinaia di detenuti, inclusi diversi ribelli. Decine le vittime tra carcerati e personale di sicurezza. È stata l’evasione di massa a spingere il governo iracheno a cercare una soluzione alternativa. L’area in cui si trova la prigione, nella zona ovest di Baghdad, è infatti estremamente pericolosa ed ha registrato nel 2014 più di 2.550 vittime. La struttura si trova in una località «isolata », alle porte della provincia di Anbar, dominata dai sunniti, dove proseguono gli scontri fra lo «Stato islamico dell’Iraq e del Levante» e le forze governative. 13 INTERNI del 16/04/14, pag. 2 Il fantasma del bonus Roberto Ciccarelli Austerità. Stasi, incertezze sui fondi e oscuri presagi sui conti in vista di venerdì, quando il Cdm varerà «la quattordicesima» promessa da Renzi. Bankitalia esprime dubbi sulle coperture della spending review per sostenere gli 80 euro del taglio Irpef. Per l’Istat in busta paga arriveranno al massimo 65 euro al mese Il governo si avvia a varare venerdì il decreto sugli 80 euro al mese in busta paga senza coperture mentre 10 milioni di italiani non riceveranno 960 euro promessi in un anno, ma tra 451 e 796 euro, 40–65 euro netti al mese, a seconda del loro reddito da lavoratori dipendenti. È stata questa la valutazione del presidente dell’Istat Antonio Golini durante l’audizione di ieri davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato. Le commissioni hanno ascoltato anche il vice-direttore Luigi Signorini di Bankitalia e il presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri che hanno sollevato una fitta nebbia di dubbi e incertezze sulle promesse elettorali sul bonus di Matteo Renzi e segnalano il difficile passaggio che in queste ore sta affrontando il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Le maggiori perplessità sono state espresse dalla Banca d’Italia secondo la quale i risparmi della spending review non basterebbero a finanziare la «quattordicesima» promessa al ceto medio impoverito. Oltre allo sgravio dell’Irpef, Renzi deve evitare l’aumento delle entrate e trovare la copertura per le spese correnti. Bankitalia ha fatto queste cifre: 3,7 e 10 miliardi rispettivamente per il 2015, 2016 e 2017 da adottare se la revisione della spesa non desse risultati sufficienti. Già dal 2015 i soldi presi dai tagli di Cottarelli non basteranno per tenere i conti in ordine. Quanto all’altro pilastro di questa strategia sono le privatizzazioni. Bankitalia è stata impietosa e giudica «ambiziosa» l’idea del governo di ottenere uno 0,7% di Pil dalle privatizzazione degli asset statali per i quali lunedì Renzi ha nominati i vertici in accordo con Berlusconi. La valutazione di via Nazionale fa tremare i polsi, rivela le velleità attuali del governo e instilla un timore per il futuro. «Negli ultimi 10 anni gli importi da dismissioni mobiliari sono stati pari a 0,2 punti di Pil in media l’anno». Bankitalia rilancia tuttavia l’idea di «un rapido e preciso programma di dismissioni» seguendo l’idea dell’«austerità espansiva»: più tagli alla spesa e alle proprietà pubbliche per finanziare una crescita che la stessa banca centrale giudica molto fragile. Prendendo per buone le stime del governo: lo 0,8% contro il 3,6% della crescita globale. Ma la percentuale rischia di essere inferiore ed è escluso produca maggiore occupazione come ha confermato ieri l’Ocse. L’occupazione in Italia è circa 10 punti più bassa degli altri paesi: il 55,5% contro il 65,3%. Peggio di noi stanno solo la Grecia, Spagna e Turchia. Contro la disoccupazione occorrebbe una «crescita robusta e duratura» e tagli strutturali della spesa pubblica. Un incastro difficile da ottenere oggi. Una richiesta avanzata anche dal presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri secondo il quale la revisione della spesa non dev’essere «ispirata da esigenze di copertura finanziaria, ma devono basarsi su una chiara strategia di governo della spesa. Cresce la tensione in vista dei tagli strutturali al debito pubblico stabiliti dal Fiscal Compact che entrerà in vigore dal 2016, obbligando il governo a tagliarlo di un ventesimo all’anno: 50 miliardi di euro fino al 2036. La crescita anemica, il bonus elettorale degli 80 euro, 14 l’incertezza delle coperture mettono a rischio questo impegno. L’Italia dovrebbe passare dal 134,9% di debito pubblico nel 2014 al 120% del Pil entro il 2018. Nel Def il governo ha inoltre previsto il rinvio al 2016 del pareggio strutturale del bilancio, ma per farlo avrà bisogno della maggioranza assoluta in Parlamento e di una valutazione aggiuntiva dalla Commissione Ue. «Questa richiesta di deroga – ha aggiunto Squitieri – non sembra inconciliabile con le indicazioni europee». Ieri tutta la destra, a cominciare da Renato Brunetta (Forza Italia) si è fiondata sul governo urlando contro le promesse con le gambe corte di Renzi, al quale non resta altro che trovare solide coperture per il suo progetto di «austerità espansiva». Quanto alla sinistra sindacale e Pd, ieri impegnata al congresso Spi-Cgil, non è intervenuta sulle previsioni fatte in parlamento. Susanna Camusso per la Cgil, e Gianni Cuperlo per la minoranza Pd si sono augurati l’estensione degli 80 euro per «i pensionati e gli incapienti». Il ministro dell’Interno Alfano promette il bonus anche alle partite Iva con reddito inferiore a 25 mila euro e senza dipendenti. Vedremo con quali risorse. Stasi, incertezza e oscuri presagi che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Del Rio cerca di evitare. Per lui i tagli alla scuola, che stanno allarmando tutti, consisteranno nel risparmio sui contratti di servizio con i fornitori e promette di usare il bisturi per tagliare la spesa sanitaria da 1,5 miliardi. Del 16/04/2014, pag. 6 LA GIORNATA Il Cavaliere fa i conti con l’implosione forzista e il rischio di diventare terzo partito Iniziato ieri a Palazzo Madama l’esame del testo per l’abolizione del Senato L’allarme di Berlusconi “Bisogna cambiare l’Italicum” Renzi frena: “Non si vota ora” ROMA .Sarà pure una coincidenza ma l’effetto Renzi-Berlusconi, il patto sulle riforme rinnovato lunedì sera a palazzo Chigi, ha subito prodotto un’accelerazione nei lavori di palazzo Madama. L’iter del disegno di legge costituzionale è finalmente partito in commissione e Forza Italia, che aveva iscritto alla discussione tutti i propri senatori ne ha cancellati cinquanta, segno che rinuncia all’arma dell’ostruzionismo. Così l’obiettivo di Renzi di arrivare al primo sì entro il 25 maggio si avvicina e il ministro Maria Elena Boschi può salutare il risultato: «L’accordo con Forza Italia tiene ed è stato confermato. Ora possiamo procedere speditamente». Certo, resta un’area importante di dissenso dentro al Pd che nemmeno la riunione dei senatori dem (la quinta sulle riforme) ha potuto obliterare del tutto. Ma i numeri si stanno assottigliando. Nell’assemblea Vannino Chiti, presentatore del ddl alternativo a quello del governo, ha insistito sull’eleggibilità dei futuri senatori. Messo ai voti il voto il testo del governo è risultato largamente maggioritario: 53 sì, 11 no e 4 astenuti (in totale i senatori Pd sono 107). A dar man forte alla minoranza interna è arrivato Massimo D’Alema che a Porta a porta ha criticato la “coppia” delle riforme: «Berlusconi e Renzi non fanno parte del Parlamento. Sulle regole della democrazia il Parlamento deve potere intervenire migliorando, discutendo e correggendo con libertà i testi». Sui tempi di approvazione resta comunque l’incognita dell’ostruzionismo grillino. L’obiettivo di Anna Finocchiaro è quello di adottare un testo base entro il 29 aprile, a costo di avanzare a tappe forzate. «Ognuno — 15 ha detto la presidente della prima commissione — deve avere il tempo di esprimere la propria opinione ma ciò non deve trasformarsi in manovre per dilazionare i tempi». Boschi conferma che si lavorerà anche in seduta notturna, compresa la settimana di Pasqua, per adottare un testo base. «Spero anche prima del 29 aprile e spero sia quello del governo». «Tanto non si vota ora, non c’è da preoccuparsi». Per tenere vivo l’accordo sul Senato nei tempi previsti, ovvero entro il giorno delle Europee, Matteo Renzi ha dovuto tranquillizzare Berlusconi sulla legge elettorale. Che così com’è, con Forza Italia in caduta libera, piace meno di due mesi fa dalle parti di Arcore. Il Cavaliere dunque preferirebbe prendere tempo, non “correre” troppo, verificare prima il risultato del 25 maggio e vedere dove si ferma il declino di Fi per capire se la formula del ballottaggio è ancora valida. Non è più detto che sia il centrodestra il primo o il secondo polo. Se diventa il terzo, l’Italicum non è più una legge conveniente. Le parole di Renzi sono state interpretate da Berlusconi come la garanzia di non essere messo ai margini delle riforme anche in caso di ripensamento. Non significano però che il premier abbia cambiato idea su una scaletta immaginaria che fissa a giugno l’approvazione definitiva della norma sul voto. «Il dato delle Europee — ha spiegato nella notte del vertice — non può essere paragonato a quello delle politiche. Grillo non ha la capacità di creare una coalizione. La destra, sì. E sono le coalizioni a correre per il voto politico ». Renzi dice anche, raccontando ai collaboratori l’esito del colloquio, che «i sondaggi non possono condizionare le riforme». Insomma, l’Italicum non deve saltare. L’intenzione del governo è non mancare alla promessa di costruire l’architettura istituzionale con l’opposizione. Ma uno stop vero e proprio è difficile da immaginare. «Berlusconi non conti sulle divisioni del Pd. I numeri ce li abbiamo, com’è avvenuto alla Camera la legge può passare anche a Palazzo Madama». Fra l’altro, la novità delle ultime settimane è la «profonda sintonia» creata nell’esecutivo con Angelino Alfano. «Ncd sarà meno bellicosa di quanto si è visto a Montecitorio. Non farà più le barricate. I loro voti sono blindati, stavolta». Berlusconi è stretto tra la pena da scontare ai servizi sociali, il margine di manovra ridotto e il crollo del suo partito. Aspetta il 25 maggio come la data della resa dei conti. Non chiede la cancellazione del patto sulla legge elettorale. Ma il tempo di verificarne l’utilità alla luce dei voti presi nelle urne. A quel punto, se l’esito per Fi, fosse disastroso, la resistenza dei berlusconiani potrebbe saldarsi con i dissensi del Partito democratico. La minoranza del Pd, con Bersani e D’Alema, ha fatto capire che lascerà via libera sul Senato e il Titolo V, ma darà battaglia contro l’Italicum. Stavolta senza più il condizionamento legato alle Europee e all’affermazione del Pd. «Oggi il piatto è questo - è stata la risposta di Renzi l’altra sera - e non dimenticate che nel nostro accordo abbiamo escluso le preferenze e la parità di genere. Sono clausole che io sono in grado di rispettare, ma che mi pare siano in cima alla lista dei vostri paletti». Un avvertimento. L’ex sindaco dunque non sembra intenzionato a rinunciare alla legge elettorale, magari votandola in tempi meno brevi del previsto ma nemmeno allungati all’infinito. È la sua polizza assicurativa sul governo, è lo strumento con cui far avanzare il suo progetto avendo in mano l’ipotesi di elezioni anticipate. Ed è anche quello che gli ha chiesto Giorgio Napolitano. Ogni ritardo o leggero slittamento può diventare una bomba a orologeria sotto il cammino delle riforme. Il presidente della Repubblica chiede al governo, alla maggioranza e ai partiti dell’opposizione di arrivare alla fine del cammino, stavolta. È esattamente lo stesso obiettivo di Renzi. Che intanto incassa il passo rapido sulla riforma del Senato confermato dal ritiro di tutti gli emendanti forzisti, ieri mattina. Poi, dopo il 25 maggio, si vedrà. 