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Editoriale
Si apre con questa uscita una stagione nuova – ed una se ne chiude – de “l’Ulisse”. Il doppio numero 7-8
vede l’avvicendarsi di Italo Testa a Carlo Dentali nella terna di direzione, oltre ad alcune altre novità di
rilievo, come, ad esempio, l’adesione ad una apertura ad un taglio più “internazionale” (e l'ampliamento de
“I Tradotti” è, infatti, uno dei mutamenti più consistenti).
Si è voluto introdurre questa volta un tema prettamente linguistico: con un’indagine su quali siano i
linguaggi/risorse attuabili e percorribili oggi, per rendere conto di alcune possibili esperienze del presente
della poesia. Queste le coordinate di partenza, nella sezione “Saggi e incursioni” tripartite in: “Esperienze
dei linguaggi”, “Linguaggi e traduzioni” e “Sui dialetti”.
Autore del primo testo della sottosezione “Esperienze dei linguaggi” è Nanni Balestrini. In “Linguaggio e
opposizione” (testo originalmente apparso in I novissimi. Poesie per gli anni ’60, Edizioni del Verri, 1961),
Balestrini pone al centro – a ridosso delle evenienze che, nel “comune linguaggio parlato”, vengono dal
«bisogno di servirsi con immediatezza delle parole», e che portano ad «un’approssimazione per difetto o
per eccesso rispetto al contenuto originario della comunicazione, giunge[ndo] persino a modificarlo, a
imprimergli direzioni nuove», con l’«improvviso scattare di impreveduti accostamenti, di ritmi inconsueti, di
involontarie metafore» e di «straordinarie apparizioni che arrivano a illuminare da un’angolazione insolita
fatti e pensieri» – l’idea di «una poesia che nasca e viva diversamente»: «apparentemente meno rifinita,
meno levigata, non smalto né cammeo[; e] più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in
linguaggio, espressione confusa e ribollente». Ed «il risultato di questa avventura sarà una luce nuova sulle
cose, uno spiraglio tra […] conformismi e […] dogmi». Una poesia che viga cioè come «opposizione», al
«dogma e al conformismo che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che […]
avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi».
Marco Giovenale e Gherardo Bortolotti introducono ad un esame serrato di «soggetto (autore o lettore)» e
«testo» nel “fare letterario”, e «costruendo un’opposizione tra installazione e performance». L’installazione
è, qui, «oggetto che può darsi (ed emettere senso) indifferentemente dalla presenza del suo ideatore»,
laddove la performance «in nessun caso può prescindere dal “performante”». In questa idea, «le scritture
che si pongono il problema di fornire strumenti per l’esperienza contemporanea hanno deciso di lasciare il
discorso “sul” mondo a favore del discorso “nel” mondo» e, come chiarisce poi Marco Giovenale, «una
scrittura di ricerca che chiede e anzi prescrive al “pubblico” dei lettori e ascoltatori un certo tipo di reazioni
riferite alla presenza dell'autore, è [sempre] paragonabile a (non uguale o coincidente con) una
performance».
Segue Stefano Guglielmin. L’interesse, in questo caso, si focalizza su come la realtà non sia «sostanza unica
e omogenea», e su come questa non possa trovare «nell’eccellenza di una lingua la chiave di volta del
disvelamento, laddove invece, […] l’apertura storico-linguistica è plurale, stratificata, conflittuale, e dunque
non può che essere detta negli infiniti modi della singolarità».
In “La metafora obliqua di Moresco” è offerta, per campionatura, l’analisi dello scrivere di Antonio
Moresco, di come «uno dei suoi istituti fondamentali sia rappresentato dalla metafora». Giampiero Marano
mette difatti ad attenzione come questa (la metafora) costituirebbe «il prodotto di un’irruzione, di un
flusso minacciosamente indistinto di materia e senso verbale […], di una invasione»: e «in Moresco la
frequentissima irruzione di metafore e, a tratti, la loro proliferazione assumono costantemente i connotati
dell’obliquità, di un agire distanziato, differito o indiretto». In più una simile scrittura «non tende soltanto a
una tipizzazione (e non esattamente nel senso lukacsiano del termine…), cioè a una stilizzazione in chiave
formulare di linguaggio e di visioni tale da avvicinarla all’epos, ma inoltre, riconoscendo nel mondo
l’immanenza di forme e strutture che tornano ciclicamente, si assicura la possibilità di cantare il caos».
Il testo (in traduzione di Gherardo Bortolotti) di K. Silem Mohammad sui “Sought poems” pone luce su
come guardare alle «procedure in cui il materiale testuale usato […] è fornito almeno in parte prima che
l’atto della composizione in quanto tale abbia inizio», e «disciogliendo ulteriormente il ruolo dell’autore
unitario nel riorganizzare e nel riformare il materiale di partenza». L’“elemento collaborativo” viene, in
questo caso, da «un’autorialità multipla simulata, [da] una collaborazione forzata o finta con altri soggetti –
soggetti la cui reale identità può anche essere sconosciuta o non rintracciabile». Il “Sought poem” guarda
ad un «processo d[el] cercare […] aggressivo […], con l’intento di elencarlo in qualche struttura. I sought
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poems emergono come il risultato di una chirurgia invasiva operata su corpi pre-straziati» e su voci che –
attraverso il “medium” Google – «sono già state co-optate o dis-optate molte volte in conseguenza del loro
inserimento nel grande catalogo casuale di Internet», e che opera «provoca[ndo], pungola[ndo] ed
incita[ndo] all’esistenza» un testo.
“Propositi per una decadenza” sposta il fuoco su varie ed altre vive questioni. È «quasi vanitas chiedersi
quale sarà (o dovrebbe essere oggi) la lingua della poesia, ed è ovvio che non deve assumere – come
accade – il ruolo di una conservazione illusoria (e: illusoriamente piccoloborghese, piccolocattolica, ecc.
[…])»; «rispetto alle […] polarizzazioni sterilizzate dal cambiamento oggettivo del mondo» dovrebbero
esserci «altre vie»: «qualcosa che si install[i], pietrificandosi e riconoscendo, nello stesso tempo, la propria
deperibilità». «La comunità poetica italiana[, invece,] continua ad agire come se avessero senso e dignità
cose diverse dai corpi e dal tempo (i corpi sono i veri parlanti, e il tempo è tempo anche per le lingue, oltre
che per i corpi). Eppure: ora la poesia non deve trasformarsi ex abrupto, per senso di colpa, in un registro
pedissequo dell’invecchiamento, della sostituzione etnica e della sopravvivenza del vecchio nel nuovo;
mentre il suo corpo, non degradabile, ha il dovere della mediazione e dell’indipendenza». Infatti, oggi, la
«maggior parte del suo lavoro» dovrebbe consistere nel «non scendere a patti con chi vuole coinvolgerla in
dualismi che si riveleranno, non troppo tardi, mortali e vani: come chi li ha fomentati, confondendo uno
struggle for life più che provinciale con un’esigenza artistica. Così il gioco del massacro tramonterà, senza
troppi lamenti: perché la sua fine sarà contemporanea a quella dei suoi parlanti». Il testo è di Massimo
Sannelli.
Nel suo contributo Luigi Severi considera la marginalità di collocazione della lingua poetica in un contesto
comunicativo popolato di lingue (giornalistica, pubblicitaria, telematica, ecc.), debolmente significanti ma
potentemente pervasive e manipolative. Da questo sistema della parola a-semantica è inevitabile che la
lingua della poesia sia messa al bando. La sua parola è pericolosa, infatti, in quanto non assimilabile dal
mercato, poiché dotata di senso: in essa è insopprimibile la diacronia, affidando/affondando essa le radici
nella propria tradizione, ma anche della lingua storica. La poesia è, per Severi, violazione del non-senso
contemporaneo, e punto di vista esterno al sistema. Il che sarebbe tanto più vero, quando la sua lingua è
sperimentale, di modalità accumulativa, cioè iper-rappresentativa. Esemplare, secondo l’autore, resta la
strategia poundiana, che condurrebbe, per unica strada, a Tony Harrison. Per mezzo di mescidazione e di
giustapposizione la lingua poetica arriva ad essere somma di rappresentazioni, e storia in atto.
Formalizzando gli scoppianti materiali esogeni, essa ricostruirebbe un senso, lo reinventerebbe,
riconducendo, contro la stasi attivistica e mercantile della realtà, a un principio di pensiero.
Apre l’indagine su “Teoria e pratica della traduzione” Franco Buffoni, con il suo saggio “Traduttologia come
scienza e traduzione come genere letterario”. Nodo, qui, è il “come” del «riprodurre lo stile»: poiché «la
traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione di un testo; essa
dovrebbe piuttosto essere considerata come un processo, che vede muoversi nel tempo e – possibilmente
– fiorire e rifiorire, non “originale” e “copia”, ma due testi forniti entrambi di dignità artistica». Nel fare del
traduttore, solitamente, il «testo cosiddetto di partenza» è sempre «considerato come un monumento
immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Eppure anch’esso è in movimento nel tempo, perché in
movimento nel tempo sono – semanticamente – le parole di cui è composto; in costante mutamento sono
le strutture sintattiche e grammaticali, e così via». L’opera è sempre in «trasformazione o, per l'appunto, in
movimento nel tempo». Vitale – ci dice con Friedmar Apel – è il «concetto di “movimento” del linguaggio»,
e che deve essere messo al centro, per «togliere ogni rigidità all'atto traduttivo» e «guardare nelle
profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario, idea [che è]
comunemente accettata per la cosiddetta lingua di arrivo».
Il secondo intervento è di Martha Canfield (con, anche, sue versioni di Sergio Badilla, Yves Prié, Jorge
Arturo, Rami Saari, Eloy Santos, Samer Darwich, Yasuhiro Yotsumoto e Philip Meersman), che, attenta
nell’indagare le dinamiche e i comportamenti del cambiamento avvenuti nel/dal Novecento, nota come la
globalizzazione ha fatto sì che il «poeta del terzo millennio» possa «viaggia[re], legge[re] in molte lingue,
conosce[re] e stabili[re] rapporti molto più facilmente di una volta con persone di altre nazioni e dai
costumi molto diversi». E, così, «l'orizzonte personale si allarga, amore e amicizia diventano possibili al di là
delle frontiere e delle consuetudini, i pregiudizi vengono messi in crisi dalla familiarità con il diverso».
Propone, poi, una rassegna antologica di otto poeti provenienti da otto nazioni diverse che hanno fatto di
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questa «aura internazionale e multiculturale» – di questa «dimestichezza con luoghi lontani dalla terra
natia, [di] questa appartenenza ormai al “villaggio globale”» – vena di una prospettiva poetica nuova e di
linguaggio.
«Due fatti, tra tanti, s’inscrivono nell’idea di passaggio, di transito: il fatto che qualcosa è lasciato – per
sempre oppure nella speranza di un prossimo ritorno là, dove si è partiti; il fatto che una novità è attesa,
cercata, tentata». Carla Canullo in “L’incomprensibile e la traduzione” indica come «tradurre [sia] far
accadere un trasferimento di senso; [ed] anche attingere alla potenza della metafora, della metonimia».
Non soltanto il «passare – tramite vocaboli o lessici sempre più specifici ed aggiornati – ad una lingua che è
altra, o un rendere disponibile a tutti, ma […] un mettere sul tavolo la posta in gioco del testo da tradurre,
la sua complessità, il suo senso e la sua storia. È desiderare che nella banalità espropriante si acceda al
proprium del testo e del suo linguaggio». Infatti «l’esperienza e la traduzione come esperienza sono un
banalizzarsi per tornare a sé, per tornare al proprium del testo e, tramite ciò, a quel proprio proprium che
non è mai il risultato di una appropriazione definitiva ma che è il segno dell’incessante divenire, noi stessi,
ciò che si è; incessante divenire che accade grazie ai transiti e passaggi quotidiani che compiamo, vivendo.
In fondo, la posta in gioco è il mistero che il linguaggio del testo custodisce. È il mistero del sé, di chi scrive e
traduce». Mentre Giampaolo Vincenzi, con “Appunti sull’ermeneutica e sull’etica della traduzione da
Schleiermacher a Berman”, mostra come l’analisi si possa giovare guardando alla «reciproca influenza tra il
lavoro che il traduttore svolge nel traslare un’opera d’arte poetica, e quella rete di leggi inconsce e culturali
alle quali il traduttore stesso è vincolato nell’operazione di lettura e di riscrittura». La traduzione, infatti,
«non è solo un risultato testuale di un lavoro, ma è il processo stesso di trasformazione di un testo in un
altro praticato da un individuo che possiede una sua cultura particolare, e nel contempo è posseduto da –
fa parte di – una cultura. Il testo tradotto, oltre ad essere il risultato del processo, è anche il banco di prova
sul quale il traduttore si misura e sul quale lo studioso tenta di ricercare le tappe tramite le quali il percorso
traduttivo si è dipanato».
Seguono, poi, esperienze di poeti traduttori. Luigi Ballerini porta in causa un testo che, da breve
testimonianza iniziatica, rapidamente scorre, per exempla, lungo le quattro direzioni in cui l’autore ha
svolto l’attività di traduttore: testi altrui portati dall’inglese in italiano, testi dello stesso autore volti
dall’inglese in italiano, testi dell’autore tradotti dal milanese in italiano e, infine, testi altrui (di Cavalcanti)
resi dall’italiano in milanese. In coda, con una sorta di affettuoso venenum, la divertita/divertente e
rovinosa ingerenza di un hapax legomenon.
Da parte sua, Yves Bonnefoy illustra in “La frase breve e la frase lunga” – testo a cura di Donata Feroldi, già
apparso in La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004 – come venga
accolta con «impazienza», da altra tradizione linguistica, l’«abitudine» della/alla “frase lunga” francese. Ad
essere “sospetto”: «lo spirito che […] accompagna le parole», ed «il fatto che colui che [scrive la frase
lunga] sembra vederla accadere in un luogo mentale in cui, dispiegandosi in una forma intelligibile, essa
può pretendere di costituire la verità dall’interno[,] trionfando così sull’oscurità dei fatti che ha il compito di
analizzare ma anche, ancora di più, sull’idea stessa di oscurità, vincendo il timore che ciò che è sia
impenetrabile a colui che pensa». L’analisi attraverso cui ci conduce muove a chiarire come «l’autore di
questa frase tridimensionale non dubiti affatto del suo svilupparsi nello spazio stesso dello spirito,
accedendo a una tale purezza attraverso l’esercizio congiunto della logica e di una sintassi che aiuta a
dissipare, di fronte alle parole e in esse, quanto intralcia l’adæquatio rei et intellectu», e come «il discorso
incriminato può non aver voluto far altro, nello specifico, che abbozzare ciò che il lettore dovrà portare a
compimento, non la formulazione di una legge, ma la sintesi di un essere-al-mondo».
Guarda ad una specie di “inventario” della sua «officina di traduzioni» Giovanni Giudici – ed è ancora un
testo da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004. Vitali per lui,
nella “necessità” del tradurre sono la spinta a «penetrare [n]ella poesia», ed un “mistero”. Giudici vede
come «tra le condizioni favorevoli alla traduzione di poesia si debba comprendere anche quella di una forte
“escursione” (o differenza) tra la lingua da cui si traduce e quella in cui si traduce; divario o “salto” o gap
che sia sufficientemente apprezzabile da invogliare allo sforzo di colmarlo e nel quale si colloca appunto lo
spazio ideologico-motivazionale-operativo della traduzione». E «tradurre una poesia in queste condizioni è
una sorta di avventura, un inoltrarsi in un paese sconosciuto, mossi da un amor de lonh, affascinati come
Jaufré Rudel da una bellezza non veduta, da un “sentito dire”; è un conquistare a noi stessi quella poesia e
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con essa qualche più o meno vivo lacerto della “strana” ed “estranea” lingua in cui è scritta e magari del più
o meno remoto tempo e/o luogo in cui venne scritta in origine».
Niva Lorenzini in “Uno Shakespeare praticabile” – testo scritto come introduzione alle traduzioni dai
Sonetti, di Edoardo Sanguineti, uscita per Manni nel 2004 – mette evidenza su alcuni dei moventi
costituzionali dell’operare una traduzione per Sanguineti (e su ciò che «definisce la singolarità della [sua]
resa»). Cifra è qui una contrainte, dove tale contrainte è intesa «come l’attenzione a mantenere, in
traduzione, il ritornare di un termine, del suo suono, quasi a stimolare – parola d’autore – “associazioni
libere”», e che «aiuta a definire una sorta di codice, cui Sanguineti resta fedelissimo». Ne viene una resa
compiutamente leale, «ogni volta che si impongano nel testo shakespeariano forme di iterazione, stilemi
anaforici, parallelismi».
I successivi tre interventi immettono nel confronto la riflessione su campi/sopravvivenze/dinamiche
odierne dell’operare/riflettere sul/nel dialetto. Il primo, di Giovanni Nadiani, introduce ad un esame della
traduzione “commissionata” a “fini drammaturgici”: «la dominante – qui – propenderà […] per una resa
scenica […], affidandosi a una visione traduttologica […] in buona parte “addomesticante”» e ripiegata
«sulle esigenze della produzione e della regia con in mente il loro pubblico», sulla «usabilità performativa
del testo scritto», e sulla sua «attuabilità da parte di attori/agenti». Il suo saggio muove quindi ad
analizzare domande e questioni che sorgono da questo operare, con una operazione a tutto campo che
sfocia nell’attenzione – viva negli ultimi anni – sulle «problematiche complesse come quelle di “minoranza”
e di “minorità”, soprattutto in una prospettiva post-coloniale, inter- e multiculturale e di genere […] nonché
– entrando nello specifico linguistico – alle difficoltà di riproduzione nella lingua d’arrivo di elementi
linguistico-culturali minoritari, [e] concernenti la resa di elementi dialettali […] verso una grande lingua
veicolare […] a scapito di tutto quanto non ha le sembianze di uno pseudo-standard».
Elio Talon si appunta invece su una sezione dei propri moventi e del proprio cammino di poeta dialettale.
«Lingua madre è – infatti – la lingua nella quale apprendi l’essenza vitale delle parole, il respiro che è loro
concesso è lo spazio che hanno nell’esistenza quotidiana: si apprendono i concetti con le loro altezze e le
loro profondità».
Infine Edoardo Zuccato parte dal rilievo che la «sistematizzazione della poesia italiana del Novecento […] in
corso tramite […] antologie e convegni non sembra deviare granché dalle linee impostate dalla storiografia
risorgimentale, i cui contributi alla formazione di un canone nazionale unitario (e quindi di un’identità
nazionale) sono stati tanto decisivi quanto falsificanti», ed in opzione sempre monolinguistica. E infatti, se
in Italia le ultime generazioni «hanno dimenticato o stanno dimenticando il dialetto, senza aver per questo
davvero imparato l’italiano, […] si potrebbe dire che dall’unità d’Italia a oggi si è verificato un passaggio
dall’analfabetismo di massa all’analfabetizzazione di massa» – il cosiddetto italiano dei “semicolti” –
«l’ostilità all’Italia delle regioni e delle città, quella cioè dei dialetti, ammessa tutt’al più come fenomeno
comico e folcloristico, è l’altra faccia della mentalità diffusa da cui emerse un nazionalismo che si risolse in
breve in un penoso provincialismo: […] troppo piccole per affrontare molti problemi materiali, le nazioni
paiono invece a volte troppo grandi per soddisfare quelle esigenze emotive di appartenenza che, per
quanto pericolose e criticabili, sembrano comunque necessarie ai più». Ma non si tratta qui «solo di
difendere le minoranze linguistiche, cosa di per sé giustissima, ma di permettere che rimanga attivo e in
vita tutto il patrimonio linguistico dell’Italia, che, come sappiamo, non ha eguali per varietà e ricchezza in
nessun altro paese europeo»: la «sfida» è quella di «trovare un atteggiamento ragionevole ugualmente
distante sia dall’ostilità verso i dialetti che troppo spesso è prevalsa in passato fra le autorità, sia dallo
spirito da riserva indiana che le norme sulle minoranze si portano sovente appresso».
