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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 16 aprile 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da il FattoQuotidiano.it del 15/04/14
F35, Pd senza accordo: slitta ancora la
conclusione dell’indagine conoscitiva
Tensioni nel partito del premier tra il blocco che chiede il congelamento
del programma in vista di una "sostanziale riduzione" e gli "atlantisti"
del partito, tra cui il ministro Mogherini. Appuntamento rinviato a
maggio
di Enrico Piovesana
Slitta ancora, a causa dei dissidi interni al Partito democratico di Matteo Renzi, la
conclusione dell’infinita indagine conoscitiva parlamentare sugli F35. La seduta finale dei
lavori della commissione Difesa della Camera, rimandata per mesi e infine fissata per
questo giovedì, è stata ulteriormente rinviata all’inizio di maggio perché il Pd non ha
ancora trovato un accordo sul testo finale della propria relazione conclusiva.
L’assemblea dei deputati democratici era pronta a votare mercoledì, a larga maggioranza,
la bozza preparata dal capogruppo in commissione Giampiero Scanu, nella quale si
chiede il congelamento del programma in vista di una sua “sostanziale riduzione”. Ma
l’influente minoranza “atlantista” del partito (Pinotti, Mogherini, Speranza, La Torre,
Minniti), spalleggiata indirettamente dal Quirinale, si è messa di traverso per impedire che
questa posizione diventi la linea ufficiale dei parlamentari Pd, il che aprirebbe la strada a
una risoluzione che impegnerebbe il governo a stoppare veramente il programma F35.
Questo ennesimo rinvio ha suscitato fortissimi malumori, fuori e dentro il Pd. “No
comment” da Scanu, che si dice comunque fiducioso. Per Pippo Civati, invece, “ormai non
è più solo una questione di scelte economiche, politiche e strategiche, è una questione di
democrazia: il Parlamento, come prevedono le nuove leggi, ha il diritto di esprimersi su
una materia così importante come le spese militari”. E sui dissidi interni al Pd: “Evitare un
confronto aperto e una presa di posizione chiara all’interno del Pd su questo argomento è
controproducente, visto che la base del partito è largamente contraria agli F35 e che in
questo silenzio si lascia la parola a tutti gli altri”.
Tra gli “altri” che in questo imbarazzante silenzio si preparano a dire la loro c’è l’intero
mondo dell’associazionismo italiano, laico e cattolico (Comboniani, Libera, Cgil, Fiom, Acli,
Arci, Emergency, Greenpeace, Rete Disarmo, Beati Costruttori di Pace, Pax Cristi più una
sfilza di noti personaggi del mondo della cultura), che il 25 aprile si ritroverà alla “Arena di
Pace e Disarmo“ di Verona per ribadire il proprio “no” agli F35. Tra i primi sottoscrittori
dell’iniziativa c’è Paolo Beni, presidente Arci e deputato Pd: “Il 25 aprile saremo a Verona
per ricordare a tutto il Paese, politici compresi, che pace significa rifiuto della guerra e
delle armi nel rispetto dell’articolo 11 della nostra Costituzione”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/15/f35-pd-senza-accordo-slitta-ancora-laconclusione-dellindagine-conoscitiva/953246/
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Da il Tempo.it del 15/04/14
Piccoli gesti per ritrovare il sorriso
Ecco l’assistenza nelle new town
Parte da Assergi il progetto ideato dall’associazione onlus «180 amici»
L'AQUILA C’è una ricostruzione che non ha bisogno di cemento, mattoni e gru. È molto
meno rumorosa, probabilmente richiede molto più tempo rispetto a quello che gli operai
impiegano per completare un cantiere ed è spesso è fatta di piccoli gesti, un sorriso o una
semplice parola di conforto. In una città costellata di "non luoghi" e quartieri dormitorio,
realizzati a volte in luoghi lontani dalla città, da servizi e spazi di aggregazione, l’urgenza
della ricostruzione sociale "non è più rinviabile" come ha ricordato l’assessore
all’assistenza alla popolazione Fabio Pelini. Per questo il suo assessorato, insieme a
quello alle politiche sociali guidato da Emanuela di Giovambattista, hanno sposato il
progetto ideato dall’associazione onlus "180 amici" che garantirà servizi ed assistenza ai
residenti del progetto C.a.s.e. di Assergi. Uno sportello sociale dover poter dialogare ed
essere ascoltati, un internet point, servizio di trasporto sociale presso strutture o
supermercati per chi non ha la possibilità di poter contare su un mezzo proprio, una
piccola biblioteca dove poter prendere in prestito dei libri e persino una radio (on line,
"radio stella 180") per raccontare ed approfondire la realtà di una delle situazioni più
complicate, soprattutto per l’ubicazione, tra quelle nate dopo il sisma. I fondi, 27.500 euro
raccolti e messi a disposizione dalla Tavola Valdese, consentiranno di attivare tutte queste
iniziative fino a maggio dell’anno prossimo «ma stiamo cercando di ottenere una proroga
del finanziamento per proseguire anche nel 2016» ha sottolineato il presidente della onlus
Alessandro Sirolli, ricordando che nel progetto verranno coinvolte anche la Tempera
Onlus, Arci e ragazzi che lavoreranno e verranno pagati con apposite borse lavoro o
contributi. «Abbiamo scelto di iniziare con il progetto C.a.s.e. di Assergi perché tra i 19 nati
dopo il terremoto è sicuramente quello più periferico e distante da servizi a cui, soprattutto
gli anziani, hanno difficoltà ad accedere» ha spiegato Pelini, augurandosi che il progetto
«L’Aquila: insieme si può fare» possa essere in futuro esteso anche alle altre new town.
Ad Assergi, come previsto dalle normative vigenti, un alloggio sarà dedicato
esclusivamente alle attività per la popolazione, che sarà coinvolta dai ragazzi e dagli
specialisti messi in campo per cercare di ricreare una socialità andata ormai perduta e che
soprattutto le categorie più in difficoltà chiedono a gran voce. «L’obiettivo è capillarizzare i
servizi per la popolazione sul territorio, ed in questo senso il contributo delle associazioni
può essere determinante» ha aggiunto l’assessore Di Giovambattista. «Questo
esperimento di welfare di comunità - ha concluso Sirolli - può essere il primo passo verso
la realizzazione di un percorso virtuoso in grado di garantire un’assistenza completa a chi
risiede nei progetti C.a.s.e. dove le persone hanno bisogno di riscoprire la vita di comunità.
Per questo busseremo alloggio per alloggio, cercando di coinvolgere il maggior numero di
residenti».
http://www.iltempo.it/abruzzo/2014/04/16/piccoli-gesti-per-ritrovare-il-sorriso-ecco-lassistenza-nelle-new-town-1.1240883
Da DirettaNews.it del 15/04/14
Scontri Roma, si riapre la polemica sui codici
identificativi di polizia
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Gli scontri di sabato a Roma, con le cariche della polizia e qualche gesto “eccessivo”,
come quello dell’agente che è salito con un piede sul costato di una ragazza a terra,
intenta a proteggersi, hanno riaperto nuovamente la polemica sulla mancanza di un codice
identificativo che possa in maniera immediata ricondurre alle responsabilità soggettive del
singolo agente di polizia. Tanti gli interventi in tal senso nelle ultime ore, soprattutto da
parte di esponenti dei movimenti e candidati della lista ‘L’Altra Europa con Tsipras’.
Tra questi, Raffaella Bolini, esponente di spicco dell’Arci e candidata nella circoscrizione
Centro, che si chiede: “Da quanto tempo lo chiediamo? Da quanto tempo diciamo che in
altri paesi, inclusa la Germania, è una cosa normale? Quanto tempo dovremo ancora
aspettare? Quanti altri difensori dello Stato potranno camminare sulla pancia di una donna
a terra?”. Denuncia l’ex leader delle Tute Bianche al G8 di Genova, Luca Casarini,
anch’egli candidato al Centro: “Per l’ennesima volta, ci troviamo a vedere pestaggi di
gente inerme a terra, umiliazioni, violenze portate a persone con le mani alzate e
oggettivamente innocue, da parte di agenti che godono di assoluto anonimato: nessun
numero identificativo, nessun segno di riconoscimento personale”.
Da parte sua, la Rete della Conoscenza denuncia: “La repressione, alla prima prova di
gestione dell’ordine pubblico di una certa rilevanza per il nuovo Governo, è stata pesante:
le cariche alle spalle del corteo in Piazza Barberini, la violenza inaudita e ingiustificata con
la quale gli agenti si sono accaniti sui manifestanti inermi, che riporta in primo piano la
campagna per l’introduzione del numero identificativo per le forze dell’ordine, e infine le
due denunce e i cinque arresti ai quali esprimiamo la nostra solidarietà e dei quali
chiediamo con forza l’immediato ritiro”.
Il senatore di Sel, Peppe De Cristofaro, intanto, rilancia la sua proposta di legge,
presentata nel giugno 2013, tesa a introdurre un numero identificativo ben visibile sui due
lati e sulla parte posteriore del casco, o comunque un segno distintivo inequivocabile e
spiega: “Si tratta di una norma minima di civiltà, già in uso in quasi tutti paesi europei”.
Analoga proposta è stata presentata dal pentastellato Marco Scibona, noto anche per
l’attivismo No Tav, che ha rilanciato: “Ci hanno scritto anche molti operatori delle forze
dell’ordine che erano a favore del numero identificativo”. Secondo Scibona, la proposta “ci
riallineerebbe agli altri paesi civili del mondo, a cominciare dall’Europa”.
Redazione online
http://www.direttanews.it/2014/04/15/scontri-roma-si-riapre-la-polemica-sui-codiciidentificativi-di-polizia/
Da Strill.it del 15/04/14
Reggio: contro la corruzione in arrivo la
Carovana Antimafie di Arci e Libera
E' partito stamane a Reggio Calabria il conto alla rovescia per il passaggio della Carovana
Internazionale Antimafie 2013 organizzata da Arci, Libera, Avviso Pubblico e dalla triplice
sindacale con la Ligue de'Enseignement, organizzazione francese che si batte la scuola
pubblica e laica. Un'iniziativa che giunge quest'anno alla sua ventesima edizione. Da 20
stagioni, la Carovana sviluppa i temi della legalità democratica, della giustizia sociale,
della partecipazione, dei diritti, dell'uguaglianza sociale e della solidarietà. La tappa
reggina si terrà il prossimo 17 aprile e sarà dedicata al tema della corruzione, ''intesa
come ostacolo alla libera esplicazione dei diritti di cittadinanza'' con un'iniziativa pubblica
dal titolo ''Le mani sulla città: impronte di cittadinanza negata''.
Alla conferenza stampa di presentazione, tenuta stamane presso la sede provinciale di
Libera, erano presenti Davide Grilletto in rappresentanza dell'Arci, Lucia Lipari per Libera,
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il Sindaco di Condofuri Salvatore Mafrici in rappresentanza di Avviso Pubblico e
Francesco Alì per la Cgil. ''Vorremmo focalizzare l'attenzione dei partecipanti sulle
ricadeute che le dinamiche correttive esplicano rispetto ai diritti fondamentali dei cittadini.
In particolare - spiegano gli organizzatori - ripercorreremo le vicende che hanno riguardato
la città di Reggio Calabria dagli anni '80 fino ad oggi, ricostruiremo le conseguenze che i
meccanismi di corruzione e negazione della trasparenza amministrativa in materia
urbanistica esplicano rispetto alla libera iniziativa privata ed al diritto all'abitazione dei
cittadini''.
Questa edizione della carovana sarà dedicata al ricordo di due onesti professionisti,
l'ingegnere Demetrio Quattrone e il Vigile Urbano Giuseppe Macheda, che pagarono con
la vita le loro azioni concrete in materia di lotta all'abusivismo ed alla corruzione.
http://www.strill.it/index.php?option=com_content&view=article&id=194036:reggio-controla-corruzione-in-arrivo-la-carovana-antimafie-di-arci-e-libera&catid=40:reggio&Itemid=86
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ESTERI
Del 16/04/2014, pag. 12
Tra i ribelli dell’Est “Kiev attacca, 4 morti ora
è guerra civile”
Via alle operazioni militari contro i filo-russi Mosca: l’Onu condanni. Usa
con gli ucraini
PIETRO DEL RE
DAL NOSTRO INVIATO
«Hanno attaccato l’aeroporto di Kramatorsk? Bene! Noi li stiamo aspettando », dice Boris,
facendo sciabolare una pesante spranga di ferro come fosse un fuscello di bambù.
L’operazione antiterrorismo lanciata dalle truppe di Kiev nell’Ucraina orientale non sembra
spaventare questo gigante incappucciato che da una settimana bivacca assieme a un
centinaio di miliziani pro-russi in un edificio amministrativo di Donetsk. Né inquieta i suoi
commilitoni che improvvisamente cominciano ad intonare cori con cui confusamente
invocano l’annessione alla Russia, un’Ucraina federale e perfino il ritorno del presidente
Yanukovich. Eppure il primo tentativo di riportare la normalità nelle città assediate dai
separatisti avrebbe provocato ieri «almeno 4 morti e decine di feriti», raccontano i ribelli
filorussi. Le autorità di Kiev avevano fissato lunedì come ultimatum per la fine delle
occupazioni di commissariati, municipi, ospedali e aeroporti in una decina di città. Ieri con
ventiquattr’ore di ritardo, colmato da altri assedi e altre occupazioni, hanno finalmente
lanciato operazioni militari che secondo il presidente ucraino, Oleksandr Turcinov, saranno
condotte «gradualmente, in maniera equilibrata e responsabile». Nel pomeriggio, un
centinaio di chilometri a nord di Donetsk, una colonna di blindati ha ripreso il controllo della
città di Sloviansk, divetata il simbolo della rivolta, mentre altri soldati governativi liberavano
il vicino aeroporto di Kramatorsk. «Truppe ucraine dotate anche di mezzi blindati e carri
armati circondano la città», ha detto poco prima dell’attacco Viaceslav Ponomariov, uno
dei capi delle forze di autodifesa che ha assunto le funzioni di sindaco.
«È in corso un’operazione importante, veicoli con truppe corazzate ci stanno circondando.
Gli uomini sono pronti a difendere la città», ha detto un altro miliziano separatista a
un’agenzia di stampa russa, secondo la quale la riconquista di questi luoghi sarebbe
costata la vita di quattro se non di undici «martiri». Intanto, giungono voci secondo cui
forze speciali di Mosca si sarebbero in questi giorni infiltrate tra i filorussi. Lo dice il
vicepremier ucraino, Vitaly Yarema, che denuncia «diverse centinaia di militari russi
dispiegati sotto copertura in molte città dell’Ucraina orientale». Sul piano diplomatico
immediata è stata la reazione di Mosca, che verosimilmente non si aspettava che
Kiev desse seguito alle sue minacce. Il premier russo Dimitri Medvedev, ha dichiarato che
l’Ucraina «è sull’orlo di una guerra civile», aggiungendo che «l’unica via è il dialogo con
tutte le regioni del paese». Medvedev ha poi ribadito la richiesta di una condivisione
internazionale dei problemi economici dell’U-DONETSK . che per Mosca si configurano
soprattutto nelle bollette del gas non saldate per un totale di 2,2 miliardi di dollari.
Quanto alla Casa Bianca, il portavoce di Obama Jay Carney, ha giustificato l’operato del
governo ucraino sostenendo che «Kiev ha il dovere di rispondere alle provocazioni per riportare l’ordine nel paese». Carney ha poi sottolineato come gli Stati Uniti non
intendano inviare armi ma non ha escluso nuove sanzioni contro Mosca. A stretto giro è
arrivata anche la risposta di Vladimir Putin: «Le Nazioni Unite condannino l’Ucraina per le
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sue azioni anticostituzionali nel paese», ha detto il presidente russo durante una telefonata
al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Prima di lanciare il suo attacco il presidente
ucraino Turcinov non ha risparmiato critiche a Mosca accusandola di avere «progetti
brutali per destabilizzare il sud-est dell’Ucraina al di là del bacino minerario del Donbass,
dove sono scoppiate le rivolte filorusse: vogliono prendersi tutto, compreso l’est e il sud
dell’Ucraina, dalla regione di Kharkiv a quella di Odessa». E da Odessa, che già si
dichiara annessa alla Russia, è solo a un passo. Per calmare i giochi, il segretario
generale della Nato esclude comunque la possibilità di un intervento militare in Ucraina.
«Noi continuiamo a pensare che ci sia bisogno di una soluzione politica e sul piano
militare il nostro principale compito in questo momento è quello di rafforzare la difesa ai
nostri alleati. Ed è quello che stiamo facendo», ha detto Anders Fogh Rasmussen che,
però, ha rivolto anche un invito a Mosca: «La Russia dovrebbe smettere di essere parte
del problema in Ucraina e dovrebbe invece cominciare ad essere parte della soluzione».
del 16/04/14, pag. 1/7
Dov’è l’Europa?