16 Del 16/04/2014, pag. 10 LA GIORNATA Borsa delusa dalle nomine e nella scelta dei consigli entra il manuale Cencelli Molti renziani, una pattuglia di alfaniani, più minoranza Pd Napolitano: nessun mio intervento sulle decisioni del governo ROMA . Le nomine per le aziende pubbliche non superano la prova con la Borsa. A Piazza Affari il titolo di Finmeccanica ha chiuso a — 5,22 per cento, quello dell’Enel a — 2,39 per cento, quello dell’Eni a — 0,38 per cento. È chiaro che le incertezze riguardano soprattutto il futuro strategico della holding della difesa e dell’aeronautica dove approderà Mauro Moretti proveniente dalla Ferrovie. Gli analisti ritengono, invece, che ci sia continuità con la staffetta all’Eni tra Paolo Scaroni e Claudio Descalzi e non hanno penalizzato più di tanto il titolo del “Cane a sei zampe”. Qualche dubbio, in particolare sul possibile rallentamento del piano industriale, emerge sull’Enel guidata da Francesco Starace. Ora si apre la partita per la successione a Moretti: in pole position ci sarebbe Domenico Arcuri ad di Invitalia, ma se la scelta dovesse esser fatta all’interno il nome più gettonato è quello di Michele Maria Elia. Ieri è arrivata la promozione dei due quotidiani finanziari più influenti sulle piazze internazionali: il Financial Times che sulla sua versione on line ha parlato del «massacro della vecchia guardia italiana», e il Wall Street Journal che ha sottolineato le scelte fatte secondo criteri «di trasparenza e merito». Il Quirinale ha smentito qualsiasi intervento del presidente della Repubblica sul terreno delle nomine che invece alcune ricostruzioni di stampa gli avevano attribuito. Il Colle le ha definite «ricostruzioni fantasiose». «Nessun intervento del genere si è verificato, in quanto le responsabilità di decisione proprie del governo sono state pienamente rispettate». C’è un giallo che riguarda le liste del Tesoro per i consigli di Eni e Enel. Sono state invertiti due nomi: Andrea Gemma è candidato per il cda di Enel anziché Eni, e Salvatore Mancuso all’Eni e non all’Enel. Poiché si tratta di due candidati collocabili nell’area dell’Ncd c’è il sospetto che non possa essere stato solo «un errore materiale» come si sono giustificati da Via XX settembre. Sull’indicazione delle donne alle presidenze, a parte quella di Finmeccanica dove è stato confermato Gianni De Gennaro, è tornato il segretario della Cgil, Susanna Camusso, che ha apprezzato la scelta anche in relazione al tetto degli stipendi. Che però non si applica agli amministratori delegati (uomini) mentre vale per i presidenti. «E casualmente — ha detto Camusso — tutte le donne sono presidenti». del 16/04/14, pag. 1/15 Imprese pubbliche, interessi privati Tommaso Nencioni «In Italia – sosteneva il grande liberale Ernesto Rossi – esiste un solo grande partito organizzato, ed è quello della Confederazione generale dell’Industria». Passata la nottata della Prima Repubblica, durante la quale il potere di questo partito, se non totalmente ridimensionato, era stato comunque conteso, agli albori della Terza esso torna a dispiegare in pieno il suo potere. 17 In pieno conflitto di interessi (una categoria ormai patentemente demodé) un suo esponente di spicco, ancorché “rosa”, siede al ministero dello sviluppo. Più in generale, nessuno più si sogna di contestare la centralità dell’impresa nello sviluppo del paese: ciò che va bene per le aziende va bene per l’Italia, è il refrain dominante, refrattario ad ogni smentita della logica. La ciliegina sulla torta l’ha ora aggiunta il governo Renzi, con la nomina dell’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ai vertici della più importante azienda pubblica del paese, l’Eni. Tralasciamo il dato di fatto, di per sé sconcertante, dell’intrico affaristico-giudiziario che pesa sulla nomina. Il punto centrale è che questa vera e propria invasione di campo da parte del Partito unico della Confederazione degli industriali, pur ingentilito dalla maschera della quota rosa, dovrebbe far riflettere ciò che resta della sinistra sul rapporto esistente tra impresa pubblica ed interesse privato. Se analizzata in questa luce, la nomina di Marcegaglia costituisce un vero e proprio schiaffo nei confronti della storia della sinistra italiana. La Repubblica ereditò dal crollo del fascismo un sistema articolato di imprese pubbliche, che il regime aveva pezzo a pezzo costituito in maniera disorganica, quasi obtorto collo, in seguito ai grandi crack che coinvolsero anche il nostro sistema produttivo nel corso della Grande Depressione. Già durante il primo quinquennio repubblicano le sinistre dettero battaglia non tanto per difendere, quanto per ampliare le prerogative del sistema delle Partecipazioni Statali, e indirizzarle a fini di sviluppo equilibrato sul territorio. Da par suo, parte consistente del mondo industriale e finanziario italiano, con solidi addentellati all’interno del gruppo dirigente democristiano (oltre che nel Partito liberale), vedeva di buon occhio invece lo smantellamento del sistema, potendosi permettere oltretutto, considerate le sue origini, di ammantare la propria battaglia di un antifascismo invero superficiale. Se il fascismo era stato statalista – era l’argomentazione di Angelo Costa e dei suoi corifei – la Repubblica non poteva che nascere liberista. Perduta la battaglia per lo smantellamento dell’industria pubblica, certo per l’opposizione delle sinistre, ma anche in seguito al revirement che la generazione fanfaniana di dirigenti dc impresse in questa materia al partito cattolico, i gruppi dirigenti tradizionali condussero una sotterranea opera di subordinazione agli interessi privati del sistema delle partecipazioni statali. In settori decisivi quali, fra tutti, la chimica e l’estrazione, a fare da padroni nel dettare gli indirizzi alle aziende pubbliche furono i grandi interessi monopolistici, Fiat, Edison e Montecatini in testa. Il vento mutò con l’approssimarsi, e poi con l’effettiva realizzazione, del centro-sinistra. Nel campo del movimento operaio, della democrazia laica e dello stesso partito cattolico, personalità come Riccardo Lombardi, Ugo La Malfa e Giulio Pastore festeggiarono come una vittoria lo scorporo dalla Confindustria delle aziende controllate da Iri ed Eni (1957), una misura vista come fumo negli occhi dall’establishment industriale e finanziario del Paese, che vi si oppose con la nobilitante copertura dell’allora presidente della Banca d’Italia Guido Carli. Fu lo stesso conglomerato che, a distanza di pochi anni, si oppose fieramente (ma invano) alla nazionalizzazione delle aziende erogatrici di energia elettrica, e che riuscì a sventare la messa in campo di una moderna regolamentazione dello sviluppo urbanistico. Ma cosa c’era alla base di quella battaglia “statalista” condotta dalla sinistra? In una Italia povera di capitali, era il ragionamento, e condizionata da un modello di sviluppo che, se lasciato al libero gioco del mercato, avrebbe inesorabilmente aumentato il “dualismo” tra aree progredite ed aree sottosviluppate del paese, l’iniziativa pubblica appariva decisiva per imprimere diverse modalità di crescita agraria ed industriale alla penisola nella sua interezza. In questo panorama, il ruolo delle aziende pubbliche era visto come necessariamente – non ideologicamente – confliggente con l’interesse privato. Lo Stato 18 dunque, agendo da imprenditore, era chiamato, più che a supplire temporaneamente alle deficienze dell’industria privata, o ad agire in funzione ad essa ancillare, ad operare in maniera diretta ed autonoma per superare le storture di lungo periodo del nostro apparato produttivo. Riflettendo sui casi nostri degli ultimi vent’anni, c’è da ripensare a quanto ancora rimane di valido in quello schema interpretativo e nella proposta politica che lì traeva le proprie scaturigini. Ora che il fallimento dell’ondata privatista è sotto gli occhi di tutti, c’è da pensare che i gruppi dirigenti, che quell’ondata si sono dimostrati incapaci di cavalcare, siano più che altro interessati a subordinare a fini privatisti ciò che di sano rimane nel nostro apparato produttivo pubblico. La nomina di Marcegaglia va inesorabilmente in questa direzione. Il rilancio della proposta politica della sinistra, invece, passa anche dalla riproposizione, in un quadro certo mutato, di un intervento pubblico svincolato da fini particolaristici, e teso alla definizione di un nuovo ed alternativo modello di sviluppo. del 16/04/14, pag. 3 Moretti e Pansa, i gattopardi di Palazzo Chigi Giorgio Airaudo, Giulio Marcon «Tutto cambi perché nulla cambi». Le nomine del gattopardo di palazzo Chigi hanno quella spolverata di novità di genere, unico fatto apprezzabile anche se circoscritto alle presidenze delle società pubbliche, ma quando si passa dai generi ai cognomi si rintraccia il profilo noto di quelle dinastie imprenditoriali nazionali, si premia l’establishment economico privato che in questi anni non ha sempre dato buona prova di attaccamento all’interesse collettivo e a visioni innovative dei prodotti e nei rapporti di lavoro si premiano mission industriali che hanno avuto più a cuore i profitti che il lavoro, gli investimenti, la competitività del nostro sistema, speso godendo di commesse anche pubbliche. E che ci ripropongono in contemporanea nomine e licenziamenti, come accade in questi giorni in Marcegaglia, che chiude lo stabilimento di Milano con i suoi 169 lavoratori. Colpisce in particolare l’attenzione che viene dedicata alla nomina di Moretti a Finmeccanica. Non si può non ricordare che la gestione Moretti alle ferrovie ha significato il sacrificio del trasporto ferroviario pubblico locale. Una visione del sistema ferroviario centrato su poche tratte redditizie legate all’alta velocità, con l’impegno vorace di risorse per infrastrutture che impegnano il territorio, immobilizzano spesa e in alcuni casi hanno alimentato sistemi corruttivi su cui sta indagando la magistratura. Tutto questo in una gestione che ha ridotto i costi, con un peggioramento dell’occupazione e delle condizioni di lavoro nelle ferrovie. Oggi si consegna Finmeccanica a un presidente come De Gennaro e a un Ad come Moretti che non hanno nei loro profili e nelle loro storie personali le competenze utili per governare questa impresa che è più internazionale, più complessa e articolata delle Ferrovie e che forse richiederebbe più un team che “un solo uomo al comando”, come è nelle caratteristiche dell’ex Ad delle ferrovie. Inoltre a Finmeccanica, che ha subito nella gestione Pansa una concentrazione sul militare a scapito del civile, servirebbe, prima dell’Ad, un piano industriale che rilanci quest’ultimo a partire da Fincantieri, passando per le possibilità che può offrire al paese Ansaldo Energia sullo sviluppo di tecnologie per le Smart City fino alla riorganizzazione di un polo per la produzione del materiale ferroviario e per il segnalamento con Sts che salvaguardi la Breda, oggi a rischio di svendita e ridimensionamento occupazionale e ricostituisca una produzione di bus pubblici, come ha chiesto anche tutto il parlamento 19 italiano con una mozione promossa da Sel, riunificando la Menarini e la ex Irisbus Fiat. Moretti affronterà questo cambio di strategia o confermerà la sua fama di riduttore di costi e di razionalizzatore. In queste nomine non c’è una visione e un progetto di politica industriale e del ruolo delle società pubbliche nel guidare e sostenere una politica di investimenti, salvaguardando il nostro patrimonio industriale, rilanciando l’economia per tutelare e sviluppare l’occupazione più di quanto quanto farà qualunque provvedimento sul mercato del lavoro, come il decreto Poletti in discussione in queste ore alla Camera, che aumentando la precarietà a scapito del lavoro a tempo indeterminato lascia soli e precari i lavoratori responsabili unici di offrirsi al prezzo più basso sul mercato. del 16/04/14, pag. 7 Province, taglio col trucco Aumentano le poltrone SORPRESA: LA LEGGE DELL’ABOLIZIONE APPENA APPROVATA AVRÀ COME EFFETTO COLLATERALE CHE CI SARANNO PIÙ CONSIGLIERI COMUNALI E ASSESSORI di Tommaso Rodano La grande infornata è pronta. Il "regalino" del sottosegretario Graziano Delrio sarà scartato il 25 maggio, giorno delle elezioni amministrative che riguardano 4.106 