Segue la sezione “In Dialogo”: Umberto Fiori intervistato da Italo Testa.
Chiude il numero la consueta porzione antologica de “Gli Autori”: una panoramica molto variegata (e
volutamente allargata rispetto ai numeri precedenti de “l’Ulisse”), che riprende lo schema ‘esperienze dei
linguaggi/traduzione/dialetti’ proposto nella sezione saggistica. I testi sono di: Gabriele Frasca, Giuliano
Mesa, Maria Grazia Calandrone, Annamaria Carpi, Lorenzo Caschetta, Alberto Cellotto, Mauro Ferrari,
Vincenzo Frungillo, Andrea Inglese, Tommaso Lisa, Alberto Mori, Luciano Neri, Marina Pizzi, Jacopo
Ricciardi, Lidia Riviello, Luigi Socci.
Se ne “I tradotti”, da questo numero in avanti una partizione fissa della rivista, si accolgono testi originali di
Pascal Quignard, Joë Bousquet, Kurt Drawert, Oliverio Girondo, Jean-Marie Gleize, Guy Goffette, Lyn
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Hejinian e Chong Hyonjong; Pierluigi Cappello, Azzurra D’Agostino, Andrea Longeva, Gianni Priano ed Elio
Talon ed Assunta Finiguerra vengono infine a rappresentare la voce “poesia dialettale”.
Stefano Salvi
La voce di Ulisse: Italo Testa
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AUTOSCONTRO
Si esce un giorno, a comporre un inventario, registrare le presenze, tentare uno scontro. A volte le cose
che premono sulla soglia lasciano una traccia, mandano un segnale, a volte s’incuneano. A tratti
penetrano minacciose, fanno piazza pulita delle parole. Non è mai solo all’interno che ci si muove, si
prendono le misure. E neppure il linguaggio precede soltanto o segue unicamente: che se questo fosse
l’oggetto, e finanche il soggetto, la porta rimarrebbe chiusa, il fantasma ripiegato in se stesso: lo scontro
con le cose rinviato per sempre.
SOLO CON ALTRI
Ogni giorno, quando il bisogno di effrazione si rinnova in poesia, l’ottusa ontologia del linguaggio si
spezza. Allora si è là, nel mezzo, esposti alla pluralità senza scampo: quanto più le lingue, i codici si
moltiplicano, si ibridano nelle povere teste allo sbando, tanto meno queste stanno solo con se stesse. La
noia limacciosa di una lingua che parla di sé e nient’altro turbata, ancora una volta, dall’urto delle
esperienze. D’un soffio, almeno, poter sollevare la testa, sognare che non sia solo palude.
CON ASTUZIA
Non si sa se è la vita che si va a raggiungere. Consegnati si resta pur sempre ad un adombramento, ma
per fuoriuscirne. Sensi, suoni, segni: inquadrarli esattamente, torcerli con astuzia. Nella mischia gettarsi
in un corpo a corpo, rubare il bottino e fuggire.
TRASPORTO ROVINE
Lì c’era molto da puntellare, mettere in salvo. Ma la ricerca era poi d’altro, attraversava le lingue per
fuoriuscirne. Sopra e sotto, sopra e sotto: da tutt’altra parte.
CHE COSA VEDI?
Dice: depredare il bambino del linguaggio per fissarlo in gesti. O ancora: spezzare il linguaggio per
raggiungere la vita. Ma a volte: bisogno di penetrazione. Oppure: una luce nuova sulle cose. Dice e
confonde, dice e annulla. Passando di qui, un giorno non ne sarà più niente: allora avranno finalmente
attraversato il guado. E oltre questo che cosa vedi?
Italo Testa
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SAGGI E INCURSIONI
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Esperienze dei linguaggi
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LINGUAGGIO E OPPOSIZIONE
Accade talvolta di notare con stupore, nello sclerotico e automatico abuso di frasi fatte e di espressioni
convenzionali che stanno alla base del comune linguaggio parlato, un improvviso scattare di impreveduti
accostamenti, di ritmi inconsueti, di involontarie metafore; oppure sono certi grovigli, ripetizioni, frasi
mozze o contorte, aggettivi o immagini spropositate, inesatte, a colpirci e a sorprenderci, quando le
udiamo galleggiare nel linguaggio anemizzato e amorfo delle quotidiane conversazioni: straordinarie
apparizioni che arrivano a illuminare da un'angolazione insolita fatti e pensieri.
Il bisogno di servirsi con immediatezza delle parole porta infatti a un'approssimazione per difetto o per
eccesso rispetto al contenuto originario della comunicazione, giunge persino a modificarlo, a imprimergli
direzioni nuove. La necessità di sottostare al tempo differenzia profondamente il linguaggio parlato da
quello scritto, che offre la possibilità di una stesura dilazionata, con modifiche, apporti, soppressioni. Ciò
che è detto è invece detto per sempre, e può venire corretto solo mediante addizioni successive, cioè
mediante una continuazione nel tempo.
Di qui si fa strada l'idea di una poesia che nasca e viva diversamente. Una poesia apparentemente meno
rifinita, meno levigata, non smalto né cammeo. Una poesia più vicina all'articolarsi dell'emozione e del
pensiero in linguaggio, espressione confusa e ribollente ancora, che porta su di sé i segni del distacco
dallo stato mentale, della fusione non completamente avvenuta con lo stato verbale. Le strutture, ancora
barcollanti, prolificano imprevedibilmente in direzioni inaspettate, lontano dall'impulso iniziale, in una
autentica avventura. E da ultimo non saranno più il pensiero e l'emozione, che sono stati il germe
dell'operazione poetica, a venire trasmessi per mezzo del linguaggio, ma sarà il linguaggio stesso a
generare un significato nuovo e irripetibile. E il risultato di questa avventura sarà una luce nuova sulle
cose, uno spiraglio tra le cupe ragnatele dei conformismi e dei dogmi che senza tregua si avvolgono a ciò
che siamo e in mezzo a cui viviamo. Sarà una possibilità di opporsi efficacemente alla continua
sedimentazione, che ha come complice l'inerzia del linguaggio.
Tutto ciò contribuisce a considerare oggetto della poesia il linguaggio, inteso come fatto verbale,
impiegato cioè in modo non-strumentale, ma assunto nella sua totalità, sfuggendo all'accidentalità che lo
fa di volta in volta riproduttore di immagini ottiche, narratore di eventi, somministratore di concetti...
Questi aspetti vengono ora situati sullo stesso piano di tutte le altre proprietà del linguaggio, come quelle
sonore, metaforiche, metriche..., tendono al limite a essere considerati puro pretesto.
Un atteggiamento fondamentale del fare poesia diviene dunque lo « stuzzicare » le parole, il tendere loro
un agguato mentre si allacciano in periodi, l'imporre violenza alle strutture del linguaggio, lo spingere a
limiti di rottura tutte le sue proprietà. Si tratta di un atteggiamento volto a sollecitare queste proprietà, le
cariche intrinseche ed estrinseche del linguaggio, e a provocare quei nodi e quegli incontri inediti e
sconcertanti che possono fare della poesia una vera frusta per il cervello del lettore, che quotidianamente
annaspa immerso fino alla fronte nel luogo comune e nella ripetizione.
Una poesia dunque come opposizione. Opposizione al dogma e al conformismo che minaccia il nostro
cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi.
Oggi più che mai questa è la ragione dello scrivere poesia. Oggi infatti il muro contro cui scagliamo le
nostre opere rifiuta l'urto, molle e cedevole si schiude senza resistere ai colpi — ma per invischiarli e
assorbirli, e spesso ottiene di trattenerli e di incorporarli. È perciò necessario essere molto più furbi, più
duttili e più abili, in certi casi più spietati, e avere presente che una diretta violenza è del tutto inefficace
in un'età tappezzata di viscide sabbie mobili.
È in un'epoca tanto inedita, imprevedibile e contraddittoria, che la poesia dovrà più che mai essere vigile
e profonda, dimessa e in movimento. Non dovrà tentare di imprigionare, ma di seguire le cose, dovrà
evitare di fossilizzarsi nei dogmi ed essere invece ambigua e assurda, aperta a una pluralità di significati
e aliena dalle conclusioni per rivelare mediante un'estrema aderenza l'inafferrabile e il mutevole della
vita.
Nanni Balestrini
[Apparso originalmente in: I novissimi. Poesie per gli anni ’60, Edizioni del Verri, 1961]
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TRE PARAGRAFI SU SCRITTURE RECENTI
1. INSTALLAZIONE vs PERFORMACE
Uno schema per organizzare molti dei testi proposti oggi può essere preso dalle arti figurative,
costruendo un’opposizione tra installazione e performance, questo soprattutto tenendo in considerazione
due dei vari elementi che girano intorno al fare letterario: il soggetto (autore o lettore) ed il testo.
In questo senso, l’installazione è quell’oggetto che può darsi (ed emettere senso) indifferentemente dalla
presenza del suo ideatore. Cioè il testo viene "progettato per" e "collocato in" uno spazio segnato
dall’assenza di una motivazione umana, per così dire.
La performance, invece, in nessun caso può prescindere dal "performante". Si noti: nemmeno quando sia
un attore a sostituire il poeta. Al centro sta comunque il corpo-testo (dunque daccapo l’autore) che si
riversa in un corpo-voce solo parzialmente "altro".
Questo, guardando l’evento artistico o testuale tenendo presente l’autore. Un discorso analogo può
essere fatto, però, guardando al pubblico.
L’installazione è quel loop oggettuale che può meccanicamente darsi e girare ed esistere anche durante
periodi virtualmente infiniti di assenza di sguardi. Al contrario, la performance può sì aver luogo anche a
sala vuota, ma in questo caso la si considera fallita. È un evento che chiede testimoni.
A questo aspetto, sempre sul versante della fruizione, se ne collega un altro. Al pubblico dell’installazione
viene richiesta una fruizione, un’esperienza (distaccata, come lettura/esplorazione della sua articolazione;
o partecipe - ma nei termini decisi da chi esperisce, non da chi si esprime). Per la performance ci si trova,
al contrario, di fronte a uno spettacolo, dunque certo ad una richiesta esplicita di reazione, quale che sia,
ma soprattutto ad un automatico coinvolgimento nello spazio dell’opera.
2. AUTORE E REALISMO
L’opposizione di cui sopra può essere letta in filigrana anche partendo da un’altra coppia di elementi
presenti nelle dinamiche della letteratura: il testo ed il mondo.
In questo senso, si può notare che, a fronte del disfarsi del mondo nelle centomila versioni che
quotidianamente ci vengono fornite, le scritture che si pongono il problema di fornire strumenti per
l’esperienza contemporanea hanno deciso di lasciare il discorso "sul" mondo a favore del discorso "nel"
mondo.
Questo, nella pratica della scrittura, sembra avvenire in due modi.
Da una parte, viene rifondata la funzione del narratore, collegandone lo statuto all’autore reale in quanto
sua espressione: si attribuisce all’esistenza storica di chi scrive la forza carismatica di coordinare le forze
centrifughe che disfano qualunque discorso sul mondo. Nella maggior parte dei casi, questa soluzione
appare isterica, perché così facendo, anziché collocare il discorso nel mondo attraverso la persona
dell’autore, in verità lo si rimette nel suo limbo ideologico-metafisico mitizzando l’autore stesso.
Questa istanza, in diverse declinazioni, è forse reperibile già nell’ultimo Pasolini, per fare un esempio, o in
Arbasino, ma se risaliamo agli ultimi anni, soprattutto in narrativa, è all’ordine del giorno: il narratore è
un narratore onnisciente non perché sa tutto della vicenda, ma proprio perché è l’autore a sapere tutto
del mondo (o almeno così dà ad intendere con varie strategie retoriche).
Dall’altra parte, si pensa che la rappresentazione dell’incoerente è pur sempre coerente e come tale, per
come va il mondo, non si situa nel mondo ma nel metafisico e, di conseguenza, si procede alla
decostruzione del narratore, alla sua destabilizzazione. In qualche modo, allora, ci si appella
all’esposizione della sintassi, dell’ordine realizzato come metonimia dell’ordine supposto o prova
dell’azione di ordine sul mondo che chi scrive si incarica di dare. Si colloca nel mondo il discorso nel senso
che lo si lascia nella fattispecie delle sue singole soluzioni. Questo tipo di lavoro lo si può vedere, nelle
varie espressioni possibili, nel Balestrini della Signorina Richmond o nell’ultimo Calvino o nei tanti francesi
e statunitensi che vengono scoperti in questo periodo: Rodrigo, Tarkos, Mohammad, Cadiot, Markson,
Alferi, etc…
3. ANTIRAPPRESENTATIVITÀ
Un’ultima nota per sottolineare come caratteristica comune, che si ritrova su entrambi i lati di entrambe
le polarità individuate, l’elusione o il rifiuto o il superamento della rappresentazione. Insomma
l’antirappresentatività delle scritture in corso.
Gherardo Bortolotti e Marco Giovenale
[testo apparso anche su GAMMM, http://gammm.blogsome.com]
10
_____________________________________________________
SU INSTALLAZIONE “VERSUS” PERFORMANCE
(in riferimento-commento a TRE PARAGRAFI SU SCRITTURE RECENTI)
Una scrittura di ricerca che chiede e anzi prescrive al "pubblico" dei lettori e ascoltatori un certo tipo di
reazioni riferite alla presenza dell'autore, è paragonabile a (non uguale o coincidente con) una
performance. Mentre una scrittura di ricerca che non chiede questo tipo di reazioni, e che più in generale
mette completamente tra parentesi la stessa esistenza reale o connotabile dell’autore (come accade alle
tracce sui muri, ai graffiti, alle opere anonime in generale, e a centinaia di versi bellissimi o sciocchi e
impalpabili della letteratura classica) assomiglia a (non è uguale o coincidente con) una installazione.
La differenza di intenzioni che separa performance da installazione è paragonabile [solo paragonabile: e
utilmente] alla differenza di intenzioni che separa i due tipi di scrittura. Sarebbe a dire:
Come la performance si struttura chiedendo pubblico e quasi prescrivendolo, mentre l’installazione può
esistere per anni senza spettatori favorevoli e reagenti e reattivi (che possono mancare, che non sono
prescritti), altrettanto si può dire (per possibile paragone e non per necessaria coincidenza) che da una
parte c’è un tipo di scrittura che intenzionalmente aspetta un pubblico e lo pre-forma e lo pre-scrive, e
dall’altra c’è un tipo di scrittura (talvolta perfettamente aleatoria, e davvero a-autoriale) che non preforma e non pre-scrive niente.
Inoltre. C’è una scrittura e prassi che adula/adora o anche solo sottolinea l’autorialità (o semplicemente o
ingenuamente o malevolmente o sinceramente) la prevede o addirittura la impone: la dètta. E c’è invece
una scrittura che prescinde tendenzialmente, anzi nettamente, per statuto proprio, dai connotati e dalle
intenzioni e dalla stessa identità e identificabilità e esistenza dell’autore come figura forte, come
‘detentore di ruolo’, come regolatore, se vogliamo. (Ergo, prescinde dal suo essere "garante" di "arte").
Si tratta di una scrittura che, semplicemente, rimette al testo (a "sé come scrittura") l'emissione di senso.
Diversamente, una scrittura paragonabile alla scrittura-per-performance non può di fatto essere esterna a
una autorialità marcata, alla presenza del corpo o voce agente, al performer. Se questo manca, manca
tutto, o facilmente (o plausibilmente, o spesso) "il testo non basta". (Può non bastare; è plausibile che
non basti; o ancora, e meglio: è accettato pacificamente dal gioco della stessa performance che non sia
prioritario che il testo in sé basti).
Al contrario, una scrittura paragonabile a una installazione di fatto può - come un oggetto abbandonato essere del tutto sganciata da una autorialità intesa in senso forte, connotante. Se manca l’autore, qui, se
è ignoto, nessuno si stupisce: è/era il testo a sollecitare la lettura: solo il testo: la sua identità di oggetto,
di nucleo linguistico, di rete di relazioni sonore e semantiche estranee al fatto che un tale individuo X
precisabile o delineato ne sia (ne sia stato) autore.
Codicillo. In una società spettacolare, la figura dell’autore è più importante dell’autore medesimo, che a
sua volta è più importante dei testi che scrive (dei valori letterari che quei testi possono includere). In
una società spettacolare possono coesistere autori ottimi e pessimi, questi ultimi acquisendo volentieri
fama e consensi per una qualche abilità attoriale, reale o meno, forte o dubbia.
In un contesto non-spettacolare, o anti-spettacolare, o indifferente o estraneo comunque allo spettacolo,
la figura dell’autore (con o senza palco) può non contare nulla. Talvolta la sua stessa esistenza oggettiva
viene serenamente svuotata di senso: non ne possiede alcuno. (Narciso non ha appiglio).
Semmai tutta l’attenzione è o vorrebbe essere puntata sulla pagina. (Attenzione: la pagina è anche un
vettore di suoni; è spartito e base di incisioni; dunque non esclude anzi fonda una esecuzione, cioè
un'interpretazione. "Esecuzione" e "performance" sono termini differenti, e fanno riferimento a prassi
niente affatto identiche).
In un tempo storico segnato dal dominio dello spettacolare avanzato, questa posizione appare come
conservativa semplicemente perché in Italia essa rinvia a quell’amore per la struttura materiale e
concreta del testo che aveva in critici (tutt’altro che "d’avanguardia") come Debenedetti i suoi alfieri. Ed è
bene che ad essi rimandi. Ma - in avanti - punta a linee artistiche ben attestate negli USA e in Francia
(dove con lo spettacolo ci si confronta forse con un’attenzione produttivamente ossessiva e febbrile).
11
L’idea o immagine di "installazione" è solo una metafora: ma è utile. Non si può attribuirle valore
definitorio o eccessiva stabilità e funzionalità; ma nemmeno è inutile o assurda. Dà conto - appunto come
metafora e immagine, non come descrizione - di un modo di fare letteratura. Un tipo di scrittura
installativa esiste, è diffusa, è scritta e letta. C’è.
È COME una scritta sul muro. Si è liberi di leggerla, valorizzarla, o no. In nessuno dei due casi essa
smetterà di esistere, né di emettere senso (per chi vuole avvertirlo).
Marco Giovenale
12
QUALE LINGUAGGIO PER QUALE POESIA, OGGI?
QUALE LINGUAGGIO PER QUALE ESPERIENZA, OGGI?
Credo che “linguaggio”, al singolare, sia una pratica che non è mai esistita, né storicamente né
poeticamente. Limitandoci alle origini della tradizione in volgare, è evidente infatti che, nel secolo della
poesia cortese, si rimava in molti altri modi, da quello comico parodico, allo stilnovo, dall’umbro
francescano, alla poesia didattica e religiosa dell’Italia settentrionale. A queste forme dell’immaginario,
corrispondeva poi, in una relazione niente affatto meccanica, una stratificazione sociale, geografica e di
potere tale da aprirci una complessità linguistica salutare, che la distanza dall’oggi ci permette di
approfondire senza l’urgenza che anima la domanda preliminare. Perché la questione del linguaggio mi
pare nasca, in questa sede, da un sentimento di comprensibile preoccupazione, effetto di un reale
impoverimento semantico entro la società tardo capitalistica e dalla triste emarginazione della poesia
italiana contemporanea, linfa in apparenza vitale entro la scorza della comunità, ma invero assente nei
luoghi che contano: fuori dal mercato, fuori dal Parlamento, fuori dai media d’informazione.