Tommaso Di Francesco
Alla faccia della dietrologia, lunedì sera la Casa bianca ha annunciato la presenza a Kiev
del capo della Cia John Brennan. Dunque è ufficiale: il responsabile delle guerre coperte
americane in Iran, Libia e Siria, le ultime due degenerate in disastrosa guerra aperta, è
operativo sulla piazza di Majdan pronto a combinare altrettanti effetti disastrosi. Ora la
presenza dell’intelligence Usa nella crisi ucraina è ufficiale, ma certo è stata presente da
subito nel conflitto intestino che si è innescato per almeno quattro mesi con la protesta
diffusa di una parte del popolo ucraino, prima contro la corruzione, poi filo-europeo e
antirusso, poi solo antirusso. Una protesta volta a volta eterodiretta e di segno sempre più
cangiante e sempre più radicale, fino a diventare violenta sotto la guida organizzata dei
gruppi paramilitari della forte estrema destra ucraina. E fino a far saltare l’equilibrio
raggiunto a Monaco tra Usa e Russia a metà febbraio che prevedeva elezioni concordate
entro l’estate, l’uscita di scena morbida dell’ex presidente Yanukovich, un nuovo assetto
istituzionale del paese.
Una crisi precipitata fino al pronunciamento d’indipendenza della — di fatto — russa
Crimea con pronta adesione, bene accolta, alla Russia.
Ora la crisi rasenta ancora una volta il confronto militare tra occidente atlantico e Russia,
che fino a prova contraria sempre Europa è.
Eppure il nemico sovietico non c’è più da 23 anni e si fa fatica a pensare, se non come ad
un vintage, ad una azione militare di Putin come fosse l’invasione dei carri armati di Praga
e il ’56 ungherese. Un immaginario che torna utile ai media e all’ideologia guerrafondaia,
ma non è così: a Mosca come in tutto l’est, dominano — ancorché in crisi — i valori di
mercato dell’Occidente e la Nato ha inglobato tutti i paesi dell’Est tranne la Russia e non
ancora completamente l’Ucraina e gli stati della Csi. In Crimea poi le truppe russe sono
state accolte davvero come liberatrici. Anche le eventuali forze militari americane che
raggiungessero Kiev probabilmente sarebbero accolte così, perché quella piazza più che
filoeuropea è filoatlantica e filoamericana.
Così mentre da Washington, da diecimila chilometri di distanza, sicuri commentatori
italiani (mentre Greenwald viene insignito del premio Pulitzer per aver scoperchiato, con
Snowden, lo scandalo Datagate) ci assicurano che si è sfiorato il casus belli con un aereo
russo che ha sorvolato una nave militare Usa «di tanto così» — letteralmente, come se il
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giornalista fosse lì a vederlo – nessuno si chiede che cosa ci stanno a fare le navi militari
americane nel Mar Nero a ridosso dei confini russi se non per motivare l’esistenza di un
nuovo nemico.
E la Nato per bocca dell’uscente di scena Rasmussen ammonisce Mosca a tenere le sue
truppe lontano dai confini: vale a dire dice a non avere truppe russe sul territorio russo,
quello più sensibile.
E questo mentre le truppe americane stazionano nei quattro punti cardinali del mondo e in
Iraq, Afghanistan, sono pure impegnate in guerre sporche.
Come finirà? E’ legittimo immaginare che ci troviamo di fronte all’ennesimo risiko di
dichiarazioni e mosse militari sullo scacchiere delicato dei confini tra Europa orientale e
occidentale. E la telefonata di Putin a Obama è lì a testimoniarlo.
Il leader russo assicura che non ha interesse a fomentare le rivolte nell’est ucraino per fare
come con la Crimea, spinge solo sulla federalizzazione del paese e sulla sua neutralità
dalla Nato. La cui strategia di allargamento a est è all’origine della crisi con la Russia, non
il contrario.
Intanto continuano le rivolte violente e spesso di massa nell’Ucraina orientale, delle quali
si rimane stupiti come fosse l’orrore tout court. Dimenticando, smemorati, di quanto sia
stata molcita, applaudita, apprezzata, decantata in Europa e negli Usa la rivolta degli
«eroi» (come li apostrofò, ancora dal carcere, la «principessa del gas» Iulia Tymoshenko)
anche armati di piazza Majdan mentre ancora si tace sulle reali responsabilità del lavoro
dei cecchini su quella piazza.
Ma è difficile immaginare che finirà come per la Crimea: i russi nelle regioni dell’est sono
assai inferiori di numero che non in Crimea, e radicalizzare lo scontro vorrebbe dire
rieditare la sanguinosa guerra interetnica dei Balcani negli anni Novanta. Prodromo di una
deflagrazione ancora maggiore e dagli esiti a dir poco incerti.
Né Putin né Obama possono volerlo e infatti trattano. Ma dov’è l’Unione europea? Non
esiste, non ha ruolo alcuno. È all’origine della crisi con il suo improbabile allargamento che
si riduce all’associazione, ma tace. Al posto della diplomazia di Bruxelles parla la Nato.
Ecco l’altro limite dell’Europa reale: non solo è una moneta che affama buona metà del
vecchio Continente, ma è in politica estera solo un patto militare, l’Alleanza atlantica. Gli
interessi strategici di politica estera, per le fonti di energia e sulla sicurezza, sono nelle
mani di un altrove che non è la sede delle istituzioni comunitarie. Fino a quando?
del 16/04/14, pag. 1/15
La Troika come l’usuraio Shylock
Tonino Perna
La visita dI Angela Merkel ad Atene è coincisa con il ritorno sul mercato finanziario dei titoli
di stato greci per un valore di 2.5 miliardi. Il fatto di averli collocati ad un tasso inferiore al
5,5%, come preventivato, ha fatto dire al premier greco Samaras che la Grecia è ormai
uscita dal tunnel. Non si capisce bene di quale tunnel parli, se è quello del Monte Bianco
in cui Monti vedeva la luce alla fine del percorso (ma la leggeva male, altrimenti avrebbe
capito che diceva adieu Monti ) o quella di Letta che prevedeva già nel 2014 una crescita
dell’1% per l’Italia, già rivelatasi errata.
L’abbraccio con la Merkel del premier greco non è stato sufficiente a rassicurare chi
conosce bene la situazione economica e finanziaria della Grecia. ». Dello stesso tenore
altri commenti di esperti di grandi banche ed istituzioni finanziarie, apparse sulla pagina
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economica di Le Monde l’11 aprile : » stima Jesus Castillo. Ed aggiunge Christopher
Dembik, della Banca Saxo: ».
Il debito pubblico della Grecia era all’inizio della crisi (2008) pari al 112,9 % del Pil, su un
livello pari a quello italiano. Tre anni dopo era arrivato al 170.3%, dopo le prime misure di
austerity. I titoli di stato non riuscivano più ad essere venduti sul mercato globale se non a
tassi di interesse sempre più alti ed insostenibili. A quel punto, nel 2011, lo Stato greco era
chiaramente in default, come sosteneva su questo giornale Guido Viale. Ma i tempi della
politica sono diversi da quelli del mercato e della razionalità contabile. Accettando il
fallimento della Grecia la troika avrebbe ammesso il fallimento delle politiche di austerity e,
soprattutto, avrebbe lasciato le banche tedesche, francesi, ecc. con miliardi di titoli di stato
greci inesigibili. Per evitare tutto questo fu deciso di cancellare una parte del debito
pubblico (123 miliardi) e di chiedere come contraccambio dure politiche di austerità che in
poco tempo hanno prodotto un tasso di disoccupazione altissimo (27.3% al 2014), la fine
della sanità pubblica e del diritto all’istruzione, la perdita della casa per centinaia di
migliaia di famiglie ed una povertà di massa che non si vedeva dal tempo della seconda
guerra mondiale. Dopo tre anni di questa disonorata macelleria sociale il risultato è che il
rapporto debito pubblico /Pil ha toccato un nuovo record: 177% agli inizi di quest’anno. E
quindi si richiede una nuova, parziale, cancellazione del debito, che avverrà con il
contraltare di altre odiose misure di austerità.
C’è da chiedersi: a chi giova questo gioco al massacro, visto che poi alla fine il debito
pubblico deve essere comunque in parte cancellato ed in parte ristrutturato? Per
comprenderlo dobbiamo approfondire il rapporto che passa tra l’usuraio e le sue vittime.
L’usuraio non ha interesse ad uccidere le sue vittime, ma a succhiargli il sangue, a
torturarle con ogni mezzo per costringerle a vendere tutti i propri beni. Gli presta ancora
del denaro quando la vittima non onora i pagamenti, ma lo fa ogni volta chiedendo in
cambio tassi più alti fino alla consunzione delle persone che cadono nella sua rete. Questo
rapporto sadico e perverso è stato magistralmente espresso da Shakespeare nel “Il
mercante di Venezia”. Come è noto, Shylock, l’usuraio, fa firmare ad Antonio, un armatore
in difficoltà, un contratto in cui se non restituisce i soldi, dovrà offrire all’usuraio una libbra
della sua carne. Quando si arriva al processo e gli amici di Antonio offrono a Shylock i
tremila ducati dovuti, l’usuraio li rifiuta e pretende che venga rispettato il contratto: ».
E’ quello che a preteso la troika (Commissione europea, Bce e Fmi) dal popolo greco. Non
ha pensato tanto a recuperare i denari prestati dalle banche e dalle istituzioni pubbliche,
quanto a tagliare la carne viva del corpo sociale, come pretendeva il personaggio
shakespeariano. L’odiosa punizione, il rituale sacrificale è stato imposto anche alla
Spagna e al Portogallo, ma non all’Italia che ha deciso di punirsi da sé per soddisfare la
sete di sangue dei padroni della finanza. Non è servito a niente: anche il nostro paese di
avvia sulla strada del default: il rapporto debito pubblico/Pil era a 118% quando è venuto il
turno del governo Monti, oggi è arrivato al 134%! Ed è sicuro che continuerà a crescere,
dato il deficit previsto per l’anno in corso si aggira intorno al 3% ed il Pil nella migliore delle
ipotesi arriverà ad un 0.8%.
In sostanza il nostro debito pubblico è insostenibile ed impagabile. Il programma che
prevede in venti anni di ridurre il rapporto debito/Pil al 60% è pura follia: si dovrebbero
tagliare ogni anno 50 miliardi dalla spesa pubblica. Come se ne esce ? Come diciamo da
anni: attraverso una alleanza forte tra i paesi europei più indebitati, i cosiddetti Piigs, per
costituire una massa critica in grado di bilanciare lo strapotere tedesco del governo delle
larghe intese che vorrebbe continuare a dettare legge nella Ue. E’ quello che ci insegna la
storia delle vittime dell’usura: solo quando si ribellano, si uniscono, non hanno più paura
dell’usuraio e riescono a riacquistare il diritto a vivere.
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del 16/04/14, pag. 17
Gru, trivelle e i 31 siti del petrolio La partita
dietro il voto in Algeria
Bouteflika malato, ma il regime ha in mano le chiavi del rilancio
DAL NOSTRO INVIATO ALGERI – Meglio guardare alle gru e alle trivelle, anziché ai
manifesti e ai comizi, per cercare di cogliere l’importanza delle elezioni presidenziali in
Algeria. Il capo dello Stato Abdelaziz Bouteflika, anziano (77 anni) e malato (ictus nel
2013) domani, 17 aprile, otterrà dalle urne il suo quarto mandato. Ma davanti a sé e al suo
regime si potrebbe aprire una situazione di pericoloso stallo politico. Il popolo algerino,
dopo decenni di sonno profondo, comincia a dare qualche segnale di risveglio. Confuso,
contraddittorio, talvolta violento, ma comunque ancora senza un leader riconoscibile.
Forse non è più sufficiente il narcotico delle sovvenzioni e dei calmieri: 50 miliardi di
dollari, un quarto del prodotto interno lordo, distribuito a cittadini con stipendi medi di 200300 dollari al mese, ma che possono fare il pieno di benzina con 8 dollari e comprare per
un niente pane, latte, zucchero, olio. L’establishment, invece, è seduto su un tesoro da
190 miliardi di dollari: sono le riserve valutarie accumulate esportando idrocarburi in
Spagna, Italia, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, al ritmo di 65-70 miliardi di ricavi
all’anno. Il regime si regge su tre forze: il clan del presidente, l’esercito e i servizi segreti.
Bouteflika, l’erede dell’epopea indipendentista (il suo partito si chiama ancora Front de
Libération nationale) e il campione dell’anti terrorismo islamico, non è più la guida
indiscussa. Vincerà anche stavolta con percentuali plebiscitarie, gonfiate come sempre
dall’efficiente macchina del consenso, o come dicono gli oppositori, della frode
sistematica. In Algeria, 36 milioni di abitanti, non esiste un registro elettorale unico.
L’apparato del ministero è in grado di far votare qualcuno anche tre o quattro volte, per
esempio le 830 mila divise, tra soldati, poliziotti e altre forze di sicurezza. Domani sera le
fonti ufficiali indicheranno un’affluenza intorno al 50-60%, ma si stima che solo il 20-25%
degli elettori (conteggiati sommariamente mettendo insieme gli schedari locali) si
scomoderà per compiere una finta scelta: gli avversari del presidente sono outsider senza
seguito, con la sola eccezione dell’ex primo ministro di Bouteflika, Ali Benflis, 69 anni, che
pur di farsi notare è arrivato addirittura a evocare il ricorso alla violenza in caso di
sconfitta. Basta aspettare fino a venerdì.
Bisognerà, invece e più seriamente, tenere in conto l’azione di disturbo del «fronte del
boicottaggio» («no alle urne») che tiene insieme quel che resta dell’Islam politico, triturato
dalla repressione degli anni Novanta, e quel che viene avanti di un movimento laico e
modernizzatore per ora più presente su Facebook e Twitter che nelle piazze, come il
gruppo Barakat che significa Basta!
Posizioni coraggiose in un Paese quasi militarizzato, che lesina i visti di ingresso ai
giornalisti e agli osservatori internazionali. E largheggia con le facilitazioni agli uomini
d’affari. Tuttavia le vere preoccupazioni dei centri di comando sono concentrate altrove:
nell’attuazione dell’ambizioso piano di investimenti pubblici, già partito con il consueto e
nutrito corollario di corruzione e tangenti (coinvolta anche l’italiana Saipem). Strade,
trasporti pubblici, case, ospedali. Se ne vedono le tracce strisciando dentro il traffico
assurdo, lungo la strada che conduce all’aeroporto. A sinistra i cinesi stanno costruendo la
moschea più grande del mondo arabo (e chi meglio di loro?), superando quella di
Casablanca, in Marocco.
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Qualche chilometro più avanti, nella sede, anzi nella cittadella occupata da Sonatrach, la
compagnia petrolifera nazionale, i tecnici stanno definendo la mappa delle nuove
esplorazioni petrolifere. Trentuno siti da setacciare nell’immenso deserto partendo dalla
linea segnata da Hassi R’mel e Hassi Massoud e scendendo verso sud. Le multinazionali
già presenti nell’area, da Eni a British Petroleum, dalla spagnola Repsol all’americana
Conoco hanno iniziato quella che è forse la vera campagna elettorale in corso nel Paese.
In gioco ci sono commesse per diversi miliardi di dollari, ma soprattutto posizioni
geostrategiche su cui scommettere. L’Italia importa dall’Algeria il 33% del suo fabbisogno
di gas. Il governo di Roma, dunque, e il nuovo vertice dell’Eni si troveranno davanti un
dossier di importanza capitale e dovranno guardarsi soprattutto dall’attivismo degli
spagnoli.
Il regime algerino, invece, vuole stabilità prima ancora che la continuità del mandato di
Bouteflika. Gli alti gradi dell’esercito hanno fatto pressione per l’avvicendamento, ma il
clan del presidente non ha ceduto e si è impegnato in una surreale campagna senza la
presenza fisica del candidato. E’ probabile che il confronto nella cupola del potere
riprenderà non appena saranno richiuse le urne. Con discrezione e tra un affare e l’altro
con le società straniere.
Giuseppe Sarcina
Del 16/04/2014, pag. 15
Rivolta nel polo che rifornisce le multinazionali La protesta nel 25esimo
della scintilla di Tienanmen
Schiavi delle scarpe Via al maxi-sciopero e
ora Pechino trema
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO Migliaia di operai si sono fermati ieri nel distretto industriale di Dongguan e in
tutta la Cina sono scattate misure di sicurezza straordinarie. Ad allarmare la leadership,
non solo lo sciopero più vasto da molti anni nel Guangdong, cuore dell’export globale. Le
autorità hanno mobilitato esercito e polizia perché quello di ieri, per i cinesi, non era un
giorno qualsiasi. Il 15 aprile 1989 morì Hu Jiaobang, che due anni prima era stato costretto
a dimettersi da segretario generale del partito comunista. Il delfino di Deng Xiaoping fu
stroncato da un infarto, ma tutti collegarono la sua morte all’espulsione dal politburo, a
causa delle aperture ai giovani che invocavano riforme democratiche. Nel giorno del
funerale, il 22 aprile, migliaia di universitari invasero piazza Tiananmen e rimasero davanti
alla Città Proibita fino alla notte del 4 giugno, data tragicamente entrata nella storia del
mondo. Venticinque anni dopo, l’anniversario di Hu Jiaobang, scintilla da cui partì
l’incendio delle proteste represse nel sangue a Pechino, ma non nell’Urss e nell’Europa
orientale, in Cina resta un tabù. Perfino la foto dell’ex presidente Hu Jintao, nei giorni
scorsi in visita ai famigliari del leader-simbolo dei riformisti, è stata censurata su Internet e
media di Stato. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza ancora esplosiva, i vertici del potere
sono in fibrillazione e le forze dell’ordine hanno ricevuto l’ordine di blindare la nazione.
Famigliari delle vittime di Tiananmen, dissidenti e sopravvissuti alle cariche di allora, sono
già isolati, messi sotto controllo, o trasferiti con la forza lontano dalla capitale.