comuni italiani (di cui 3.908 appartenenti a regioni a statuto ordinario). Da quel giorno, in attesa di svuotare le Province, il governo Renzi comincerà a gonfiare i piccoli Comuni. Il ddl Delrio prevede l'incremento dei consiglieri e degli assessori eletti in tutte le cittadine e i paesi con meno di 10 mila abitanti. La prima tranche arriva con il rinnovo dei consigli comunali di fine maggio. Le poltrone sono così distribuite: 13.488 nuovi seggi per consiglieri comunali, 2.612 per assessori. L'opera sarà completata mano a mano che anche le altre città torneranno al voto. Alla fine in Italia ci saranno circa 25mila consiglieri e 5500 assessori comunali in più. LA RIFORMA riguarda proprio tutti. Anche i paesi con meno di 1000 abitanti. Figurarsi quelli con meno di 100. Valerio Maxenti è il sindaco di Pedesina, il comune più piccolo d'Italia: la bellezza di 33 anime, in una manciata di case stipate sulle pendici del Monte Rotondo, in provincia di Sondrio. Con lo "Svuota province", il Comune non dovrà più accontentarsi di 6 consiglieri (come stabilito dopo i tagli di Monti) ma potrà eleggerne fino a 10 (con due assessori, prima erano zero). Il sindaco, artigiano del legno prestato al servizio della sua cittadina, non benedice le nuove poltrone. Dei nuovi consiglieri non sa che farsene: "Ne bastavano sei, non capisco perché il governo viene a rompere le scatole pure qui". Oltretutto, sarà un caso, l'aumento delle poltrone ha portato la competizione politica pure a Pedesina. Nel 2009 Maxenti era l'unico candidato, ora si parla di due, forse tre liste (una ogni 10 abitanti!). "Vengono da fuori - si lamenta il sindaco - e lo fanno per interessi personali". La lievitazione dei seggi di Delrio cancella la parsimonia del governo Monti. Le manovre del professore del 2011 e 2012, in piena ansia da spread e spending review , avevano tagliato i numeri dei rappresentanti dei piccoli comuni: al massimo 6 (e senza assessori) per i centri con meno di 1.000 abitanti, al massimo 10 (e non più di 3 assessori) per quelli con più di 5000 e meno di 10.000 abitanti. La riforma di Delrio semplifica e moltiplica. Solo due categorie per i piccoli comuni: meno di 3.000 e meno di 10.000 abitanti. I primi possono eleggere 10 consiglieri e 3 assessori, i secondi 12 20 consiglieri e 4 assessori. Il risultato finale è nei numeri citati sopra. Oltre 30 mila poltrone in più, per una riforma che Renzi aveva presentato con queste parole: "Dobbiamo dare un segnale chiaro, forte e netto, con 3 mila posti per i politici in meno. Tremila persone smetteranno di fare politica e proveranno l'ebbrezza di trovare un lavoro". LE PROVINCE, come noto, non saranno abolite. Non prima, per lo meno, della riforma del titolo V della Costituzione. Saranno cancellate le cariche elettive (i tremila posti politici a cui si riferisce Renzi, tralasciando l'aumento degli altri) ma non le strutture di governo, che conserveranno diverse funzioni. I nuovi consigli provinciali saranno eletti e composti dai sindaci e i consiglieri dei comuni da loro rappresentati. Gli eletti, quindi, dovranno lavorare sia per il comune che per la relativa provincia, con uno stipendio solo. La promessa del governo, infatti, è che l'infornata di poltrone nei piccoli comuni non porti un euro di spesa in più: ogni centro dovrà rivedere gli importi di indennità e gettoni. Difficile, però, immaginare che un consiglio comunale con 6 dipendenti abbia le stesse spese di uno con 10 consiglieri e 2 assessori (non fosse altro che per la dimensione dei nuovi uffici e per l'acquisto di beni e servizi per un numero maggiore di persone). L'impatto complessivo della riforma, in ogni caso, non dovrebbe essere trascendentale: la Corte dei Conti ha stimato i risparmi in non più di 35 milioni di euro. del 16/04/14, pag. 1/4 Condannato all’aria aperta Micaela Bongi La sacra Famiglia di Cesano Boscone, o Cesàn Buscùn. Sarà questo il luogo simbolo del tardo berlusconismo, l’età della decadenza. Che, è ufficiale, per il sovrano di Arcore coinciderà per circa dieci mesi con l’affidamento in prova ai servizi sociali nella struttura per anziani e disabili alle porte di Milano. Non sarà Villa Certosa o le Bermude, le Arcore’s nights sono ricordi d’altri tempi. Dimenticare via Olgettina e le vacanze nella dacia sul Mar Nero. Ora c’è Cesàn Buscùn. Località non molto esotica, è vero. Ma se gli avvocati Coppi e Ghedini si dicono soddisfatti il motivo c’è, ed è lampante. La condanna a 4 anni per frode fiscale, già alleviata dai tre di indulto, per Silvio Berlusconi, soggetto ancora «socialmente pericoloso» ma secondo i giudici sulla via del ravvedimento, si risolverà in 4 ore a settimana — in tutto 28 mezze giornate — di «volontariato» presso l’istituto fondato nel 1896 da Domenico Pogliani, sacerdote in odore di santità. Il che può anche essere letto come un incoraggiante segno del destino per l’unto del signore ormai spogliatosi anche della carica di Cavaliere. Gli incubi più neri, come la privazione totale della libertà agli arresti domiciliari, del resto sono alle spalle. E l’agognata «agibilità politica» è garantita: sbrigati i suoi impegni con gli anziani e gli altri ospiti della grande struttura, Silvio il volontario sarà libero di circolare in Lombardia tenendo comizi e convention salvo starsene nella villa di Arcore dalle 11 di sera alle 6 del mattino. E dal martedì al giovedì potrà lasciare la sua regione e raggiungere Roma per gli impegni di partito e di campagna elettorale, anche a cena, volendo, ma sempre con l’obbligo di passare la notte in casa e di tornarsene nell’abitazione di Arcore per le 23 del giovedì. Con un apposito permesso, potrà anche circolare al di fuori dei confini stabiliti. Nessun limite di orario per interventi telefonici, ad esempio in collegamento con le tv. Certo, al leader forzista qualche complicazione nella sua attività politica potrà derivargli da un’altra prescrizione, quella di non frequentare pregiudicati (e tossicodipendenti). Ma insomma, la «ferita inferta alla democrazia italiana» della quale continua a parlare 21 imperterrita Maria Stella Gelmini si fa fatica a individuarla. E probabilmente lo stesso sovrano azzoppato inviterà anche gli ultimi fedelissimi a evitare d’ora in avanti espressioni azzardate come «golpe» oppure «persecuzione giudiziaria», dato che i giudici a lui hanno vivamente sconsigliato di lanciarsi in «esternazioni offensive» contro le toghe, perché in quel caso la musica cambierebbe: addio servizi sociali. L’ex Cavaliere dovrà invece dimostrare la sua «volontà di recupero dei valori morali perseguiti dall’ordinamento», mantenendo il suo comportamento «nell’ambito delle regole della civile convivenza, del decoro e del rispetto delle istituzioni». Perché in passato, osservano ancora i giudici, Berlusconi ha dimostrato invece una certa «insofferenza alle regole dello Stato», e in effetti qualcun altro oltre alle toghe lo aveva notato. Ma ora avrebbe riconosciuto la sua condanna, sempre secondo i giudici, anche perché ha versato 10 milioni di risarcimento all’Agenzia delle entrate e, appunto, ha accettato di aiutare gli anziani. Anche se non esattamente di buon grado, però, se è vero quel che trapela dalla cerchia dell’ex premier, dove viene descritto un Berlusconi comunque avvilito, mortificato, lui che «con tutto quello che ho fatto per questo paese adesso devo passare per uno che ha bisogno di essere rieducato». Lui che, appunto «insofferente» alle regole, ora dovrà accettare il coprifuoco e gli spostamenti sotto controllo e i colloqui mensili con la responsabile dell’Ufficio esecuzione penale esterna. Lui che ha sempre lottato con tutte le sue forze e quelle dei suoi medici e chirurghi estetici contro l’avanzare dell’età, e ora dovrà condividere parte delle sue giornate circondato dai vecchietti della Sacra Famiglia subendo oltretutto altri sfottò che si aggiungeranno a quelli che già ampiamente gli hanno riversato addosso i giornali e la rete. C’è chi nota che tutto sommato «cittadini meno fortunati, meno ricchi e potenti per reati molto minori vanno semplicemente in prigione». Ma a farlo è quel «barbaro, vigliacco, arrogante, livoroso» di Massimo D’Alema, tuonano imbufalite le forziste Carfagna e Santanchè. E comunque in tanti sono pronti a scommettere che Silvio saprà fare ancora una volta di necessità virtù, trasformando la condanna in una ribalta che magari non lo porterà, come don Pogliani, alla santità, ma magari a risollevare almeno un po’ le sorti del suo malconcio partito. Per il momento, i responabili della Sacra Famiglia incrociano le dita, preoccupati dello scompiglio che il famoso condannato potrà portare nella struttura. Ma cristianamente, accoglieranno la pecorella smarrita. Che in una casa di cura che conta oltre mille ospiti, circa ottocento dipendenti, venti reparti e edifici, un campo da calcio e uno da bocce, laboratori di ceramica, falegnameria, bigiotteria e quant’altro, e pure un teatro e una chiesa, sicuramente troverà anche il modo per non annoiarsi. Per il resto, ci saranno gli amici a consolarlo. Anche se Gianfranco Rotondi non è ottimista: «Sono stato l’ultimo dei democristiani, sarò l’ultimo dei berlusconiani. Di tutto il resto non garantisco, ormai nel nostro giro la fedeltà è a orario, manco a giornata». Del 16/04/2014, pag. 1-19 Gli altri calci ai manifestanti nuovo video accusa i poliziotti LA POLEMICA/ INDAGATO L’AGENTE CHE CALPESTÒ LA RAGAZZA ROMA . Indagato per lesioni con l'aggravante dell'abuso di potere il poliziotto artificiere accusato di aver infierito sulla coppia di manifestanti finiti a terra durante gli scontri di via Veneto e tenuti fermi da un altro agente. «Credevo di aver calpestato uno zaino», ha provato a difendersi. Ma spunta un altro video diffuso da Repubblica. itche documenta le 22 violenze di un gruppo di agenti su un uomo disteso sull’asfalto con le mani a proteggersi il viso dalle manganellate e dai calci. Pestaggi in piazza, nuovo video-shock Nel giorno in cui l’artificiere della questura che ha calpestato la manifestante viene indagato per lesioni volontarie con l’aggravante dell’abuso di potere, spunta un nuovo video shock, pubblicato da Repubblica.it, sulla violenza della polizia al corteo del 12 aprile: tre poliziotti, in tenuta antisommossa, picchiano un ragazzo sdraiato in terra con le mani sul volto a proteggersi dalle botte. Calci allo stomaco, sulla schiena e poi colpi con lo sfollagente, impugnato al contrario, per fare più male. «Non giustifichiamo chi va sopra le righe — dice Felice Romano del Siulp — ma bisogna anche rendersi conto delle condizioni in cui lavorano gli agenti». Si riapre dunque la caccia ai poliziotti violenti che, durante la manifestazione dei Movimenti per la Casa, hanno avuto comportamenti sanzionabili, «cretini», per dirla col capo della polizia Alessandro Pansa. Un’altra indagine interna della questura di Roma e della procura dunque. A neanche due giorni dalle dichiarazioni dell’artificiere di 45 anni che, lunedì, si è presentato negli uffici dove presta servizio, autodenunciandosi. Le sue parole? «Sono io quello del video che calpesta la ragazza. Camminavo guardando in alto, controllavo se arrivassero verso di noi bombe carta. Non mi sono accorto di nulla, credevo di aver calpestato uno zainetto». Ma l’immagine è nitida: si vede l’agente in borghese che si avvicina ai due ragazzi finiti a terra e tenuti fermi da un altro agente, mentre calpesta violentemente il fianco destro della ragazza, Deborah che a Repubblica ha detto: “Non posso perdonarlo”. Il viceministro Bubbico: “È terribile gli agenti non possono picchiare così” ALBERTO CUSTODERO ROMA . «Porca miseria. È terribile. È terribile. I responsabili devono essere puniti». Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno con delega alla Pubblica sicurezza, non aveva ancora visto il video di un secondo pestaggio quando, ieri sera, ha ricevuto la telefonata di Repubblica . Mentre era al telefono, ha commentato in diretta le immagini di «quel poveretto a terra con la maglietta bianca» preso a manganellate in testa e a calci. Stupefatto dalla violenza, non è riuscito a trattenere un «porca miseria!». Viceministro, come commenta queste immagini? «Non posso che essere indignato. Voglio esprimere il massimo dell’indignazione per scene di questo genere». Al di là dell’indignazione, come spiega i due episodi avvenuti a Roma, prima il poliziotto che calpesta una manifestante, ora il pestaggio di un uomo a terra? «Bisogna valutare le situazioni nelle quali i poliziotti lavorano, spesso sono complicatissime, vivono anche sulla propria pelle pericolose aggressioni. Ma... ». Ma? «Ma la polizia deve agire diversamente, non può mai essere messa in discussione l’integrità fisica delle persone. E la tutela dell’ordine pubblico comporta anche la capacità di dominio e di controllo delle situazioni più complesse e complicate». Come intendete comportarvi nei confronti dei responsabili di questa aggressione? «Esattamente come nel caso del poliziotto che ha calpestato la manifestante. Prima va accertata l’autenticità del filmato, poi dobbiamo individuare i poliziotti, alla fine delle indagini nostre e della magistratura, dovremo essere determinati e rigorosi». Per prevenire questi episodi di accanimento, non sarebbe il caso, finalmente, di dotare i poliziotti dell’ordine pubblico del cartellino di riconoscimento? «Si lo so, se ne parla spesso. Ci sono tante ragioni per sostenerne l’utilità, e altrettante per l’esatto contrario. Questo argomento comunque va affrontato con i sindacati di polizia. 23 Penso che i mezzi per riconoscere in queste situazioni i responsabili ci siano. E siano più che sufficienti». Il secondo video non può essere liquidato come risultato dell’azione di «un cretino», epiteto usato dal capo della Polizia Pansa. Non pensa che essendo coinvolti più agenti, venga chiamata in causa la funzione della polizia negli interventi di ordine pubblico? «Penso che atti non giustificabili quali quelli che si sono verificati non possano e non debbano compromettere la buona reputazione delle forze di polizia e delle tante persone che con impegno e sacrificio fanno il loro dovere». Sembrava di capire che con Renzi al governo, sarebbe arrivata una svolta anche nella gestione delle manifestazioni di piazza. Questi fatti, che richiamano alla memoria il G8, sembrano smentire simili attese. «Non è una questione di svolte-Renzi. Queste sono cose che non devono mai accadere, che non appartengono a uno Stato democratico, alla società civile propria del nostro Paese. Episodi così non devono mai essere consentiti perché sono contro le norme e contro le regole di ingaggio». Sarete severi coi responsabili? «Assolutamente sì. È interesse della stessa Polizia, del resto, mantenere alta la propria buona reputazione di forze impegnate a garantire l’ordine, la sicurezza, i principi democratici e la dignità della persona. Senza mai dimenticare che i manifestanti che eccedono, procurando danni, devono essere responsabili dei loro atti e risponderne penalmente». Del 16/04/2014, pag. 20 L’ANALISI Atto d’accusa della Cassazione sulle assoluzioni per la strage “Maggi e Tramonte salvati da ipergarantismo distorsivo” Piazza della Loggia “Ignorate le prove contro i neofascisti” BENEDETTA TOBAGI MILANO . I neofascisti che si ritroveranno nuovamente imputati per la strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia, che uccise otto persone, erano stati assolti per un «ipergarantismo distorsivo». Lo spiega la Corte di Cassazione nelle 84 pagine di motivazioni in base alle quali sono stati annullati i proscioglimenti per Carlo Maria Maggi, ex Ordine Nuovo, e Maurizio Tramonte, che ora viene descritto come un «reticente» e «intraneo» della destra eversiva, più che come un presunto infiltrato dei servizi. I due tornano rinviati a giudizio come mandanti e forse anche come esecutori materiali della strage a dispetto della sentenza di assoluzione del 2012 che, secondo i giudici supremi, ha prodotto conclusioni «assolutamente illogiche ed apodittiche». Per la Cassazione sono stati «sviliti» i numerosi indizi raccolti contro di loro, come il sostegno allo stragismo eversivo di destra di cui Maggi, ad esempio, era un «propugnatore». Secondo i giudici, un dato di fatto importantissimo, che muta il quadro indiziario, è che «l’ordigno esplosivo sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio, conservata presso lo Scalinetto». Le conclusioni assolutorie per Maggi sono, secondo la Corte, «ingiustificabili e superficiali». 24 LO SCORSO 20 febbraio, l’avvocato di parte civile Sinicato (un “veterano” dei processi per strage celebrati a partire dagli anni Novanta), concludendo l’arringa all’udienza in Cassazione per la strage di Brescia (undicesimo grado di giudizio), aveva osservato che, dopo tanti don Abbondio, c’era da augurarsi che qualcuno prendesse esempio dalla coraggiosa fermezza di fra’ Cristoforo, anche nel formulare i giudizi e motivarli. La prima impressione ricavata dalla lettura delle 84 pagine di motivazioni della decisione della Suprema Corte, è che il suo desiderio sia stato esaudito. Ci consegnano infatti parole dure e nette. Appare difficile la posizione dei due imputati che presto torneranno a giudizio presso la Corte d’Appello di Milano, il leader di Ordine nuovo Maggi e il suo “soldato” Tramonte, al contempo informatore del Sid. I ricorsi hanno colto nel segno, ripetono più volte: troppe illogicità viziano le motivazioni della sentenza d’appello bresciana del 2012 «affetta prima di tutto da un’erronea applicazione della legge penale, con riferimento alle modalità di valutazione degli indizi». Nella ricostruzione, con apprezzabile sforzo, l’appello aveva messo molti punti fermi. La Cassazione conferma, per esempio, come l’ordigno che uccise otto cittadini che manifestavano pacificamente «sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio [il defunto armiere di Ordine nuovo, coinvolto sia nella preparazione della strage di piazza Loggia che in quella di piazza Fontana], conservata presso lo “Scalinetto”, una trattoria veneziana a due passi da San Marco, al tempo ritrovo di neofascisti, covo e santabarbara di Maggi, e il defunto ordinovista Soffiati ha aiutato nel trasporto. Un «dato di fatto importantissimo », alla luce del quale vanno valutati tutti gli altri, numerosissimi, indizi a carico di Maggi. La sua assoluzione è stata motivata in modo «congetturale e poco plausibile», è «caratterizzata da valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi…» scartati nella loro potenzialità dimostrativa senza una più ampia e completa valutazione. È stato così distrutto il «valore probatorio che il nostro sistema giudiziario attribuisce alla valutazione complessiva di tali mezzi di prova». La Cassazione dedica molte pagine a spiegare, con chiarezza encomiabile — così che ogni cittadino, pur inesperto di legge possa capire — che se sono gravi precisi e concordanti, gli indizi non valgono meno della prova diretta: un’importante lezione di metodo, di onestà intellettuale e di diritto, nel Paese dove i processi per le stragi della “strategia della tensione”, i cui esecutori, la galassia dell’eversione neofascista, con complicità di militari italiani e americani e dei servizi segreti (la Cassazione ribadisce anche questo), sono stati quasi sempre processi indiziari, perché tali li ha resi la sistematica attività di depistaggio (nel caso di Brescia, l’interferenza del Sid nel sottrarre documenti scottanti è stata fatale). È dura, la Cassazione, coi giudici di appello «perché, pur avendone promesso una valutazione sistematica» dei tanti indizi a carico di Maggi (e rimproverando ai giudici d’Assise di aver mancato al loro dovere in questo senso!) «ne ha poi condotto, in concreto, un’indagine atomistica, svalutandone la portata». Gli elementi fattualmente accertati, rimessi in fila inesorabilmente dalla Cassazione rendono, ad oggi, illogica l’assoluzione. E poi, capo indiscusso di un’organizzazione gerarchica come On, come sostenere che il suo sottoposto Digilio, quadro coperto, esperto d’armi ma politicamente “debole”, abbia agito, con esplosivo di Maggi, a sua insaputa e di propria iniziativa, per fare un attentato come quelli che il capo caldeggiava, di cui disse «non deve restare un fatto isolato»? La Cassazione rivaluta anche il valore della collaborazione di Digilio, il più importante “pentito nero”. Si aggrava moltissimo, poi, la posizione di Maurizio Tramonte. La Cassazione mette in discussione persino il suo alibi per la mattina della strage. L’allora giovane fascista disse di Maggi “questo è pazzo”, uscendo da una riunione ristretta ad Abano Terme, tre giorni prima della strage: «La Corte d’appello non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che gli appunti», dettagliate note informative in cui Tramonte racconta al Sid in presa diretta la riorganizzazione della destra eversiva nella dannata primavera ‘74 «non contengano alcun 25 cenno alla strage perché Tramonte non voleva rischiare di autoaccusarsi». Tramonte ha fatto impazzire gli inquirenti per anni con la sua “collaborazione”, prima accumulando fandonie, poi ritrattando in dibattimento quanto era sopravvissuto al vaglio dell’inchiesta. Per assolverlo, sarà necessario motivare (finora non è stato fatto) se e come possa essere considerato un semplice infiltrato dei servizi, quindi non punibile, e approfondire il suo ruolo nella preparazione dell’attentato «alla luce della sua palese reticenza». C’è da aspettarsi, quindi, che il nuovo processo approfondirà la pagina, nerissima, dei depistaggi dei servizi segreti. 26 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 16/04/2014, pag. IX RM Cosche, il grande assedio al Centro sigilli a 50 tra ristoranti e caffè storici IL CASO FEDERICA ANGELI LE MAFIE stanno divorando il centro storico della Città Eterna. Mentre qualcuno per anni, come una litania, ha continuato a sostenere che «la mafia a Roma non esiste», le operazioni di Ros, carabinieri del comando Provinciale, finanza e squadra mobile dimostrano il contrario. Sono oltre cinquanta — tra ristoranti di lusso e caffè blasonati e tutti nelle strade più lussuose — i locali sequestrati alla criminalità organizzata del Sud negli ultimi tre anni a Roma. E sono almeno una decina — tra pizzerie e stabilimenti balneari — i sequestri fatti a Ostia, dove la mafia autoctona, quella made in Rome, ha fatto per anni di quel pezzo di città il proprio regno. Insomma la delinquenza di strada sembra aver appeso coltelli e pistole al chiodo e aver impugnato armi ben più insidiose: il denaro, che ha permesso l’entrata a gamba tesa nell’economia capitolina. Soprattutto nel cuore della città. Uno dei casi più clamorosi degli ultimi anni è stato il sequestro, in due riprese, del «Cafè de Paris» e del ristorante «George’s », acquistati, tramite la solita rete di teste di legno, da Vincenzo Alvaro, mente operativa della cosca di Cosoleto, vicino Reggio Calabria. La conquista del simbolo della «Dolce vita», della «Grande bellezza» di via Veneto fu la conferma che la grande criminalità organizzata aveva scelto Roma per fare business mettendo le mani su bar ed esercizi commerciali che hanno fatto la storia della capitale. E’ di pochi giorni fa la condanna di 14 appartenenti al clan a cui il tribunale ha inflitto oltre 40 anni di carcere. Ma proprio sull’acquisizione e sulla gestione dello storico bar di via Veneto i giudici hanno chiesto ulteriori approfondimenti trasmettendo gli atti al pm Francesco Minisci. Fu un’indagine complicata quella portata avanti dal colonnello del Ros Massimiliano Macilenti perché per riuscire a trovare il bandolo della matassa, ovvero la società madre che faceva capo agli Alvaro, hanno dovuto seguire il filo di un centinaio di società schermate, intestate a improbabili personaggi, all’apparenza senza nessun legame con la ‘ndrangheta. Sempre la stessa storia: una matrioska di ditte, il cui titolare e la cui ragione sociale cambiava alla velocità del suono, dentro cui si annidava la potenza di un clan, ricco e con fiumi di denaro sporco da ripulire alla svelta. Un’altra ‘ndrina, quella dei Gallico di Palmi, si nascondeva invece dietro il passaggio di mano del «Caffè Chigi» a due passi da Montecitorio. La cosca finì nel mirino della Dia nell’agosto del 2011 con un sequestro di beni da 20 milioni di euro. Più recente è l’indagine dei carabinieri del Comando provinciale che, in due tranche, ha spazzato via ben 29 tra pizzerie della catena “Pizza Ciro” e gelaterie gestite dagli imprenditori campani Righi, al soldo del clan camorrista dei Contini. Un impero sterminato che si estendeva da piazza Navona fino al via del Tritone. E poi ci sono sequestri eccellenti, come il ristorante “Platinum” di via dei Banchi Nuovi, il caffè le Antiche Mura di via Leone IV, accanto ai giardini Vaticani, il ristorante Chigi a Fontana di Trevi, i bar California e Clementi, di via Bissolati e via Gallia. La mappa è davvero desolante. Ma la procura, quella diretta dal procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal capo della Dda Michele Prestipino, non si arrende. Così nelle indagini della squadra mobile sulle infiltrazioni criminali sono saltati fuori anche vecchi nomi della Banda della Magliana e gli inossidabili Casamonica che 27 hanno stretto alleanze imprenditoriali con emissari della camorra e di Cosa Nostra. E infine gli affari d’oro sul litorale, dove i clan Spada, Triassi e Fasciani si sono spartiti stabilimenti balneari, cooperative, terreni e locali prestigiosi, ora tutti sotto sequestro e coraggiosamente messi a bando dal presidente del X municipio, Andrea Tassone. 