“Quale linguaggio per la poesia, oggi”, pur contenendo molte altre questioni interessanti (per chi
scriviamo? Da quale serbatoio ideologico attingiamo? Che cosa significa scrivere ‘poesia
contemporanea’?) è una domanda fuorviante perché pensa alla realtà come sostanza unica e omogenea,
che trova nell’eccellenza di una lingua la chiave di volta del disvelamento, laddove invece, come
accennavo all’inizio, l’apertura storico-linguistica è plurale, stratificata, conflittuale, e dunque non può che
essere detta negli infiniti modi della singolarità, anche in quelli più banali. Anzi, in quelli più banali,
l’apertura mostra meglio che altrove la propria superficie, il canto omologato che ci vorrebbe assoggettati
a valori condivisi e spesso mediocri. Non si tratta, allora, di dire semplicemente l’apertura (a meno che
non si sperimenti una poesia volutamente e criticamente di superficie), ma di mettere a dimora il nocciolo
della nostra/non nostra singolarità, dopo averlo parzialmente spogliato (integralmente è impossibile) dei
“si dice”, dei “si fa”, di quel Sì, insomma, che in Heidegger di Essere e tempo diventa il mondo
dell’inautenticità. Il poeta, in questo senso, deve cercare la propria declinazione, la voce che meglio
coniughi la complessità, in un canto unico eppure attraversato dalle fibre dell’esperienza comune.
Sbagliato sarebbe credere che questa voce, oppure quella che si muove in superficie, si conficchi al
centro di un bersaglio già dato, e sia dunque, fra tutte, la più vicina al modo in cui il vero s’incarna nella
realtà di oggi. Io credo che non ci sia un vero che primeggi ante litteram, un vero preliminare, ma
semmai che esso si dia, anche, come effetto di una costellazione poetica, a patto che quest’ultima sia
“onesta”, per dirla con Saba, ossia sgorghi da un progetto abbracciato con passione, verso il quale ci si
rimette con il metro dell’intelligenza e dell’impegno. Fare il meglio che si può, con la lingua che ci
appartiene e alla quale apparteniamo, senza mai essere soddisfatti, con umiltà, convinti che il testo così
forgiato sia degno di rispetto, ma senza idolatrie: è questa, credo, la via da seguire. E quando dico “con
la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo” intendo sottolineare l’infinità delle strade
percorribili, perché, se preferisco la poesia della Bishop a quella di Charles Olson, il cinema di Lynch a
quello di Rossellini, la pittura di Warhol a quella di Morandi, ma anche se vivo in un dato modo oppure in
un altro, la lingua in fieri (quella che de Saussure chiama “Langue”) sboccerà diversamente, si farà
“parola” nuova e imprevedibile anche per lo stesso poeta. Sarà un linguaggio, quello nato dall’incontro di
differenti radici con la creatività dell’autore, che arricchirà l’esperienza, tanto più quanto la poesia (e la
scienza e la filosofia e il senso comune) districheranno un significato credibile dalla muta verticalità delle
cose.
Dovremo tuttavia chiederci di quale forma d’esperienza stiamo parlando, considerato il fatto che quella
dominante, oggi, è di tipo intellettivo, d’impianto logico-formale, che scavalca sia il piacere dei sensi (“i
profumi, i colori e i suoni” delle corrispondances baudelairiane) e sia l’articolazione delle mani, per
radicarsi nevroticamente nell’uomo ad una dimensione, che ora vive – ancor più di quello marcusiano –
un eterno presente sovraccarico di stimoli senza altrove, un presente dai saperi omologanti e
costantemente aggiornati, privi di teleologia. Se è questa l’esperienza comune (e castrante) nei Paesi del
tardo capitalismo, allora interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla contemporaneità, significa
anzitutto riconoscere che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tali da saturare le esperienze legate al
sapere calcolante, mentre va sempre più inaridendosi quella lingua degli affetti e del profondo che certa
poesia, appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a queste due esperienze lacunose una lingua e
una sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e disfarsi continuo del presente – mi pare sia
l’azione spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è fondamentale), la sua eticità.
Stefano Guglielmin
13
LA METAFORA OBLIQUA DI MORESCO
Considerando come, e quanto programmaticamente, la scrittura di Moresco sappia divincolarsi dalla
stretta dell’antinomia poesia-prosa, non può stupirci il fatto che uno dei suoi istituti fondamentali sia
rappresentato dalla metafora. Al riguardo vorrei per un momento soffermarmi sulla celebre definizione di
questo tropo come onomatos allotriou epiphorà fornita da Aristotele nella Poetica (1457 b 10): la
metafora consiste nel “ricorso a un nome d’altro tipo”, nel “trasferire a un oggetto il nome che è proprio
di un altro”, nel “trasferimento ad una cosa di un nome proprio di un’altra”, traducono rispettivamente (e,
del resto, in modo impeccabile) Gallavotti, Lanza, Pesce. La versione italiana (“trasferimento”) non
accoglie però una sfumatura decisiva del sostantivo epiphorà: perché se è vero che il verbo epiphéro da
cui esso deriva significa in primo luogo “portare su, verso”, “to bear upon, further”, una delle sue
accezioni, secondaria ma non certo trascurabile, è quella di “portare contro”, “bring against”, “assalire”.
Proprio in questo senso epiphéro viene per esempio usato da Omero nell’Iliade (ou tis … soi … bareias
cheiras epoisei: “nessuno … ti … metterà le mani addosso”, I, 88-89), mentre nella medicina antica
l’epiphorà designa, tra l’altro, l’”assalto” della febbre (correntemente, invece, questa parola denomina
una patologia peculiare dell’occhio provocata dall’eccesso di secrezione lacrimale). Nella terminologia
aristotelica sembra sottesa un’idea di ostilità e di debordante aggressività che segna la distanza più netta
sia dalla visione della metafora come giustapposizione di saperi, sia da quella che la riduce a ornamento
sovrastrutturale del discorso. Non semplice “trasferimento” di nomi, la metafora costituirebbe piuttosto,
in questo tentativo di lettura, il prodotto di un’irruzione, di un flusso minacciosamente indistinto di
materia e senso verbale: o anche, per usare un termine molto caro a Moresco, di una invasione. In
Moresco la frequentissima irruzione di metafore e, a tratti, la loro proliferazione assumono costantemente
i connotati dell’obliquità, di un agire distanziato, differito o indiretto che si esprime con la mediazione del
genitivo - come nel classico precedente dantesco di Purg., I, 2: “la navicella del mio ingegno”. E’
soprattutto la seconda parte dei Canti del caos (uscita presso Rizzoli nel 2003: da qui sono estrapolate le
citazioni che seguono) a squadernare un abbondante campionario di metafore oblique che, con un esprit
de systeme spero discreto, può essere segmentato in almeno una decina di aree archetipiche: la sfera
(bolla, globo ecc.), che molto spesso investe oggetti come televisori e terminali (come a p. 14: “le bolle
dei video”) ma può anche riguardare la pancia e il ventre: “la grande sfera del ventre” (p. 52); il calco,
che interessa lo spazio e l’aria: “nel calco dell’aria immobilizzata” (p. 274); la catastrofe: “sotto la
catastrofe della volta celeste” (p. 240), “nella catastrofe dell’annuncio” (p. 393); la voragine (cratere,
buco nero), perlopiù con riferimento alla bocca (“il cratere della sua bocca tatuata”, p. 331), ma in
qualche caso alla creazione e alla visione: “nel cratere della creazione e della visione” (p. 298); il
passaggio stretto (il filo, il nastro, l’imbuto ecc.), nel cui àmbito rientrano p. es. la strada (“verso il nastro
di una strada più grande”, p. 201) e ancora la bocca (“nell’imbuto della sua bocca aperta”, p. 266); il
bozzolo (involucro, nicchia, sacco, scrigno, scafandro): “il bozzolo della sua testa” (p. 58); la maschera,
riferita a testa, faccia, volto: “le maschere ottuse dei volti” (p. 249); la pietra (macigno, massa,
mastodonte), ancora per il cranio e la testa: “il mastodonte della mia testa” (p. 197); la poltiglia (colla,
polpa, schiuma, melma, grumo), con un raggio di applicazione svaria dalla luce alla bocca,
dall’aria/atmosfera (“nella poltiglia dell’atmosfera”, p. 360) alle automobili, dalle radiazioni all’annuncio
(“la polpa increata di questo annuncio”, p. 231), ecc.; il proiettile (bolide, freccia, meteora, meteorite,
mitragliatrice, cuspide), in molti casi combinato con il cranio o con la testa (“il bolide della sua testa
rovesciato e puntato”, p. 398) e con la visione (“da dove nasce il proiettile della visione?”, p. 297). Quale
conclusione ci suggerisce questa veloce e certo incompleta ricognizione testuale? La scrittura di Moresco
non tende soltanto a una tipizzazione (e non esattamente nel senso lukacsiano del termine…), cioè a una
stilizzazione in chiave formulare di linguaggio e di visioni tale da avvicinarla all’epos, ma inoltre,
riconoscendo nel mondo l’immanenza di forme e strutture che tornano ciclicamente, si assicura la
possibilità di cantare il caos.
Giampiero Marano
14
SOUGHT POEMS (1)
Una delle caratteristiche più identificanti della poesia sperimentale contemporanea è l’accento che pone
sulle procedure in cui il materiale testuale usato dal poeta è fornito almeno in parte prima che l’atto della
composizione in quanto tale abbia inizio: tra gli esempi andrebbero incluse le operazioni basate sul caso
eseguite su testi-fonte, come in "Writing through the Cantos" di John Cage e nelle “Stanzas for Iris
Lezak” di Jackson Mac Low; gli esercizi di cut-up burroughsiani come quelli eseguiti da Ted Berrigan in
“The Sonnets”; altre forme di collage quali il sampling di Milton fatto da Ronald Johnson in “RADI OS”; e
le traduzioni omofoniche secondo la maniera di “Catullus” di Louis Zukofsky e “Men in Aïda” di David
Melnick .
I surrealisti, il dadaismo, l’Oulipo, e le altre tradizioni d’avanguardia, che hanno di volta in volta
esercitato una profonda influenza sulla New York School, sulla Language e le successive pratiche
sperimentali, hanno spesso usato questi metodi in sistema con qualche tipo di collaborazione,
disciogliendo ulteriormente il ruolo dell’autore unitario nel riorganizzare e nel riformare il materiale di
partenza.
Voglio parlare di una tendenza che mi sembra particolarmente visibile nelle opere recenti di certi poeti
post-avant, in cui l’elemento collaborativo è fornito non necessariamente da un’effettiva autorialità
multipla, almeno nel senso consueto (benché questo possa comunque accadere), ma da un’autorialità
multipla simulata, una collaborazione forzata o finta con altri soggetti – soggetti la cui reale identità può
anche essere sconosciuta o non rintracciabile. Potrebbe sembrare che il processo implichi una specie di
cooptazione all’ingrosso di voci individuali, ma queste sono voci che sono già state co-optate o dis-optate
molte volte in conseguenza del loro inserimento nel grande catalogo casuale di Internet, in cui i loro
messaggi spesso carichi di intense motivazioni sono riprodotti ad infinitum in istanze di chiacchiericcio
sublimemente immotivato. Nella democrazia estrema del web, gli hate groups di destra diventano
compagni di letto di ideologi marxisti, di specialisti nelle riparazioni fatte in casa, di solitari amanti degli
animali, ed i loro discorsi, in una tale stretta prossimità l’uno con l’altro, a volte formano improbabili
reazioni chimiche. Queste fusioni di immaginario forniscono gli ingredienti di base per il sought poem.
“Sought poem”, in quanto opposto a “found poem” (2) – o non tanto opposto a quanto estrapolato da.
Mentre l’idea dietro i found poems è che sono solo qualcosa in cui inciampi e dici ehi, questa è poesia, in
questo caso mi riferisco al processo di cercare in modo aggressivo qualcosa, con l’intento di elencarlo in
qualche struttura. I sought poems emergono come il risultato di una chirurgia invasiva operata su corpi
pre-straziati. Il poeta sa che questi felici – o infelici, a seconda dei casi – incidenti del linguaggio sono lì
fuori, ma potrebbero servire ripetute incursioni nel sottobosco prima che siano stanati. Il sought poem
non è atteso passivamente, ma provocato, pungolato ed incitato all’esistenza. Il poeta così assume un
livello di coinvolgimento che è, in molti modi, vecchia maniera: ancora una volta mette a pieno regime il
suo ego manipolatorio, e diviene responsabile di strutture aggressivamente intenzionali. Le intenzioni in
questione, comunque, sono necessariamente confinate in larga parte al livello della riorganizzazione
formale e degli elementi sonori e visivi dello stile, lasciando del tutto campo aperto ai casi del tema che,
per primi, rendono possibile il fiorire dell’estetico.
Nel mio caso, il medium prescelto è stato il motore di ricerca Google, o piuttosto le pagine dei risultati di
ricerca che Google tira fuori. Il procedimento tipico – quello che ho rubato a Gary Sullivan, il padre di
Flarf – fa come segue. Per prima cosa, inserisco qualche combinazione di parole e/o sintagmi per la
ricerca: diciamo “shock”, “awe”, “reindeer” e “peace sign”. Questo mi da sei risultati (con delle
intestazioni colorate che non possono essere duplicate qui per esigenze di stampa):
Money Clips and Jewelry Designed by Skystone and Silver
...Rebel Flag Moneyclip Red Panda Earrings Red Panda Pendant Reindeer Pendant
Road Bombs Pendant 3rd Army Pendant 7th Cavalry Pendant Shock & Awe Pendant. ...
www.skystoneandsilver.com/store.html - 75k - Mar 28, 2003 - Cached - Similar pages
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...is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front. ... Luna watches
on in awe and blushes slightly ... Usagi has a look of shock on her face which is ...
www.tcp.com/doi/smoon/movie/s.html - 53k - Cached - Similar pages
Live Reviews
...Highly Evolved’ is a short-sharp-shock of devastating ... around the hall, leaving you
in absolute awe. ... When considering that The Reindeer Section is comprised of ...
www.angelfire.com/sk2/mentalmusic/copy_of_Live.html - 98k - Cached - Similar pages
[PDF]EDITOR’S NOTE
15
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...The Idaho Press Tribune’s article was a shock to me ... signs that ranged from “Honk
for Peace” to “Stop Operation Blood for Oil.” I chose the Honk for Peace sign. ...
www.albertson.edu/coyote/0203/Issue62002.pdf - Similar pages
[DOC]The Tale of “Snow Hex and the Seven Sprites”, Formally Known as ...
File Format: Microsoft Word 2000 - View as HTML
...is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front ... AndrAIa watches
on in awe and blushes slightly ... Dot has a look of shock on her face which is ...
www.geocities.com/andraias_log/ PrincessDaimonsLover.doc - Similar pages
Fandomination.net | If you build it... They will come...
...his feet touched the ground gently, absorbing the shock of impact ... And to top it all
off, Santa’s reindeer seemed to ... The other three stared in silent awe as Ami ...
www.fandomination.net/?mode=fanfic&FanficID=2521 - 76k - Cached - Similar pages
E questo è ciò con cui lavoro. Il mio primo passo in genere è cercare con attenzione e togliere il grassetto
alle parti in grassetto, mettere tutto con la stessa grandezza di carattere, rimuovere qualche puntino e i
rientri di paragrafo, e cancellare tutti i testi di intestazione colorati, tranne qualche parola o sintagma che
mi colpisce come materiale per il titolo. Questo mi lascia con
Rebel Flag Moneyclip Red Panda Earrings Red Panda Pendant Reindeer Pendant Road Bombs
Pendant 3rd Army Pendant 7th Cavalry Pendant Shock & Awe Pendant
is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front. Luna watches on in awe and
blushes slightly ... Usagi has a look of shock on her face which is
Highly Evolved’ is a short-sharp-shock of devastating ... around the hall, leaving you in absolute
awe. When considering that The Reindeer Section is comprised of
The Idaho Press Tribune’s article was a shock to me ... signs that ranged from “Honk for Peace”
to “Stop Operation Blood for Oil.” I chose the Honk for Peace sign.
is actually a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer in front ... AndrAIa watches on in awe
and blushes slightly ... Dot has a look of shock on her face which is
his feet touched the ground gently, absorbing the shock of impact ... And to top it all off, Santa’s
reindeer seemed to ... The other three stared in silent awe as Ami
Da qui in poi, si tratta per lo più di ridurre e spostare. Taglio via le parole indesiderate, riorganizzo i
blocchi di testo e li aggiusto in un nuovo sistema di versi (potrei scegliere di mantenere lo schema
formale che, di per sé, è già suggerito nel layout esistente, ma non in questo caso). Non aggiungo mai
nulla che non fosse già là (ad eccezione di eventuali segni di punteggiatura o delle maiuscole, etc.). La
prima passata a questo punto potrebbe lasciarmi con:
The Reindeer Section
Rebel Flag Moneyclip Red Panda Earrings
Red Panda Pendant Reindeer Pendant
Road Bombs Pendant 3rd Army Pendant
7th Cavalry Pendant Shock & Awe Pendant
a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer
Luna watches on in awe and blushes slightly
Usagi has a look of shock on her face
a short sharp shock devastating the hall
leaving you in absolute awe
signs that ranged from “Honk for Peace”
to “Stop Operation Blood for Oil”
I chose the Honk for Peace sign
a blimp carrying a sleigh with blow-up reindeer
AndrAIa watches on in awe and blushes slightly
Dot has a look of shock on her face
16
his feet touched the ground gently
absorbing the shock of impact
Santa’s reindeer
stared in silent awe
Inizia un po’ più a sembrare una poesia, ma... è coerente? I miei pruriti aggiustativi non sono ancora del
tutto soddisfatti. Dato che ho cominciato con solo sei risultati (il mio obiettivo ottimale è qualcosa tra i 40
ed i 70 risultati), questa qui potrebbe facilmente ridursi ad essere una poesia molto breve nel momento
in cui io finissi di grattar via. Se decidessi davvero di dargli un’altra ripulita, potrebbe venirne fuori questa
specie di breve stanza haiku:
Short Sharp Shock
leaving you in a
blimp carrying a sleigh
with blow-up reindeer
rebel flag moneyclip
honk for peace sign
shock & awe pendant
absorbing the impact
Guardandomi indietro, mi preoccupo del fatto che potrei avere perso qualcosa con le cancellazioni
massive – specialmente il “ritornello” con i nomi di donne che cambiano che mi è piaciuto da subito e che
continua un po’ a piacermi. A questo punto, comunque, l’esercizio si spiega da solo, e a dir la verità la
poesia nel suo insieme probabilmente non è comunque un “colpaccio”. Nell’insieme il processo dà risultati
alterni, un po’ come stare davanti ad un buco nel ghiaccio con una canna da pesca. Ciò non di meno, ho
visto che con la giusta sintesi di risultati di ricerca e di “aggiustamenti” autoriali è un processo che può
eccitare il lato compositivo del mio cervello in maniere molto utili e che mi aiuta a pensare a cosa avviene
quando si compone anche in modo “normale”. Un approccio jakobsoniano esagerato, tutto selezione e
combinazione, crea la finzione che il poeta stia lavorando non tanto con un testo-fonte, ma con un
linguaggio molto piccolo, il solo linguaggio disponibile nelle date circostanze. Questo linguaggio come tutti
i linguaggi è marcato dalle sue proprie preoccupazioni, che vi sono state collocate in parte dal poeta (che
ha selezionato i termini per la ricerca) ed in parte dalla sezione trasversale della popolazione che
scambia i propri pareri, vende le proprie merci, racconta le proprie storie e così via, sul web.