E’ a causa di questo clima di repressione preventiva che lo sciopero di Dongguan, in una
data ad alta sensibilità politica, ha fatto temere ai dirigenti comunisti lo scoppio di
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simboliche proteste di massa anche nel resto del Paese. A fine febbraio la metropoli
industriale del Sud, vicina a Shenzhen e a Hong Kong, è già stata scossa dall’operazione
“Spazzare via il giallo” ordinata dal presidente Xi Jiping. Nel mirino 300 mila prostitute del
più grande mercato a luci rosse del pianeta, primo business della regione. Era insorta
l’intera città, preoccupata che i sigilli ai bordelli avrebbero messo in ginocchio l’economia.
Questa volta a ribellarsi sono invece gli operai della Yue Yuen, colosso mondiale delle
scarpe con proprietà a Taiwan, come la vicina Foxconn, gigante dell’elettronica nota come
«la fabbrica dei suicidi ». Diecimila dipendenti su 60 mila hanno bloccato due dei dieci
stabilimenti per denunciare condizioni di lavoro disastrose e il mancato pagamento dei
contributi per sanità, casa e pensione. E’ il nervo scoperto della Cina di oggi: oltre 400
milioni di operai migranti, privi di welfare perché la legge lo assicura solo nel luogo di
nascita. A innescare la rivolta, l’ennesimo infortunio di un giovane operaio. Cui Tiangang,
simbolo dello sciopero, solo dopo il ferimento in reparto ha scoperto che l’azienda non
versava l’extra per assicurarlo. Il governo da mesi promette di riformare l’odiato istituto
dell’ hukou, ma si scontra contro funzionari locali e industriali, che non vogliono costi
aggiuntivi. Ieri migliaia di persone hanno marciato per le strade chiedendo «assistenza»,
«casa» e le condizioni per ricongiungere le famiglie, esplose con l’urbanizzazione
forzata. Per arginare le manifestazioni sono intervenuti reparti speciali della polizia e cani
anti-sommossa: decine gli operai che hanno denunciato «pestaggi e torture», non
verificabili. I vertici della Yue Yuen per tutto il giorno si sono rifiutati di trattare, ma la
pressione di partito e mercato globale a tarda sera sembra aver aperto un varco alle
trattative. La multinazionale, che ha stabilimenti anche in Vietnam, Indonesia, Messico e
Usa, produce le scarpe sportive per i marchi più famosi, tra cui Adidas, Nike, Puma,
Reebok, New Balance, Timberland, Asics e Crocs. Lo sciopero degli operai di Dongguan,
dove si cuciono 300 milioni di scarpe all’anno, rischia di lasciare scalzo l’Occidente. A
poche settimane dal 4 giugno, per Pechino il pericolo è però prima di tutto arrivare
all’anniversario di Tiananmen con una Cina che cresce sempre meno, in rivolta contro la
corruzione dei dirigenti e percorsa da rinnovate tensioni sociali. La saldatura tra dissenso
politico e rivolte operaie: un’opposizione che i successori di Mao sono decisi ad impedire,
ancora una volta a qualsiasi prezzo.
Del 16/04/2014, pag. 14
Area insicura, chiusa Abu Ghraib
Era da qua che i militari statunitensi spedivano le loro personali cartoline dall’inferno:
immagine scattate con i telefoni cellulari, corpi nudi, offesi, denigrati a far da sfondo al
sorriso dei vincitori. Le autorità irachene hanno chiuso Abu Ghraib, la prigione tristemente
nota per gli abusi commessi dal regime di Saddam Hussein e dalle forze americane
durante l’occupazione dell’Iraq. Il ministero della Giustizia ha motivato la decisione con
problemi di sicurezza nella zona occidentale di Baghdad, dove si trova il penitenziario. «Il
ministro della Giustizia ha annunciato la chiusura completa della prigione centrale di
Baghdad e il trasferimento dei detenuti in collaborazione con i ministri della Difesa e della
Giustizia», si legge nel comunicato diffuso on line, in cui si precisa che sono 2.400 i
prigionieri trasferiti in altre strutture nel centro e nel nord del Paese. «Il ministero ha
adottato questa decisione nell’ambito delle misure preventive collegate alla sicurezza delle
prigioni», ha detto il ministro Hassan al-Shammari, ricordando come Abu Ghraib si trovi
«in un’area calda». Non è chiaro al momento se la chiusura del carcere sia temporanea o
definitiva. Tra le mura di Abu Ghraib si stima che siano stati uccisi circa 4000 detenuti,
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sotto il regime di Saddam. Ma il carcere deve la sua triste notorietà soprattutto agli abusi
commessi dai militari americani a partire dal 2003, quando nella speranza di sradicare la
resistenza venivano rastrellati quartieri interi, procedendo ad arresti indiscriminati. Chi
finiva dentro con la presunzione di terrorismo - e bastava trovarsi nel posto sbagliato al
momento sbagliato - subiva torture e umiliazioni sistematiche, il cui scopo era
essenzialmente la raccolta di intelligence. Nel luglio scorso il carcere è stato attaccato da
miliziani insieme ad un’altra prigione. In quell’occasione vennero liberati centinaia di
detenuti, inclusi diversi ribelli. Decine le vittime tra carcerati e personale di sicurezza. È
stata l’evasione di massa a spingere il governo iracheno a cercare una soluzione
alternativa. L’area in cui si trova la prigione, nella zona ovest di Baghdad, è infatti
estremamente pericolosa ed ha registrato nel 2014 più di 2.550 vittime. La struttura si
trova in una località «isolata », alle porte della provincia di Anbar, dominata dai sunniti,
dove proseguono gli scontri fra lo «Stato islamico dell’Iraq e del Levante» e le forze
governative.
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INTERNI
del 16/04/14, pag. 2
Il fantasma del bonus
Roberto Ciccarelli
Austerità. Stasi, incertezze sui fondi e oscuri presagi sui conti in vista di
venerdì, quando il Cdm varerà «la quattordicesima» promessa da Renzi.
Bankitalia esprime dubbi sulle coperture della spending review per
sostenere gli 80 euro del taglio Irpef. Per l’Istat in busta paga
arriveranno al massimo 65 euro al mese
Il governo si avvia a varare venerdì il decreto sugli 80 euro al mese in busta paga senza
coperture mentre 10 milioni di italiani non riceveranno 960 euro promessi in un anno, ma
tra 451 e 796 euro, 40–65 euro netti al mese, a seconda del loro reddito da lavoratori
dipendenti. È stata questa la valutazione del presidente dell’Istat Antonio Golini durante
l’audizione di ieri davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato. Le commissioni
hanno ascoltato anche il vice-direttore Luigi Signorini di Bankitalia e il presidente della
Corte dei Conti Raffaele Squitieri che hanno sollevato una fitta nebbia di dubbi e
incertezze sulle promesse elettorali sul bonus di Matteo Renzi e segnalano il difficile
passaggio che in queste ore sta affrontando il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Le maggiori perplessità sono state espresse dalla Banca d’Italia secondo la quale i
risparmi della spending review non basterebbero a finanziare la «quattordicesima»
promessa al ceto medio impoverito. Oltre allo sgravio dell’Irpef, Renzi deve evitare
l’aumento delle entrate e trovare la copertura per le spese correnti. Bankitalia ha fatto
queste cifre: 3,7 e 10 miliardi rispettivamente per il 2015, 2016 e 2017 da adottare se la
revisione della spesa non desse risultati sufficienti. Già dal 2015 i soldi presi dai tagli di
Cottarelli non basteranno per tenere i conti in ordine.
Quanto all’altro pilastro di questa strategia sono le privatizzazioni. Bankitalia è stata
impietosa e giudica «ambiziosa» l’idea del governo di ottenere uno 0,7% di Pil dalle
privatizzazione degli asset statali per i quali lunedì Renzi ha nominati i vertici in accordo
con Berlusconi. La valutazione di via Nazionale fa tremare i polsi, rivela le velleità attuali
del governo e instilla un timore per il futuro. «Negli ultimi 10 anni gli importi da dismissioni
mobiliari sono stati pari a 0,2 punti di Pil in media l’anno».
Bankitalia rilancia tuttavia l’idea di «un rapido e preciso programma di dismissioni»
seguendo l’idea dell’«austerità espansiva»: più tagli alla spesa e alle proprietà pubbliche
per finanziare una crescita che la stessa banca centrale giudica molto fragile. Prendendo
per buone le stime del governo: lo 0,8% contro il 3,6% della crescita globale. Ma la
percentuale rischia di essere inferiore ed è escluso produca maggiore occupazione come
ha confermato ieri l’Ocse. L’occupazione in Italia è circa 10 punti più bassa degli altri
paesi: il 55,5% contro il 65,3%. Peggio di noi stanno solo la Grecia, Spagna e Turchia.
Contro la disoccupazione occorrebbe una «crescita robusta e duratura» e tagli strutturali
della spesa pubblica. Un incastro difficile da ottenere oggi. Una richiesta avanzata anche
dal presidente della Corte dei Conti Raffaele Squitieri secondo il quale la revisione della
spesa non dev’essere «ispirata da esigenze di copertura finanziaria, ma devono basarsi
su una chiara strategia di governo della spesa.
Cresce la tensione in vista dei tagli strutturali al debito pubblico stabiliti dal Fiscal Compact
che entrerà in vigore dal 2016, obbligando il governo a tagliarlo di un ventesimo all’anno:
50 miliardi di euro fino al 2036. La crescita anemica, il bonus elettorale degli 80 euro,
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l’incertezza delle coperture mettono a rischio questo impegno. L’Italia dovrebbe passare
dal 134,9% di debito pubblico nel 2014 al 120% del Pil entro il 2018. Nel Def il governo ha
inoltre previsto il rinvio al 2016 del pareggio strutturale del bilancio, ma per farlo avrà
bisogno della maggioranza assoluta in Parlamento e di una valutazione aggiuntiva dalla
Commissione Ue. «Questa richiesta di deroga – ha aggiunto Squitieri – non sembra
inconciliabile con le indicazioni europee».
Ieri tutta la destra, a cominciare da Renato Brunetta (Forza Italia) si è fiondata sul governo
urlando contro le promesse con le gambe corte di Renzi, al quale non resta altro che
trovare solide coperture per il suo progetto di «austerità espansiva».
Quanto alla sinistra sindacale e Pd, ieri impegnata al congresso Spi-Cgil, non è
intervenuta sulle previsioni fatte in parlamento. Susanna Camusso per la Cgil, e Gianni
Cuperlo per la minoranza Pd si sono augurati l’estensione degli 80 euro per «i pensionati e
gli incapienti». Il ministro dell’Interno Alfano promette il bonus anche alle partite Iva con
reddito inferiore a 25 mila euro e senza dipendenti. Vedremo con quali risorse.
Stasi, incertezza e oscuri presagi che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Del
Rio cerca di evitare. Per lui i tagli alla scuola, che stanno allarmando tutti, consisteranno
nel risparmio sui contratti di servizio con i fornitori e promette di usare il bisturi per tagliare
la spesa sanitaria da 1,5 miliardi.
Del 16/04/2014, pag. 6
LA GIORNATA
Il Cavaliere fa i conti con l’implosione forzista e il rischio di diventare
terzo partito Iniziato ieri a Palazzo Madama l’esame del testo per
l’abolizione del Senato
L’allarme di Berlusconi “Bisogna cambiare
l’Italicum” Renzi frena: “Non si vota ora”
ROMA .Sarà pure una coincidenza ma l’effetto Renzi-Berlusconi, il patto sulle riforme
rinnovato lunedì sera a palazzo Chigi, ha subito prodotto un’accelerazione nei lavori di
palazzo Madama. L’iter del disegno di legge costituzionale è finalmente partito in
commissione e Forza Italia, che aveva iscritto alla discussione tutti i propri senatori ne ha
cancellati cinquanta, segno che rinuncia all’arma dell’ostruzionismo. Così l’obiettivo di
Renzi di arrivare al primo sì entro il 25 maggio si avvicina e il ministro Maria Elena Boschi
può salutare il risultato: «L’accordo con Forza Italia tiene ed è stato confermato. Ora
possiamo procedere speditamente».
Certo, resta un’area importante di dissenso dentro al Pd che nemmeno la riunione dei
senatori dem (la quinta sulle riforme) ha potuto obliterare del tutto. Ma i numeri si stanno
assottigliando. Nell’assemblea Vannino Chiti, presentatore del ddl alternativo a quello del
governo, ha insistito sull’eleggibilità dei futuri senatori. Messo ai voti il voto il testo del
governo è risultato largamente maggioritario: 53 sì, 11 no e 4 astenuti (in totale i senatori
Pd sono 107). A dar man forte alla minoranza interna è arrivato Massimo D’Alema che a
Porta a porta ha criticato la “coppia” delle riforme: «Berlusconi e Renzi non fanno parte del
Parlamento. Sulle regole della democrazia il Parlamento deve potere intervenire
migliorando, discutendo e correggendo con libertà i testi». Sui tempi di approvazione resta
comunque l’incognita dell’ostruzionismo grillino. L’obiettivo di Anna Finocchiaro è quello di
adottare un testo base entro il 29 aprile, a costo di avanzare a tappe forzate. «Ognuno —
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ha detto la presidente della prima commissione — deve avere il tempo di esprimere la
propria opinione ma ciò non deve trasformarsi in manovre per dilazionare i tempi». Boschi
conferma che si lavorerà anche in seduta notturna, compresa la settimana di Pasqua, per
adottare un testo base.
«Spero anche prima del 29 aprile e spero sia quello del governo».
«Tanto non si vota ora, non c’è da preoccuparsi». Per tenere vivo l’accordo sul Senato nei
tempi previsti, ovvero entro il giorno delle Europee, Matteo Renzi ha dovuto tranquillizzare
Berlusconi sulla legge elettorale. Che così com’è, con Forza Italia in caduta libera, piace
meno di due mesi fa dalle parti di Arcore. Il Cavaliere dunque preferirebbe prendere
tempo, non “correre” troppo, verificare prima il risultato del 25 maggio e vedere dove si
ferma il declino di Fi per capire se la formula del ballottaggio è ancora valida. Non è più
detto che sia il centrodestra il primo o il secondo polo. Se diventa il terzo, l’Italicum non è
più una legge conveniente. Le parole di Renzi sono state interpretate da Berlusconi come
la garanzia di non essere messo ai margini delle riforme anche in caso di ripensamento.
Non significano però che il premier abbia cambiato idea su una scaletta immaginaria che
fissa a giugno l’approvazione definitiva della norma sul voto. «Il dato delle
Europee — ha spiegato nella notte del vertice — non può essere paragonato a quello
delle politiche. Grillo non ha la capacità di creare una coalizione. La destra, sì. E sono le
coalizioni a correre per il voto politico ». Renzi dice anche, raccontando ai collaboratori
l’esito del colloquio, che «i sondaggi non possono condizionare le riforme». Insomma,
l’Italicum non deve saltare. L’intenzione del governo è non mancare alla promessa di
costruire l’architettura istituzionale con l’opposizione. Ma uno stop vero e proprio è difficile
da immaginare. «Berlusconi non conti sulle divisioni del Pd. I numeri ce li abbiamo, com’è
avvenuto alla Camera la legge può passare anche a Palazzo Madama». Fra l’altro, la
novità delle ultime settimane è la «profonda sintonia» creata nell’esecutivo con Angelino
Alfano. «Ncd sarà meno bellicosa di quanto si è visto a Montecitorio. Non farà più le
barricate. I loro voti sono blindati, stavolta».
Berlusconi è stretto tra la pena da scontare ai servizi sociali, il margine di manovra ridotto
e il crollo del suo partito. Aspetta il 25 maggio come la data della resa dei conti. Non
chiede la cancellazione del patto sulla legge elettorale. Ma il tempo di verificarne l’utilità
alla luce dei voti presi nelle urne. A quel punto, se l’esito per Fi, fosse disastroso, la
resistenza dei berlusconiani potrebbe saldarsi con i dissensi del Partito democratico. La
minoranza del Pd, con Bersani e D’Alema, ha fatto capire che lascerà via libera sul Senato
e il Titolo V, ma darà battaglia contro l’Italicum. Stavolta senza più il condizionamento
legato alle Europee e all’affermazione del Pd. «Oggi il piatto è questo - è stata la risposta
di Renzi l’altra sera - e non dimenticate che nel nostro accordo abbiamo escluso le
preferenze e la parità di genere. Sono clausole che io sono in grado di rispettare, ma che
mi pare siano in cima alla lista dei vostri paletti». Un avvertimento. L’ex sindaco dunque
non sembra intenzionato a rinunciare alla legge elettorale, magari votandola in tempi
meno brevi del previsto ma nemmeno allungati all’infinito. È la sua polizza assicurativa sul
governo, è lo strumento con cui far avanzare il suo progetto avendo in mano l’ipotesi di
elezioni anticipate. Ed è anche quello che gli ha chiesto Giorgio Napolitano. Ogni ritardo o
leggero slittamento può diventare una bomba a orologeria sotto il cammino delle riforme. Il
presidente della Repubblica chiede al governo, alla maggioranza e ai partiti
dell’opposizione di arrivare alla fine del cammino, stavolta. È esattamente lo stesso
obiettivo di Renzi. Che intanto incassa il passo rapido sulla riforma del Senato confermato
dal ritiro di tutti gli emendanti forzisti, ieri mattina. Poi, dopo il 25 maggio, si vedrà.