28 BENI COMUNI/AMBIENTE Da l’Unità del 16/04/14, pag. 6 Stop alle nuove trivellazioni in Emilia, “possono aver contribuito al terremoto” Luca Fazio Emilia Romagna. Dopo le rivelazioni del dossier Ichese, anticipate dalla rivista Science, il presidente Vasco Errani decide di allargare a tutta la regione il temporaneo divieto di nuove ricerche di idrocarburi nel sottosuolo: "L'anticipazione del dossier ha creato sospetto, mi scuso per quanto accaduto". Lo studio scientifico non esclude un rapporto di causa/effetto tra perforazioni e attività sismica ma non può dimostrarlo con certezza Con qualche colpevole settimana di ritardo, visto che le conclusioni del rapporto della commissione Ichese erano già state anticipate pubblicamente dal settimanale Science, il presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani ieri ha dovuto ammettere che il problema c’è. Serio. E che in via precauzionale, in attesa di ulteriori approfondimenti sullo stato del sottosuolo, la regione dispone “la sospensione in tutta l’Emilia-Romagna di qualsiasi nuova attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi, come abbiamo fatto sin qui nel cratere del sisma”. Insomma, da oggi viene estesa a tutto il territorio regionale la sospensione che riguardava solo le zone interessate dal sisma di due anni fa (ma quelle già in atto continuano). E non poteva fare altrimenti la giunta di Vasco Errani, visto che la commissione Ichese, nel suo rapporto fitto di 213 pagine, sostiene che potrebbe esserci una relazione di causa/effetto tra i terremoti che hanno colpito l’Emilia il 20 e 29 maggio 2012 e le attività di estrazione realizzate dalla Gas Plus nei pozzi del Cavone a San Possidonio, a venti chilometri dall’epicentro del sisma che uccise 27 persone e devastò la bassa modenese. Gas Plus è il quarto produttore italiano di gas, detiene 50 concessioni di coltivazione distribuite su tutto il territorio italiano ed è attivo nella filiera del gas naturale, in particolare nell’esplorazione, produzione, acquisto e distribuzione (nel 2012 ha commercializzato circa 600 milioni di metri cubi di gas e gestisce circa 1.500 chilometri di rete di distribuzione). La società oggi verrà convocata al ministero dello Sviluppo economico. Il rapporto che imbarazza la giunta regionale, che ieri ha dovuto replicare all’accusa di aver nascosto la “notizia”, è allarmante ma nello stesso tempo non arriva a dirimere una questione su cui non c’è accordo fra gli scienziati. “Esiste una correlazione statistica — si legge — tra l’aumento della sismicità prima del 20 maggio 2012 e l’aumento dei parametri di produzione da aprile/maggio 2011. Quindi non può essere escluso che le azioni combinate di estrazione ed iniezione di fluidi in una regione tettonicamente attiva possano aver contribuito, aggiungendo un piccolissimo carico, alla attivazione di un sistema di faglie che aveva già accumulato un sensibile carico tettonico e che stava per raggiungere le condizioni necessarie a produrre un terremoto”. Detto questo, la commissione Ichese, che era stata istituita dalla stessa Regione Emilia Romagna, ammette che tutte le informazioni elaborate “non permettono di escludere, ma neanche di provare” la correlazione tra lo sfruttamento di idrocarburi e l’attività sismica che ha sconvolto l’Emilia due anni fa. Per escludere o confermare l’ipotesi di un legame causale saranno necessari altri studi e altre attività di monitoraggio altamente tecnologici. E considerata la posta in 29 gioco (e la potenza dei giocatori), non basta un’evidenza statistica per mettere in discussione le concessioni. Eppure il dubbio lacerante ha costretto sulla difensiva il presidente della Regione Emilia Romagna. “Nessuna sottovalutazione dei problemi — ha replicato in aula — ma è necessario un approfondimento tuttora in corso, abbiamo sempre agito in buona fede per interpretare nel migliore dei modi le indicazioni forniteci dalla relazione scaturita dal lavoro della commissione Ichese”. Per respingere i sospetti sulla sua buona fede e sul ritardo con cui è stato reso pubblico lo studio, Errani ha precisato che “nella relazione si parla di dati statistici rispetto alle condizioni reali dell’assetto geodinamico del territorio, per questo ho pensato che per non generare allarme si dovessero fare ulteriori approfondimenti”. Si è detto dispiaciuto e comunque disposto ad applicare “quel principio di precauzione per cui abbiamo bloccato tutte le ricerche e le nuove concessioni, quindi continuando l’attività positiva da noi avviata e adottando con serietà le linee guida che scaturiranno dal gruppo di lavoro attivo al ministero”. Le mezze ammissioni, o scuse per la scarsa trasparenza, non hanno placato le opposizioni in consiglio regionale. Il M5S ha chiesto alla regione di revocare tutte le autorizzazioni rilasciate per il prelievo di idrocarburi. Sulla stessa linea anche Lega e Forza Italia, molto critica anche Sel. “Ma la Regione — ha precisato l’assessore alle attività produttive rivolgendosi ai comitati presenti in aula — non è titolata a revocare le concessioni”. Fds si augura che il dossier suggerisca alla politica l’urgenza di superare il “far west” dello sfruttamento del suolo da parte delle compagnie petrolifere. Del 16/04/2014, pag. 1-29 EMERGENZA CLIMA LE IDEE L’imperativo di Jonas per salvare il pianeta BARBARA SPINELLI NON si parla più di clima né di quel che accadrà della terra, da quando la crisi è entrata nelle nostre vite stravolgendole con politiche recessive, disuguaglianze indegne, e una disoccupazione che assieme alla speranza spegne l’idea stessa di futuro. La terra lesionata era il grande tema all’inizio del secolo, e d’un colpo è stata estromessa dal palcoscenico: non più male da sventare, ma incubo impalpabile. Diritto troppo immateriale e nuovo, accampato dal pianeta. Esiste invece, l’infermità della terra che l’uomo ha causato e sta accentuando: anche se è caduta fuori dal discorso pubblico, anche se è divenuta invisibile come certi malati incurabili che non vogliamo guardare da vicino, e per questo releghiamo in ospizi lontani. È come se, paradossalmente, la crisi ci avesse liberati dell’ineffabile paura che avevamo negli anni Novanta — la morte del pianeta — mettendo al suo posto tante altre paure: non meno angosciose, ma più immediate e senza rapporto con quella trepidazione non più così concreta, traslocata nelle periferie dei nostri pensieri e inquietudini. Il ritorno alla realtà, sotto forma di ennesimo allarme dell’Onu, è avvenuto domenica, con la pubblicazione del terzo rapporto della Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico (Ipcc). Seicento scienziati di 120 paesi hanno emesso il loro verdetto: possiamo ancora cambiare la storia, ma il tempo a disposizione si accorcia fatalmente. SEMBRA di vivere le ultime scene del film di Lars von Trier, quando sulla terra sta per schiantarsi il pianeta chiamato Melancholia: è la depressione a darci questa strana, calma indifferenza. Per nostra incuria, e cecità, la terra continua a surriscaldarsi, e sempre più 30 arduo sarà rispettare l’obiettivo fissato: evitare che l’aumento della temperatura superi i 2 gradi centigradi. Soglia fatidica, oltre la quale il globo è messo mortalmente in pericolo dalle emissioni di anidride carbonica e gas serra. Conosciamo quel che può seguire: scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei livelli marini e cancellazione di intere regioni, cibo insufficiente per l’umanità, scomparsa di foreste, estinzione massiccia di piante e specie animali. La crisi economica ha svegliato in questi anni molte coscienze, prima dormienti: sulla debolezza politica dell’Europa, su terapie di austerità rivelatesi devastanti per tanti cittadini e anche per le democrazie. Non così per quanto riguarda la prevenzione del disastro climatico, rinviata a chissà quali giorni migliori. Recessione, disoccupazione: oggi sono le nostre preoccupazioni prioritarie, ma purtroppo uniche. I cervelli si stanno abituando a lavorare a metà, quasi in preda all’emiplegia. La terra può attendere, anche se Melancholia s’avvicina. Un eminente manager pubblico, l’ex amministratore delegato dell’Eni Scaroni, è giunto sino a chiedersi pubblicamente, nel luglio scorso: «Abbiamo investito in modo dissennato nelle energie rinnovabili. Eravamo ubriachi?» E il nuovo ministro dello sviluppo, Federica Guidi, ha illustrato alla Commissione Industria qual era il suo «feeling»: quel che occorre è «la massima attenzione alla crescita sostenibile», e al tempo stesso la «rimozione degli ostacoli burocratici che impediscono sia lo sviluppo della nostra capacità di rigassificazione per beneficiare della rivoluzione del gas da argille ( shale gas), sia gli investimenti privati nella ricerca e produzione di idrocarburi». Il feeling è parecchio contraddittorio: le perforazioni necessarie per estrarre shale gas mal si coniugano con l’economia verde, comportando spropositati dispendi di acqua, inquinamento delle falde e, secondo alcuni, possibili terremoti. Resta la verità attestata dai 600 scienziati. Siamo ancora rovinosamente dipendenti da combustibili fossili. Petrolio, carbone, gas hanno contribuito per il 78% all’incremento totale di emissioni dal 1970 a 2010, e peseranno ancor più se nulla cambia. Se i paesi produttori di petrolio e gas resisteranno alle misure suggerite dall’Ipcc, se i governi non introdurranno forti tasse sull’emissione di diossido di carbonio ( carbon tax ), e se insisteranno nel sovvenzionare i combustibili fossili invece di investire in energie rinnovabili, riforestazione, edilizia a bassi consumi di carburanti. La Germania ad esempio emette più anidride carbonica, nonostante la svolta energetica, perché la dipendenza dal carbone si è gonfiata. Dicono che mancano i soldi, ma gli esborsi sono pochi rispetto alle spese ineluttabili quando la catastrofe sarà alle porte. Il passaggio a un’economia basata su combustibili l owcarbon costerebbe oggi 1-2 punti di ricchezza nazionale. Nel 2020 salirebbe a 4-5 punti. Diverrebbe proibitiva dopo il 2030. Dicono anche che la crescita si blocca, se fin d’ora proteggiamo la terra. È menzogna: lo sviluppo si rallenterebbe solo dello 0,06%, assicurano gli scienziati. Risale al 1979 il libro che il filosofo Hans Jonas scrisse sul Principio responsabilità , e sulla paura per la sorte terrestre: un testo avveniristico, all’epoca. È quella paura