In che modo tutto questo è diverso da una poesia fatta con le lettere-calamita da attaccare sul frigo? Da
diversi punti di vista, non lo è. Ma poiché il poeta è attivamente impegnato nel decidere almeno una
porzione dell’“argomento principale”, e poiché le decisioni combinatorie invariabilmente tornano a
ragionare su quella decisione iniziale (benché esse ragionino via via anche su altre cose), l’intenzione
rientra nell’equazione in un modo del tutto nuovo. L’intenzione è implicata anche nella composizione di
una poesia fatta con le calamite, ma in quel in caso ha allo stesso tempo più e meno costrizioni. Ha più
costrizioni nel fatto che tutti i magneti sono stati scelti per voi in anticipo – le vostre opzioni di selezione
sono essenzialmente limitate all’acquisto del kit – ed ha meno costrizioni nel fatto che non avete un
insieme di concetti carichi di motivazioni che guidino l’intera operazione di scrittura. Questi concetti
iniziali assicurano che la poesia sarà su qualcosa (per esempio, la campagna di bombardamenti di Bush
“shock & awe”), anche se solo in modo indiretto e assurdo.
I sought poems collocano il poeta alla mercé della materia prima in un modo che è diverso dalla
composizione “normale” solo nel grado; siamo sempre costretti dai limiti del nostro linguaggio, e questo
metodo semplicemente aggiunge ulteriore enfasi alle costrizioni. Cosa che potrebbe essere una
definizione generale della forma poetica, o del metro, e forse la poesia dei sought poems è soprattutto
una metrica. Dato che le regole impongono delle fonti piuttosto che delle durate o dei ritmi, comunque, il
fattore prosodico non può essere separato da quello tematico. Questo modo di procedere lascia davvero
buon gioco alla stilistica individuale, poiché ogni poeta avrà un insieme completamente diverso di spinte
istintive circa il come riorganizzare il materiale cercato (3). Ritornando ai risultati della ricerca iniziale,
per esempio, posso immaginare di voler tenere il formato delle intestazioni e delle specificazioni sulle
URL, e forse anche il colore di testo in cui appaiono, rendendo la poesia mimetica rispetto al suo contesto
originale. I miei impulsi mi portano verso una strofa lirica molto più classica, in colonna, così come
l’ossessiva ricomposizione che, a volte, può dare luogo ad una severità neo-imagista o peggio.
Non prendo nemmeno in considerazione la possibilità che quando frugo in mezzo a queste voci ed a
questi punti di vista io stia in qualche modo rappresentando i loro locutori. Essi sono irrappresentabili una
volta passati attraverso la macina di Google. Ciò che cerco in questi sought poems non è un nuovo tipo di
soggettività poetica. Piuttosto, sto cercando delle istanze di articolazione (o sì, inarticolatezza) in cui
17
l’oggetto poetico si carichi di un’immediatezza che è il prodotto del suo essere incorporato (4) in un
discorso culturale fresco (anche se non sempre sa di fresco). Questo oggetto incorporato, comunque,
come i giornalisti embedded della seconda guerra del Golfo, è drasticamente compromesso nella sua
capacità di riportare alcunché di simile ad un resoconto “oggettivo” di ciò che lo circonda. Il sought poem
non solo riconosce questa limitazione, ma la prevede e la sfrutta. La cosa utile di Google, dal punto di
vista del poeta, è il suo essere simultaneamente uno spaventoso strumento di sorveglianza totale (può e
vuole tracciare la tua presenza, a prescindere da dove sei) ed un’assenza di frontiere indiscriminata (può
tracciare la presenza di quelli che ti stanno tracciando mentre lo fanno).
K. Silem Mohammad
[traduzione di Gherardo Bortolotti]
NOTE.
(1) “Sought poem” significa “poesia cercata”. Si preferisce mantenere l'espressione in lingua, sia per alcune
opposizioni lessicali che l'autore utilizza, sia perché viene usata nei termini di espressione tecnica.
(2) Poesia trovata.
(3) Nel testo: “sought”.
(4) Nel testo: “embeddedness”.
18
PROPOSITI PER UNA DECADENZA (1)
1.
«[…] il corpo del XX secolo tende a essere il più longevo e il più medicalizzato di tutti i tempi» (2):
questo fatto influisce, da un lato, sulla riproduzione della specie umana occidentale (il numero dei nati
diminuisce, per la minore necessità di sostituire i morti); dall’altro, sulla pubblicizzazione della sessualità:
il corpo longevo e medicalizzato ha bisogno della pornografia (a pagamento, come tutte le merci di cui si
circonda) e della libertà sessuale. Il concetto di famiglia ne viene intaccato, quindi, da una parte; e
dall’altra subisce un’eloquenza moraleggiante troppo ostentata per essere sincera.
2.
L’incomprensione del rapporto dei nuovi stili con una risistemazione, non solo personale, dei concetti di
vita e di morte – ogni corpo e «frate asino» che si asciuga o ingrassa – sarà deleteria, per alcuni:
l’umanesimo dei quali resterà sempre su un piano di pura letteralità, anche politica, ma basata su una
logica finita. In Italia, non aver capìto la prossimità e la necessità storica della Decadenza significa
ostinarsi ad agire sul piano del piccolo io italofono e della piccola patria: come se una pietra scagliata
potesse non cadere.
O la nostra poesia è talmente inumana da non considerarsi coinvolta in questo processo – che lega la
durata dei corpi alla loro morale – o dovrà prendere posizione sul problema della vita e delle vite. Non
necessariamente con l’impegno o la denuncia, ma anche con la felicità religiosa della Gelassenheit:
purché i gesti ‘politici’ e l’assenza ‘sacra’ di gesti siano in funzione di una presa d’atto. Che non può
tardare, almeno per decoro o per scrupolo.
3.
La vecchia etnia italiana (bianca, formalmente cattolica, italofona a partire da una base prima dialettale e
poi televisiva) sta per essere sostituita da un’etnia di etnie (extracomunitarie e/o extraeuropee, non
necessariamente cattoliche, non bianche). Questo popolo futuro è già, grosso modo, italofono (e lo sarà
sempre meglio) e già radicato nel sistema della produzione e circolazione della ricchezza. Questo popolo
dovrà essere scolarizzato perpetuando le «categorie italiane» o no? E la sua letteratura, formalmente
italofona, avrà o non avrà a che fare con le stesse categorie? Non è difficile intuire che il meglio e l’utile,
in letteratura, saranno tramandati dal vecchio al nuovo popolo, e che il resto naufragherà, come è, anche
moralmente, giusto. Come sopra: o la nostra poesia è talmente inumana da non considerarsi coinvolta in
questo processo – che lega la storia dei corpi alla loro civiltà – o dovrà prendere posizione: non
necessariamente con l’impegno o la denuncia, ecc.
4.
La comunità poetica italiana continua ad agire come se avessero senso e dignità cose diverse dai corpi e
dal tempo (i corpi sono i veri parlanti, e il tempo è tempo anche per le lingue, oltre che per i corpi).
Eppure: ora la poesia non deve trasformarsi ex abrupto, per senso di colpa, in un registro pedissequo
dell’invecchiamento, della sostituzione etnica e della sopravvivenza del vecchio nel nuovo; mentre il suo
corpo, non degradabile, ha il dovere della mediazione e dell’indipendenza. Oggi la maggior parte del suo
lavoro consiste nel non scendere a patti con chi vuole coinvolgerla in dualismi che si riveleranno, non
troppo tardi, mortali e vani: come chi li ha fomentati, confondendo uno struggle for life più che
provinciale con un’esigenza artistica. Così il gioco del massacro tramonterà, senza troppi lamenti: perché
la sua fine sarà contemporanea a quella dei suoi parlanti.
5.
Per questi motivi, a me – e parlo per me – sembra quasi vanitas chiedersi quale sarà (o dovrebbe essere
oggi) la lingua della poesia, ed è ovvio che non deve assumere – come accade – il ruolo di una
conservazione illusoria (e: illusoriamente piccoloborghese, piccolocattolica, ecc.: alcuni casi sono
giganteschi e imbarazzanti, anche per la tutela gelosa della roba).
Testi come i tetragoni alfabetici di Kervinen o i sought poems di Zaffarano sono tanto fuori-legge da
neutralizzare l’abitudine, anche ideologica. Ché prima siamo stati troppo sedotti da istanze carnevalesche
e di riscrittura più o meno ‘comica’; fino a non capire che nessun Potere le teme in realtà. Così si ragiona
sempre sui termini rispettabilissimi – ma oggi non fruibili – di Bachtin; e si rivendicano le «vere
presenze» di Steiner in rapporto ad oggetti non citati, né citabili, da Steiner. Contro Kervinen – e gli altri
– si riesce a dire, intellettualmente, solo che «né Heaney né Walcott scrivono così» (succo, non
manipolato, di parole autentiche, emerse da uno dei blog poetici nel 2006).
Ma rispetto alle categorie di prima, e a polarizzazioni sterilizzate dal cambiamento oggettivo del mondo,
ci saranno altre vie: qualcosa che si installa, pietrificandosi e riconoscendo, nello stesso tempo, la propria
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deperibilità. Ciò che si brucia hic et nunc, e guadagna ora il suo piccolo pubblico di clientes (tali sono)
muore, già morto, e non vive: neanche nella sua piccola patria-lingua. La roba lo segue.
Massimo Sannelli
Note.
(1) Queste pagine dovrebbero essere lette insieme ad altre: Il gioco del massacro, «Smerilliana», 3 (2004), pp. 363370; Philologia Pauli. Il corpo e le ceneri di Pasolini, Fara, Rimini 2006; Del Massacro e della fine del Massacro,
www.lattenzione.com (settembre 2006).
(2) Angela Vettese, Dal corpo chiuso al corpo diffuso, in AA.VV., Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla
fine degli anni’50 a oggi, Electa, Milano 2003, pp. 188-221: p. 192.
20
PAROLE DAL MARGINE.
LA LINGUA POETICA COME ATTO POLITICO
Je ne geindrai pas comme Ovide
Chassé du paradis latin.
(Ch. Baudelaire)
…who
among us can speak with so fragile
tongue and remain proud?
(L.Clifton)
dichiara che il canto vero
è oltre il tuo sonno fondo
(F. Fortini)
I
1. La necessità di interrogarsi, oggi, sulle ragioni della lingua poetica non ha nulla di ovvio o di consueto.
In questa fase della modernità, più che mai caratterizzata dalla perpetua crisi, prima ancora che della
poesia, della parola significante, la possibilità stessa di una questione del genere non può essere data per
scontata. Rispetto a una società dominata dalla socializzazione globale di luoghi, cibi, miti, ma anche di
forme artistiche condivisibili perché mercificabili (cinema, certa narrativa, certa arte, molta musica), la
poesia è socialmente fallimentare, non muovendo denaro, non potendo neanche aspirare (per sommo di
paradosso) allo statuto di scrittura leggibile, poiché pubblicata a stento e in minime percentuali, dunque
non comunicando e non circolando. La poesia è insomma un sistema di parola che, oggi più che mai,
richiede un grado quasi assoluto di asocialità. Visto il suo anacronismo storico, ovvero la sua asimmetria
radicale da una società che tende a rifiutarla come propria espressione culturale, su quale premessa
implicita qualcuno può ancora indagarne la natura, l’attualità della lingua – ovvero le sue stesse
condizioni di esistenza?
2. La chiave di questa intramontata possibilità (e l’avvio di ogni ragionamento su di essa) sta proprio
nella parola: lingua. Quella sopravvivenza di orgoglio che permette di intraprendere un ragionamento
sulla lingua poetica – preliminare sia a una riflessione letteraria sia, a maggior ragione, alla composizione
di un solo verso – è in effetti tutta interna al mezzo usato, quello linguistico.
(Useremo linguaggio in quanto facoltà linguistica; lingua in quanto sua incarnazione fattuale, sia essa una
lingua storica, sia essa una fattispecie linguistica come quella poetica).
La poesia cresce dentro il linguaggio umano, che è lo strumento di interazione con la realtà in cui passa
una maggiore dose di umanità. Questo, di là dal tipo di società in cui il linguaggio agisce, od è agito.
3. Ha scritto Zanzotto nel 1965, dal fondo di una società industriale al trapasso da fordismo a
postfordismo: «Bisogna rendere eloquenti secondo l’umano tutte le forze alloglotte con cui ci si deve
misurare. Ma occorre fiducia nell’origine, nel coraggio iniziale della realtà, di cui, mi pare, la poesia è
l’espressione più ostinata». Questo nucleo di orgoglio cosciente resta finora l’intramontato nucleo di
resistenza nell’operato di ogni poeta e di ogni critico di poesia. E questo nucleo di orgoglio ha le sue radici
nella coscienza del mezzo linguistico, dal cui corpo nasce il mezzo poetico.
4. Ciascun individuo umano mediamente pensante sa che la propria vita è una vita linguistica. Proprio la
silenziosa consapevolezza che il linguaggio articolato sia veicolo di vita e di tessuto umano è la ragione
che spinge certi individui a immettersi nel suo flusso ordinario, per distillare da quel sangue un sangue
nuovo, più ossigenante e (ciò che più importa) non corruttibile.
In altre parole. Chi abbia scritto, nella sua vita, almeno un verso buono, era certo animato dalla
coscienza, più o meno acuta ma indiscutibile, che il linguaggio sia la specificità dell’essere umano. La
premessa in atto dell’umanizzarsi dell’ominide. La definizione aristotelica dell’uomo non ne è che
constatazione: zóon lógon ékon, cioè l’animale che ha la facoltà del linguaggio. Tutto il resto
(autopercezione; relazione cosciente col tempo; ambizione conoscitiva; dimensione morale; intenzione
legislativa; ecc.) ne è, in questo senso, pura conseguenza.
5. Il platonico come il democriteo come il sofista, come persino il pirroniano, sono legati dalla
consapevolezza, dichiarata o semplicemente posta in atto, che «il linguaggio è inseparabile dall’uomo, e
lo accompagna in ogni sua attività», ponendosi come «lo strumento con cui l’uomo forma pensieri e
sentimenti, stati d’animo, aspirazioni, volizioni e azioni, lo strumento con cui influenza ed è influenzato, il
fondamento ultimo e più profondo della società umana» (Hjelmslev).
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6. In quanto fondamento della successione delle società umane, la lingua storica acquista una forza
diacronica, di vettore storico. Storia individuale: «esso sta nel più profondo della mente umana, tesoro di
memorie ereditate dall’individuo». Storia del gruppo umano: «Le lingue non consentono solo di parlare o
di scrivere per rappresentare, ben oltre la nostra scomparsa fisica, la nostra storia, ma la contengono»
(ancora Hjelmslev).
7. In quanto veicolo di confronto, di simbolizzazione di sé e dell’altro-da-sé, insomma in quanto fondativo
della coscienza individuale e di gruppo, e in quanto storia in atto, la lingua coincide con la vita stessa
dell’uomo: «Le lingue introducono alla vita non solo perché permettono di accedere al campo sociale, ma
anche perché sono esse stesse la manifestazione della vita». Attraverso la lingua l’uomo impara a
percepire se stesso nel tempo, a interpretare il mondo, ad astrarre. Come insegna l’esempio di Kaspar
Hauser, «la lingua nutre colui che la parla, come l’aria che respira gli permette di vivere» (Hagège).
8. La persistenza di orgoglio cosciente (o, nei casi peggiori, istintivo) in chiunque decida di investire una
parte del proprio tempo nell’elaborazione di una propria lingua poetica, o nell’analisi dell’altrui lingua
poetica, deriva dal fatto che essa, e in generale la lingua letteraria, nasce dal corpo del linguaggio, di cui
pone in atto il radicamento storico e sociale. Nessuno, se non in malafede, potrà mai disconoscere che
prima di tutto «la letteratura è una istituzione sociale che utilizza, come suo mezzo, il linguaggio, che è
una creazione sociale; e sono sociali nella loro propria natura i tradizionali artifizi letterari, come il
simbolismo e il metro» (Wellek-Warren).
9. Ma la poesia, di tutte le componenti vive del linguaggio, coglie e assomma la sostanza. Si può anzi dire
che il prestigio, paradossale o vòlto in ironia, di cui continua a godere la poesia presso coloro che ne
abbiano almeno una qualche nozione scolastica, deriva dal fatto che essa è spontaneamente associata al
più intimo motore del linguaggio, per così dire alla sua autosufficienza: dove per autosufficienza si
intenda potenziale incrocio tra la vita diacronica di una comunità contenuta nella lingua, e l’idioletto
emotivo del singolo parlante, condotto al massimo grado di distillata oggettivazione. Il tecnico Terracini
non sfuggiva alla suggestione: «…l’analisi stilistica si concentra senza residue limitazioni nella
considerazione della pura e libera espressione dell’individuo; questo ha dinanzi a sé anzitutto l’esigenza
del suo spirito e non la preesistenza di una lingua storica che tale esigenza racchiuda come in una
prigione». Frase nella quale i residui crociani valgono a porre meglio in evidenza il nesso tra diacronia
condensata nella «lingua storica», che ne fa la potenza sintetica, e l’intenzione linguistica del singolo:
nesso cruciale e bruciante, alla cui esplorazione per anni si è dato Zanzotto, come Giordano Bruno a
quella dell’infinito.
10. La poesia non è altro che ambizione di sottrarre una porzione di vita linguistica sviluppandone le
caratteristiche che le permettano di essere ripetibile. Un’operazione tutta interna alla lingua, per
potenziarne gli aspetti di rappresentatività vitale, e gli aspetti vitali della storicità, con l’illusione di elidere
le caratteristiche di vulnerabilità insite nel tempo attraverso le manovre dello stile.
II
1. Riflettere sulla poesia ha sempre significato, e significa tuttora, a conti fatti, riflettere su una priorità
umana. Pertanto la sua marginalità sociale di oggi, più che rendere impossibile tale riflessione, ne
ispessisce la complessità: quando la lingua poetica era una funzione strutturale alla società umana,
occorreva indagarne le modalità (materia per la retorica), mentre oggi che essa ha perduto questa sua
centralità occorre indagarne prima la necessità, poi le modalità.
2. In tempi di crisi del sistema culturale la necessità di messa a fuoco teorica si è sempre moltiplicata. Si
pensi al rinascimento italiano successivo al 1494. Sebbene in quel momento il linguaggio letterario
raggiunga forse il momento di più alta apertura sperimentale, paragonabile solo all’impeto novecentesco
(bastino le vette assolute dell’Hypnerotomachia, del Baldus, di tutto Ruzante a dimostrarlo), vince, in un
sol tratto, l’operazione severa di Bembo, retore potente e lungimirante, che con un colpo di vista e di
mano avverte i segni del prossimo sfacelo culturale italico, e tenta di circuirlo mummificandone la lingua
poetica, allora il principale vettore di civiltà. L’operazione che sottostà alle Prose della volgar lingua deriva
da una violenta, contraddittoria intuizione: il linguaggio della poesia è più resistente quando replicabile, e
dunque durevole; questa durevolezza, che è poi un principio di classicità, sfida il tempo, principale
nemico delle cose umane; la lingua poetica, quando abbia una grammatica eterna, veicola in sé un
principio di eternità, anche in periodo di collasso culturale. Immobilizzare (e in parte negare, a conti fatti)
la lingua poetica, le permette di ergersi, in momento di crisi, a più nobile baluardo contro la crisi stessa.
(Non a caso frequenti tendenze alla grammaticalizzazione della poesia, mai disgiunta da un alto
sentimento di essa, attraversano la poesia moderna: si pensi al lungo periodo simbolista, a quello
ermetico, ecc.).