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Del 16/04/2014, pag. 10
LA GIORNATA
Borsa delusa dalle nomine e nella scelta dei
consigli entra il manuale Cencelli
Molti renziani, una pattuglia di alfaniani, più minoranza Pd Napolitano:
nessun mio intervento sulle decisioni del governo
ROMA . Le nomine per le aziende pubbliche non superano la prova con la Borsa. A
Piazza Affari il titolo di Finmeccanica ha chiuso a — 5,22 per cento, quello dell’Enel a —
2,39 per cento, quello dell’Eni a — 0,38 per cento. È chiaro che le incertezze riguardano
soprattutto il futuro strategico della holding della difesa e dell’aeronautica dove approderà
Mauro Moretti proveniente dalla Ferrovie. Gli analisti ritengono, invece, che ci sia
continuità con la staffetta all’Eni tra Paolo Scaroni e Claudio Descalzi e non hanno
penalizzato più di tanto il titolo del “Cane a sei zampe”. Qualche dubbio, in particolare sul
possibile rallentamento del piano industriale, emerge sull’Enel guidata da Francesco
Starace. Ora si apre la partita per la successione a Moretti: in pole position ci sarebbe
Domenico Arcuri ad di Invitalia, ma se la scelta dovesse esser fatta all’interno il nome più
gettonato è quello di Michele Maria Elia. Ieri è arrivata la promozione dei due quotidiani
finanziari più influenti sulle piazze internazionali: il Financial Times che sulla sua versione
on line ha parlato del «massacro della vecchia guardia italiana», e il Wall Street Journal
che ha sottolineato le scelte fatte secondo criteri «di trasparenza e merito». Il Quirinale ha
smentito qualsiasi intervento del presidente della Repubblica sul terreno delle nomine che
invece alcune ricostruzioni di stampa gli avevano attribuito. Il Colle le ha definite
«ricostruzioni fantasiose». «Nessun intervento del genere si è verificato, in quanto le
responsabilità di decisione proprie del governo sono state pienamente rispettate». C’è un
giallo che riguarda le liste del Tesoro per i consigli di Eni e Enel. Sono state invertiti due
nomi: Andrea Gemma è candidato per il cda di Enel anziché Eni, e Salvatore Mancuso
all’Eni e non all’Enel. Poiché si tratta di due candidati collocabili nell’area dell’Ncd c’è il
sospetto che non possa essere stato solo «un errore materiale» come si sono giustificati
da Via XX settembre. Sull’indicazione delle donne alle presidenze, a parte quella di
Finmeccanica dove è stato confermato Gianni De Gennaro, è tornato il segretario della
Cgil, Susanna Camusso, che ha apprezzato la scelta anche in relazione al tetto degli
stipendi. Che però non si applica agli amministratori delegati (uomini) mentre vale per i
presidenti. «E casualmente — ha detto Camusso — tutte le donne sono presidenti».
del 16/04/14, pag. 1/15
Imprese pubbliche, interessi privati
Tommaso Nencioni
«In Italia – sosteneva il grande liberale Ernesto Rossi – esiste un solo grande partito
organizzato, ed è quello della Confederazione generale dell’Industria». Passata la nottata
della Prima Repubblica, durante la quale il potere di questo partito, se non totalmente
ridimensionato, era stato comunque conteso, agli albori della Terza esso torna a
dispiegare in pieno il suo potere.
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In pieno conflitto di interessi (una categoria ormai patentemente demodé) un suo
esponente di spicco, ancorché “rosa”, siede al ministero dello sviluppo. Più in generale,
nessuno più si sogna di contestare la centralità dell’impresa nello sviluppo del paese: ciò
che va bene per le aziende va bene per l’Italia, è il refrain dominante, refrattario ad ogni
smentita della logica. La ciliegina sulla torta l’ha ora aggiunta il governo Renzi, con la
nomina dell’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ai vertici della più
importante azienda pubblica del paese, l’Eni.
Tralasciamo il dato di fatto, di per sé sconcertante, dell’intrico affaristico-giudiziario che
pesa sulla nomina. Il punto centrale è che questa vera e propria invasione di campo da
parte del Partito unico della Confederazione degli industriali, pur ingentilito dalla maschera
della quota rosa, dovrebbe far riflettere ciò che resta della sinistra sul rapporto esistente
tra impresa pubblica ed interesse privato. Se analizzata in questa luce, la nomina di
Marcegaglia costituisce un vero e proprio schiaffo nei confronti della storia della sinistra
italiana.
La Repubblica ereditò dal crollo del fascismo un sistema articolato di imprese pubbliche,
che il regime aveva pezzo a pezzo costituito in maniera disorganica, quasi obtorto collo, in
seguito ai grandi crack che coinvolsero anche il nostro sistema produttivo nel corso della
Grande Depressione. Già durante il primo quinquennio repubblicano le sinistre dettero
battaglia non tanto per difendere, quanto per ampliare le prerogative del sistema delle
Partecipazioni Statali, e indirizzarle a fini di sviluppo equilibrato sul territorio. Da par suo,
parte consistente del mondo industriale e finanziario italiano, con solidi addentellati
all’interno del gruppo dirigente democristiano (oltre che nel Partito liberale), vedeva di
buon occhio invece lo smantellamento del sistema, potendosi permettere oltretutto,
considerate le sue origini, di ammantare la propria battaglia di un antifascismo invero
superficiale. Se il fascismo era stato statalista – era l’argomentazione di Angelo Costa e
dei suoi corifei – la Repubblica non poteva che nascere liberista.
Perduta la battaglia per lo smantellamento dell’industria pubblica, certo per l’opposizione
delle sinistre, ma anche in seguito al revirement che la generazione fanfaniana di dirigenti
dc impresse in questa materia al partito cattolico, i gruppi dirigenti tradizionali condussero
una sotterranea opera di subordinazione agli interessi privati del sistema delle
partecipazioni statali. In settori decisivi quali, fra tutti, la chimica e l’estrazione, a fare da
padroni nel dettare gli indirizzi alle aziende pubbliche furono i grandi interessi
monopolistici, Fiat, Edison e Montecatini in testa.
Il vento mutò con l’approssimarsi, e poi con l’effettiva realizzazione, del centro-sinistra. Nel
campo del movimento operaio, della democrazia laica e dello stesso partito cattolico,
personalità come Riccardo Lombardi, Ugo La Malfa e Giulio Pastore festeggiarono come
una vittoria lo scorporo dalla Confindustria delle aziende controllate da Iri ed Eni (1957),
una misura vista come fumo negli occhi dall’establishment industriale e finanziario del
Paese, che vi si oppose con la nobilitante copertura dell’allora presidente della Banca
d’Italia Guido Carli. Fu lo stesso conglomerato che, a distanza di pochi anni, si oppose
fieramente (ma invano) alla nazionalizzazione delle aziende erogatrici di energia elettrica,
e che riuscì a sventare la messa in campo di una moderna regolamentazione dello
sviluppo urbanistico.
Ma cosa c’era alla base di quella battaglia “statalista” condotta dalla sinistra? In una Italia
povera di capitali, era il ragionamento, e condizionata da un modello di sviluppo che, se
lasciato al libero gioco del mercato, avrebbe inesorabilmente aumentato il “dualismo” tra
aree progredite ed aree sottosviluppate del paese, l’iniziativa pubblica appariva decisiva
per imprimere diverse modalità di crescita agraria ed industriale alla penisola nella sua
interezza. In questo panorama, il ruolo delle aziende pubbliche era visto come
necessariamente – non ideologicamente – confliggente con l’interesse privato. Lo Stato
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dunque, agendo da imprenditore, era chiamato, più che a supplire temporaneamente alle
deficienze dell’industria privata, o ad agire in funzione ad essa ancillare, ad operare in
maniera diretta ed autonoma per superare le storture di lungo periodo del nostro apparato
produttivo.
Riflettendo sui casi nostri degli ultimi vent’anni, c’è da ripensare a quanto ancora rimane di
valido in quello schema interpretativo e nella proposta politica che lì traeva le proprie
scaturigini. Ora che il fallimento dell’ondata privatista è sotto gli occhi di tutti, c’è da
pensare che i gruppi dirigenti, che quell’ondata si sono dimostrati incapaci di cavalcare,
siano più che altro interessati a subordinare a fini privatisti ciò che di sano rimane nel
nostro apparato produttivo pubblico. La nomina di Marcegaglia va inesorabilmente in
questa direzione.
Il rilancio della proposta politica della sinistra, invece, passa anche dalla riproposizione, in
un quadro certo mutato, di un intervento pubblico svincolato da fini particolaristici, e teso
alla definizione di un nuovo ed alternativo modello di sviluppo.
del 16/04/14, pag. 3
Moretti e Pansa, i gattopardi di Palazzo Chigi
Giorgio Airaudo, Giulio Marcon
«Tutto cambi perché nulla cambi». Le nomine del gattopardo di palazzo Chigi hanno
quella spolverata di novità di genere, unico fatto apprezzabile anche se circoscritto alle
presidenze delle società pubbliche, ma quando si passa dai generi ai cognomi si rintraccia
il profilo noto di quelle dinastie imprenditoriali nazionali, si premia l’establishment
economico privato che in questi anni non ha sempre dato buona prova di attaccamento
all’interesse collettivo e a visioni innovative dei prodotti e nei rapporti di lavoro si premiano
mission industriali che hanno avuto più a cuore i profitti che il lavoro, gli investimenti, la
competitività del nostro sistema, speso godendo di commesse anche pubbliche. E che ci
ripropongono in contemporanea nomine e licenziamenti, come accade in questi giorni in
Marcegaglia, che chiude lo stabilimento di Milano con i suoi 169 lavoratori.
Colpisce in particolare l’attenzione che viene dedicata alla nomina di Moretti a
Finmeccanica. Non si può non ricordare che la gestione Moretti alle ferrovie ha significato
il sacrificio del trasporto ferroviario pubblico locale. Una visione del sistema ferroviario
centrato su poche tratte redditizie legate all’alta velocità, con l’impegno vorace di risorse
per infrastrutture che impegnano il territorio, immobilizzano spesa e in alcuni casi hanno
alimentato sistemi corruttivi su cui sta indagando la magistratura. Tutto questo in una
gestione che ha ridotto i costi, con un peggioramento dell’occupazione e delle condizioni di
lavoro nelle ferrovie. Oggi si consegna Finmeccanica a un presidente come De Gennaro e
a un Ad come Moretti che non hanno nei loro profili e nelle loro storie personali le
competenze utili per governare questa impresa che è più internazionale, più complessa e
articolata delle Ferrovie e che forse richiederebbe più un team che “un solo uomo al
comando”, come è nelle caratteristiche dell’ex Ad delle ferrovie.
Inoltre a Finmeccanica, che ha subito nella gestione Pansa una concentrazione sul
militare a scapito del civile, servirebbe, prima dell’Ad, un piano industriale che rilanci
quest’ultimo a partire da Fincantieri, passando per le possibilità che può offrire al paese
Ansaldo Energia sullo sviluppo di tecnologie per le Smart City fino alla riorganizzazione di
un polo per la produzione del materiale ferroviario e per il segnalamento con Sts che
salvaguardi la Breda, oggi a rischio di svendita e ridimensionamento occupazionale e
ricostituisca una produzione di bus pubblici, come ha chiesto anche tutto il parlamento
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italiano con una mozione promossa da Sel, riunificando la Menarini e la ex Irisbus Fiat.
Moretti affronterà questo cambio di strategia o confermerà la sua fama di riduttore di costi
e di razionalizzatore. In queste nomine non c’è una visione e un progetto di politica
industriale e del ruolo delle società pubbliche nel guidare e sostenere una politica di
investimenti, salvaguardando il nostro patrimonio industriale, rilanciando l’economia per
tutelare e sviluppare l’occupazione più di quanto quanto farà qualunque provvedimento sul
mercato del lavoro, come il decreto Poletti in discussione in queste ore alla Camera, che
aumentando la precarietà a scapito del lavoro a tempo indeterminato lascia soli e precari i
lavoratori responsabili unici di offrirsi al prezzo più basso sul mercato.
del 16/04/14, pag. 7
Province, taglio col trucco
Aumentano le poltrone
SORPRESA: LA LEGGE DELL’ABOLIZIONE APPENA APPROVATA
AVRÀ COME EFFETTO COLLATERALE CHE CI SARANNO PIÙ
CONSIGLIERI COMUNALI E ASSESSORI
di Tommaso Rodano
La grande infornata è pronta. Il "regalino" del sottosegretario Graziano Delrio sarà scartato
il 25 maggio, giorno delle elezioni amministrative che riguardano 4.106 comuni italiani (di
cui 3.908 appartenenti a regioni a statuto ordinario). Da quel giorno, in attesa di svuotare
le Province, il governo Renzi comincerà a gonfiare i piccoli Comuni. Il ddl Delrio prevede
l'incremento dei consiglieri e degli assessori eletti in tutte le cittadine e i paesi con meno di
10 mila abitanti. La prima tranche arriva con il rinnovo dei consigli comunali di fine maggio.
Le poltrone sono così distribuite: 13.488 nuovi seggi per consiglieri comunali, 2.612 per
assessori. L'opera sarà completata mano a mano che anche le altre città torneranno al
voto. Alla fine in Italia ci saranno circa 25mila consiglieri e 5500 assessori comunali in più.
LA RIFORMA riguarda proprio tutti. Anche i paesi con meno di 1000 abitanti. Figurarsi
quelli con meno di 100. Valerio Maxenti è il sindaco di Pedesina, il comune più piccolo
d'Italia: la bellezza di 33 anime, in una manciata di case stipate sulle pendici del Monte
Rotondo, in provincia di Sondrio. Con lo "Svuota province", il Comune non dovrà più
accontentarsi di 6 consiglieri (come stabilito dopo i tagli di Monti) ma potrà eleggerne fino
a 10 (con due assessori, prima erano zero). Il sindaco, artigiano del legno prestato al
servizio della sua cittadina, non benedice le nuove poltrone. Dei nuovi consiglieri non sa
che farsene: "Ne bastavano sei, non capisco perché il governo viene a rompere le scatole
pure qui". Oltretutto, sarà un caso, l'aumento delle poltrone ha portato la competizione
politica pure a Pedesina. Nel 2009 Maxenti era l'unico candidato, ora si parla di due, forse
tre liste (una ogni 10 abitanti!). "Vengono da fuori - si lamenta il sindaco - e lo fanno per
interessi personali". La lievitazione dei seggi di Delrio cancella la parsimonia del governo
Monti. Le manovre del professore del 2011 e 2012, in piena ansia da spread e spending
review , avevano tagliato i numeri dei rappresentanti dei piccoli comuni: al massimo 6 (e
senza assessori) per i centri con meno di 1.000 abitanti, al massimo 10 (e non più di 3
assessori) per quelli con più di 5000 e meno di 10.000 abitanti. La riforma di Delrio
semplifica e moltiplica. Solo due categorie per i piccoli comuni: meno di 3.000 e meno di
10.000 abitanti. I primi possono eleggere 10 consiglieri e 3 assessori, i secondi 12
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consiglieri e 4 assessori. Il risultato finale è nei numeri citati sopra. Oltre 30 mila poltrone
in più, per una riforma che Renzi aveva presentato con queste parole: "Dobbiamo dare un
segnale chiaro, forte e netto, con 3 mila posti per i politici in meno. Tremila persone
smetteranno di fare politica e proveranno l'ebbrezza di trovare un lavoro".
LE PROVINCE, come noto, non saranno abolite. Non prima, per lo meno, della riforma del
titolo V della Costituzione. Saranno cancellate le cariche elettive (i tremila posti politici a
cui si riferisce Renzi, tralasciando l'aumento degli altri) ma non le strutture di governo, che
conserveranno diverse funzioni. I nuovi consigli provinciali saranno eletti e composti dai
sindaci e i consiglieri dei comuni da loro rappresentati. Gli eletti, quindi, dovranno lavorare
sia per il comune che per la relativa provincia, con uno stipendio solo. La promessa del
governo, infatti, è che l'infornata di poltrone nei piccoli comuni non porti un euro di spesa
in più: ogni centro dovrà rivedere gli importi di indennità e gettoni. Difficile, però,
immaginare che un consiglio comunale con 6 dipendenti abbia le stesse spese di uno con
10 consiglieri e 2 assessori (non fosse altro che per la dimensione dei nuovi uffici e per
l'acquisto di beni e servizi per un numero maggiore di persone). L'impatto complessivo
della riforma, in ogni caso, non dovrebbe essere trascendentale: la Corte dei Conti ha
stimato i risparmi in non più di 35 milioni di euro.
del 16/04/14, pag. 1/4
Condannato all’aria aperta
Micaela Bongi
La sacra Famiglia di Cesano Boscone, o Cesàn Buscùn. Sarà questo il luogo simbolo del
tardo berlusconismo, l’età della decadenza. Che, è ufficiale, per il sovrano di Arcore
coinciderà per circa dieci mesi con l’affidamento in prova ai servizi sociali nella struttura
per anziani e disabili alle porte di Milano. Non sarà Villa Certosa o le Bermude, le Arcore’s
nights sono ricordi d’altri tempi. Dimenticare via Olgettina e le vacanze nella dacia sul Mar
Nero. Ora c’è Cesàn Buscùn.