che va riesumata, senza posporla ai timori che incutono disoccupazione e crescita lenta. Non ci è dato di affrontare prima la recessione, e dopo il clima. La vera dissennatezza è non contare fino a due, non assolvere insieme i due compiti. La paura di veder perire il pianeta, e chi lo abita, è per Jonas costitutiva della responsabilità: «Non intendiamo la paura che dissuade dall’azione (lo sgomento, la paralisi, ndr) ma la paura fondata , che esorta a compierla». È una forma di amore del prossimo. O meglio, direbbe Nietzsche, di «amore del più lontano»: è trepidazione per i viventi che verranno, scudo contro la distruzione che li minaccia. Alla domanda su cosa capiterà al prossimo-lontano, se non ci prendiamo cura di lui, la replica è chiara: «Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto più lontano nel futuro, quanto più distante dalle proprie gioie e i propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto più la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva vanno mobilitate a quello scopo». Jonas ha 31 addirittura riformulato l’imperativo categorico di Kant. Il dovere etico-politico ordina tuttora di «agire in modo che la tua volontà possa sempre valere come principio di legislazione universale», ma si estende così: «Agisci in modo che gli effetti del tuo agire siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra». Inutile a questo punto puntellare industrie (tra cui l’automobile) che emettono veleni. La riconversione deve essere radicale, e nell’immediato comporterà sacrifici. Inizialmente ostili, Usa e Cina cominciano a capirlo. Il caso Ilva è esemplare: sacrificare la vita in cambio di posti di lavoro è alternativa funesta. La crisi economica ci insegna questo: può secernere il male o il bene. Fa riscoprire diritti irrinunciabili (il benessere, il lavoro) ma può condannare all’oblio il diritto del nuovo soggetto che è la terra. Mancano disgraziatamente le istituzioni, che tutelino ambedue i diritti. Onu e Ipcc sono organi intergovernativi, e somigliano alla Società delle Nazioni: del tutto inefficace, fra le due guerre, perché ogni Stato aveva la sua inviolabile sovranità. L’Europa fa più progressi sul clima, perché in parte già è sovranazionale. Il mondo in cui viviamo non è all’altezza dell’imperativo di Jonas. A fronte di lobby ormai transnazionali (le industrie petrolifere, ma anche il commercio d’armi, le mafie) non si erge un potere politico egualmente transnazionale, che le argini. L’ordine globale è ancora quello westphaliano escogitato nel 1648, che mise fine alle guerre di religione ma suscitò i mostri dei nazionalismi. Gli stessi mostri pronti a vanificare i moniti dell’Onu e dei suoi scienziati. 32 INFORMAZIONE del 16/04/14, pag. 6 Il governo toglie alla Rai 170 milioni dal canone di abbonamento di Carlo Tecce Da un paio di giorni, una lettera spedita da Palazzo Chigi fa tremare le scrivanie di Viale Mazzini. Il governo chiede ai vertici Rai di contribuire al taglio di spesa pubblica con 170 milioni di euro che verranno succhiati dal canone di abbonamento 2014. Il meccanismo è semplice: il Tesoro trattiene circa il 10 per cento di oltre 1,7 miliardi di euro anni, la tassa che gli italiani pagano e in tanti evadono. Occorrono risorse per mantenere le promesse di Matteo Renzi, risorse che il ministro Pier Carlo Padoan deve garantire. I 170 milioni di euro trasformano in un buco nero il bilancio 2014, che già sarà appesantito dai diritti televisivi sportivi (Mondiali di calcio, soprattutto), 100 milioni abbondanti di costi. Il direttore generale Luigi Gubitosi, neanche una settimana fa, aveva illustrato i risultati 2013: dopo un passivo di 245 milioni, viale Mazzini è tornata in utile di 5,3, uno spiraglio, un sintomo di guarigione, nulla di più. Adesso la richiesta di Palazzo Chigi – che si presume ispirata anche dal signor spending review Carlo Cottarelli –non crea soltanto panico, ma costringe viale Mazzini a una lotta per la sopravvivenza. Il debito consolidato Rai, ristrutturato da Gubitosi con le banche creditrici, s’è fermato a 441 milioni di euro, ma sarà sarà destinato a crescere ancora dopo un bilancio 2014 con 300 milioni di perdite. Più che un risparmio fra gli sprechi di viale Mazzini, l’obolo che pretende il governo spingerebbe le finanze Rai al collasso. La questione non è affrontata in questa recente missiva, ma il governo vuole che l’azienda riduca anche gli stipendi di dirigenti e giornalisti che non rispettano il tetto di 238.000 euro (la retribuzione di Giorgio Napolitano), fissato per le società compartecipate (incluse le presidenze delle quotate): scelta legittima e necessaria dopo lunghe stagioni senza regole. E saranno ridotte anche le buste paghe di capiredattori e funzionari ben lontani dai 238.000 euro. I ricavi di viale Mazzini si reggono sul canone di abbonamento, che ha apportato 1,756 miliardi su 2,748 nel 2013: la pubblicità è bloccata sotto i 700 milioni (ha perso il 30 per cento in un biennio) e gli introiti commerciali non superano i 300 milioni. Non è la prima volta che si prefigura uno scontro tra viale Mazzini e palazzo Chigi. Già lo scorso novembre, il Consiglio d’amministrazione aveva criticato l’allora ministro Flavio Zanonato per il mancato adeguamento del canone all’inflazione, un palliativo per assorbire un pezzo di evasione (mai realmente contrastrata e calcolata in 500 milioni di euro). Poi venne il momento di Cottarelli, che paventò la chiusura di qualche sede regionale, appena rimpolpate da decine di giornalisti che hanno partecipato a un concorso interno e che restano un simulacro del servizio pubblico. Era sono un avviso. Ma la lettera spaventa davvero. 33 CULTURA E SCUOLA del 16/04/14, pag. 3 Università al collasso, nel 2018 oltre 9 mila docenti in meno Roberto Ciccarelli Istruzione. L’allarme del consiglio universitario nazionale: servono 400 milioni. Dopo i tagli Gelmini da 1,1 miliardi occorrono 29 mila tra docenti e ricercatori per affrontare l’emergenza Per il Consiglio Universitario Nazionale (Cun) servono seimila professori ordinari e 14 mila associati entro il 2018 e 9 mila ricercatori a tempo determinato entro il 2016 per non fare morire subito l’università italiana. Questo piano di reclutamento, viene precisato nella relazione approvata ieri dall’organo di rappresentanza del sistema universitario, è soltanto un provvedimento di emergenza per una «messa in sicurezza» del sistema e per contenere l’emorragia causata dai tagli strutturali agli atenei dal 2008 (-1,1 miliardi di euro) e dalla pensione di migliaia di docenti ordinari (9.486 entro il 2018) che non potranno essere sostituiti per il blocco del turn-over e la scarsità di risorse. La situazione è gravissima e, entro quattro anni, la didattica e il funzionamento degli atenei sarà al collasso. L’analisi del Cun è impietosa. Dal 2008 al 2014 il numero dei professori ordinari è calato del 30% (quello degli associati del 17%) e per i giovani non ci sono opportunità di ingresso nella docenza. Senza un rifinanziamento da 400 milioni di euro nel 2018 il numero dei professori ordinari scenderà del 50% rispetto al 2008 (quello degli associati calerà del 27%). Il crollo del numero dei docenti è l’altra faccia di quello delle immatricolazioni (da 63 mila all’anno alle attuali 15 mila) e del basso numero dei laureati (il 26% contro la media Ocse del 40%). Complessivamente nel 2018 ci saranno 9.463 professori universitari in meno e coloro che resteranno in servizio avranno un età media alta: ordinari a 51 anni, associati a 44 anni e ricercatori a 37 anni. «La grave diminuzione numerica in corso, mai registrata in precedenza di queste dimensioni – sostiene il presidente del Cun Andrea Lenzi — renderà improponibile la corretta gestione e lo sviluppo di un sistema universitario così complesso e articolato come il nostro, spingendo l’Italia in direzione opposta alla tendenza in atto negli altri Paesi». A regime, per il Cun i risparmi per le cessazioni andranno a compensare le spese per le nuove assunzioni e per gli scatti stipendiali, al netto dell’inflazione. Ciò che è interessante nella proposta sul reclutamento avanzata ieri dal Cun è la ricostruzione delle ragioni per cui l’università è finita in un vicolo cieco. Alla fine del 2006 la docenza universitaria di ruolo aveva raggiunto il massimo storico: 62 mila docenti ripartiti tra le tre fasce allora esistenti, con un picco di 20 mila ordinari rispetto al numero degli associati (circa 19 mila). In apparenza, sembra una dinamica patologica: questi assunti hanno occupato tutti i posti e, giunti quasi alla pensione e in coincidenza con blocchi e tagli, hanno intasato il sistema. Il Cun la spiega invece a partire da una complessa dinamica demografica. All’origine c’è stata l’ope legis che, nei primi anni Ottanta, permise l’immissione in massa di docenti oggi giunti ad un passo della pensione. Da allora, rispettando una schizofrenica alternanza di «aperture» e «chiusure» del reclutamento, l’immissione nei ruoli della docenza avrebbe seguito una media costante: 1700 ricercatori, 1250 associati e 750 ordinari all’anno. 34 Pur alterato all’origine, il sistema sembra avere trovato un equilibrio tra il numero dei nuovi entrati e quello dei pensionandi. Prima dell’innalzamento dell’età pensionabile stabilito dalla riforma Fornero, e del blocco del turn-over, andavano in pensione circa milla ordinari, 500 associati, 500 ricercatori all’anno. Numeri raddoppiati nel 2010 a causa della coincidenza della riforma, del taglio ai fondi degli atenei e del blocco del turn-over che hanno portato alla chiusura dei canali di reclutamento. Le convulsioni in cui si trascina l’abilitazione scientifica nazionale gestita dall’Anvur, sempre più oggetto di ricorsi ai Tar, hanno aggiunto un altro tassello al fallimento del sistema. In un’ottica emergenziale, il Cun chiede l’abolizione del sistema dei punti organico, l’anticipazione dello sblocco del turn-over al 2015, e non al 2018, un piano straordinario per associati da 75 milioni di euro. del 16/04/14, pag. 19 Il Paese dei teatri in bancarotta di Pirro Donati Delle 14 Fondazioni liriche – i grandi teatri lirici italiani tra cui la Scala, il Maggio musicale, il San Carlo, il Regio di Torino – ben otto hanno chiesto di aderire al sostegno economico straordinario previsto dalla legge Valore cultura (L. 112/2013), ma le misure stentano a partire. Sono, per dirla tutta, teatri alla bancarotta. Le Fondazioni liriche hanno accumulato oltre 300 milioni di euro di debiti, anche se ci sono delle eccezioni virtuose, basti pensare al Regio di Torino. Per di più a queste cospicue perdite non sono corrisposti risultati di alto profilo culturale: l’esempio di scuola è l’Opera di Roma che, con qualche eccezione – come le presenze di Riccardo Muti –, presenta una programmazione provinciale oltre a un deficit pazzesco. I pesanti passivi che si accumulavano sono stati giustificati con il taglio ai finanziamenti dello Stato (Fus) operati dai governi di centrodestra e tecnici, nonché con lo strapotere dei sindacati. Prendersela con questi ultimi, certo non esenti da colpe, e con i presunti privilegi delle orchestre è però fuorviante. Semmai ha pesato il taglio del Fus, che però è stato anche cinicamente usato come scusa per nascondere le vere responsabilità: un’invasione da parte di una politica di modesto profilo, incapace di nominare dirigenze all’altezza, ma sempre pronta a immettere clientele, inutile personale spesso scarsamente qualificato ma piazzato in ruoli dirigenziali. Un andazzo di cui sono quindi responsabili le amministrazioni locali – finora è il sindaco a scegliere il sovrintendente del teatro della sua città – sia di centrodestra che di centrosinistra, spesso coperte dal governo e dal ministero per i Beni e le Attività culturali. PER RIMEDIARE a un’impasse tanto grave e imbarazzante, Massimo Bray come ministro per i Beni e le Attività culturali, ha inserito nella legge Valore cultura, una severa normativa per le Fondazioni liriche, ma soprattutto