22
3. Quando i cambiamenti della prima età moderna conducono alla società industriale, allora la condizione
di crisi perpetua della poesia diviene persino fondativa. Il romanzo si pone fin dal principio come genere
eccellente. L’epoca borghese ha bisogno di una realtà stilizzata in eventi (Lepage), o di travestimento di
realtà (Swift), o di sua ginnastica morale (Defoe). Attraverso il genere del romanzo la letteratura sposa il
mercato. Non manca la rappresentazione polemica della crisi dell’intellettuale: Tristram Shandy è il nonromanzo della crisi del vecchio umanista, della sua mente libera da condizionamenti.
4. La poesia, oltre il limite d’abisso segnato da Tristram Shandy, si pone giocoforza sulla difensiva.
L’estremo tentativo sistematico, e non fallimentare in partenza, di costruire un edificio enciclopedico
affidato a premesse di superiorità inclusiva della poesia è senz’altro il Faust di Goethe, scritto proprio
dalla soglia del baratro, come testamento di una civiltà poetica. Per il poeta goethiano «è l’armonia che
egli da sé esprime e per cui fa rifluire in sé l’universo», di contro alla «frivola folla davanti a cui ogni
nostra ispirazione si affloscia…, quella massa ondeggiante che, nostro malgrado, ci trascina nel suo
gorgo». Anche se poi l’ultima parola del Prologo in teatro spetta al Direttore: «Basta ormai di chiacchiere,
passiamo ai fatti! Mentre vi scambiate tutti questi complimenti, si potrebbe combinare qualcosa di utile. A
che giova parlar tanto d’ispirazione? Al dubbioso l’ispirazione non vien mai… Quel che ci occorre, lo
sapete: vogliam bere roba forte, affrettatevi a confezionarcela!».
Questo misto di fiducia e paura (poi certezza) di perdita sarà il sottofondo psicologico della poesia in tutta
l’età industriale. Ma sebbene essa (dal 1750 in poi) sia attraversata da tendenze costanti, è possibile
distinguervi delle fasi che corrispondono a successivi momenti di realizzazione di tali tendenze.
5. Alla fine dell’Ottocento agisce un primo scarto: l’impennata tecnologica; la moltiplicazione del
problema energetico; la manifesta aggressività politica del sistema (imperialismo); la prima forma larvale
di società di massa (telegrafo, carta stampata, poi finalmente: radio). Sul piano culturale: Marx condensa
in sé teorizzazione del capitalismo de facto, e utopismo anticapitalistico. Sul piano culturale: il terremoto
di molto pensiero ottocentesco, soprattutto di quello nietzscheano da Umano troppo umano a Aurora
scende a gocce, inoculando un progressivo laicismo dialettico (Camus ne sarà il culmine). Sul piano
culturale: Freud laicizza l’incubo e il fantastico, sottraendo alla condivisione divina il delirio e la follia,
riportati al più gretto privato quotidiano, così da rispecchiare per tempo l’implosione nevrotica e
claustrofobia della società urbanizzata e borghese.
6. Altro poderoso scarto a partire dagli anni Cinquanta, quando prende ad affermarsi quella società
industriale avanzata, in cui si riassume società di massa, industria culturale, e tecnocrazia. Caratteristica
essenziale ne è il paradosso della libertà coercitiva. Spiegava (poi rimosso) Marcuse: «L’indipendenza del
pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione
critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo
in cui è organizzata». E ancora: «Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le
sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere
condotte alternative entro lo status quo».
7. Con la fine degli anni Settanta la società industriale avanzata è maturata nuovamente, intorno a un
duplice avvenimento:
- Il trionfo della tecnologia informatica, che ha permesso l’abbattimento delle distanze, il
perfezionamento della società di massa;
- Il tramonto delle ideologie post-illuministe, o meglio dell’ideologia anticapitalista (accanto al
definitivo sterminio di Dio nell’Occidente).
Dalla combinazione di questi due elementi deriva:
a. Un’ammutolita rassegnazione per la situazione data. Siamo alla fine della teleologia storica; alla fine
di ogni tensione utopica. La realtà ha il sopravvento perché accontenta. Seppellisce di beni. Perché
non immaginare che un giorno tutti, anche la gran parte del pianeta oggi a secco di beni, un giorno
non ne sia sovraccarica? Subentra anche una forma di senso di colpa endemico. Opporsi a un sistema
che oggettivamente sazia non vorrebbe dire essere ingrati? E (suggerisce un generico senso comune)
prima non “si stava peggio”? Riflessione che segna di per sé la sconfitta di ogni pensiero critico, dando
per scontato che l’uomo non tenda ad altro che a produrre beni materiali. E dando per scontato che il
liberalismo d’oggi rappresenti il migliore dei mondi possibili. Scrive Bauman: «La nostra è un tipo di
società che non riconosce più alcuna alternativa a se stessa e di conseguenza si astiene dal dovere di
esaminare, dimostrare, giustificare (e ancor meno provare) la validità dei suoi assunti taciti ed
espliciti».
b. Il trionfo della logica del lavoro (moderna schiavitù) come metro di giudizio sull’individuo ha finito di
deprivare il singolo del proprio tempo intimo. Questa è l’altra faccia dell’equazione tra progresso
umano e progresso materiale, e dell’assiomatico asserto che la qualità della vita coincida con
l’aumento dell’età media o con la sovrabbondanza di oggetti, non col radicamento sereno nel
presente, o con un fruttifero ozio, premessa indispensabile al pensiero. La soddisfazione dei bisogni
materiali (peraltro moltiplicati ad hoc, e dunque tendenzialmente infiniti) è l’espressione prima del
23
livello di civiltà? Allora sbaglierebbe chi ritenesse vertici di civiltà l’Atene di Pericle, la Cina di Lao Tzu,
la Firenze laurenziana, il regno di Cordoba, ecc.
c. La sostituzione di cultura con informazione, di storia con informazione, di letteratura con
informazione. Inevitabilmente, la cessazione della capacità di produrre visioni del mondo, immaginari
collettivi che non siano industriali, porta a un isterilimento del tramite tradizionale degli immaginari: la
parola. Si assiste all’annientamento della parola significante. La parola deve informare perpetuamente.
La realtà offre di sé milioni di informazioni ogni giorno, che cumulano insignificanze e sottraggono la
visione della struttura. Non solo l’immagine del passato e la progettazione del futuro, ma l’insieme
delle regole profonde della realtà (prima di tutto economiche) sono coperte. Il che vuol dire non avere
la capacità di immaginare regole altre da quelle date, una volta per tutte.
8. Per questo ulteriore passaggio della modernità Bauman parla di fluidità, che comporterebbe, a suo
modo di vedere, la completa cessazione del totalitarismo. Il che è indiscutibile e discutibile al tempo
stesso. Non è questa la sede per sviluppare la questione: ci limiteremo ad uno spunto, utile ai nostri fini.
Viviamo in un paradosso in apparenza insolubile: l’ampliarsi della tolleranza nel sistema ha conciso con
l’affermarsi di un totalitarismo morbido, che i contrari fluidamente abbraccia in sé, funzionalizzandoli al
sistema di consumo, il cui dinamismo propositivo soddisfa di momento in momento miriadi di falsi
bisogni, occultando i significati strutturali più profondi – significati di rappresentazione del proprio mondo:
chi gestisce realmente il potere economico e finanziario? come il potere economico multinazionale
sopravanza i singoli poteri politici? come manipola l’industria culturale? come combatte per il controllo del
sistema mediatico? ecc.
Il sistema, autoproclamatosi tollerante, è necessariamente un meccanismo di assorbimento degli opposti.
Si pensi a come No logo della Klein, o i documentari e i libri di Moore, in apparenza dirompenti, in realtà
non dirompano alcunché, alimentando anzi, per culmine di paradosso, il meccanismo politico-produttivo
cui pure vorrebbero porsi in attrito. E si pensi a elementi tipici dell’antagonismo politico, come
ambientalismo, anarchismo, pacifismo, solidarietà al terzo mondo, che oggi (opportunamente stemperati
ed anestetizzati) sono entrati nel lessico visivo delle marche multinazionali.
«La razionalità tecnologica rivela il suo carattere politico allorché diventa il gran veicolo d’una
dominazione più efficace, creando un universo veramente totalitario in cui società e natura, mente e
corpo sono tenuti in uno stato di mobilitazione permanente per la difesa di questo stesso universo»:
questa tendenza, già viva nella società industriale avanzata tratteggiata da Marcuse, si perfeziona nella
società informatica, in cui la parola si indebolisce fino al punto da diventare moltiplicata didascalia delle
immagini, o raffica neutra di informazioni.
9. Il sistema della parola asemantica e acritica predilige i linguaggi artistici semplici, assimilabili. Come
quelli visivi, o quelli in cui il linguaggio, modulare e replicabile, sia riconoscibile e consumabile a prima
occhiata. Da qui il trionfo e la persistenza del cinema, ovvero di un cinema sempre più semplificato e
rappresentativo di una superficie della realtà già conosciuta. Il cinema degli ultimi venti anni ha
rinunciato definitivamente al proprio statuto d’arte, declinando ogni intento conoscitivo nell’unica
direzione della mimesi facile. Il suo punto di debolezza, sempre più marcato dopo il sonoro e il colore,
non è stato più ricacciato in un regime di fruttifera ambiguità, ma è viceversa divenuta la sua risorsa
unica. La realtà (o i sogni più borghesi del consumatore d’oggi) viene stilizzata e tradotta in prodotto
visivo iper-mimetico, sostitutivo di ogni facoltà autonoma. Se il potere potesse, ridurrebbe tutti i
linguaggi d’arte a linguaggio cinematografico, o, anche meglio, a videoclip.
Resiste la lingua narrativa, che più che mai è rappresentazione viva, affabulata. Per sopravvivere agli
sguardi, tuttavia, il romanzo sempre meno si deve porre il problema stilistico e formale, sempre più
quello semplicemente rappresentativo. Che poi gli scrittori teorizzino la necessità di azzerare lo stile, che
cioè tentino di far passare l’azzeramento dello stile per scelta estetica, è altra questione. Di fatto, in
prima istanza sono costretti a piegare la lingua narrativa alla lingua standard, così da creare il minor
numero di problemi ad editori, lettori, recensori.
Niente di strano. Il romanziere, così come nasce in età borghese, si è sempre posto il problema del
pubblico. Sennonché oggi si è spostato il punto di equilibrio tra rappresentazione mediata dallo stile, da
una parte, e pressioni dell’industria culturale dall’altra. Rassicurante, ad esempio, è per l’editoria il
sistema dei generi, da sempre forte ma oggi moltiplicato e pervasivo al punto, che è ormai impossibile
distinguere la letteratura un tempo denominata “alta” da quella di genere. La stessa narrativa cosiddetta
postmoderna è diventata una sorta di grosso genere, provvista di regole precise: inclinazione all’operamondo; vene di enciclopedismo, che arrivi anche a sostituire lo psicologismo; uso di una lingua il più
possibile fredda (De Lillo), o animata da lievi corrosioni di ironia (Wallace), o anche di istrionismo, purché
nel crisma della leggibilità divertita (Safran Foer).
L’editoria filtra su criteri di genere e di commerciabilità più che mai in passato. In particolare, la scrittura
“difficile” resta fuori. Chi pubblicherebbe (e chi leggerebbe) oggi Corporale?
10. Il problema diventa radicale per la poesia.
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Linguaggi televisivi, commerciali, giornalistici, triturati poi e irradiati a pioggia per mezzo di internet e di
cellulari, creano un tessuto capillare e inquinante di parole volatili, del tutto privo di pensiero, e
nell’insieme orientate alla manipolazione delle intenzioni di che ne subisce i colpi.
Questo regime della parola asemantica e commerciabile, che ha la funzione di sostituire per saturazione
la parola critica, ha finito di esautorare la parola poetica, che invece è parola ipersemantica per
eccellenza. Una parola troppo complessa come quella poetica non è gestibile dal potere, non è cioè
omologabile alla totalità del sistema: perché non semplificabile, poco divulgabile, e dunque nella sostanza
non commerciabile. E ciò che per definizione è fuori dal mercato, è anche non-esistente in un regime del
senso in cui ogni bene, concreto od astratto, per esistere deve essere semplificabile, in funzione
dell’acquisto.
Eppure questo, che sembra essere il punto di debolezza della lingua poetica, è precisamente il suo punto
di resistenza, anzi meglio: di forza liberamente propositiva.
III
1. Pound ha scritto, cogliendo in pieno la frattura di immaginario culturale e di priorità sociale coincidente
con l’avvento dell’era industriale: «Quando vogliamo farci un’idea degli uomini vissuti prima del 1750,
quando vogliamo accertarci che erano fatti di sangue e ossa come noi, cerchiamo la poesia del periodo».
2. In effetti, dopo il 1750, tutt’altro che «sangue e ossa» possono essere cercate nella poesia. Essa è
respinta fuori dall’organismo sociale. Il suo punto di vista cessa di essere interno, per quanto acuto e
criticamente esercitato: la poesia al confino osserva giocoforza dal di fuori. Giocoforza, per così dire, il
sentimento permanente della crisi, ovvero l’altra faccia dell’enfasi permanente del progresso,
drammaticamente consustanziale all’era borghese (quella attuale più che mai inclusa), vibra nella parola
poetica, ne è la fonte.
3. Ha scritto (nel 1930) Gottfried Benn «che servire l’epoca o prepararle la via non può essere giammai il
compito e la vocazione dell’uomo grande, del poeta; che la sua grandezza consiste piuttosto proprio nel
fatto che egli non trova alcun presupposto sociale, che c’è un abisso, che egli esprime questo abisso di
fronte a questa massicciata di progresso tecnico, a tipi sostanzialmente ormai del tutto incapaci di
esprimersi, a psichi appiattite dall’analisi, a genitali edonizzati, fuga nella nevrosi: happy end».
E la poesia, per il fatto stesso di nascere in un’epoca che la ripudia, interpreta la crisi.
Bisogna uscire dall’ordine di idee che crisi sia una parola negativa. In epoca industriale crisi vuol dire
asimmetria, infrazione dell’ipnosi di gruppo, percezione del dissesto che cova sotto la plastica accomodata
e orizzontale della superficie. Il sentimento della crisi è il sopravvivenziale principio di vista, di
discernimento, di giudizio autonomo (e krísis vuol dire proprio ‘scelta, giudizio’, da krínō ‘distinguo,
giudico’).
4. Oggi più che mai – più cioè che ai tempi di Leopardi, precocemente terrificato dall’ideologia delle
«magnifiche sorti e progressive», e più che ai tempi di Baudelaire, non incurante del mercato e per
questo lucido teorizzatore della perdita di sacramenti del poeta: oggi più che mai, in temi di dittatura
ipnotica della parola debole, comunque mercantile, la poesia può garantire in sé alcune resistenze di
sguardo e di pensiero.
5. Il suo primo punto di forza coincide con l’esclusione dal mercato, di cui pure assai spesso i poeti si
lamentano.
La poesia è in perdita? La poesia è perdita? Nessun editore (calcolatrice alla mano) vorrà mai più
pubblicare un libro di poesia?
Ma questo è motivo oggettivo di vanto, non di frustrazione: l’inclusione continua, fisiologica nel mercato
implicherebbe un continuo, fisiologico depauperamento delle risorse poetiche, ovvero un
assoggettamento a crismi di produzione, ideologici di un’ideologia in tanto settaria ed efficiente, in quanto
aprioristica, meccanica, mai esplicitamente formulata.
(Occorrerebbe soffermarsi un giorno a tracciare la storia della stampa in questa luce. Dopo Guthemberg e
prima della Controriforma il mondo tipografico dà ricetto ad ogni forma d’arte: l’Orlando furioso,
capolavoro di poesia, è vero best-seller del primo Cinquecento; e non vi è grande autore, da Maurice
Scève a Galeazzo di Tarsia, che non adisca alla stampa. Nessuno poteva averne paura, perché la poesia
era ancora un vertice del sistema culturale. Un primo esautoramento si ha con la rivoluzione scientifica.
Un secondo, decisivo, con la rivoluzione industriale. Un terzo, altrettanto decisivo, con l’organizzarsi
postbellico dell’industria culturale).
5. È inevitabile che l’esclusione dal mercato, cioè dall’unico luogo di visibilità pubblica e di ritualità
sociale, incrementi decisamente il senso di solitudine del poeta. Ma questo sentimento di solitudine altro
non è se non un suo ulteriore punto di forza.
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Il margine è infatti la posizione privilegiata. Coincidere con un’identità data ha in sé il pericolo del
conformismo, dell’ossequio omologante ed irriflesso. Tanto più questo è vero oggi, che il sistema sociale
illude di una libertà di pensiero, in realtà soggetta alle leggi della tolleranza oppressiva, in cui gli opposti
sono smussati e catalogati, resi omogenei al mercato dei beni e dell’informazione. Il poeta, la cui identità
è distinta da questo flusso di merci, immagini e parole, osserva invece dal di fuori, consapevole dell’altro
da sé, e legittimato dal proprio isolamento ad una scelta: se fare dell’esclusione un punto di partenza
conoscitivo, metaforico, sul cui vuoto affilare il proprio verbum; o lottare per l’inclusione.
6. Considerazione conseguente: la solitudine del poeta, il suo esilio coatto e consapevole dal mondo sono
i suoi strumenti di sguardo e di pensiero.
7. La cosa importante da capire è che questo non è un paradosso, ma un dato di realtà.
Se il mercato decidesse di celebrare il poeta come un modello, decidesse cioè di venderne su vasta scala
le parole, il suo potenziale di asimmetria critica sparirebbe all’istante. Per fortuna, la parola ipersemantica
della poesia non è riducibile per nessuna via alla parola asemantica omogenea al sistema. In altri termini,
non potrebbe mai vendere.
8. Il sistema, di conseguenza, aggredisce. All’esclusione dal mercato corrisponde, quasi sempre,
l’esclusione dalla società. Il poeta è spesso costretto a barcamenarsi per sopravvivere: lavori ingrati ed
onerosi, lavori collaterali all’informazione o all’accademia, precariato, vera e propria disoccupazione.
In questo modo, però, la parola del poeta si carica ancora di più di significato critico. Ancora di più, cioè,
la poesia si pone a baluardo contro l’ottimismo ideologico dell’incluso.
9. Ovviamente, non è strano che i poeti si lamentino dell’esclusione: una parola rapida a diffondersi non
sarebbe forse concime ad altra parola poetica, e insomma antidoto alla parola asemantica e superficiale
emessa dal potere?
Ma è questo ragionamento, viceversa, il vero paradosso, non tenendo conto dei dati di realtà del
mercato: che è il luogo della sovraesposizione, dell’ipervisibilità, dove tutto si consuma nel momento
stesso in cui compare. D’altra parte, la poesia che adisca all’industria editoriale deve farvi i conti,
riducendo spesso il proprio potenziale linguistico in una riconoscibile medietas.
10. La strategia di esilio posta in atto dal sistema contro la poesia è poi la migliore conferma della sua
giustezza.
L’asimmetria della poesia rispetto all’industria culturale, la sua solitudine morale, la sua consustanzialità
al sentimento della crisi ne innescano la carica politica di resistenza, non in rispetto ai contenuti del suo
dire, ma in rispetto al suo dire in sé e per sé, cioè alla sua perseveranza semantica.
IV
1. Se «la letteratura di una determinata epoca è alienata quando non è giunta alla coscienza esplicita
della sua autonomia e si sottomette a un potere temporale o a un’ideologia, cioè quando si considera da
sé come un mezzo e non come un fine incondizionato» (Sartre), allora la fattispecie letteraria meno
alienata, cioè meno manipolabile, è oggi la poesia. Il che avviene prima di tutto per virtù linguistica.
2. Ancora in senso generico, la lingua poetica ha difese implicite:
- L’innata tendenza alla parola semanticamente piena, anche grazie alla percezione del sostrato
diacronico implicito in ogni azione verbale.