Località non molto esotica, è vero. Ma se gli avvocati Coppi e Ghedini si dicono soddisfatti
il motivo c’è, ed è lampante. La condanna a 4 anni per frode fiscale, già alleviata dai tre di
indulto, per Silvio Berlusconi, soggetto ancora «socialmente pericoloso» ma secondo i
giudici sulla via del ravvedimento, si risolverà in 4 ore a settimana — in tutto 28 mezze
giornate — di «volontariato» presso l’istituto fondato nel 1896 da Domenico Pogliani,
sacerdote in odore di santità. Il che può anche essere letto come un incoraggiante segno
del destino per l’unto del signore ormai spogliatosi anche della carica di Cavaliere.
Gli incubi più neri, come la privazione totale della libertà agli arresti domiciliari, del resto
sono alle spalle. E l’agognata «agibilità politica» è garantita: sbrigati i suoi impegni con gli
anziani e gli altri ospiti della grande struttura, Silvio il volontario sarà libero di circolare in
Lombardia tenendo comizi e convention salvo starsene nella villa di Arcore dalle 11 di sera
alle 6 del mattino. E dal martedì al giovedì potrà lasciare la sua regione e raggiungere
Roma per gli impegni di partito e di campagna elettorale, anche a cena, volendo, ma
sempre con l’obbligo di passare la notte in casa e di tornarsene nell’abitazione di Arcore
per le 23 del giovedì. Con un apposito permesso, potrà anche circolare al di fuori dei
confini stabiliti. Nessun limite di orario per interventi telefonici, ad esempio in collegamento
con le tv.
Certo, al leader forzista qualche complicazione nella sua attività politica potrà derivargli da
un’altra prescrizione, quella di non frequentare pregiudicati (e tossicodipendenti). Ma
insomma, la «ferita inferta alla democrazia italiana» della quale continua a parlare
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imperterrita Maria Stella Gelmini si fa fatica a individuarla. E probabilmente lo stesso
sovrano azzoppato inviterà anche gli ultimi fedelissimi a evitare d’ora in avanti espressioni
azzardate come «golpe» oppure «persecuzione giudiziaria», dato che i giudici a lui hanno
vivamente sconsigliato di lanciarsi in «esternazioni offensive» contro le toghe, perché in
quel caso la musica cambierebbe: addio servizi sociali.
L’ex Cavaliere dovrà invece dimostrare la sua «volontà di recupero dei valori morali
perseguiti dall’ordinamento», mantenendo il suo comportamento «nell’ambito delle regole
della civile convivenza, del decoro e del rispetto delle istituzioni». Perché in passato,
osservano ancora i giudici, Berlusconi ha dimostrato invece una certa «insofferenza alle
regole dello Stato», e in effetti qualcun altro oltre alle toghe lo aveva notato. Ma ora
avrebbe riconosciuto la sua condanna, sempre secondo i giudici, anche perché ha versato
10 milioni di risarcimento all’Agenzia delle entrate e, appunto, ha accettato di aiutare gli
anziani. Anche se non esattamente di buon grado, però, se è vero quel che trapela dalla
cerchia dell’ex premier, dove viene descritto un Berlusconi comunque avvilito, mortificato,
lui che «con tutto quello che ho fatto per questo paese adesso devo passare per uno che
ha bisogno di essere rieducato». Lui che, appunto «insofferente» alle regole, ora dovrà
accettare il coprifuoco e gli spostamenti sotto controllo e i colloqui mensili con la
responsabile dell’Ufficio esecuzione penale esterna. Lui che ha sempre lottato con tutte le
sue forze e quelle dei suoi medici e chirurghi estetici contro l’avanzare dell’età, e ora dovrà
condividere parte delle sue giornate circondato dai vecchietti della Sacra Famiglia
subendo oltretutto altri sfottò che si aggiungeranno a quelli che già ampiamente gli hanno
riversato addosso i giornali e la rete. C’è chi nota che tutto sommato «cittadini meno
fortunati, meno ricchi e potenti per reati molto minori vanno semplicemente in prigione».
Ma a farlo è quel «barbaro, vigliacco, arrogante, livoroso» di Massimo D’Alema, tuonano
imbufalite le forziste Carfagna e Santanchè. E comunque in tanti sono pronti a
scommettere che Silvio saprà fare ancora una volta di necessità virtù, trasformando la
condanna in una ribalta che magari non lo porterà, come don Pogliani, alla santità, ma
magari a risollevare almeno un po’ le sorti del suo malconcio partito.
Per il momento, i responabili della Sacra Famiglia incrociano le dita, preoccupati dello
scompiglio che il famoso condannato potrà portare nella struttura. Ma cristianamente,
accoglieranno la pecorella smarrita. Che in una casa di cura che conta oltre mille ospiti,
circa ottocento dipendenti, venti reparti e edifici, un campo da calcio e uno da bocce,
laboratori di ceramica, falegnameria, bigiotteria e quant’altro, e pure un teatro e una
chiesa, sicuramente troverà anche il modo per non annoiarsi. Per il resto, ci saranno gli
amici a consolarlo. Anche se Gianfranco Rotondi non è ottimista: «Sono stato l’ultimo dei
democristiani, sarò l’ultimo dei berlusconiani. Di tutto il resto non garantisco, ormai nel
nostro giro la fedeltà è a orario, manco a giornata».
Del 16/04/2014, pag. 1-19
Gli altri calci ai manifestanti nuovo video
accusa i poliziotti
LA POLEMICA/ INDAGATO L’AGENTE CHE CALPESTÒ LA RAGAZZA
ROMA . Indagato per lesioni con l'aggravante dell'abuso di potere il poliziotto artificiere
accusato di aver infierito sulla coppia di manifestanti finiti a terra durante gli scontri di via
Veneto e tenuti fermi da un altro agente. «Credevo di aver calpestato uno zaino», ha
provato a difendersi. Ma spunta un altro video diffuso da Repubblica. itche documenta le
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violenze di un gruppo di agenti su un uomo disteso sull’asfalto con le mani a proteggersi il
viso dalle manganellate e dai calci.
Pestaggi in piazza, nuovo video-shock
Nel giorno in cui l’artificiere della questura che ha calpestato la manifestante viene
indagato per lesioni volontarie con l’aggravante dell’abuso di potere, spunta un nuovo
video shock, pubblicato da Repubblica.it, sulla violenza della polizia al corteo del 12 aprile:
tre poliziotti, in tenuta antisommossa, picchiano un ragazzo sdraiato in terra con le mani
sul volto a proteggersi dalle botte.
Calci allo stomaco, sulla schiena e poi colpi con lo sfollagente, impugnato al contrario, per
fare più male. «Non giustifichiamo chi va sopra le righe — dice Felice Romano del Siulp —
ma bisogna anche rendersi conto delle condizioni in cui lavorano gli agenti». Si riapre
dunque la caccia ai poliziotti violenti che, durante la manifestazione dei Movimenti per la
Casa, hanno avuto comportamenti sanzionabili, «cretini», per dirla col capo della polizia
Alessandro Pansa. Un’altra indagine interna della questura di Roma e della procura
dunque. A neanche due giorni dalle dichiarazioni dell’artificiere di 45 anni che, lunedì, si è
presentato negli uffici dove presta servizio, autodenunciandosi.
Le sue parole? «Sono io quello del video che calpesta la ragazza. Camminavo guardando
in alto, controllavo se arrivassero verso di noi bombe carta. Non mi sono accorto di nulla,
credevo di aver calpestato uno zainetto». Ma l’immagine è nitida: si vede l’agente in
borghese che si avvicina ai due ragazzi finiti a terra e tenuti fermi da un altro agente,
mentre calpesta violentemente il fianco destro della ragazza, Deborah che a Repubblica
ha detto: “Non posso perdonarlo”.
Il viceministro Bubbico: “È terribile gli agenti non possono picchiare
così”
ALBERTO CUSTODERO
ROMA . «Porca miseria. È terribile. È terribile. I responsabili devono essere puniti». Filippo
Bubbico, viceministro dell’Interno con delega alla Pubblica sicurezza, non aveva ancora
visto il video di un secondo pestaggio quando, ieri sera, ha ricevuto la telefonata di
Repubblica . Mentre era al telefono, ha commentato in diretta le immagini di «quel
poveretto a terra con la maglietta bianca» preso a manganellate in testa e a calci.
Stupefatto dalla violenza, non è riuscito a trattenere un «porca miseria!».
Viceministro, come commenta queste immagini?
«Non posso che essere indignato. Voglio esprimere il massimo dell’indignazione per
scene di questo genere».
Al di là dell’indignazione, come spiega i due episodi avvenuti a Roma, prima il
poliziotto che calpesta una manifestante, ora il pestaggio di un uomo a terra?
«Bisogna valutare le situazioni nelle quali i poliziotti lavorano, spesso sono
complicatissime, vivono anche sulla propria pelle pericolose aggressioni. Ma... ».
Ma?
«Ma la polizia deve agire diversamente, non può mai essere messa in discussione
l’integrità fisica delle persone. E la tutela dell’ordine pubblico comporta anche la capacità
di dominio e di controllo delle situazioni più complesse e complicate».
Come intendete comportarvi nei confronti dei responsabili di questa aggressione?
«Esattamente come nel caso del poliziotto che ha calpestato la manifestante. Prima va
accertata l’autenticità del filmato, poi dobbiamo individuare i poliziotti, alla fine delle
indagini nostre e della magistratura, dovremo essere determinati e rigorosi».
Per prevenire questi episodi di accanimento, non sarebbe il caso, finalmente, di
dotare i poliziotti dell’ordine pubblico del cartellino di riconoscimento?
«Si lo so, se ne parla spesso. Ci sono tante ragioni per sostenerne l’utilità, e altrettante per
l’esatto contrario. Questo argomento comunque va affrontato con i sindacati di polizia.
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Penso che i mezzi per riconoscere in queste situazioni i responsabili ci siano. E siano più
che sufficienti».
Il secondo video non può essere liquidato come risultato dell’azione di «un cretino»,
epiteto usato dal capo della Polizia Pansa. Non pensa che essendo coinvolti più
agenti, venga chiamata in causa la funzione della polizia negli interventi di ordine
pubblico?
«Penso che atti non giustificabili quali quelli che si sono verificati non possano e non
debbano compromettere la buona reputazione delle forze di polizia e delle tante persone
che con impegno e sacrificio fanno il loro dovere».
Sembrava di capire che con Renzi al governo, sarebbe arrivata una svolta anche
nella gestione delle manifestazioni di piazza. Questi fatti, che richiamano alla
memoria il G8, sembrano smentire simili attese.
«Non è una questione di svolte-Renzi. Queste sono cose che non devono mai accadere,
che non appartengono a uno Stato democratico, alla società civile propria del nostro
Paese. Episodi così non devono mai essere consentiti perché sono contro le norme e
contro le regole di ingaggio».
Sarete severi coi responsabili?
«Assolutamente sì. È interesse della stessa Polizia, del resto, mantenere alta la propria
buona reputazione di forze impegnate a garantire l’ordine, la sicurezza, i principi
democratici e la dignità della persona. Senza mai dimenticare che i manifestanti che
eccedono, procurando danni, devono essere responsabili dei loro atti e risponderne
penalmente».
Del 16/04/2014, pag. 20
L’ANALISI
Atto d’accusa della Cassazione sulle assoluzioni per la strage “Maggi e
Tramonte salvati da ipergarantismo distorsivo”
Piazza della Loggia “Ignorate le prove contro
i neofascisti”
BENEDETTA TOBAGI
MILANO . I neofascisti che si ritroveranno nuovamente imputati per la strage di piazza
della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia, che uccise otto persone, erano stati assolti per
un «ipergarantismo distorsivo». Lo spiega la Corte di Cassazione nelle 84 pagine di
motivazioni in base alle quali sono stati annullati i proscioglimenti per Carlo Maria Maggi,
ex Ordine Nuovo, e Maurizio Tramonte, che ora viene descritto come un «reticente» e
«intraneo» della destra eversiva, più che come un presunto infiltrato dei servizi. I due
tornano rinviati a giudizio come mandanti e forse anche come esecutori materiali della
strage a dispetto della sentenza di assoluzione del 2012 che, secondo i giudici supremi,
ha prodotto conclusioni «assolutamente illogiche ed apodittiche». Per la Cassazione sono
stati «sviliti» i numerosi indizi raccolti contro di loro, come il sostegno allo stragismo
eversivo di destra di cui Maggi, ad esempio, era un «propugnatore».
Secondo i giudici, un dato di fatto importantissimo, che muta il quadro indiziario, è che
«l’ordigno esplosivo sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e
Digilio, conservata presso lo Scalinetto». Le conclusioni assolutorie per Maggi sono,
secondo la Corte, «ingiustificabili e superficiali».
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LO SCORSO 20 febbraio, l’avvocato di parte civile Sinicato (un “veterano” dei processi per
strage celebrati a partire dagli anni Novanta), concludendo l’arringa all’udienza in
Cassazione per la strage di Brescia (undicesimo grado di giudizio), aveva osservato che,
dopo tanti don Abbondio, c’era da augurarsi che qualcuno prendesse esempio dalla
coraggiosa fermezza di fra’ Cristoforo, anche nel formulare i giudizi e motivarli. La prima
impressione ricavata dalla lettura delle 84 pagine di motivazioni della decisione della
Suprema Corte, è che il suo desiderio sia stato esaudito.
Ci consegnano infatti parole dure e nette. Appare difficile la posizione dei due imputati che
presto torneranno a giudizio presso la Corte d’Appello di Milano, il leader di Ordine nuovo
Maggi e il suo “soldato” Tramonte, al contempo informatore del Sid. I ricorsi hanno colto
nel segno, ripetono più volte: troppe illogicità viziano le motivazioni della sentenza
d’appello bresciana del 2012 «affetta prima di tutto da un’erronea applicazione della legge
penale, con riferimento alle modalità di valutazione degli indizi». Nella ricostruzione, con
apprezzabile sforzo, l’appello aveva messo molti punti fermi. La Cassazione conferma, per
esempio, come l’ordigno che uccise otto cittadini che manifestavano pacificamente «sia
stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio [il defunto armiere
di Ordine nuovo, coinvolto sia nella preparazione della strage di piazza Loggia che in
quella di piazza Fontana], conservata presso lo “Scalinetto”, una trattoria veneziana a due
passi da San Marco, al tempo ritrovo di neofascisti, covo e santabarbara di Maggi, e il
defunto ordinovista Soffiati ha aiutato nel trasporto. Un «dato di fatto importantissimo »,
alla luce del quale vanno valutati tutti gli altri, numerosissimi, indizi a carico di Maggi. La
sua assoluzione è stata motivata in modo «congetturale e poco plausibile», è
«caratterizzata da valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi…» scartati nella loro
potenzialità dimostrativa senza una più ampia e completa valutazione. È stato così
distrutto il «valore probatorio che il nostro sistema giudiziario attribuisce alla valutazione
complessiva di tali mezzi di prova». La Cassazione dedica molte pagine a spiegare, con
chiarezza encomiabile — così che ogni cittadino, pur inesperto di legge possa capire —
che se sono gravi precisi e concordanti, gli indizi non valgono meno della prova diretta:
un’importante lezione di metodo, di onestà intellettuale e di diritto, nel Paese dove i
processi per le stragi della “strategia della tensione”, i cui esecutori, la galassia
dell’eversione neofascista, con complicità di militari italiani e americani e dei servizi segreti
(la Cassazione ribadisce anche questo), sono stati quasi sempre processi indiziari, perché
tali li ha resi la sistematica attività di depistaggio (nel caso di Brescia, l’interferenza del Sid
nel sottrarre documenti scottanti è stata fatale). È dura, la Cassazione, coi giudici di
appello «perché, pur avendone promesso una valutazione sistematica» dei tanti indizi a
carico di Maggi (e rimproverando ai giudici d’Assise di aver mancato al loro dovere in
questo senso!) «ne ha poi condotto, in concreto, un’indagine atomistica, svalutandone la
portata». Gli elementi fattualmente accertati, rimessi in fila inesorabilmente dalla
Cassazione rendono, ad oggi, illogica l’assoluzione. E poi, capo indiscusso di
un’organizzazione gerarchica come On, come sostenere che il suo sottoposto Digilio,
quadro coperto, esperto d’armi ma politicamente “debole”, abbia agito, con esplosivo di
Maggi, a sua insaputa e di propria iniziativa, per fare un attentato come quelli che il capo
caldeggiava, di cui disse «non deve restare un fatto isolato»? La Cassazione rivaluta
anche il valore della collaborazione di Digilio, il più importante “pentito nero”. Si aggrava
moltissimo, poi, la posizione di Maurizio Tramonte. La Cassazione mette in discussione
persino il suo alibi per la mattina della strage. L’allora giovane fascista disse di Maggi
“questo è pazzo”, uscendo da una riunione ristretta ad Abano Terme, tre giorni prima della
strage: «La Corte d’appello non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che gli
appunti», dettagliate note informative in cui Tramonte racconta al Sid in presa diretta la
riorganizzazione della destra eversiva nella dannata primavera ‘74 «non contengano alcun
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cenno alla strage perché Tramonte non voleva rischiare di autoaccusarsi». Tramonte ha
fatto impazzire gli inquirenti per anni con la sua “collaborazione”, prima accumulando
fandonie, poi ritrattando in dibattimento quanto era sopravvissuto al vaglio dell’inchiesta.