un fondo a rotazione di 100 milioni di euro con interessi bassissimi, di cui 75 milioni per rinegoziare i mutui con le banche e 25 milioni per le emergenze di liquidità. Promulgato l’agosto scorso come decreto dunque con motivazioni di emergenza, Valore cultura è stato convertito in legge il 7 ottobre: da allora però l’emergenza è sbiadita in sonnolenza, ben poco si è visto, e quel poco è per lo meno singolare. Il 21 novembre la nomina di Pier Francesco Pinelli come commissario per gestire il fondo dei 100 milioni di euro è stata accolta con ironico scetticismo: un ingegnere idraulico manager alla Erg si trovava a decidere delle sorti della lirica italiana. Degli 8 teatri che hanno chiesto il finanziamento di Valore cultura, solo il Maggio fiorentino e il Lirico di 35 Trieste hanno avuto risposta affermativa ma soldi per ora nisba, come lamentava giorni fa Bianchi, commissario a Firenze. Gli altri – Carlo Felice di Genova, Comunale di Bologna, Opera di Roma, San Carlo di Napoli, Petruzzelli di Bari, Massimo di Palermo – non hanno avuto risposta e stanno sotto l’albero come Estragone e Vladimiro in Aspettando Godot. E questo malgrado Valore cultura prescriva tempi rapidi e certi, che finora non sembrano essere stati troppo rispettati. Lentezze e ritardi magari si spiegano considerando che, prevedibilmente, un ingegnere idraulico non sia la persona più adatta per valutare i piani di rientro dei grandi teatri lirici italiani. Anche perché la legge Valore cultura era stata pensata per 3 o 4 situazioni vicine alla liquidazione, come il Maggio fiorentino, ma vista l’adesione di ben 8 teatri il fondo potrebbe rivelarsi insufficiente. C’è perfino il sospetto che sia in atto il solito mercanteggiamento per dar soldi solo ad alcuni, i più protetti dal sottobosco della politica (solo l’Opera di Roma ha chiesto 30 milioni di euro). Per affrontare l’emergenza di liquidità che li strangola, molti teatri insolventi con banche e fornitori, stanno provando a farsi “fare lo sconto”. Il primo è stato il Maggio, che nell’estate scorsa ha rinegoziato i suoi mutui con uno sconto del 40%. Ora alcuni teatri tentano proposte analoghe a fornitori, agenzie e artisti con cui sono in debito. A Firenze il teatro era a un passo dalla liquidazione e le banche hanno accettato perché rischiavano di restare con un pugno di mosche in mano, invece chi ha prestato la sua opera spesso investendo di tasca propria difficilmente accetterà. Si arriverà probabilmente in tribunale e il sistema delle attività culturali italiano perderà un altro pezzo della poca credibilità che gli è ancora rimasta. Del 16/04/2014, pag. 21 Franceschini dalla parte del cinema Il ministro dei Beni culturali alla presentazione dei dati 2013 «Mi batterò per evitare nuovi tagli e cercherò risorse» GABRIELLA GALLOZZI L’INTENZIONE,ANZILAVOLONTÀC’È. QUELLO CHE MANCANO SONO LE FINANZE. CON UNA NUOVA SPENDING REVIEW ALLE PORTE DI CIRCA DUE MILIONI DI EURO, QUELLO «che farò sarà sicuramente evitare i tagli e trovare più risorse. Ce la metterò tutta, ma dentro questo quadro». È realista e concreto il ministro Franceschini che ieri ha partecipato alla presentazione annuale dei dati sul cinema italiano, messi a punto dal gruppo di analisi di Mibact e Anica. Una sorta di prevedibile cahiers de doléances che mette in luce come, nonostante i premi conquistati - Oscar compreso - il nostro cinema versi in gravissime acque con segni in negativo di fronte a quasi ogni voce, a cominciare dal 27% in meno degli investimenti nel settore. «In epoca di globalizzazione ogni economia nazionale deve individuare la propria vocazione e quella italiana è legata alla cultura e alla bellezza - aggiunge il ministro dei Beni culturali -. Credo molto in questa sfida ma so anche che non possiamo prescindere dalla crisi economica e dalla stagione di tagli che stiamo vivendo». Per questo, nell’immediato, la «ricetta» del Ministro è puntare sulle cooproduzioni con l’estero (in calo anche quelle nel 2013) e sul tax credit (le agevolazioni fiscali) da portare oltre il limite dei 5 milioni di euro per attirare maggiormente gli investimenti stranieri. Che poi sono quelli delle grandi produzioni, altra voce col segno negativo: calano, infatti, i film ad alto budget, mentre aumentano quelli a bassissimo budget (sui 200mila euro). Priorità dei prossimi giorni sarà poi l’allargamento del tax credit all’audiovisivo e l’apertura di un tavolo con le televisioni: «Le tv - spiega Franceschini - devono dare un contributo fondamentale e occorre un intervento per 36 correggere le norme sulle quote aumentando le sanzioni. Ringrazio la Rai perché rispetta più di Mediaset le norme sugli investimenti, ma ringrazio Mediaset perché programma più film italiani in prima serata». Su Cinecittà, poi, resta l’impegno preso nelle passate settimane con sindacati e associazioni per promuovere una vera azione di rilancio degli storici studi di via Tuscolana, coinvolgendo in un accordo commerciale Rai e Istituto Luce. Una novità, ancora, riguarderà le commissioni ministeriali che assegnano i fondi pubblici ai film, spesso al centro di polemiche per la scarsa competenza dei membri. D’ora in avanti, spiega il Ministro «i nuovi componenti verranno selezionati in base ai loro curricula e il direttore generale, Nicola Borrelli, non voterà». Altro impegno assunto da Franceschini sarà la battaglia per la difesa dell’«eccezione culturale», di cui la Francia, soprattutto, ha fatto una bandiera: «che significa tenere fuori la cultura dalle logiche di mercato». Finalmente. E a chiudere un invito ai produttori perché mostrino nei loro film le tante «bellezze dell’Italia sono cose che contano molto di più di una campagna promozionale. Mettete nei vostri film le nostre meraviglie, specie quelle sconosciute». Peccato però che costino un occhio della testa, ribatte dal fondo della sala proprio il produttore de La grande bellezza, Nicola Giuliano: «Girare una notte alle Terme di Caracalla costa anche 30mila euro!» Forse, quindi, si dovrà intervenire anche su questo. Ma più che assestamenti e provvedimenti ad hoc per ogni emergenza forse sarà finalmente il caso di rimettere le mani sulla tanto attesa e mai varata legge di sistema? La risposta al Ministro. del 16/04/14, pag. 11 Da Cameri a Forth Worth “L’aereo più pazzo del mondo” di Francesco Vignarca F35, un affare globale. Anzi locale Angelo Mastrandrea Facendo nostro il giudizio che ne ha dato, nell’ormai datato 2008, la statunitense Rand Corporation, «non può girare, non può salire, non può correre», potremmo chiederci a che serve, allora, un F35. A fornirci più di un elemento di riflessione – oltre che una sistematizzazione delle informazioni e un’analisi critica – ci pensa un agile pamphlet di Francesco Vignarca, F35 – L’aereo più pazzo del mondo (Round Robin, pag. 144, euro 13). L’autore, impegnato da anni nei movimenti pacifisti e antimilitaristi, è tra i promotori della campagna Taglia le ali alle armi che, prendendo spunto dalle mobilitazioni territoriali a Cameri, dove ha sede la “fabbrica” dei cacciabombardieri, e dalle controfinanziarie di Sbilanciamoci, ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica una questione che altrimenti sarebbe passata sotto silenzio, come già era accaduto per un altro fallimentare programma di riarmo: quello degli Eurofighter. Vignarca mette in luce come la campagna contro gli F35 si sia sviluppata su un duplice piano: non solo locale e nazional-globale, ma pure su quello della mobilitazione e allo stesso tempo dello studio, dove le competenze sono state messe al servizio di una causa. Tutto quello che sappiamo in Italia sugli F35, infatti, ci arriva da questa «intelligenza collettiva» che in pochi anni ha collezionato manifestazioni e documenti provenienti dagli Stati Uniti, coniugando pacifismo radicale e analisi scientifica. Tutto è passato al setaccio: cifre discordanti pur se provenienti da diverse fonti ufficiali, dichiarazioni enfatiche puntualmente smentite dai fatti (come i 10 mila posti di lavoro ridotti a 600, nella più ottimistica delle ipotesi), incongruenze macroscopiche. 37 Nella premessa, Vignarca riepiloga l’intera vicenda: come si è passati dalle discussioni nella Camera del Lavoro di Novara del 2006, con «elementi della neoautonomia, del cattolicesimo di base, del pacifismo tradizionale, del sindacalismo di base, di un’associazione culturale di ispirazione libertaria», alle «prime serate» televisive e ai dibattiti parlamentari del 2013, quando sono state approvate alcune mozioni che chiedono, in forme e misure diverse, lo stop al programma. Mozioni votate a larghissima maggioranza e puntualmente disattese, visto che gli acquisti dei componenti, stando a quanto continua a denunciare in maniera puntuale la Rete Disarmo, proseguono con il pilota automatico, senza che dal governo nessun premier si azzardi a sospenderli. In buona sostanza, ci troviamo di fronte a una sorta di contro-guida agli F35, nella quale un antimilitarista può trovare le sue buone argomentazioni per opporsi al programma Joint Strike Fighter e andare a braccetto con un più pragmatico sostenitore della spending review. Perché spendere infatti 10,8 miliardi (che lievitano a 14 se si considera la manutenzione successiva) per un aereo che, come dice la Rand Corporation – un think tank, è bene ricordarlo, vicino ai repubblicani e non ostile al pensiero che gli americani siano i gendarmi del mondo – «non può girare, non può salire, non può correre»? Per quale motivo insistere in un programma che altri paesi occidentali — si veda l’Olanda — stanno ridimensionando drasticamente? Quale ritorno economico ci si può aspettare dall’assemblaggio e dalla manutenzione in Italia quando è ormai palese che ogni promessa è stata già disattesa? Sono queste le domande, al netto di ogni istanza pacifista, che il libro di Vignarca consegna al lettore. Al rovescio, qualche sostenitore accanito potrebbe obiettare che il programma Joint Strike Fighter serve eccome. A far girare l’economia militare, a far salire gli incassi della Lockheed, a far correre le guerre. 38 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 16/04/2014, pag. III RM Flash mob davanti alla Fontana di Trevi Caritas: “Il sindaco ascolti la voce degli ultimi” Marino: non ci saranno riduzioni al budget Welfare, ancora tagli e proteste la rivolta di 900 associazioni “Case famiglia a rischio chiusura” CECILIA GENTILE QUASI 2.000 palloncini, uno per ogni bambino e persona con disabilità che sono ospitati nelle strutture romane. E chiavi lanciate nella Fontana di Trevi al posto delle monetine, per rappresentare la speranza di tornare, di poter ancora essere accolti nelle case famiglia di Roma che rischiano di non avere più una voce nel bilancio. Con un flash mob i rappresentanti delle 900 case famiglia e i loro assistiti hanno chiesto attenzione al sindaco Marino, ai consiglieri e agli assessori. «Gli attuali finanziamenti sono da troppi anni insufficienti — protestano le associazioni — e incombe il rischio di non poter più dare l’accoglienza agli oltre 1.500 minori e ai 380 disabili, attualmente residenti nelle case famiglia della capitale». Un pool di case famiglia, per esempio Casa al plurale, Coordinamento nazionale comunità per minori del Lazio, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza Lazio, Federsolidarietà, Lega Coop Lazio, Agci Solidarietà, Forum terzo settore Lazio, movimento Social Pride, movimento Diamoci una Mano, Coordinamento romano affido, ha sottoscritto un appello, chiedendo che «il budget per il sociale, all’interno del bilancio 2014 e degli anni successivi, non solo non venga tagliato, ma possa essere aumentato per rispondere alle crescenti emergenze sociali ». «Sappiamo bene che la capitale ha mille priorità e il “Salva-Roma” copre a malapena i bisogni — c’è scritto nell’appello consegnato alla presidente della commissione Politiche sociali Erica Battaglia — Ma il grado di civiltà di una città si misura dalla capacità di accogliere e prendersi cura dei suoi cittadini più deboli ». «Il sindaco ascolti la voce degli ultimi, di chi non può scegliere, affinché i loro bisogni diventino le priorità nelle scelte dell’assemblea capitolina», chiede anche il direttore della Caritas di Roma, monsignor Enrico Feroci. «Attualmente - informa Salvatore Carbone, presidente della cooperativa “La nuova arca” tra i principali centri italiani, da Milano a Palermo, Roma è la città che prevede la retta giornaliera più bassa. Nelle altre città le rette per minori sono in media pari a 108,80 euro contro i 69,75 euro al giorno a persona previsti nella capitale. Mentre le rette per persone adulte con grave disabilità sono in media di 286,64 euro contro i 144,15 euro previsti a Roma». In serata arrivano le rassicurazioni del sindaco. «Roma Capitale non ha alcuna intenzione di ridimensionare il budget destinato al sociale, ma anzi, dove possibile, questo sarà incrementato», si impegna Marino. 