- Il dialogo, difficile da circuire, poiché misurabile anche e contrario, con la tradizione. L’intimità con la
storia è cioè connaturata al più semplice atto poetico.
- La forza del senso, e il suo agire in termini di storia, sono per lo più ineliminabili dai meccanismi
tecnici propri della poesia. La natura stessa del verso è tale per cui la singola parola ha il rilievo del
senso. Basta lo spicco ottenuto col bianco della pagina. Basta lo stacco di fine verso, anche al di fuori
di enjambement.
- La struttura di una poesia, quale che ne sia lo stile, conduce quasi sempre a una vitalizzazione della
retorica: i cui strumenti sono ormai tutti al servizio delle lingua informative e manipolative del potere
(pubblicità commerciale, economica e giornalistica come vettori di modelli politici, sociali, familiari e
individuali). Attraverso la poesia, i meccanismi retorici si ridispongono al servizio del pensiero
individuale, fuori da ogni strategia manipolativa.
- Per queste vie la lingua poetica è nell’insieme salva dalla semplificazione seriale delle lingue
asignificanti o manipolative, e per ciò stesso ad esse antagonistica.
3. Ma la lingua poetica ha difese rigorose anche in senso più puntuale. Nel corso della modernità, col
dilatarsi della realtà materiale e della sua autorappresentazione immediata, sotto forma di informazione e
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immagine, si è intensificata la sua complessità descrittiva, e dunque l’angoscia dell’osservatore, timoroso
di non potersi mai neanche approssimare ad una sua rappresentazione veritiera.
Per questo l’arte potenzialmente più lontana dalla rappresentazione mimetica della realtà, e tuttavia più
in grado di esperirla, convogliarla, trarne il sangue, è la poesia.
Essa, al suo meglio, è al tempo stesso rappresentazione; rappresentazione ipertrofica, cioè somma di
rappresentazioni simultanee; pensiero; interpretazione emotiva.
Il tutto veicola il senso, in quanto suscitamento di più sensi organizzati in uno. Due versi come «e quando
nel nevoso aere inquiete / tenebre e lunghe all’universo meni» entrano nella memoria perché
rappresentano al tempo stesso: una realtà corporea, una realtà incorporea, l’intuizione della terribilità
inesorabile di tale compresenza, la fascinazione maestosa del dirlo in parole, viceversa eterne. Una
simultaneità sconvolgente, tanto più se si consideri che stiamo parlando di una poesia disillusa, laica per
eccellenza, e in questo modernissima, come quella di Foscolo.
4. La rappresentazione cui conduce la poesia è dunque esente dal rischio illusionistico (cioè falsomimetico) insito nelle rappresentazioni narrativa o (massimamente) cinematografica. La
rappresentazione poetica è di specie del tutto particolare. Filtrata dall’io dello scrivente, la realtà entra nel
flusso organizzato della lingua e diventa altro, pur non perdendo connotazione autonoma. In questo
modo, l’io tende a oggettivarsi, la realtà si derealizza, sommandosi a contenuti mentali che ne suggono la
sostanza. La presenza del poeta e quella della realtà (delle realtà) che ausculta attraverso il farsi della
lingua poetica, in quanto lingua formalizzata e per eredità storica (tradizione) e per impulso privato
(innovazione), costituiscono l’universo di senso sedimentato in poesia, e dunque tramandabile.
5. Perché la lingua poetica abbia questa resa multipla, essa deve pertanto oggettivarsi. È questo il passo
obbligato della sua ambizione significante, ormai rispecchiato dalla più resistente tradizione moderna e
novecentesca.
La sovversione dell’io provato, che deve acuirsi e moltiplicarsi in somma di pubbliche esperienze, ha, tra
le molte tradizioni moderne, almeno cinque appigli forti.
a. La prima, poco praticabile oggi come esperienza formale, è tuttavia un essenziale sottofondo
conoscitivo che può essere posto a precedere, simbolicamente, l’esperienza contemporanea. Si tratta
della via interna all’io lirico, che per progressivi accerchiamenti lo pone in crisi: i frammenti del
soggetto poetante si confrontano coi frantumi di realtà, in un gioco drammatico di inversioni di ruolo
che suscita spiragli di conoscenza, tutta laica, umana. Il più alto esempio europeo di questa dialettica
dell’io lirico è certamente Sereni, che incrociando nihilatio rerum montaliana e civismo residuo di Char
ricostruisce un nucleo verbale di umanità.
b. Assai istruttiva è la via dell’ispezione oggettuale. Maestri ne sono Perec e Ponge. Nell’uno la parola
registra, appunta, si pone al servizio delle cose; nell’altro costeggia oggetti animati e inanimati,
imprimendosi della loro traccia mutevole, non senza tentare, per loro impulso, una ricostruzione
ambiguamente prometeica del soggetto e del suo mondo orgoglioso. La praticabilità odierna di questa
via è sperimentata da Inglese, non solo nei suoi Inventari, ma anche nella recente plaquette Quello
che si vede, dove la prima persona torna come occhio neutro, centro di gravità di un’esperienza
verbalizzata, per quanto frammentaria, della materia.
c. La via narrativa discioglie e semplifica le ambiguità e le scorie plurivoche della precedente modalità.
Di tutte le narrazioni in versi, ottocentesche novecentesche e recenti, restano magistrali le due opere
di Pagliarani: La ragazza Carla e soprattutto la Ballata di Rudi. Il cui insegnamento persistente è nella
capacità di affabulare la storia tutta attraverso la storia singola, per via di una lingua polifonica,
dinamica, stratificata e avvolgente al tempo stesso.
d. Ben più denso di potenzialità rappresentative è il travestimento, l’adozione della maschera. Ne è
iniziatore moderno Browning, non privo di residuo teatrale. Primo maestro novecentesco ne è l’Eliot
del Love Song of J. Alfred Prufrock. Secondo maestro, più determinato su questa strada, è tutto il
primo Pound, da Personae a Hugh Selwin Mauberley. La più interessante modalità della maschera è
nella duttilità della sua voce: i frantumi dell’io poetante che vi si sedimentano si combinano col
personaggio in una chimica nuova, proficuamente ambigua. Oggi si va dalle reinvenzioni
classicheggianti di Michel Longley; alle fulminee incarnazioni di civiltà in Madoc di Paul Muldoon; a
certe figure sociali di Giudici. Con Walcott, invece, siamo già dentro l’epos paradossale.
e. L’epos paradossale. È il rischio più alto che ci abbia lasciato la letteratura novecentesca: più la
parola è in perdita, più tenta di ricostruire un senso collettivo, sia pure sconfitto in partenza. Il suo
sarà allora il discorso della sconfitta predestinata, non senza (implicito o esplicito) auspicio di
convalescenza. Nell’epos paradossale tutti gli stimoli precedenti si trovano mischiati, e i pericoli sono
proporzionali agli esiti. Waste Land, con rischio di onniveggenza sacerdotale; Cantos, con rischio di
onniveggenza sacerdotale, disinnescato dall’atteggiamento antiaulico, e dall’esito impoetico, di molti
passi; Paterson, sfida di radicamento terrestre contro l’incertezza del proprio tempo.
Memore di queste tradizioni, più che mai oggi la poesia dovrebbe tentare di moltiplicare il proprio logos
oggettivandosi. Ma perché la poesia sovverta l’io, e perché sia simultaneità di rappresentazioni ed
interpretazione, occorre però che adotti un atteggiamento di sperimentalismo linguistico perpetuo.
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6. Nel Novecento le sperimentazioni, che in passato erano eccezioni, divengono tradizione. Tifi Odasi o
Camillo Scroffa, nel rinascimento, si contrapponevano di fatto al dominante petrarchismo lirico di
Serafino, poi a quello di Bembo. Chiamarli anticlassici, per quanto riduttivo e fuorviante, non è
incomprensibile.
Viceversa, poeti sperimentatori come Pound, Cummings, Beckett, Zanzotto, Pagliarani ecc. non potranno
oggi essere considerati anticlassici (rispetto a quale classicismo?), ma classici in sé. (Volutamente non
citiamo i Marinetti, i Breton, i Sanguineti: per non indurre in equivoco. Non va confusa avanguardia e
sperimentalismo. L’avanguardia ideologizza per definizione. Apre piste, certo, persino è necessaria: ma si
limita nello stretto di un percorso di politica letteraria, più o meno fertile a seconda degli ingegni.
Sperimentalismo è tutt’altro: è necessità di attrezzare di pensiero e di potenziale rappresentativo la
lingua poetica al proprio tempo. L’atteggiamento sperimentale ruolizza verso l’alto la poesia, mettendone
alla prova lo statuto gnoseologico, ricercando senso e non sensazione, vista e non visibilità, possibilità e
non potere).
Molti sperimentalismi devono oggi essere considerati monumenti di classicità, cioè fonti perenni ed attuali
di insegnamento letterario e formale. Da cui si può trarre spunto per definire lo sperimentalismo
linguistico: incrocio dello statuto descrittivo e emotivo, soggettivo ed oggettivo della lingua in un raggio
ampiamente rappresentativo. Ovvero: dismissione dello statuto monodico del discorso a vantaggio di uno
statuto plurale, reversibile.
Distinguiamo almeno due fattispecie di sperimentalismo linguistico.
a. Uno sperimentalismo freddo, progredente per ellissi. In questo caso la lingua poetica nasce
dall’ingestione pregressa di realtà, i cui materiali sono messi alla prova, per tramite dell’io del poeta, a
un tempo interiore, per dir così, totale. Si tratta di una lingua che procede disseccandosi, riducendosi
a meccanismo nudo di retorica. O a sequenza di nominazioni, il cui legamento è l’allusione, o meglio
ancora l’abrasione dei sensi intermedi. Stretta d’assedio dalla realtà meccanica, brutale e multiforme,
la lingua poetica reagisce fagocitandola prima in immaginario, ovvero negandone l’ambizione
superficiale; e filtrandola sulla pagina in frantumi, emersioni di un significato almeno probabile,
funzionante per forza di silenzio, e in effetti tendente al silenzio. L’oscurità è essenziale, così come la
forma, che geometrizza per forza profonda i segni riemersi dal caos. Un culmine di questa tensione
sperimentale è ad esempio Celan, che laicizza Mallarmé, caricandolo di realtà morale. Celan è tanto
inflessibile in questa sua contrazione della lingua a puro peso specifico, da inventare a tratti un idioma
lirico che ausculta la storia, la filtra per il soggetto, elide l’una e l’altro in un lampo, oggettivandosi per
resti di discorso, imperfetto solo perché non del tutto taciuto.
Diversamente drammatico è il procedimento ellittico in Beckett. Meglio che veicolare roccaforti (per
quanto sbranate) di senso, qui la parola poetica in sé tenta la difesa del dire, contro l’assalto del
vuoto: a costo di metterlo perpetuamente in scena. Più forte diventa qui il valore della forma, della
retorica ottenuta a freddo, insistente: trina sospesa sul baratro. Così nel poema di Mesa I loro scritti, e
in particolare nella sezione delle Nove macchine morte, tutti i discorsi, anche quelli civili, sono tritati e
ricomposti in una musica ossessiva, saturante eppure agita per silenzio («per parole non
pronunciate»), esatta eppure incompleta, capace di formalizzare il non-senso componendo le mille
briciole del senso in una tela friabile ma almeno fissata sulla pagina.
b. Uno sperimentalismo polifonico, espanso, accumulatorio. L’atteggiamento linguistico, qui
drasticamente diverso, ambisce non a metabolizzare, ma a trascrivere effusivamente la realtà.
Notomizzata prima, con sforzo conoscitivo di esploratore, nelle molteplici realtà che la compongono.
La lingua poetica esige, accumula, sovrascrive in sé queste realtà, dando loro voce intrecciata,
vorticosa, insieme molteplice ed una.
L’esempio più alto di questa fattispecie sperimentale è senz’altro il Pound dei Cantos. Singolo oggetto,
mondo esterno, storia, trovano accordo e organizzazione nel flusso lavico, fratturato del linguaggio.
Altrettanto esemplare, ma su un pedale di più esplicita dialogicità, è il Pagliarani altissimo di Lezione di
fisica, e soprattutto di Fecaloro. Qui l’ambizione è meno universalistica, e di conseguenza le fratture di
senso meno profonde. Il difetto di dantismo aggiunge in pathos umano e in accessibilità, senza
sottrazione di fiducia alla poesia: «…non è ai poeti che tocca dichiararsi / sulla nostra morte, ora, della
morte illuminarci?». E in effetti attraverso la latitudine ampia del linguaggio sperimentale tace
l’imbarazzo ironico del poeta novecentesco narcisista della menomazione, da Palazzeschi a Satura, e
anche, nel cozzo di materiali sacri e profani, circuitati però da serietà di pensiero, la poesia può
sfiorare, o persino (per intervalla insaniae) riaffermare la propria sostanza, per quanto poi nascosta al
margine.
7. Entrambe le modalità presentano una loro consonanza con i tempi di oggi.
La lingua sperimentale ellittica offende la realtà, invasa da comunicazione, attraverso l’esercizio
concentrato dell’oscurità, attraverso l’emersione concettuale del silenzio. La necessità di sforzo all’atto
della lettura, l’obbligo di calarsi dentro le faglie del senso, riconduce al valore prezioso del senso
medesimo, dilatando finalmente l’attimo della parola in profondità.
8. La lingua sperimentale espansa è forse carica di un più complesso potenziale euristico. Nel mondo del
fare, del predominio oggettuale, dell’invisibilità delle verità anche sociali, della sparizione del senso,
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diffratto in miriadi di significati superficiali, deboli, devianti, essa sembra una via duttile per rigenerare la
sostanza di un senso possibile.
La sua attualità ha molteplici ragioni.
a. Attiva, moltiplica, dialettizza le voci della complessità, rendendo misurabile il superamento dell’io.
«Tutta la vita della lingua, in qualsiasi settore del suo impiego (nella vita quotidiana, negli affari, nella
scienza, nell’arte, ecc.), è penetrata di rapporti dialogici»: l’intuizione di Bachtin vale più che mai per
questo tempo iperaffabulato dall’informazione. Nella lingua poetica possono sedimentare, sotto forma
di vene lessicali specialistiche, di idioletti privati o lingue pubbliche ecc., i bandoli della dialogicità che
ci attraversa. «I rapporti dialogici…debbono incarnarsi nella parola, diventare enunciazioni, diventare
posizioni espresse nella parola di diversi soggetti, perché tra essi possano sorgere rapporti dialogici»: i
diversi soggetti sociali sono portati entro uno stesso spazio testuale, da un medesimo, plurale impulso
linguistico.
b. Assai meglio del modello postmoderno di Jameson, la lingua poetica sperimentale interpreta la
vocazione complessa e al tempo stesso decostruita, schizofrenica, della società contemporanea. Il
dolore, la dolcezza terribile, la violenza snervante della personalità disunita e proliferante dello
schizofrenico, della sua acuta e allucinata percezione della fine imminente, o della sua dilatata,
frazionata, estenuante coscienza dello spazio-tempo, sono leggibili come rappresentazioni incarnate,
drammatiche a tutto tondo, dei nostri mali polifonici. La stessa polifonia ammalata può raggiungere la
lingua poetica sperimentale, con l’additamento implicito d’una via di guarigione: il senso dell’insieme,
dell’unum dominabile del testo, ridotto a forma, o a compresenti pluralità di forme, funzionanti
tuttavia all’unisono.
c. La via polifonica apre quasi sempre, in gradi diversi, alla pulsazione della storia, sotto forma di
maschere, di citazioni, di mescidazione linguistica, ecc. Anche in questo caso, quand’anche sotto falsa
sembianza di ironia, la ricerca del senso deve essere tenace. Il rischio di retorica, sempre presente e
spesso d’intralcio, può essere disinnescato per effetto della forma, che accumula, rivitalizza nel
magma organizzato. L’esempio più ambizioso è nei Cantos, monumento vivo dei rischi e delle
possibilità della poesia novecentesca. Alta anche la prova del Paterson di Williams, fusione di materiali
differenti (compresi autocommento, voce off, scarti prosastici). Non meno significativo, anche perché
animato da più circoscritte ricostruzioni di senso e di storia, il tentativo di Pagliarani all’altezza di
Lezione di fisica e Fecaloro, dove brani veementi come questo: «- Primo: non hanno voglia di lavorare
/ - Ma tu tua figlia a un cafone calabrese / (Dov’è Shylock, mercante di Venezia) / Una libbra sangue
se valse un’arancia / - morte per acqua - / a Mussomeli?», ecc.
d. La lingua poetica polifonica, quando costituisca realtà profonde e realtà lievi in unico discorso, quasi
sempre riattiva enzimi civili, riducendo l’impatto retorico che una pronuncia monodica, più tipicamente
civile, comporterebbe. Il massimo esempio contemporaneo ne è Tony Harrison. Il quale aprendo la
propria pronuncia a tutti depositi linguistici bassi, gergali, settoriali, specialistici e iperculti, lascia
esplodere i materiali della realtà più violenta o dissimulata sotto gli occhi del lettore, senza commento
altro che la ricostruzione del senso, organizzato nella razionalità volontaria della musica scaturente
dalla forma perfetta: «Pickled Gold Coast clitoridectomies? / Labia minora in formaldehyde? / A rose
pink death mask of a screen cult kiss, / Marylin’s mouth or vulva mummified?».
e. Per ottenere i suoi scopi, ovvero per addensare in sé una simultaneità di rappresentazioni, la lingua
polifonica adotterà tecniche come la mescidazione lessicale – quella morfologica restando recinta negli
estremi della lingua che mette in scena prima di tutto sé stessa, depistando dal senso, come in Baldus
o in Finnegans Wake nei casi più alti ma anche più ambigui; il pastiche, e però dosato per la stessa
ragione, cioè per evitare il predominio del significante; l’innesto (dissimulato o meglio dichiarato) di
citazione colta, cioè dialogo con la storia, e citazione bassa, cioè dialogo col proprio tempo; l’inclusione
di materiali impoetici, afferenti a realia. Celebre la lista di locale alla moda scandita da Williams su
ritmo jazzato: «2 partridges / 2 mallard ducks / a Dungenese crab / 24 hours out / of the Pacific / and
2 live-frozen / trouts / from Denmark». Lo stesso Williams chiosava, con parole anche più celebri:
«Qualsiasi cosa è un buon materiale per la poesia».
Il montaggio prevedrà anche tagli di senso, improvvise frane di silenzio: ma in questo caso senso e
silenzio saranno voci di uno stesso lavorio verbale, escavante nelle secrete umane. Per una pagina così
costituita è più vero che mai che «la poesia sta insieme con la pittura, la scultura, la musica» (Sartre): la
lingua poetica è istantanea di un segmento di tempo e insieme dinamica rappresentazione delle sue
simultaneità.
9. Si tratta di una lingua lavica, che chiude in sé materiali esogeni, dando loro un nuovo senso. Vive qui
un nuovo istinto babelico, governato (non placato) dal principio della forma, più difficile in questo caso da
raggiungere, se non in armoniche interne, scovate a singhiozzo.
L’imperfezione del risultato è parte integrante di una lingua così disposta, inclusiva e giocoforza
slabbrata. Si tratta di un’imperfezione necessaria: nessun risultato conchiuso, ma un flusso aperto
all’aggiunzione di dialogo, perfettibile ma non mai perfetto. (Atteggiamento morale, questo, e letterario
insieme: fino ad oggi l’illusione di perfezione ha vanificato energie di pensiero, speso vite, sparso
sangue). Il metodo dei Cantos, per programma imperfetti e slabbrati (cioè a tratti troppo rappresentativi
del puro metodo, a scapito dell’intuizione), ne è alta testimonianza.