Per assolverlo, sarà necessario motivare (finora non è stato fatto) se e come possa essere
considerato un semplice infiltrato dei servizi, quindi non punibile, e approfondire il suo
ruolo nella preparazione dell’attentato «alla luce della sua palese reticenza». C’è da
aspettarsi, quindi, che il nuovo processo approfondirà la pagina, nerissima, dei depistaggi
dei servizi segreti.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 16/04/2014, pag. IX RM
Cosche, il grande assedio al Centro sigilli a
50 tra ristoranti e caffè storici
IL CASO
FEDERICA ANGELI
LE MAFIE stanno divorando il centro storico della Città Eterna. Mentre qualcuno per anni,
come una litania, ha continuato a sostenere che «la mafia a Roma non esiste», le
operazioni di Ros, carabinieri del comando Provinciale, finanza e squadra mobile
dimostrano il contrario. Sono oltre cinquanta — tra ristoranti di lusso e caffè blasonati e
tutti nelle strade più lussuose — i locali sequestrati alla criminalità organizzata del Sud
negli ultimi tre anni a Roma. E sono almeno una decina — tra pizzerie e stabilimenti
balneari — i sequestri fatti a Ostia, dove la mafia autoctona, quella made in Rome, ha fatto
per anni di quel pezzo di città il proprio regno. Insomma la delinquenza di strada sembra
aver appeso coltelli e pistole al chiodo e aver impugnato armi ben più insidiose: il denaro,
che ha permesso l’entrata a gamba tesa nell’economia capitolina. Soprattutto nel cuore
della città. Uno dei casi più clamorosi degli ultimi anni è stato il sequestro, in due riprese,
del «Cafè de Paris» e del ristorante «George’s », acquistati, tramite la solita rete di teste di
legno, da Vincenzo Alvaro, mente operativa della cosca di Cosoleto, vicino Reggio
Calabria. La conquista del simbolo della «Dolce vita», della «Grande bellezza» di via
Veneto fu la conferma che la grande criminalità organizzata aveva scelto Roma per fare
business mettendo le mani su bar ed esercizi commerciali che hanno fatto la storia della
capitale. E’ di pochi giorni fa la condanna di 14 appartenenti al clan a cui il tribunale ha
inflitto oltre 40 anni di carcere. Ma proprio sull’acquisizione e sulla gestione dello storico
bar di via Veneto i giudici hanno chiesto ulteriori approfondimenti trasmettendo gli atti al
pm Francesco Minisci. Fu un’indagine complicata quella portata avanti dal colonnello del
Ros Massimiliano Macilenti perché per riuscire a trovare il bandolo della matassa, ovvero
la società madre che faceva capo agli Alvaro, hanno dovuto seguire il filo di un centinaio di
società schermate, intestate a improbabili personaggi, all’apparenza senza nessun legame
con la ‘ndrangheta. Sempre la stessa storia: una matrioska di ditte, il cui titolare e la cui
ragione sociale cambiava alla velocità del suono, dentro cui si annidava la potenza di un
clan, ricco e con fiumi di denaro sporco da ripulire alla svelta.
Un’altra ‘ndrina, quella dei Gallico di Palmi, si nascondeva invece dietro il passaggio di
mano del «Caffè Chigi» a due passi da Montecitorio. La cosca finì nel mirino della Dia
nell’agosto del 2011 con un sequestro di beni da 20 milioni di euro. Più recente è
l’indagine dei carabinieri del Comando provinciale che, in due tranche, ha spazzato via
ben 29 tra pizzerie della catena “Pizza Ciro” e gelaterie gestite dagli imprenditori campani
Righi, al soldo del clan camorrista dei Contini. Un impero sterminato che si estendeva da
piazza Navona fino al via del Tritone. E poi ci sono sequestri eccellenti, come il ristorante
“Platinum” di via dei Banchi Nuovi, il caffè le Antiche Mura di via Leone IV, accanto ai
giardini Vaticani, il ristorante Chigi a Fontana di Trevi, i bar California e Clementi, di via
Bissolati e via Gallia. La mappa è davvero desolante. Ma la procura, quella diretta dal
procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal capo della Dda Michele Prestipino, non si
arrende. Così nelle indagini della squadra mobile sulle infiltrazioni criminali sono saltati
fuori anche vecchi nomi della Banda della Magliana e gli inossidabili Casamonica che
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hanno stretto alleanze imprenditoriali con emissari della camorra e di Cosa Nostra. E
infine gli affari d’oro sul litorale, dove i clan Spada, Triassi e Fasciani si sono spartiti
stabilimenti balneari, cooperative, terreni e locali prestigiosi, ora tutti sotto sequestro e
coraggiosamente messi a bando dal presidente del X municipio, Andrea Tassone.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Da l’Unità del 16/04/14, pag. 6
Stop alle nuove trivellazioni in Emilia,
“possono aver contribuito al terremoto”
Luca Fazio
Emilia Romagna. Dopo le rivelazioni del dossier Ichese, anticipate dalla
rivista Science, il presidente Vasco Errani decide di allargare a tutta la
regione il temporaneo divieto di nuove ricerche di idrocarburi nel
sottosuolo: "L'anticipazione del dossier ha creato sospetto, mi scuso
per quanto accaduto". Lo studio scientifico non esclude un rapporto di
causa/effetto tra perforazioni e attività sismica ma non può dimostrarlo
con certezza
Con qualche colpevole settimana di ritardo, visto che le conclusioni del rapporto della
commissione Ichese erano già state anticipate pubblicamente dal settimanale Science, il
presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani ieri ha dovuto ammettere che il
problema c’è. Serio. E che in via precauzionale, in attesa di ulteriori approfondimenti sullo
stato del sottosuolo, la regione dispone “la sospensione in tutta l’Emilia-Romagna di
qualsiasi nuova attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi, come abbiamo fatto sin qui
nel cratere del sisma”. Insomma, da oggi viene estesa a tutto il territorio regionale la
sospensione che riguardava solo le zone interessate dal sisma di due anni fa (ma quelle
già in atto continuano). E non poteva fare altrimenti la giunta di Vasco Errani, visto che la
commissione Ichese, nel suo rapporto fitto di 213 pagine, sostiene che potrebbe esserci
una relazione di causa/effetto tra i terremoti che hanno colpito l’Emilia il 20 e 29 maggio
2012 e le attività di estrazione realizzate dalla Gas Plus nei pozzi del Cavone a San
Possidonio, a venti chilometri dall’epicentro del sisma che uccise 27 persone e devastò la
bassa modenese.
Gas Plus è il quarto produttore italiano di gas, detiene 50 concessioni di coltivazione
distribuite su tutto il territorio italiano ed è attivo nella filiera del gas naturale, in particolare
nell’esplorazione, produzione, acquisto e distribuzione (nel 2012 ha commercializzato
circa 600 milioni di metri cubi di gas e gestisce circa 1.500 chilometri di rete di
distribuzione). La società oggi verrà convocata al ministero dello Sviluppo economico.
Il rapporto che imbarazza la giunta regionale, che ieri ha dovuto replicare all’accusa di
aver nascosto la “notizia”, è allarmante ma nello stesso tempo non arriva a dirimere una
questione su cui non c’è accordo fra gli scienziati. “Esiste una correlazione statistica — si
legge — tra l’aumento della sismicità prima del 20 maggio 2012 e l’aumento dei parametri
di produzione da aprile/maggio 2011. Quindi non può essere escluso che le azioni
combinate di estrazione ed iniezione di fluidi in una regione tettonicamente attiva possano
aver contribuito, aggiungendo un piccolissimo carico, alla attivazione di un sistema di
faglie che aveva già accumulato un sensibile carico tettonico e che stava per raggiungere
le condizioni necessarie a produrre un terremoto”. Detto questo, la commissione Ichese,
che era stata istituita dalla stessa Regione Emilia Romagna, ammette che tutte le
informazioni elaborate “non permettono di escludere, ma neanche di provare” la
correlazione tra lo sfruttamento di idrocarburi e l’attività sismica che ha sconvolto l’Emilia
due anni fa. Per escludere o confermare l’ipotesi di un legame causale saranno necessari
altri studi e altre attività di monitoraggio altamente tecnologici. E considerata la posta in
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gioco (e la potenza dei giocatori), non basta un’evidenza statistica per mettere in
discussione le concessioni.
Eppure il dubbio lacerante ha costretto sulla difensiva il presidente della Regione Emilia
Romagna. “Nessuna sottovalutazione dei problemi — ha replicato in aula — ma è
necessario un approfondimento tuttora in corso, abbiamo sempre agito in buona fede per
interpretare nel migliore dei modi le indicazioni forniteci dalla relazione scaturita dal lavoro
della commissione Ichese”. Per respingere i sospetti sulla sua buona fede e sul ritardo con
cui è stato reso pubblico lo studio, Errani ha precisato che “nella relazione si parla di dati
statistici rispetto alle condizioni reali dell’assetto geodinamico del territorio, per questo ho
pensato che per non generare allarme si dovessero fare ulteriori approfondimenti”. Si è
detto dispiaciuto e comunque disposto ad applicare “quel principio di precauzione per cui
abbiamo bloccato tutte le ricerche e le nuove concessioni, quindi continuando l’attività
positiva da noi avviata e adottando con serietà le linee guida che scaturiranno dal gruppo
di lavoro attivo al ministero”.
Le mezze ammissioni, o scuse per la scarsa trasparenza, non hanno placato le
opposizioni in consiglio regionale. Il M5S ha chiesto alla regione di revocare tutte le
autorizzazioni rilasciate per il prelievo di idrocarburi. Sulla stessa linea anche Lega e Forza
Italia, molto critica anche Sel. “Ma la Regione — ha precisato l’assessore alle attività
produttive rivolgendosi ai comitati presenti in aula — non è titolata a revocare le
concessioni”. Fds si augura che il dossier suggerisca alla politica l’urgenza di superare il
“far west” dello sfruttamento del suolo da parte delle compagnie petrolifere.
Del 16/04/2014, pag. 1-29
EMERGENZA CLIMA
LE IDEE
L’imperativo di Jonas per salvare il pianeta
BARBARA SPINELLI
NON si parla più di clima né di quel che accadrà della terra, da quando la crisi è entrata
nelle nostre vite stravolgendole con politiche recessive, disuguaglianze indegne, e una
disoccupazione che assieme alla speranza spegne l’idea stessa di futuro. La terra
lesionata era il grande tema all’inizio del secolo, e d’un colpo è stata estromessa dal
palcoscenico: non più male da sventare, ma incubo impalpabile. Diritto troppo immateriale
e nuovo, accampato dal pianeta.
Esiste invece, l’infermità della terra che l’uomo ha causato e sta accentuando: anche se è
caduta fuori dal discorso pubblico, anche se è divenuta invisibile come certi malati
incurabili che non vogliamo guardare da vicino, e per questo releghiamo in ospizi lontani.
È come se, paradossalmente, la crisi ci avesse liberati dell’ineffabile paura che avevamo
negli anni Novanta — la morte del pianeta — mettendo al suo posto tante altre paure: non
meno angosciose, ma più immediate e senza rapporto con quella trepidazione non più
così concreta, traslocata nelle periferie dei nostri pensieri e inquietudini.
Il ritorno alla realtà, sotto forma di ennesimo allarme dell’Onu, è avvenuto domenica, con
la pubblicazione del terzo rapporto della Commissione intergovernativa sul cambiamento
climatico (Ipcc). Seicento scienziati di 120 paesi hanno emesso il loro verdetto: possiamo
ancora cambiare la storia, ma il tempo a disposizione si accorcia fatalmente.
SEMBRA di vivere le ultime scene del film di Lars von Trier, quando sulla terra sta per
schiantarsi il pianeta chiamato Melancholia: è la depressione a darci questa strana, calma
indifferenza. Per nostra incuria, e cecità, la terra continua a surriscaldarsi, e sempre più
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arduo sarà rispettare l’obiettivo fissato: evitare che l’aumento della temperatura superi i 2
gradi centigradi. Soglia fatidica, oltre la quale il globo è messo mortalmente in pericolo
dalle emissioni di anidride carbonica e gas serra. Conosciamo quel che può seguire:
scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei livelli marini e cancellazione di intere regioni,
cibo insufficiente per l’umanità, scomparsa di foreste, estinzione massiccia di piante e
specie animali. La crisi economica ha svegliato in questi anni molte coscienze, prima
dormienti: sulla debolezza politica dell’Europa, su terapie di austerità rivelatesi devastanti
per tanti cittadini e anche per le democrazie. Non così per quanto riguarda la prevenzione
del disastro climatico, rinviata a chissà quali giorni migliori. Recessione, disoccupazione:
oggi sono le nostre preoccupazioni prioritarie, ma purtroppo uniche. I cervelli si stanno
abituando a lavorare a metà, quasi in preda all’emiplegia. La terra può attendere, anche se
Melancholia s’avvicina. Un eminente manager pubblico, l’ex amministratore delegato
dell’Eni Scaroni, è giunto sino a chiedersi pubblicamente, nel luglio scorso: «Abbiamo
investito in modo dissennato nelle energie rinnovabili. Eravamo ubriachi?» E il nuovo
ministro dello sviluppo, Federica Guidi, ha illustrato alla Commissione Industria qual era il
suo «feeling»: quel che occorre è «la massima attenzione alla crescita sostenibile», e al
tempo stesso la «rimozione degli ostacoli burocratici che impediscono sia lo sviluppo della
nostra capacità di rigassificazione per beneficiare della rivoluzione del gas da argille (
shale gas), sia gli investimenti privati nella ricerca e produzione di idrocarburi». Il feeling è
parecchio contraddittorio: le perforazioni necessarie per estrarre shale gas mal si
coniugano con l’economia verde, comportando spropositati dispendi di acqua,
inquinamento delle falde e, secondo alcuni, possibili terremoti. Resta la verità attestata dai
600 scienziati. Siamo ancora rovinosamente dipendenti da combustibili fossili. Petrolio,
carbone, gas hanno contribuito per il 78% all’incremento totale di emissioni dal 1970 a
2010, e peseranno ancor più se nulla cambia. Se i paesi produttori di petrolio e gas
resisteranno alle misure suggerite dall’Ipcc, se i governi non introdurranno forti tasse
sull’emissione di diossido di carbonio ( carbon tax ), e se insisteranno nel sovvenzionare i
combustibili fossili invece di investire in energie rinnovabili, riforestazione, edilizia a bassi
consumi di carburanti. La Germania ad esempio emette più anidride carbonica,
nonostante la svolta energetica, perché la dipendenza dal carbone si è gonfiata. Dicono
che mancano i soldi, ma gli esborsi sono pochi rispetto alle spese ineluttabili quando la
catastrofe sarà alle porte. Il passaggio a un’economia basata su combustibili l owcarbon
costerebbe oggi 1-2 punti di ricchezza nazionale. Nel 2020 salirebbe a 4-5 punti.
Diverrebbe proibitiva dopo il 2030. Dicono anche che la crescita si blocca, se fin d’ora
proteggiamo la terra. È menzogna: lo sviluppo si rallenterebbe solo dello 0,06%,
assicurano gli scienziati. Risale al 1979 il libro che il filosofo Hans Jonas scrisse sul
Principio responsabilità , e sulla paura per la sorte terrestre: un testo avveniristico,
all’epoca. È quella paura che va riesumata, senza posporla ai timori che incutono
disoccupazione e crescita lenta. Non ci è dato di affrontare prima la recessione, e dopo il
clima. La vera dissennatezza è non contare fino a due, non assolvere insieme i due
compiti. La paura di veder perire il pianeta, e chi lo abita, è per Jonas costitutiva della
responsabilità: «Non intendiamo la paura che dissuade dall’azione (lo sgomento, la
paralisi, ndr) ma la paura fondata , che esorta a compierla». È una forma di amore del
prossimo. O meglio, direbbe Nietzsche, di «amore del più lontano»: è trepidazione per i
viventi che verranno, scudo contro la distruzione che li minaccia. Alla domanda su cosa
capiterà al prossimo-lontano, se non ci prendiamo cura di lui, la replica è chiara: «Quanto
più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto
più lontano nel futuro, quanto più distante dalle proprie gioie e i propri dolori, quanto meno
familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto più la chiarezza
dell’immaginazione e la sensibilità emotiva vanno mobilitate a quello scopo». Jonas ha
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addirittura riformulato l’imperativo categorico di Kant. Il dovere etico-politico ordina tuttora
di «agire in modo che la tua volontà possa sempre valere come principio di legislazione
universale», ma si estende così: «Agisci in modo che gli effetti del tuo agire siano
compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra».
Inutile a questo punto puntellare industrie (tra cui l’automobile) che emettono veleni. La
riconversione deve essere radicale, e nell’immediato comporterà sacrifici. Inizialmente
ostili, Usa e Cina cominciano a capirlo. Il caso Ilva è esemplare: sacrificare la vita in
cambio di posti di lavoro è alternativa funesta. La crisi economica ci insegna questo: può
secernere il male o il bene. Fa riscoprire diritti irrinunciabili (il benessere, il lavoro) ma può
condannare all’oblio il diritto del nuovo soggetto che è la terra.
Mancano disgraziatamente le istituzioni, che tutelino ambedue i diritti. Onu e Ipcc sono
organi intergovernativi, e somigliano alla Società delle Nazioni: del tutto inefficace, fra le
due guerre, perché ogni Stato aveva la sua inviolabile sovranità. L’Europa fa più progressi
sul clima, perché in parte già è sovranazionale. Il mondo in cui viviamo non è all’altezza
dell’imperativo di Jonas. A fronte di lobby ormai transnazionali (le industrie petrolifere, ma
anche il commercio d’armi, le mafie) non si erge un potere politico egualmente
transnazionale, che le argini. L’ordine globale è ancora quello westphaliano escogitato nel
1648, che mise fine alle guerre di religione ma suscitò i mostri dei nazionalismi. Gli stessi
mostri pronti a vanificare i moniti dell’Onu e dei suoi scienziati.