39 ECONOMIA E LAVORO del 16/04/14, pag. 1/2 Analisi Def Un cambio di passo ma non “di verso” Roberto Romano, Riccardo Sanna Ritmi di crescita del Pil reale, da qui al 2018, a cui non eravamo più abituati dagli anni ’90 (1,5% medio annuo). Tassi di incremento delle esportazioni (4,2%), delle importazioni (4,0%) e degli investimenti (3,2%) mai visti, nemmeno prima della crisi. Consumi privati che ripartono (1,1%) e conti pubblici in ordine (indebitamento netto strutturale pari a zero nel 2016). Questi i principali tratti positivi, inediti, del quadro macroeconomico delineato nel Documento di economia e finanza 2014. Eppure non basta. Innanzi tutto, non bastano quelle cifre a giustificare le numerose incongruenze statistiche, che determinano quanto meno dubbi in realismo. Le previsioni di crescita per il 2014 e il 2015 sono più contenute di quelle che il governo Letta aveva riportato nel Draft Budgetary Plan di ottobre 2013 ma, nonostante ciò, non trovano riscontro nella maggior parte delle previsioni più accreditate a livello internazionale (riportate anche nel Def). Dal 2016 al 2018 le stime del Governo Renzi diventano persino più ambiziose, e altrettanto ingiustificate. La ripresa nell’intero arco temporale di riferimento del Def viene affidata ancora una volta al mercato. Con espressa descrizione dei diversi contributi alla crescita viene stimato un maggiore impatto positivo sul Pil delle cosiddette riforme strutturali previste nel Pnr e, in particolare, delle semplificazioni amministrative, delle liberalizzazioni e dell’ulteriore deregolazione del mercato del lavoro, rispetto a quello della riduzione delle imposte al lavoro e alle imprese (in verità, uniche misure a sostegno della domanda effettiva). Come se non bastasse, inoltre, i moltiplicatori fiscali (negativi) utilizzati per calcolare l’impatto del consolidamento fiscale (soprattutto la riduzione della spesa pubblica) appaiono decisamente sottostimati, oltre che incoerenti nel confronto con quelli scelti per le misure positive. Maturare un avanzo primario del 5% nel 2018 (circa 79,4 miliardi di euro correnti) significa inevitabilmente comprimere la domanda effettiva, qualunque sia il moltiplicatore di riferimento. E ancora. Non basta l’attribuzione ideologica al pensiero (unico) liberista per interpretare i molteplici errori di valutazione politico-economica. Trascurando per un momento la plausibilità delle simulazioni econometriche e delle simulazioni d’impatto delle diverse misure previste dal governo nel Def, la cornice teorica a cui si affida la ripresa resta tutta dentro una logica mercantilista, fondata ancora una volta su austerità, svalutazione competitiva del lavoro, deleveraging e contenimento dell’inflazione (da domanda). E già solo per questo non può funzionare. Ormai, cinque anni di rilevazioni (e di previsioni sbagliate da parte di governi nazionali e istituzioni sovranazionali) confermano che il rigore dei conti e la ricerca di fiducia nei mercati non bastano a ritrovare la ripresa. Non si può contare sul ritorno di una favorevole congiuntura internazionale se non si risolvono le cause alla radice della crisi e degli squilibri strutturali dell’economia mondiale che hanno generato i vuoti di domanda globale. È persino sufficiente osservare i soli indicatori dello scoreboard (riportato nel Pnr) usato dalla Commissione europea per valutare gli squilibri macroeconomici degli Stati membri per comprendere immediatamente l’origine della crisi e l’inefficacia delle politiche europee perseguite si qui. Anche nella migliore delle ipotesi, dunque, in Italia uno shock della domanda interna e la ripresa delle esportazioni non può essere, di per sé, sufficiente a uscire dalla crisi. Basti 40 ricordare che il tasso di disoccupazione previsto per il 2018 è l’11%, mentre nel 2007 era il 6,1%. Di certo, poi, non si può pensare di scommettere di agganciare una qualsiasi ripresa del commercio internazionale – sempre ancora tutta da dimostrare – senza aver convertito, riqualificato e innovato il tessuto economico e produttivo del nostro Paese. Tuttavia, nel Def non è presente alcun piano di investimenti che innalzi il contenuto tecnologico e di conoscenza del sistema di imprese italiane, pubbliche e private. Così come non è programmata nessuna distrazione di risorse in direzione di maggiori fondi a sostegno dell’innovazione e della ricerca. Non c’è nessuna similitudine con programmi di creazione diretta di lavoro di rooseveltiana memoria in funzione dei beni comuni, dei beni sociali o dei beni ambientali. Non c’è più traccia del primo Jobs Act annunciato lo scorso gennaio, in cui una tenue evocazione del piano per il lavoro di Obama, in riferimento agli investimenti pubblici in innovazione, green economy, infrastrutture materiali e immateriali, reti energetiche, edilizia sostenibile. Nessuna politica industriale. Anzi, il ruolo economico dello Stato è esplicitamente e deliberatamente condizionato all’auspicato avanzamento del mercato, all’inutile ricerca della concorrenza, all’attrazione dei capitali privati e alla fiducia della finanza internazionale. La riforma delle istituzioni rientra in questa logica; tra l’altro, non molto diversa da Destinazione Italia (non a caso, provvedimento riportato nel Pnr). Un’altra evidente traccia della scelta di competere sui costi si trova nella modesta proiezione del tasso medio annuo di variazione della produttività, nella riduzione del Costo del lavoro per unità di prodotto (il famigerato Clup) e nel programmato contenimento dell’inflazione, malgrado i numerosi richiami internazionali sul rischio di deflazione e sulle ovvie conseguenze sul debito pubblico e sull’occupazione. La verità è che tutte le incoerenze tecniche contenute nel Def – molte più di quelle citate – non sono altro che la naturale conseguenza di deliberate scelte politiche. Ma anche stando solo ai fatti (e ai testi) possiamo tranquillamente affermare che non è la svolta buona. Di nuovo. Non sappiamo se si tratti di tempismo politico e, perciò, della scelta – tutta tattica – di accendere una vertenza europea, o anche solo di aprire una trattativa con la Commissione, solo dopo aver fatto “i compiti a casa” e solo dopo le elezioni europee. Quel che sappiamo, però, è che il governo non ha usato i margini di deficit spending possibili, benché abbia previsto una «deviazione temporanea del percorso di avvicinamento verso il pareggio di bilancio in termini strutturali». Né tanto meno è stata avanzata una diversa modalità (misure, modalità istituzionali, strumenti, moltiplicatori, parametri, ecc.) di raggiungimento dei – pur sempre discutibili – obiettivi di risanamento dei conti. A oggi, la rinuncia all’obiettivo del recupero dell’occupazione pre-crisi e, più in generale, all’obiettivo della piena e buona occupazione è tanto chiara quanto inaccettabile. Un programma di governo dell’Italia, come quello definito dal Patto di stabilità e dal Piano nazionale di riforme, deve essere più ambizioso. Del 16/04/2014, pag. 10 «Caro Matteo...» un milione di cartoline dei pensionati Dal congresso Spi-Cgil un appello al confronto con il governo e al rispetto dei più deboli Cantone: noi non rubiamo il futuro dei nostri figli e nipoti 41 MASSIMO FRANCHI Un milione di cartoline, una decina di sms e tante punzecchiature. Carla Cantone e Matteo Renzi rappresentano i poli opposti: il segretario dei pensionati Cgil e il premier più giovane della storia italiana. La notizia però è che si parlano. Lo ha rivelato la stessa Carla Cantone durante la sua - al solito scoppiettante - relazione al diciannovesimo congresso dello Spi, aperto ieri a Rimini. Una relazione incentrata sulla concertazione - “Se non va bene chiamiamola Giuditta, ma confrontiamoci” - con il governo e sui temi interni alla Cgil con una richiesta “forte di unità”. Certo, il rapporto Cantone-Renzi per ora è soltanto epistolare o telematico, mentre l'incontro vis a vis è ancora lontano. Partito al tempo delle primarie Pd - nelle quali Cantone ha appoggiato prima Bersani e poi Cuperlo – ha sempre viaggiato tramite messaggi di testo telefonico con gli auguri per la nomina a presidente del Consiglio e conseguente ringraziamento, diventando poi scambio di frecciatine su parecchi temi di attualità. Nelle quasi due ore di relazione – mezz'ora in meno del record stabilito e beffardamente sottolineato di Landini nello stesso luogo la settimana scorsa – il tema della “rottamazione della concertazione” e “del sindacato confederale” è stato preminente. Senza mai nominarlo, i messaggi a Matteo Renzi sono stati tanti. “Se qualcuno continuasse nel suo pensiero strategico di fare a meno del sindacato, noi con la nostra lunga storia gli faremmo cambiare idea. Non rinunciamo a svolgere il nostro ruolo di rappresentanza. Certo, ha ragione Susanna Camusso – seduta accanto a lei - a dire che non pietiamo alcun tavolo, ma posso pretendere il confronto da un premier che è anche il leader del più grande partito di sinistra? Altrimenti significa che il mondo è capovolto. E se si è capovolto occorre raddrizzarlo”. Anche perché “quando non si accetta il confronto è perché si vuole avere il controllo e il potere di decisione su tutto. Ma il decisionismo e la velocità fine a se stessa sono spesso destinate a cadere con un forte rumore”. E dunque a Renzi arriveranno “un milione di cartoline” mandate assieme a Fnp Cisl e Uilpa “per chiedere un confronto almeno con i ministri di Welfare e Sanità”. L'orgoglio della categoria più rappresentativa – quasi 3 milioni di iscritti su un totale Cgil poco inferiore ai 6milioni – viene dalla propria storia. “Siamo tutti stati lavoratori, abbiamo combattuto per i diritti e non ci stiamo a passare per i ladri di futuro dei nostri figli e nipoti!”. Il tutto in un Paese dove “l'ottanta per cento dei poveri ha più di 65 anni”. E allora la critica principale al governo è di perseguire “la giustizia sociale solo al 50 per cento, visto che gli 80 euro non sono previsti per noi pensionati, quasi fossimo dei cittadini svedesi”. La “promessa” di Renzi di alzare le pensioni nel 2015 viene considerato “positiva: speriamo che il 2014 passi in fretta”. Enrico Berlinguer e Guido Rossa sono i nomi che emozionano i 750 delegati e i tanti ospiti – i segretari Cgil di categoria, la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Ciccio Ferrara ( Davide Faraone ha mandato un messaggio). Sui temi del congresso Cgil, Cantone ha puntato tutto su un richiamo alle radici dell'unità confederale: “Come Spi abbiamo ascoltato per scongiurare rotture”, d'altronde “l'unità è un bene importante da maneggiare con cura. Stare uniti non è una regola statutaria, ma un'esigenza” perché “la Cgil rimane anche dopo di noi”. L'appoggio al Testo unico sulla rappresentanza arriva con qualche distinguo - “sulle criticità”, compreso il ricorso alle sanzioni. Dopo la battuta su Berlusconi - “Speriamo che agli anziani racconti barzellette, ma non si iscriva allo Spi” - si chiude con “L'inno dei lavoratori” sulle parole di Filippo Turati, cantato all'unisono da Cantone e Camusso. 42