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10. Precisazione forse ovvia ma necessaria. La modalità ellittica e quella polifonica sanno coabitare. In
alcune sue opere dell’ultimo periodo Mesa, nel rendere più esplicita una vena politica e civile, ha
combinato una lingua fondata su microfratture di senso, su intime sconnessure, con un tessuto di
filigrane letterarie, culturali, cronachistiche (Da recitare nei giorni di festa, o Tiresia). Tramature di
silenzio, del resto, e sconnessioni ipersignificanti del significato sono le trascrizioni-scansioni di Pagliarani
(Esercizi platonici e Epigrammi ferraresi), in cui la citazione è tradotta – etimologicamente – sul bianco
della carta, così che il senso rinnovato nasce dal dialogo tra l’antica parola, la nuova parola del poeta, il
nuovo vuoto del foglio, che moltiplica le risonanze nel silenzio.
V
1. La lingua poetica polifonica, orientata cioè verso l’espansione, l’accumulo, l’inclusione, che incameri la
molteplicità, richiamando il punto di unità nella forma, è una lingua che al massimo grado può veicolare il
mondo. Essa, per il fatto non solo di attraversare, ma anche di mettere in scena la polifonia, e persino il
caos, ne è regolazione, discorso.
2. La lingua poetica così concepita è un atto narrativo al livello più alto, in quanto somma simultanea di
racconti, affabulazione delle realtà presenti e passate, poste in attrito, in dialogo per via linguistica. In
questo senso è anche un atto di consapevolezza.
3. La lingua poetica così concepita è un atto di storia. Il suo gemmare dal linguaggio le permette di
essere storicità in atto, ed effrazione della storicità in pieno equilibrio. La poesia non ha bisogno di
affrontare la storia, per parlare di storia: dà conto della storia attraverso la simultaneità delle pronunce e
delle lingue che sa ospitare, o sottintendere.
4. La lingua poetica così concepita è un atto politico, per più ragioni.
5. Perchè segna una permanenza di senso, dunque di speranza civile (oggi peraltro urgente, come
dimostra l’insistente nostalgia di un poeta anacronistico ma vivo come Pasolini).
Perché l’evocazione del senso e la messa in scena della storicità umana è di per sé sovversiva, in un
mondo che «si riduce al contenuto del nostro fare», in quanto «soggettività estrovertitasi completamente
in prassi» (Sloterdijk).
Perché raccorda le voci di un dialogo interrotto. Ha scritto Sloterdijk che «la ragione soggettiva [odierna],
regredita a ragion privata…astutamente ignora contesti, nessi, correlazioni… È un modo per rendersi
inaccessibili agli affronti dell’universalità, una sorta di indurimento strategico contro il canto delle sirene e
cioè contro ogni scadenza comunicativa o conciliatoria». A questo appiattimento muto nell’orizzontalità
dei nessi, la lingua poetica polifonica reagisce ristabilendo contesti presenti e passati, ritessendo legami,
ponendosi di nuovo nella diacronia vulnerabile del tempo, ovvero nella sua universalità comunicativa
minacciosa ma progressiva: in altri termini, riscoprendo la profondità.
Luigi Severi
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FUOCHI TEORICI
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Linguaggi e traduzioni
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Teoria e pratica della traduzione
33
TRADUTTOLOGIA COME SCIENZA E TRADUZIONE COME GENERE LETTERARIO
"Io mi domando", si chiedeva Céline nella lettera a M. Hindus del 15 maggio 1947, "in che cosa mi
paragonino a Henry Miller, che è tradotto?, mentre invece tutto sta nell'intimità della lingua! per non
parlare della resa emotiva dello stile...".
Lo stile, per Céline, era dunque "intraducibile", come – per Croce - era "intraducibile" la poesia. Sono
posizioni che, facendo leva sul presupposto della unicità e irriproducibilità dell'opera d'arte, giungono a
negare la traducibilità della poesia e della prosa "alta". Tali concezioni sono l'espressione di un idealismo
oggi particolarmente inattuale, contro il quale l'estetica italiana di impianto neofenomenologico (da Banfi a
Anceschi a Formaggio a Mattioli) si è battuta (direi, vittoriosamente) partendo dalla constatazione che le
dicotomie (fedele/infedele; fedele alla lettera/fedele allo spirito; ut orator/ut interpres; verbum/sensus;
"traductions des poètes"/"traductions des professeurs") - da Cicerone a Mounin - inevitabilmente portano
a una situazione di impasse, configurando, da una parte, l'intraducibilità dello "stile" e dell'"ineffabile"
poetico, e dall'altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto. Naturalmente il fatto che sia
trasmissibile soltanto un contenuto è una pura astrazione, ma è dove si giunge partendo sia da presupposti
"idealistici", sia da presupposti "formalistici".
Non mi pare che la situazione dicotomica di impasse muti analizzando la più recente quérelle tra Meschonic
e Ladmiral, alias tra sourciers e ciblistes, o tra una tendenza naturalizzante - "target-oriented" - che
spingerebbe il testo verso il lettore straniero "naturalizzandoglielo"; e una tendenza estraniante - "sourceoriented" - che trascinerebbe il lettore straniero verso il testo. Secondo questa impostazione, lo scontro tra
scuole traduttologiche somiglierebbe a quello in atto nel mondo del restauro: farlo vedere il più possibile, o
nasconderlo il più possibile.
Se si prescinde dalla simpatia che certe definizioni possono più di altre suscitare, credo sia chiaro che proseguendo con una impostazione dicotomica - si aggiungono soltanto nuove coppie – come
addomesticamento/straniamento, visibilità/invisibilità, violabilità/ inviolabilità a quelle da secoli esistenti:
libertà/fedeltà, tradimento/aderenza, scorrevolezza/letteralità. Come avviene con Lawrence Venuti, autore
di The Translator's Invisibility, malgrado sia senz'altro di alto livello il suo costante riferimento a
Schleiermacher e alla scuola ermeneutica novecentesca che a lui si ispira.
"Come riprodurre, allora, lo stile?" Il nocciolo del problema, a mio avviso, sta proprio nel verbo usato per
porre la domanda: riprodurre. Perché la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una
operazione di riproduzione di un testo; essa dovrebbe piuttosto essere considerata come un processo, che
vede muoversi nel tempo e - possibilmente - fiorire e rifiorire, non "originale" e "copia", ma due testi forniti
entrambi di dignità artistica.
Uno studio fondamentale a riguardo è Il movimento del linguaggio di Friedmar Apel. Il concetto di
"movimento" del linguaggio nasce dalla necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di
partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario. L'idea è comunemente accettata per la
cosiddetta lingua di arrivo. Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di ritradurre costantemente i
classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua continua a subire. Il testo cosiddetto di partenza,
invece, viene solitamente considerato come un monumento immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile.
Eppure anch'esso è in movimento nel tempo, perché in movimento nel tempo sono - semanticamente - le
parole di cui è composto; in costante mutamento sono le strutture sintattiche e grammaticali, e così via.
In sostanza si propone di considerare il testo letterario classico o moderno da tradurre non come un rigido
scoglio immobile nel mare, bensì come una piattaforma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo
dell'opera, ma l'opera stessa è in costante trasformazione o, per l'appunto, in movimento nel tempo. In
questa ottica, la dignità estetica della traduzione appare come il frutto di un incontro tra pari destinato a
far cadere le tradizionali coppie dicotomiche, in quanto mirato a togliere ogni rigidità all'atto traduttivo,
fornendo al suo prodotto una intrinseca dignità autonoma di testo. Un principio già anticipato da Blanchot
attraverso l’immagine della “solenne deriva delle opere letterarie".
Si potrebbe persino affermare che il movimento nel tempo, in questo processo di traduzione letteraria,
possa avere inizio prima ancora della redazione della stesura "definitiva" dell’"originale", allorché al
traduttore è possibile accedere anche all'avantesto (cioè a tutti quei documenti da cui il testo "definitivo"
prende forma), impadronendosi così del percorso di crescita, di germinazione del testo nelle sue varie fasi.
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A riguardo un linguista come Pareyson parla di "formatività" del testo; un poeta come Gianni D'Elia di
"adesione simpatetica”, da parte del traduttore, “non tanto al testo finito e compiuto, quanto alla miriade
di cellule emotive che lo hanno reso possibile".
Il testo, dunque, si muove verso il futuro all'interno delle incrostazioni della lingua, ma anche verso il
passato se si tiene conto degli avantesti. Si pensi agli ottantamila foglietti da cui provengono le
quattrocento pagine del Voyage di Céline, alle Epifanie da cui discende il Portrait di Joyce, ai Cahiers su cui
si forma la Recherche… E questo nella consapevolezza della stratificazione delle lingue storiche. Un
concetto che Bianciardi esemplifica con chiarezza "architettonica" all'inizio della Vita agra, allorché descrive
il palazzo della biblioteca di Grosseto. Che in precedenza era stata casa insegnante dei compagni di Gesù, e
prima ancora prepositura degli Umiliati, e alle origini Braida del Guercio...
Trasferendo al linguaggio questa descrizione si ottiene l'effetto-diodo, come osservando dall'alto una pila
accatastata ma trasparente di strati fonetici e semantici.
Franco Buffoni
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IL VILLAGGIO GLOBALE E L'UOMO-DONNA:
BREVE PANORAMA DELLA POESIA ATTUALE NEL MONDO
Se il tempo è una convenzione, è chiaro che non possiamo fare a meno di ragionare in base a questa
convenzione e di usarla come strumento per capire meglio l'evoluzione e il cambiamento delle cose.
L'avvento del terzo millennio ha scatenato vecchie e nuove paure, ma ci ha fornito anche una linea di
frontiera che ci aiuta a mettere in evidenza il nuovo volto di questa complessa umanità del 2000 e – per
parlare specificamente di poesia – i nuovi modi espressivi con ciò che essi veicolano.
La prima domanda che si fa chiunque si avvicini alla poesia attuale è che cosa è cambiato rispetto al
Novecento, e la risposta immediata è che ci sono alcuni cambiamenti notevoli che scoprono un volto nuovo,
diverso del poeta attuale, forse imprevedibile qualche decennio fa. Vediamo in ordine ognuno di questi
cambiamenti.
Una delle caratteristiche della poesia del Novecento è stata senz'altro la certezza della perfettibilità dell'uomo
e quindi la fiducia nei sistemi politici che avrebbero eliminato per sempre l'ingiustizia, la fame, la povertà. Ai
movimenti rivoluzionari nel mondo e all'istituzione dei regimi socialisti si associavano movimenti letterari che
volevano dare testimonianza di questi principi e di questa speranza: ne è prova la littérature engagée.
Tuttavia le guerre hanno riportato, verso la metà del secolo, un senso di sconforto e di perdita di fede nei
valori operativi o – tanto meno – educativi dell'arte. Sartre si domandava a cosa serve la letteratura?, e
molti pensarono che, in effetti, in quei "tempi bui" – di brechtiana memoria –, fosse più giusto scegliere
l'azione diretta al posto del bel canto o, nel caso di non poterlo evitare, che esso fosse almeno propositivo ed
efficace nel rappresentare la realtà e nel denunciarne le contraddizioni. Per quello che riguarda l'America
Latina, il Novecento fu il secolo delle dittature più feroci di tutta la sua storia: i più grandi poeti hanno
lasciato testimonianza degli obbrobri subiti e del dolore dell'esilio, dall'uruguaiano Mario Benedetti al
nicaraguense Ernesto Cardenal, all'argentino Juan Gelman, al cileno Pedro Lastra... Il nuovo millennio invece
è iniziato con grandi speranze, stimolate dalla fine delle dittature e dall'avvento di governi democratici,
addirittura con la presa del potere da parte delle antiche vittime dei passati regimi, come è recentemente
avvenuto in Cile, in Uruguay, in Bolivia. Tuttavia l'illusione è durata poco: l'11 settembre, l'inasprirsi del
fondamentalismo islamico, la guerra in Irak e la difficoltà a trovare un accordo tra il governo di Israele e i
paesi confinanti, hanno riproposto un clima di angoscia da cui emerge perfino la minaccia di una terza guerra
mondiale. La differenza con quello che avveniva prima sta nell'abolizione sempre più diffusa delle frontiere.
Oggi terrorismo e lotta al terrorismo sono dappertutto e la letteratura che ne dà testimonianza ha acquistato
anche in questo senso un volto "globale". Il dolore per la violenza subita nelle rispettive patrie è presente sia
nella poesia del israeliano Rami Saari che in quella del libanese Samer Darwich: se il muro è la metafora
fondante della poesia di quest'ultimo, la morte del giovane amico impregna di dolore quella del primo; ma
tutti e due sollevano lo sguardo al di sopra dei propri limiti, e il loro mondo si nutre e si arricchisce di tanti
mondi altrui.
La globalizzazione ha però un lato affascinante e se vogliamo positivo: il poeta del terzo millennio, come una
buona percentuale della popolazione attiva del pianeta, viaggia, legge in molte lingue, conosce e stabilisce
rapporti molto più facilmente di una volta con persone di altre nazioni e dai costumi molto diversi. Così
l'orizzonte personale si allarga, amore e amicizia diventano possibili al di là delle frontiere e delle
consuetudini, i pregiudizi vengono messi in crisi dalla familiarità con il diverso. Nella breve rassegna
antologica che accompagna queste riflessioni, ci sono otto poeti provenienti da otto nazioni diverse (ma
potevano essere molti di più) che hanno come comune denominatore questa aura internazionale e
multiculturale, questa dimestichezza con luoghi lontani dalla terra natia, questa appartenenza ormai al
"villaggio globale", non affatto spersonalizzato ma addirittura fonte di una nuova prospettiva e linguaggio
poetici.
Un'altra angoscia tipica della fine del Novecento che si trascina fino ad oggi, in parte conseguenza dello
sviluppo tecnologico, dell'informatica e della preponderanza del linguaggio visivo sul verbale, è quella della
fine della letteratura e in particolare della poesia. Se Julio Cortázar temeva che il mondo sarebbe stato
sommerso da montagne di carta stampata, oggi predomina la paura opposta, e cioè che non si stampi più,
che il web possa comodamente, con grande risparmio di spazio e di danaro, fornire tutte le informazioni che
una volta richiedevano l'uso di enciclopedie e pubblicazioni ad hoc. Eppure, anche accettando che il futuro
possa nascondere un destino di comunicazione orale e virtuale più che scritta, esiste una convinzione forse
addirittura crescente sulla necessità della poesia, vale a dire sulla certezza che essa sia non soltanto
insostituibile, ma anche necessaria per l'equilibrio psichico dell'uomo. E quando si parla di grandi creazioni
poetiche, allora bisogna ricordare che, come spiegava Jung, esse vanno oltre il personale, scaturiscono
dall'anima dell'umanità, quindi veicolano l'inconscio collettivo sposatosi alla coscienza del tempo ed
esprimono non una persona – l'autore – ma tutta la sua epoca, nel bene e nel male, per la sua salvezza o
per la sua rovina (1). Questo rapporto tra la creazione poetica e la configurazione dell'immaginario di una
determinata epoca, è forse quello che spiega affermazioni come quella di Álvaro Mutis, secondo cui la poesia
è l'unica vera prova dell'esistenza dell'uomo.
In ogni caso, per sfatare l'incubo della fine della letteratura e del libro stampato esistono oggi piccoli e medi
editori che con grande passione si lanciano nel mercato proponendo nuove collane, realizzando idee nuove
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con nuove prospettive e dimostrando che, se loro possono permettersi di ampliare la produzione libraria, è
proprio perché esiste un pubblico lettore che non demorde e che accoglie appunto le novità.
Il Novecento è stato anche il secolo dell'affermazione delle donne, nella vita sociale e politica così come nella
letteratura. Ma già la stessa Virginia Woolf si augurava che nel futuro la voce poetante potesse configurarsi
al di sopra del genere, per costituire una nuova agognata voce, semplicemente umana. Forse quello che lei si
augurava si è già verificato; e se nei giovani spesso è difficile scoprire segni di identificazione del gender, è
decisamente chiaro il cambiamento di impostazione della voce maschile, come si può verificare in questa
rassegna, dove abbiamo scelto apposta soltanto voci di uomini. In esse il lettore avvertirà che la scissione tra
i ruoli femminile e maschile è scomparsa, o quanto meno straordinariamente diluita. Un poeta fra i più
giovani di quelli scelti, il giapponese Yasuhiro Yotsumoto, può vantarsi di essere nella vita soprattutto e
sostanzialmente un househusband (2), mentre Philip Meersman in una toccante poesia, La fanciulla e la
Croce, assume lo spirito e infine la voce della donna che l'ha colpito, al di là di una non determinante
femminilità, per la sua assoluta dedizione alla causa mistica e artistica. Una voce assolutamente androgina,
d’altronde, è quella di Yves Prié, che dalla sua Bretagna si sposta sempre più lontano, in Italia e poi verso
Oriente, in Egitto, ad Assuan, sul filo di una costante riflessione in cui le forme dell’arte sono la
configurazione tangibile delle figure del pensiero. Nelle poesie che parlano d'amore poi, si sente una diversa
impostazione dei ruoli e l’estraneità da prospettive amorose ormai datate, come quelle più famose del secolo
scorso, da Neruda a Prévert, irripetibili per quanto tuttora (forse) affascinanti.
Infine, se nella poesia del Novecento si può osservare, fino a un certo punto, un crescente allontanamento
dalla natura, perché il canto si eleva sopra il contingente nella configurazione di una poesia concettuale e
metafisica, o perché la realtà immediata rappresentata vive ormai quasi esclusivamente nella "giungla di
cemento" delle città, nella poesia del terzo millennio, con lo sviluppo dell'ecologia e della coscienza ecologica,
la vita torna a fare i conti con la natura, e di conseguenza lo fanno anche la letteratura e la poesia.
Ricompaiono gli animali, e può succedere che nella terra fantastica di Tavastelandia – inventata da Sergio
Badilla, ossia spuntata dalla sua realtà transreale –, le parole vengano soffocate dalla fervente attività del
regno animale, senza che il poeta perda la capacità di ricevere il messaggio vitale dei ranocchi a caccia di
vermi, o della lucciola perduta nella notte, o del riccio che si rifugia nella casa. Può addirittura succedere che
il dialogo naturale diventi amabilmente cosmico, come ad esempio quando «una nuvola chiacchiera con un
cane» (così avviene in un verso del costaricano Jorge Arturo). Intanto la fratellanza riscoperta nel seno della
madre-terra si espande e si congiunge con quella della globalizzazione intesa come abbattimento delle
frontiere. La prima parte dell'ultimo libro dello stesso Jorge Arturo si intitola significativamente Viaggi; Rami
Saari afferma addirittura che egli è il viaggio; e come in loro due, così in tutti gli altri è costante il motivo
dello spostamento e dell'appuntamento altrove, lontano, laddove la cifra accattivante nasce proprio dalla
diversità rispetto delle origini. Eloy Santos, nato in Spagna e vissuto la maggior parte della sua vita in Italia,
trova nella cultura giapponese una cifra che lo rappresenta intimamente, nella quale si riconosce al di là del
tempo e dello spazio (si veda Gagaku). Forse per lo stesso motivo, quando si fa riferimento a elementi locali,
come possono essere i maestri riconosciuti da Philip Meersman, maestri della sua stessa patria, e cioè il
Belgio, essi vengono citati in maniera trasfigurata, con parole diventate, almeno in parte, onomatopee
universali, dentro le quali si celano i nomi, spiegati dall'autore e altrimenti irriconoscibili.