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INFORMAZIONE
del 16/04/14, pag. 6
Il governo toglie alla Rai 170 milioni
dal canone di abbonamento
di Carlo Tecce
Da un paio di giorni, una lettera spedita da Palazzo Chigi fa tremare le scrivanie di Viale
Mazzini. Il governo chiede ai vertici Rai di contribuire al taglio di spesa pubblica con 170
milioni di euro che verranno succhiati dal canone di abbonamento 2014. Il meccanismo è
semplice: il Tesoro trattiene circa il 10 per cento di oltre 1,7 miliardi di euro anni, la tassa
che gli italiani pagano e in tanti evadono. Occorrono risorse per mantenere le promesse di
Matteo Renzi, risorse che il ministro Pier Carlo Padoan deve garantire. I 170 milioni di
euro trasformano in un buco nero il bilancio 2014, che già sarà appesantito dai diritti
televisivi sportivi (Mondiali di calcio, soprattutto), 100 milioni abbondanti di costi. Il direttore
generale Luigi Gubitosi, neanche una settimana fa, aveva illustrato i risultati 2013: dopo un
passivo di 245 milioni, viale Mazzini è tornata in utile di 5,3, uno spiraglio, un sintomo di
guarigione, nulla di più. Adesso la richiesta di Palazzo Chigi – che si presume ispirata
anche dal signor spending review Carlo Cottarelli –non crea soltanto panico, ma costringe
viale Mazzini a una lotta per la sopravvivenza. Il debito consolidato Rai, ristrutturato da
Gubitosi con le banche creditrici, s’è fermato a 441 milioni di euro, ma sarà sarà destinato
a crescere ancora dopo un bilancio 2014 con 300 milioni di perdite. Più che un risparmio
fra gli sprechi di viale Mazzini, l’obolo che pretende il governo spingerebbe le finanze Rai
al collasso. La questione non è affrontata in questa recente missiva, ma il governo vuole
che l’azienda riduca anche gli stipendi di dirigenti e giornalisti che non rispettano il tetto di
238.000 euro (la retribuzione di Giorgio Napolitano), fissato per le società compartecipate
(incluse le presidenze delle quotate): scelta legittima e necessaria dopo lunghe stagioni
senza regole. E saranno ridotte anche le buste paghe di capiredattori e funzionari ben
lontani dai 238.000 euro. I ricavi di viale Mazzini si reggono sul canone di abbonamento,
che ha apportato 1,756 miliardi su 2,748 nel 2013: la pubblicità è bloccata sotto i 700
milioni (ha perso il 30 per cento in un biennio) e gli introiti commerciali non superano i 300
milioni. Non è la prima volta che si prefigura uno scontro tra viale Mazzini e palazzo Chigi.
Già lo scorso novembre, il Consiglio d’amministrazione aveva criticato l’allora ministro
Flavio Zanonato per il mancato adeguamento del canone all’inflazione, un palliativo per
assorbire un pezzo di evasione (mai realmente contrastrata e calcolata in 500 milioni di
euro). Poi venne il momento di Cottarelli, che paventò la chiusura di qualche sede
regionale, appena rimpolpate da decine di giornalisti che hanno partecipato a un concorso
interno e che restano un simulacro del servizio pubblico. Era sono un avviso. Ma la lettera
spaventa davvero.
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CULTURA E SCUOLA
del 16/04/14, pag. 3
Università al collasso, nel 2018 oltre 9 mila
docenti in meno
Roberto Ciccarelli
Istruzione. L’allarme del consiglio universitario nazionale: servono 400
milioni. Dopo i tagli Gelmini da 1,1 miliardi occorrono 29 mila tra docenti
e ricercatori per affrontare l’emergenza
Per il Consiglio Universitario Nazionale (Cun) servono seimila professori ordinari e 14 mila
associati entro il 2018 e 9 mila ricercatori a tempo determinato entro il 2016 per non fare
morire subito l’università italiana. Questo piano di reclutamento, viene precisato nella
relazione approvata ieri dall’organo di rappresentanza del sistema universitario, è soltanto
un provvedimento di emergenza per una «messa in sicurezza» del sistema e per
contenere l’emorragia causata dai tagli strutturali agli atenei dal 2008 (-1,1 miliardi di euro)
e dalla pensione di migliaia di docenti ordinari (9.486 entro il 2018) che non potranno
essere sostituiti per il blocco del turn-over e la scarsità di risorse. La situazione è
gravissima e, entro quattro anni, la didattica e il funzionamento degli atenei sarà al
collasso.
L’analisi del Cun è impietosa. Dal 2008 al 2014 il numero dei professori ordinari è calato
del 30% (quello degli associati del 17%) e per i giovani non ci sono opportunità di ingresso
nella docenza. Senza un rifinanziamento da 400 milioni di euro nel 2018 il numero dei
professori ordinari scenderà del 50% rispetto al 2008 (quello degli associati calerà del
27%). Il crollo del numero dei docenti è l’altra faccia di quello delle immatricolazioni (da 63
mila all’anno alle attuali 15 mila) e del basso numero dei laureati (il 26% contro la media
Ocse del 40%). Complessivamente nel 2018 ci saranno 9.463 professori universitari in
meno e coloro che resteranno in servizio avranno un età media alta: ordinari a 51 anni,
associati a 44 anni e ricercatori a 37 anni. «La grave diminuzione numerica in corso, mai
registrata in precedenza di queste dimensioni – sostiene il presidente del Cun Andrea
Lenzi — renderà improponibile la corretta gestione e lo sviluppo di un sistema universitario
così complesso e articolato come il nostro, spingendo l’Italia in direzione opposta alla
tendenza in atto negli altri Paesi». A regime, per il Cun i risparmi per le cessazioni
andranno a compensare le spese per le nuove assunzioni e per gli scatti stipendiali, al
netto dell’inflazione.
Ciò che è interessante nella proposta sul reclutamento avanzata ieri dal Cun è la
ricostruzione delle ragioni per cui l’università è finita in un vicolo cieco. Alla fine del 2006 la
docenza universitaria di ruolo aveva raggiunto il massimo storico: 62 mila docenti ripartiti
tra le tre fasce allora esistenti, con un picco di 20 mila ordinari rispetto al numero degli
associati (circa 19 mila). In apparenza, sembra una dinamica patologica: questi assunti
hanno occupato tutti i posti e, giunti quasi alla pensione e in coincidenza con blocchi e
tagli, hanno intasato il sistema. Il Cun la spiega invece a partire da una complessa
dinamica demografica. All’origine c’è stata l’ope legis che, nei primi anni Ottanta, permise
l’immissione in massa di docenti oggi giunti ad un passo della pensione. Da allora,
rispettando una schizofrenica alternanza di «aperture» e «chiusure» del reclutamento,
l’immissione nei ruoli della docenza avrebbe seguito una media costante: 1700 ricercatori,
1250 associati e 750 ordinari all’anno.
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Pur alterato all’origine, il sistema sembra avere trovato un equilibrio tra il numero dei nuovi
entrati e quello dei pensionandi. Prima dell’innalzamento dell’età pensionabile stabilito
dalla riforma Fornero, e del blocco del turn-over, andavano in pensione circa milla ordinari,
500 associati, 500 ricercatori all’anno. Numeri raddoppiati nel 2010 a causa della
coincidenza della riforma, del taglio ai fondi degli atenei e del blocco del turn-over che
hanno portato alla chiusura dei canali di reclutamento.
Le convulsioni in cui si trascina l’abilitazione scientifica nazionale gestita dall’Anvur,
sempre più oggetto di ricorsi ai Tar, hanno aggiunto un altro tassello al fallimento del
sistema. In un’ottica emergenziale, il Cun chiede l’abolizione del sistema dei punti
organico, l’anticipazione dello sblocco del turn-over al 2015, e non al 2018, un piano
straordinario per associati da 75 milioni di euro.
del 16/04/14, pag. 19
Il Paese dei teatri in bancarotta
di Pirro Donati
Delle 14 Fondazioni liriche – i grandi teatri lirici italiani tra cui la Scala, il Maggio musicale,
il San Carlo, il Regio di Torino – ben otto hanno chiesto di aderire al sostegno economico
straordinario previsto dalla legge Valore cultura (L. 112/2013), ma le misure stentano a
partire. Sono, per dirla tutta, teatri alla bancarotta. Le Fondazioni liriche hanno accumulato
oltre 300 milioni di euro di debiti, anche se ci sono delle eccezioni virtuose, basti pensare
al Regio di Torino. Per di più a queste cospicue perdite non sono corrisposti risultati di alto
profilo culturale: l’esempio di scuola è l’Opera di Roma che, con qualche eccezione –
come le presenze di Riccardo Muti –, presenta una programmazione provinciale oltre a un
deficit pazzesco. I pesanti passivi che si accumulavano sono stati giustificati con il taglio ai
finanziamenti dello Stato (Fus) operati dai governi di centrodestra e tecnici, nonché con lo
strapotere dei sindacati. Prendersela con questi ultimi, certo non esenti da colpe, e con i
presunti privilegi delle orchestre è però fuorviante. Semmai ha pesato il taglio del Fus, che
però è stato anche cinicamente usato come scusa per nascondere le vere responsabilità:
un’invasione da parte di una politica di modesto profilo, incapace di nominare dirigenze
all’altezza, ma sempre pronta a immettere clientele, inutile personale spesso scarsamente
qualificato ma piazzato in ruoli dirigenziali. Un andazzo di cui sono quindi responsabili le
amministrazioni locali – finora è il sindaco a scegliere il sovrintendente del teatro della sua
città – sia di centrodestra che di centrosinistra, spesso coperte dal governo e dal ministero
per i Beni e le Attività culturali.
PER RIMEDIARE a un’impasse tanto grave e imbarazzante, Massimo Bray come ministro
per i Beni e le Attività culturali, ha inserito nella legge Valore cultura, una severa normativa
per le Fondazioni liriche, ma soprattutto un fondo a rotazione di 100 milioni di euro con
interessi bassissimi, di cui 75 milioni per rinegoziare i mutui con le banche e 25 milioni per
le emergenze di liquidità. Promulgato l’agosto scorso come decreto dunque con
motivazioni di emergenza, Valore cultura è stato convertito in legge il 7 ottobre: da allora
però l’emergenza è sbiadita in sonnolenza, ben poco si è visto, e quel poco è per lo meno
singolare. Il 21 novembre la nomina di Pier Francesco Pinelli come commissario per
gestire il fondo dei 100 milioni di euro è stata accolta con ironico scetticismo: un ingegnere
idraulico manager alla Erg si trovava a decidere delle sorti della lirica italiana. Degli 8 teatri
che hanno chiesto il finanziamento di Valore cultura, solo il Maggio fiorentino e il Lirico di
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Trieste hanno avuto risposta affermativa ma soldi per ora nisba, come lamentava giorni fa
Bianchi, commissario a Firenze. Gli altri – Carlo Felice di Genova, Comunale di Bologna,
Opera di Roma, San Carlo di Napoli, Petruzzelli di Bari, Massimo di Palermo – non hanno
avuto risposta e stanno sotto l’albero come Estragone e Vladimiro in Aspettando Godot. E
questo malgrado Valore cultura prescriva tempi rapidi e certi, che finora non sembrano
essere stati troppo rispettati. Lentezze e ritardi magari si spiegano considerando che,
prevedibilmente, un ingegnere idraulico non sia la persona più adatta per valutare i piani di
rientro dei grandi teatri lirici italiani. Anche perché la legge Valore cultura era stata pensata
per 3 o 4 situazioni vicine alla liquidazione, come il Maggio fiorentino, ma vista l’adesione
di ben 8 teatri il fondo potrebbe rivelarsi insufficiente. C’è perfino il sospetto che sia in atto
il solito mercanteggiamento per dar soldi solo ad alcuni, i più protetti dal sottobosco della
politica (solo l’Opera di Roma ha chiesto 30 milioni di euro). Per affrontare l’emergenza di
liquidità che li strangola, molti teatri insolventi con banche e fornitori, stanno provando a
farsi “fare lo sconto”. Il primo è stato il Maggio, che nell’estate scorsa ha rinegoziato i suoi
mutui con uno sconto del 40%. Ora alcuni teatri tentano proposte analoghe a fornitori,
agenzie e artisti con cui sono in debito. A Firenze il teatro era a un passo dalla
liquidazione e le banche hanno accettato perché rischiavano di restare con un pugno di
mosche in mano, invece chi ha prestato la sua opera spesso investendo di tasca propria
difficilmente accetterà. Si arriverà probabilmente in tribunale e il sistema delle attività
culturali italiano perderà un altro pezzo della poca credibilità che gli è ancora rimasta.
Del 16/04/2014, pag. 21
Franceschini dalla parte del cinema
Il ministro dei Beni culturali alla presentazione dei dati 2013
«Mi batterò per evitare nuovi tagli e cercherò risorse»
GABRIELLA GALLOZZI
L’INTENZIONE,ANZILAVOLONTÀC’È. QUELLO CHE MANCANO SONO LE FINANZE.
CON UNA NUOVA SPENDING REVIEW ALLE PORTE DI CIRCA DUE MILIONI DI
EURO, QUELLO «che farò sarà sicuramente evitare i tagli e trovare più risorse. Ce la
metterò tutta, ma dentro questo quadro». È realista e concreto il ministro Franceschini
che ieri ha partecipato alla presentazione annuale dei dati sul cinema italiano, messi a
punto dal gruppo di analisi di Mibact e Anica. Una sorta di prevedibile cahiers de
doléances che mette in luce come, nonostante i premi conquistati - Oscar compreso - il
nostro cinema versi in gravissime acque con segni in negativo di fronte a quasi ogni
voce, a cominciare dal 27% in meno degli investimenti nel settore. «In epoca di
globalizzazione ogni economia nazionale deve individuare la propria vocazione e quella
italiana è legata alla cultura e alla bellezza - aggiunge il ministro dei Beni culturali -. Credo
molto in questa sfida ma so anche che non possiamo prescindere dalla crisi economica e
dalla stagione di tagli che stiamo vivendo». Per questo, nell’immediato, la «ricetta» del
Ministro è puntare sulle cooproduzioni con l’estero (in calo anche quelle nel 2013) e sul
tax credit (le agevolazioni fiscali) da portare oltre il limite dei 5 milioni di euro per attirare
maggiormente gli investimenti stranieri. Che poi sono quelli delle grandi produzioni, altra
voce col segno negativo: calano, infatti, i film ad alto budget, mentre aumentano quelli a
bassissimo budget (sui 200mila euro). Priorità dei prossimi giorni sarà poi l’allargamento
del tax credit all’audiovisivo e l’apertura di un tavolo con le televisioni: «Le tv - spiega
Franceschini - devono dare un contributo fondamentale e occorre un intervento per
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correggere le norme sulle quote aumentando le sanzioni. Ringrazio la Rai perché rispetta
più di Mediaset le norme sugli investimenti, ma ringrazio Mediaset perché programma più
film italiani in prima serata». Su Cinecittà, poi, resta l’impegno preso nelle passate
settimane con sindacati e associazioni per promuovere una vera azione di rilancio degli
storici studi di via Tuscolana, coinvolgendo in un accordo commerciale Rai e Istituto
Luce. Una novità, ancora, riguarderà le commissioni ministeriali che assegnano i fondi
pubblici ai film, spesso al centro di polemiche per la scarsa competenza dei membri.
D’ora in avanti, spiega il Ministro «i nuovi componenti verranno selezionati in base ai loro
curricula e il direttore generale, Nicola Borrelli, non voterà». Altro impegno assunto da
Franceschini sarà la battaglia per la difesa dell’«eccezione culturale», di cui la Francia,
soprattutto, ha fatto una bandiera: «che significa tenere fuori la cultura dalle logiche di
mercato». Finalmente. E a chiudere un invito ai produttori perché mostrino nei loro film le
tante «bellezze dell’Italia sono cose che contano molto di più di una campagna
promozionale. Mettete nei vostri film le nostre meraviglie, specie quelle sconosciute».
Peccato però che costino un occhio della testa, ribatte dal fondo della sala proprio il
produttore de La grande bellezza, Nicola Giuliano: «Girare una notte alle Terme di
Caracalla costa anche 30mila euro!» Forse, quindi, si dovrà intervenire anche su questo.
Ma più che assestamenti e provvedimenti ad hoc per ogni emergenza forse sarà
finalmente il caso di rimettere le mani sulla tanto attesa e mai varata legge di sistema? La
risposta al Ministro.
del 16/04/14, pag. 11
Da Cameri a Forth Worth “L’aereo più pazzo del mondo” di Francesco
Vignarca
F35, un affare globale. Anzi locale
Angelo Mastrandrea
Facendo nostro il giudizio che ne ha dato, nell’ormai datato 2008, la statunitense Rand
Corporation, «non può girare, non può salire, non può correre», potremmo chiederci a che
serve, allora, un F35. A fornirci più di un elemento di riflessione – oltre che una
sistematizzazione delle informazioni e un’analisi critica – ci pensa un agile pamphlet di
Francesco Vignarca, F35 – L’aereo più pazzo del mondo (Round Robin, pag. 144, euro
13). L’autore, impegnato da anni nei movimenti pacifisti e antimilitaristi, è tra i promotori
della campagna Taglia le ali alle armi che, prendendo spunto dalle mobilitazioni territoriali
a Cameri, dove ha sede la “fabbrica” dei cacciabombardieri, e dalle controfinanziarie di
Sbilanciamoci, ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica una questione che altrimenti
sarebbe passata sotto silenzio, come già era accaduto per un altro fallimentare
programma di riarmo: quello degli Eurofighter.
Vignarca mette in luce come la campagna contro gli F35 si sia sviluppata su un duplice
piano: non solo locale e nazional-globale, ma pure su quello della mobilitazione e allo
stesso tempo dello studio, dove le competenze sono state messe al servizio di una causa.
Tutto quello che sappiamo in Italia sugli F35, infatti, ci arriva da questa «intelligenza
collettiva» che in pochi anni ha collezionato manifestazioni e documenti provenienti dagli
Stati Uniti, coniugando pacifismo radicale e analisi scientifica. Tutto è passato al setaccio:
cifre discordanti pur se provenienti da diverse fonti ufficiali, dichiarazioni enfatiche
puntualmente smentite dai fatti (come i 10 mila posti di lavoro ridotti a 600, nella più
ottimistica delle ipotesi), incongruenze macroscopiche.
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Nella premessa, Vignarca riepiloga l’intera vicenda: come si è passati dalle discussioni
nella Camera del Lavoro di Novara del 2006, con «elementi della neoautonomia, del
cattolicesimo di base, del pacifismo tradizionale, del sindacalismo di base, di
un’associazione culturale di ispirazione libertaria», alle «prime serate» televisive e ai
dibattiti parlamentari del 2013, quando sono state approvate alcune mozioni che chiedono,
in forme e misure diverse, lo stop al programma. Mozioni votate a larghissima
maggioranza e puntualmente disattese, visto che gli acquisti dei componenti, stando a
quanto continua a denunciare in maniera puntuale la Rete Disarmo, proseguono con il
pilota automatico, senza che dal governo nessun premier si azzardi a sospenderli.
In buona sostanza, ci troviamo di fronte a una sorta di contro-guida agli F35, nella quale
un antimilitarista può trovare le sue buone argomentazioni per opporsi al programma Joint
Strike Fighter e andare a braccetto con un più pragmatico sostenitore della spending
review. Perché spendere infatti 10,8 miliardi (che lievitano a 14 se si considera la
manutenzione successiva) per un aereo che, come dice la Rand Corporation – un think
tank, è bene ricordarlo, vicino ai repubblicani e non ostile al pensiero che gli americani
siano i gendarmi del mondo – «non può girare, non può salire, non può correre»? Per
quale motivo insistere in un programma che altri paesi occidentali — si veda l’Olanda —
stanno ridimensionando drasticamente? Quale ritorno economico ci si può aspettare
dall’assemblaggio e dalla manutenzione in Italia quando è ormai palese che ogni
promessa è stata già disattesa? Sono queste le domande, al netto di ogni istanza
pacifista, che il libro di Vignarca consegna al lettore.
Al rovescio, qualche sostenitore accanito potrebbe obiettare che il programma Joint Strike
Fighter serve eccome. A far girare l’economia militare, a far salire gli incassi della
Lockheed, a far correre le guerre.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 16/04/2014, pag. III RM
Flash mob davanti alla Fontana di Trevi Caritas: “Il sindaco ascolti la
voce degli ultimi” Marino: non ci saranno riduzioni al budget
Welfare, ancora tagli e proteste la rivolta di
900 associazioni “Case famiglia a rischio
chiusura”
CECILIA GENTILE
QUASI 2.000 palloncini, uno per ogni bambino e persona con disabilità che sono ospitati
nelle strutture romane. E chiavi lanciate nella Fontana di Trevi al posto delle monetine, per
rappresentare la speranza di tornare, di poter ancora essere accolti nelle case famiglia di
Roma che rischiano di non avere più una voce nel bilancio.
Con un flash mob i rappresentanti delle 900 case famiglia e i loro assistiti hanno chiesto
attenzione al sindaco Marino, ai consiglieri e agli assessori. «Gli attuali finanziamenti sono
da troppi anni insufficienti — protestano le associazioni — e incombe il rischio di non poter
più dare l’accoglienza agli oltre 1.500 minori e ai 380 disabili, attualmente residenti nelle
case famiglia della capitale». Un pool di case famiglia, per esempio Casa al plurale,
Coordinamento nazionale comunità per minori del Lazio, Coordinamento nazionale
comunità di accoglienza Lazio, Federsolidarietà, Lega Coop Lazio, Agci Solidarietà, Forum
terzo settore Lazio, movimento Social Pride, movimento Diamoci una Mano,
Coordinamento romano affido, ha sottoscritto un appello, chiedendo che «il budget per il
sociale, all’interno del bilancio 2014 e degli anni successivi, non solo non venga tagliato,
ma possa essere aumentato per rispondere alle crescenti emergenze sociali ».
«Sappiamo bene che la capitale ha mille priorità e il “Salva-Roma” copre a malapena i
bisogni — c’è scritto nell’appello consegnato alla presidente della commissione Politiche
sociali Erica Battaglia — Ma il grado di civiltà di una città si misura dalla capacità di
accogliere e prendersi cura dei suoi cittadini più deboli ». «Il sindaco ascolti la voce degli
ultimi, di chi non può scegliere, affinché i loro bisogni diventino le priorità nelle scelte
dell’assemblea capitolina», chiede anche il direttore della Caritas di Roma, monsignor
Enrico Feroci. «Attualmente - informa Salvatore Carbone, presidente della cooperativa “La
nuova arca” tra i principali centri italiani, da Milano a Palermo, Roma è la città che prevede
la retta giornaliera più bassa. Nelle altre città le rette per minori sono in media pari a
108,80 euro contro i 69,75 euro al giorno a persona previsti nella capitale. Mentre le rette
per persone adulte con grave disabilità sono in media di 286,64 euro contro i 144,15 euro
previsti a Roma». In serata arrivano le rassicurazioni del sindaco. «Roma Capitale non ha
alcuna intenzione di ridimensionare il budget destinato al sociale, ma anzi, dove possibile,
questo sarà incrementato», si impegna Marino.
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ECONOMIA E LAVORO
del 16/04/14, pag. 1/2
Analisi Def
Un cambio di passo ma non “di verso”
Roberto Romano, Riccardo Sanna
Ritmi di crescita del Pil reale, da qui al 2018, a cui non eravamo più abituati dagli anni ’90
(1,5% medio annuo). Tassi di incremento delle esportazioni (4,2%), delle importazioni
(4,0%) e degli investimenti (3,2%) mai visti, nemmeno prima della crisi. Consumi privati
che ripartono (1,1%) e conti pubblici in ordine (indebitamento netto strutturale pari a zero
nel 2016). Questi i principali tratti positivi, inediti, del quadro macroeconomico delineato
nel Documento di economia e finanza 2014. Eppure non basta.
Innanzi tutto, non bastano quelle cifre a giustificare le numerose incongruenze statistiche,
che determinano quanto meno dubbi in realismo. Le previsioni di crescita per il 2014 e il
2015 sono più contenute di quelle che il governo Letta aveva riportato nel Draft Budgetary
Plan di ottobre 2013 ma, nonostante ciò, non trovano riscontro nella maggior parte delle
previsioni più accreditate a livello internazionale (riportate anche nel Def). Dal 2016 al
2018 le stime del Governo Renzi diventano persino più ambiziose, e altrettanto
ingiustificate. La ripresa nell’intero arco temporale di riferimento del Def viene affidata
ancora una volta al mercato. Con espressa descrizione dei diversi contributi alla crescita
viene stimato un maggiore impatto positivo sul Pil delle cosiddette riforme strutturali
previste nel Pnr e, in particolare, delle semplificazioni amministrative, delle liberalizzazioni
e dell’ulteriore deregolazione del mercato del lavoro, rispetto a quello della riduzione delle
imposte al lavoro e alle imprese (in verità, uniche misure a sostegno della domanda
effettiva). Come se non bastasse, inoltre, i moltiplicatori fiscali (negativi) utilizzati per
calcolare l’impatto del consolidamento fiscale (soprattutto la riduzione della spesa
pubblica) appaiono decisamente sottostimati, oltre che incoerenti nel confronto con quelli
scelti per le misure positive. Maturare un avanzo primario del 5% nel 2018 (circa 79,4
miliardi di euro correnti) significa inevitabilmente comprimere la domanda effettiva,
qualunque sia il moltiplicatore di riferimento.
E ancora. Non basta l’attribuzione ideologica al pensiero (unico) liberista per interpretare i
molteplici errori di valutazione politico-economica. Trascurando per un momento la
plausibilità delle simulazioni econometriche e delle simulazioni d’impatto delle diverse
misure previste dal governo nel Def, la cornice teorica a cui si affida la ripresa resta tutta
dentro una logica mercantilista, fondata ancora una volta su austerità, svalutazione
competitiva del lavoro, deleveraging e contenimento dell’inflazione (da domanda). E già
solo per questo non può funzionare. Ormai, cinque anni di rilevazioni (e di previsioni
sbagliate da parte di governi nazionali e istituzioni sovranazionali) confermano che il rigore
dei conti e la ricerca di fiducia nei mercati non bastano a ritrovare la ripresa. Non si può
contare sul ritorno di una favorevole congiuntura internazionale se non si risolvono le
cause alla radice della crisi e degli squilibri strutturali dell’economia mondiale che hanno
generato i vuoti di domanda globale. È persino sufficiente osservare i soli indicatori dello
scoreboard (riportato nel Pnr) usato dalla Commissione europea per valutare gli squilibri
macroeconomici degli Stati membri per comprendere immediatamente l’origine della crisi e
l’inefficacia delle politiche europee perseguite si qui.
Anche nella migliore delle ipotesi, dunque, in Italia uno shock della domanda interna e la
ripresa delle esportazioni non può essere, di per sé, sufficiente a uscire dalla crisi. Basti
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ricordare che il tasso di disoccupazione previsto per il 2018 è l’11%, mentre nel 2007 era il
6,1%. Di certo, poi, non si può pensare di scommettere di agganciare una qualsiasi ripresa
del commercio internazionale – sempre ancora tutta da dimostrare – senza aver
convertito, riqualificato e innovato il tessuto economico e produttivo del nostro Paese.
Tuttavia, nel Def non è presente alcun piano di investimenti che innalzi il contenuto
tecnologico e di conoscenza del sistema di imprese italiane, pubbliche e private. Così
come non è programmata nessuna distrazione di risorse in direzione di maggiori fondi a
sostegno dell’innovazione e della ricerca. Non c’è nessuna similitudine con programmi di
creazione diretta di lavoro di rooseveltiana memoria in funzione dei beni comuni, dei beni
sociali o dei beni ambientali. Non c’è più traccia del primo Jobs Act annunciato lo scorso
gennaio, in cui una tenue evocazione del piano per il lavoro di Obama, in riferimento agli
investimenti pubblici in innovazione, green economy, infrastrutture materiali e immateriali,
reti energetiche, edilizia sostenibile. Nessuna politica industriale. Anzi, il ruolo economico
dello Stato è esplicitamente e deliberatamente condizionato all’auspicato avanzamento del
mercato, all’inutile ricerca della concorrenza, all’attrazione dei capitali privati e alla fiducia
della finanza internazionale. La riforma delle istituzioni rientra in questa logica; tra l’altro,
non molto diversa da Destinazione Italia (non a caso, provvedimento riportato nel Pnr).
Un’altra evidente traccia della scelta di competere sui costi si trova nella modesta
proiezione del tasso medio annuo di variazione della produttività, nella riduzione del Costo
del lavoro per unità di prodotto (il famigerato Clup) e nel programmato contenimento
dell’inflazione, malgrado i numerosi richiami internazionali sul rischio di deflazione e sulle
ovvie conseguenze sul debito pubblico e sull’occupazione.
La verità è che tutte le incoerenze tecniche contenute nel Def – molte più di quelle citate –
non sono altro che la naturale conseguenza di deliberate scelte politiche. Ma anche
stando solo ai fatti (e ai testi) possiamo tranquillamente affermare che non è la svolta
buona.
Di nuovo. Non sappiamo se si tratti di tempismo politico e, perciò, della scelta – tutta
tattica – di accendere una vertenza europea, o anche solo di aprire una trattativa con la
Commissione, solo dopo aver fatto “i compiti a casa” e solo dopo le elezioni europee. Quel
che sappiamo, però, è che il governo non ha usato i margini di deficit spending possibili,
benché abbia previsto una «deviazione temporanea del percorso di avvicinamento verso il
pareggio di bilancio in termini strutturali». Né tanto meno è stata avanzata una diversa
modalità (misure, modalità istituzionali, strumenti, moltiplicatori, parametri, ecc.) di
raggiungimento dei – pur sempre discutibili – obiettivi di risanamento dei conti. A oggi, la
rinuncia all’obiettivo del recupero dell’occupazione pre-crisi e, più in generale, all’obiettivo
della piena e buona occupazione è tanto chiara quanto inaccettabile. Un programma di
governo dell’Italia, come quello definito dal Patto di stabilità e dal Piano nazionale di
riforme, deve essere più ambizioso.
Del 16/04/2014, pag. 10
«Caro Matteo...» un milione di cartoline dei
pensionati
Dal congresso Spi-Cgil un appello al confronto con il governo e al
rispetto dei più deboli
Cantone: noi non rubiamo il futuro dei nostri figli e nipoti
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MASSIMO FRANCHI
Un milione di cartoline, una decina di sms e tante punzecchiature. Carla Cantone e Matteo
Renzi rappresentano i poli opposti: il segretario dei pensionati Cgil e il premier più giovane
della storia italiana. La notizia però è che si parlano. Lo ha rivelato la stessa Carla
Cantone durante la sua - al solito scoppiettante - relazione al diciannovesimo congresso
dello Spi, aperto ieri a Rimini. Una relazione incentrata sulla concertazione - “Se non va
bene chiamiamola Giuditta, ma confrontiamoci” - con il governo e sui temi interni alla Cgil
con una richiesta “forte di unità”. Certo, il rapporto Cantone-Renzi per ora è soltanto
epistolare o telematico, mentre l'incontro vis a vis è ancora lontano. Partito al tempo delle
primarie Pd - nelle quali Cantone ha appoggiato prima Bersani e poi Cuperlo – ha sempre
viaggiato tramite messaggi di testo telefonico con gli auguri per la nomina a presidente del
Consiglio e conseguente ringraziamento, diventando poi scambio di frecciatine su
parecchi temi di attualità. Nelle quasi due ore di relazione – mezz'ora in meno del record
stabilito e beffardamente sottolineato di Landini nello stesso luogo la settimana scorsa – il
tema della “rottamazione della concertazione” e “del sindacato confederale” è stato
preminente. Senza mai nominarlo, i messaggi a Matteo Renzi sono stati tanti. “Se
qualcuno continuasse nel suo pensiero strategico di fare a meno del sindacato, noi con la
nostra lunga storia gli faremmo cambiare idea. Non rinunciamo a svolgere il nostro ruolo di
rappresentanza. Certo, ha ragione Susanna Camusso – seduta accanto a lei - a dire che
non pietiamo alcun tavolo, ma posso pretendere il confronto da un premier che è anche il
leader del più grande partito di sinistra? Altrimenti significa che il mondo è capovolto. E se
si è capovolto occorre raddrizzarlo”. Anche perché “quando non si accetta il confronto è
perché si vuole avere il controllo e il potere di decisione su tutto. Ma il decisionismo e la
velocità fine a se stessa sono spesso destinate a cadere con un forte rumore”. E dunque a
Renzi arriveranno “un milione di cartoline” mandate assieme a Fnp Cisl e Uilpa “per
chiedere un confronto almeno con i ministri di Welfare e Sanità”. L'orgoglio della categoria
più rappresentativa – quasi 3 milioni di iscritti su un totale Cgil poco inferiore ai 6milioni –
viene dalla propria storia. “Siamo tutti stati lavoratori, abbiamo combattuto per i diritti e non
ci stiamo a passare per i ladri di futuro dei nostri figli e nipoti!”. Il tutto in un Paese dove
“l'ottanta per cento dei poveri ha più di 65 anni”. E allora la critica principale al governo è di
perseguire “la giustizia sociale solo al 50 per cento, visto che gli 80 euro non sono previsti
per noi pensionati, quasi fossimo dei cittadini svedesi”. La “promessa” di Renzi di alzare le
pensioni nel 2015 viene considerato “positiva: speriamo che il 2014 passi in fretta”. Enrico
Berlinguer e Guido Rossa sono i nomi che emozionano i 750 delegati e i tanti ospiti – i
segretari Cgil di categoria, la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, Stefano Fassina,
Gianni Cuperlo, Ciccio Ferrara ( Davide Faraone ha mandato un messaggio). Sui temi del
congresso Cgil, Cantone ha puntato tutto su un richiamo alle radici dell'unità confederale:
“Come Spi abbiamo ascoltato per scongiurare rotture”, d'altronde “l'unità è un bene
importante da maneggiare con cura. Stare uniti non è una regola statutaria, ma
un'esigenza” perché “la Cgil rimane anche dopo di noi”. L'appoggio al Testo unico sulla
rappresentanza arriva con qualche distinguo - “sulle criticità”, compreso il ricorso alle
sanzioni. Dopo la battuta su Berlusconi - “Speriamo che agli anziani racconti barzellette,
ma non si iscriva allo Spi” - si chiude con “L'inno dei lavoratori” sulle parole di Filippo
Turati, cantato all'unisono da Cantone e Camusso.
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