La scelta degli autori che proponiamo è, per quanto ridotta, significativa ed emblematica e l'insieme può
contribuire a formare un nuovo ed efficace ritratto del poeta contemporaneo. Si tratta, come già accennato
precedentemente, di otto intellettuali di otto nazioni diverse, di età compresa tra la soglia non raggiunta dei
60 e i 35 anni, che nella loro poesia fanno spesso riferimento a mondi molto lontani e diversi da quello in cui
sono nati: Sergio Badilla (Cile, 1947), Yves Prié (Francia, 1949), Jorge Arturo (Costa Rica, 1961), Rami Saari
(Israele, 1963), Eloy Santos (Spagna, 1963), Samer Darwich (Libano, 1965), Yasuhiro Yotsumoto
(Giappone, 1965) e Philip Meersman (Belgio, 1971). Non è sicuramente casuale che tutti loro siano
pluricreativi, poeti e narratori, pittori, fotografi, cantanti; né che alcuni di loro siano approdati a forme
poetiche alternative, come la poesia sonora e la poesia visiva, di cui Meersman, erede della ricca scuola
belga, è anche magnifico esponente.
Martha Canfield
SERGIO BADILLA CASTILLO
Sergio Badilla Castillo è nato in Cile nel 1947. La sua produzione nasce dalla forte amicizia creativa con un
gruppo di poeti della sua generazione, tra cui Juan Cameron e .Raúl Zurita, questo ultimo tradotto anche in
italiano. Sotto la dittatura di Pinochet ha dovuto vivere il dramma dell'esilio e in Svezia si è laureato e ha
lavorato come antropologo. Ha inoltre fatto parte di diverse associazioni culturali, quali «Laboratorio di
Stoccolma» e «Pelican Group of Arts», insieme al poeta uruguayano Roberto Mascaró e all’artista cileno Juan
Castillo. Vissuto in diversi paesi europei per circa trent'anni, attualmente risiede a Santiago del Cile. È
giornalista della Radio Svezia Internazionale. È il creatore di una tendenza poetica chiamata «transrealismo»,
che lui definisce così: «Transrealismo è lo sguardo del tempo verso di noi con i suoi occhi quantici».
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Ha pubblicato diversi libri di poesia, tra cui La Morada del Signo (1982), Cantonírico (1983), Reverberaciones
de Piedras Acuáticas (1985), Terrenalis (1989), Saga Nórdica (1996) e alcuni volumi di prosa e saggistica. I
testi tradotti sono tratti da Poemas transreales y algunos evangelios (2005).
IN UNA VIUZZA DI SANTIAGO
Qualcuno mi ha insegnato la morte questa mattina
come fosse una farsa di buffoni in una viuzza di Santiago.
Guardo intimorito il cielo attraverso la precisione di questa finestra
ed è un novembre di fragili rose nel pomeriggio di Chicureo.
Lo stupore ottunde la mente e non dimentica mai
perché Dio è cresciuto come un frutto selvatico tra i rami
di un giardino di Babilonia.
Qualcuno mi ripropone la morte questa mattina
travestita da monaco nel rumoroso cortile dell’averno.
È stato in questa città dove io ho dormito con lei tante notti?
È questa l’urbe in cui la mia famiglia abita ormai da millenni?
Mi avvolgo nel silenzio ora, tra le mura della mia casa a La Reina
sono ancora un semplice inquilino
uno schiavo liberato che immagina aquile che fanno acrobazie
nel cielo azzurro d’Egitto.
Gli obici cadono in questo stesso istante sul suolo di Falluja
e centinaia di colombe volano docili sulla cattedrale di Burgos.
Uno scoppio. Un semplice scoppio omicida
di gente che fugge impaurita tra le rovine di una città assediata.
Qualcuno mi mostra la morte questa mattina
quando sento che nella memoria fluisce la corrente impetuosa
dello Zambesi
a Bulawayo
forse il mondo intero in un cumulo d’acqua
un’emanazione interminabile di lacrime e di fango.
Qualcuno mi insegna di nuovo la morte questa mattina
in un angolo innocente dove si ammucchia la ragione
dell’universo
come se accadesse un cataclisma nell’angolo cittadino della mia anima.
CANTO FINALE
A Andrés Morales
C’è qualcosa che intimorisce Vallejo a cielo aperto nelle stradine del Giardino di Lussemburgo / nella Parigi
dei castagni / dove la città si albera e sembra profumare di giungla. In questa stanza al 207 di boulevard
Raspail aspetta un amico che gli faccia coraggio, ma non arriva nessuno.
Guardando la sua tomba a Montparnasse intuisco che la nostalgia gli trapanava l’anima e i silenzi gli
facevano perdere l’approvazione della coscienza.
Il 27 (recluso dalla nostalgia) agonizza in una sala bianchiccia con i suoi occhi neri spaventati fissi sul
soffitto. Di 60 libbre peruviane ha bisogno per andare da Madrid al Callao, e non ce l’ha. Santiago de Chuco
rinverdisce nel vago della sua memoria, e si lamenta.
Nella terra dove la Spagna si rovina, lui restituirà le utopie che gli esaltano l’animo. Il delirio lo scuote di
povertà. L’eremita è malato nella Parigi che lo maltratta. Dove se n’è andata Georgette? I suoi amici:
Gerardo Diego, Juan Larrea e Juan Gris? Sarà una morte segreta / una calamità impossibile nella totalità di
un atto conclusivo.
OSCILLAZIONI DELLA BARCA CHE S’INCAGLIA
I mondi riflessivi si zittiscono all’ombra di una benevola
rovina
cresce la devastazione del corpo
come un bastimento che s’incaglia nella bassa marea.
(Non esiste altro epilogo possibile).
A Juan Gelman
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La natura in armonia con la sostanza
è frangibile e pulita
in nessun modo cede alla goffaggine (alla scoria)
ed è l’oscillazione dell’organismo che accentua il cambiamento.
Così la materia
nonostante le sue variazioni
continua ad essere totalità che sorprende.
Il tempo non è fatto di scadenze ma di casualità.
Ciò che è successo ieri l’altro è quello che permane
accolto nello scolorirsi di una foto
o in un fiore appassito
nel ciottolo che rimane nella memoria anche senza arrivare al suolo
o nella carezza sospesa che il tuo corpo non accolse.
La barca si incaglia in qualsiasi scoglio della bassa marea
l’argano si paralizza perché il canapo cede
e non c’è più slancio per ricominciare il movimento.
Il veliero ha gli alberi solenni tarlati
è ormai inutile la bussola
e il sestante
e le stelle / per ingannare l’esattezza dell’astrolabio /
rimangono ferme nel loro spazio.
Gli universi ciechi si sviano nella nebbia
e transitano verso la morte
come una nave che affonda nel riflusso
di un mare immaginario
e naufraga nella devastazione della propria mente.
PRIMO VANGELO
Della mia bisnonna Cornelia Riquelme Sid so soltanto che è nata
un 23 gennaio 1828 nella hacienda Santissima Trinità di Bulnes.
Negli atti di battesimo rimase segnata parte della mia eredità
di maschio rigoroso e gentiluomo.
Il mio bisnonno Francisco Badilla era nato anche lui a Bulnes
come mio nonno José.
Gli archivi consumati dal tempo suggeriscono le sofferenze
di Pedro Riquelme (mio trisnonno) per configurare
la discendenza
/ rivale del grancapo
dei supremi / e i vili / oggi
denigrano con i loro vizi le mie glorie e le mie vanità.
La mia petulanza mi
lasciò senza compagnia e sono stato un infingardo con certe donne
che mi amarono
senza paura di allontanarsi dal decoro o di infrangere i riti vaginali del pudore.
Segnati in quel documento / si trovano pure / i miei figli dalle lingue
disuguali e le mie varie consorti:
(In realtà sono stato straniero tante volte in quelle residenze estranee
ho disertato i cortei imbroglioni e le orde sociali
e sono stato apprendista / per un po’ /
di pratiche poco lusinghiere).
Le usanze nel territorio di quegli anni
/ i clan e le abitudini dei capi /
(i più spudorati e consacrati)
non cambiarono.
Bianchissima come il latte, secondo i miti familiari
/ la mia bisnonna Patricia / fu la donna più bella del secolo per mio nonno.
Le albe allora erano più fresche
perché la natura era piena di alberi e ricchezze.
L'oceano stava dall’altra parte delle montagne incatenate e agresti: Nahuelbuta
ma mio padre si fece marinaio
e si arrampicò sugli alberi più alti di una nave informale
nelle acque ritorte del Golfo di Penas
Ai miei figli
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prima di arrivare al purgatorio sfidando l’aria gelida
(traslucida)
di Capo Horn.
SECONDO VANGELO
Sono nato fuori dalle mura dell’averno nell’anno in cui si diffondeva la peste
e nei primi anni ho imparato a maledire in lingua arcaica
per ignorare l’oscurità del Mandorleto.
Il terzo giorno sono salito in Playa Ancha e mi hanno fatto sedere alla destra di mio padre
nei giorni / in cui su questa darsena /aumentavano le calamità.
Disprezzare l’abisso era aspirare a una perpetua penitenza
accatastarsi in una catapecchia con le fascine più alte o rifugiarsi
in una grotta di banditi della costa.
Notti esatte narrano i miei anni da Anticristo
disperato mentre scendevo al Quartiere Cinese con i suoi vuoti
e le sue profondità come Faust con Mefistofele.
Parlavo in un gergo indecente
per agire con pazienza nei confronti degli spioni,
degli uccelli del malaugurio
e degli altri bardi calvi e prosternati che volevano
entrare in Paradiso.
Nelle mie avventure con tipi consumati e prostitute in Piazza Echaurren y Cajilla
ruffiani impregnati di vizi e svergognati
sapevo tutto per bocca di ciarlatani e di umiliati.
Mi innamorai tante volte con la riprova che l'età non importa
per accoppiarsi fugacemente come un animale lascivo
baciando tutte loro con devozione dal pube
fino ai piedi.
Notti intere a palpeggiare i loro dirupi
senza zavorre di malinconia.
A volte mi perdo nei vecchi tempi della mia baia
delle mie ombre che raccontano dei miei anni da Anticristo.
Oggi resta solo una barba dal colore indefinito e le mie riflessioni
sulla redenzione sterile da qualche parte nel porto di Valparaíso.
YVES PRIÉ
Nato nel Nord della Bretagna nel 1949, Yves Prié è poeta, operatore culturale ed editore. Nel 1981 ha
fondato le Edizioni Folle Avoine. Parallelamente prosegue la sua opera poetica: sei raccolte per le edizioni
Rougerie e l’ultima, Seul tissan sa nuit, per l’editore Thierry Bouchard. Le poesie tradotte sono tratte da La
nuit des pierres (2002); le ultime due fanno parte della serie Figure assenti della stessa raccolta.
I PRIGIONI DI MICHELANGELO A FIRENZE
I corpi fuggono dal blocco
senza lasciarlo
Nascita prigioniera della propria origine
Un braccio si contorce
per il dolore dello strappo
Il movimento lento
ritorna nel silenzio
e scava la culla di marmo
VICINO AD ASSUAN...
Vicino ad Assuan c’è un obelisco incompiuto. Inutile, riposa nella sua culla. Una cattiva crepa l’ha destinato
ad essere una rovina per sempre. Si potrebbe pensare a un gesto goffo dell’artigiano, oppure a un calcolo
sbagliato del maestro che avesse sottovalutato le tensioni che l’attraversavano. Da parte mia, preferisco
vederci l’ultimo sussulto della pietra rifiutando il destino cui era destinata, una disperata resistenza alla
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volontà dell’uomo. Rimane, inalterabile, offerto alla curiosità di tutti. Illustra il fallimento eterno dei nostri
fasti, delle nostre grandezze.
Invidiamo a queste pietre la loro eterna bellezza dopo il lavoro dello scultore, ci meravigliamo
dell’intelligenza della mano che ha guidato lo strumento. La pietra d’Assuan c’impone la verità della materia
bruta, la vita del blocco prima del taglio, la segreta rete di forze, la sua lotta contro lo scalpello e il desiderio
dello scultore.
KERLOUAN
I
Niente tranne
il rantolo della notte
e il fuoco che si consuma nel camino
Il granito veglia
In un costante sussulto
rifiutano l’onda
che alla fine vincerà
II
Ascolta – l’ombra arriva
Al silenzio delle pietre
tu opponi il canto della spalla
Ignora qualsiasi minaccia
e del sogno della notte
conserva i doni
La porta addolcisce
l’angolo del granito
III
Nella lenta scomparsa del giorno
noi consumiamo l’ombra
di certe rocce
restie alla luce
Non sappiamo quali strade
ci conducono
fin qui
sulla soglia dell’orizzonte
Quasi
ci confondiamo
per un muro
pietra su pietra
costruito
Non siamo altro che
una veste della notte
che ignora la lampada
e la luce diffusa dalle stelle
FIGURE ASSENTI
Acefali, fanciulli della notte, perché era necessario impedirvi di vedere? Chi l'ha deciso così?
Divorati dalla collera di un dio, voi non vi lasciate dietro altro che la malinconia, il rimpianto di ciò che poteva
essere un destino diverso, l'insonnia cronica che rode la notte.
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Il vostro ridicolo abbigliamento guerriero non può ingannarci; è dalla sofferenza che voi non siete in grado di
proteggervi.
***
Esiliati da voi stessi
posate alle soglie
dei vostri desideri
una mano muta
Lassù una fioritura di stelle
sorregge il cielo
***
Il suolo che vi accoglie è una barca incagliata. Inutile nei mulinelli dell'aria, il suo velo strappato schiaffeggia
il vostro viso assente. Una volta voi appartenevate al bagliore... Votati a un impossibile ricerca, la vostra
armatura non vi salverà di un avvenire di polvere.
***
Il cielo è immenso
per coloro che hanno cancellato
i limiti
Senza uno sguardo senza un grido
essi affrontano i giorni
di un corpo di pietra
Subito giacenti
prima dell'alba delle leggende
e a un tratto abbandonati
al loro avvenire disertato
***
Afferrandovi
la morte racchiude il suo vuoto
JORGE ARTURO
Nato in Costa Rica nel 1961, Jorge Arturo è co-fondatore e direttore del collettivo Kasandra e dell'omonima
rivista, che uscì negli anni 1989-1990; attualmente dirige la casa editrice Alambique. Ha partecipato al XVI
Festival di Poesia Internazionale di Medellín (Colombia) nel giugno del 2006. Ha pubblicato le seguenti
raccolte poetiche: Se alquila esta ventana (1988), Un paraguas llamado Adrián (1989), El blues del aprendiz
(1992), Perrumbre (1994), De un solo lado/La casa del tejedor (2001), El país de los ausentes (2002),
Dorsal (grafica e poesia, 2002) e La horda del yo (2004). Le poesie tradotte sono tratta dal suo ultimo libro.
SPECCHIO
Un topo mi basta per creare un impero
un sorriso per distruggerlo
L'amore quando è possesso è vanità
Tutto quello che ho – e che non ho –
non basta per entrare nel cuore altrui
Tutto quello che sono – e che non sono –
mi basta appena per palpitare
Un'ombra come un topo
42
e una bocca luminosa dentro di me combattono
la prima cerca di entrare
la seconda di uscire
Tutto sul filo del presente
con il mio sangue
come unica risposta
IL SEMITA
I
Il mio amico bacia la mia mano
e la luna offre il suo dattero di smeraldo
Il mio amico bacia la mia mano
e una nuvola chiacchiera con un cane
Il mio amico bacia la mia mano
e una parola cavalca
nella la steppa del suo cuore
Il suo Dio bacia la sua mano
una palma si china verso la sabbia
il sole è un avvoltoio di diamanti
Il mio amico è una spada
dove riposa il mio teschio
e si prepara
per riunirci nel chiasso della polvere
Soltanto il suo Dio rimane Uno
II
nel
suo
mutismo
Nodi di splendore tra le vene
del bambino che nell'uomo è nodo
di terra
nel mormorio della luce
che è nodo d'amore dentro il soldato morto
dentro mia figlia nuda
nello spirito implacabile dove il mio amico sogna
e ci inventa
nodi
della pietra
dove il sole si abbevera e si rivela
Nodi
di cosmo
polline
Nel lasciare andare
nel poter tornare
III
nodo
nodo
nodo
nodo
nodo
nodo
nodo
di
di
di
di
di
di
di
parole: la spada
cuore: il figlio
sole: la pietra
leone: il gatto
principe: il silenzio aperto dall'amico
uccelli: il sangue
vita: l'istante in cui tutto muore
43
IV
e acque di germogli d'arancio
per i nodi del cuore
e per il mondo che gira
BUSSOLA
Un uccello di cristallo si slancia sulla pietra
verde
svolazza
la feconda
La pietra si apre:
qualcosa come una mano si tende verso di me
Un uccello di cristallo
una parola
vola nel cielo della mia mente che è la pietra
PREGHIERA
Chi
Chi
Chi
Chi
mi parla con la bocca morta nella luce
si esibisce si offre si vende
non ha prezzo
mi parla con la sua pietà scarna
e spinge il vortice
Chi vive di ritorno
Chi mi accompagna chi mi regge
chi affonda la sua verità di fronte ai miei piedi
come fosse mia
Chi mi parla
Chi mi ascolta
Chi accumula le forze
Chi quello della magia
se non il taglio
se non chi si raccoglie
dopo lo spargimento di viscere per terra
Chi ha bisogno di un dio
se non quello che già ce l'ha
Chi scrive
se non il proprio cadavere
RAMI SAARI
Nato nel 1963 in Israele, Rami Saari è poeta, traduttore e linguista. Ha studiato Linguistica semitica e uralica
presso l’Università di Helsinki, Budapest e Gerusalemme, e ha conseguito il dottorato di ricerca in Linguistica
presso l’Università di Gerusalemme. Ha pubblicato cinque raccolte poetiche, tra cui si ricordano Behold, I've
Found My Home (1988) e So Much, So Much War (2002); ha tradotto circa trentacinque libri dall’albanese,
finlandese, greco, ungherese e spagnolo. Dal 2002 è curatore delle pagine di poesia israeliana sul sito
<poetryinternational.org>. Nel 1996 e nel 2003 è stato insignito con il Premio di Letteratura del Primo
Ministro. Tutte le poesie scelte sono tratte dalla raccolta Sotto i piedi della pioggia, del 2005.
A VOLTE HELSINKI
A volte Helsinki è una città che stanca.
È stanco il corpo. È stanca ormai anche la vita.
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Adesso è preparata per farsi togliere come un capello
caduto per caso nell'impasto: disposta a essere ricacciata
in un mondo delizioso, in un albergo a tantissime stelle.
Perché la tristezza è un'ansia che prude
quando vai verso un luogo inesistente,
verso una regione che ha poche insegne e tanti uccelli,
una città dal piumaggio blu che vola, sempre bella,
e non si stanca, andando sempre più in là,
sempre moltiplicandosi.
AUTUNNO IN UN PAESE LONTANO
Durante l'estate credevo non mi mancasse nulla.
Ora lo so: mi trovo sempre lontano.
Mia madre era solita dire:
Impara a camminare nelle strade straniere.
Non sarai mai diverso, non sarai mai tedesco.
Attraverso le stazioni,
attraverso i boschi
dico soltanto
"io".
IO
Non sono il cammino, sono il viaggio,
dai balconi della morte
verso la parete anonima.
Non sono il vero messia
né la maledizione dei falsi profeti.
Sono le parole necessarie
e la poesia incompiuta.
Sono colui che urla,
colui che attraversa il sentiero con un lamento
con sapore di amido in bocca
e di fronte la densa nebbia ungherese.
IMPRIGIONATO
Sono qui imprigionato. Qui, sopra questa terra vecchia
e nuova, nelle notti sale il vapore. Il vapore va in esilio, arrivano
i testimoni, e i laghi ribollono; ormai cediamo la nostra gioventù,
bosco, cediamo l'amore. Qualcosa di più duro della roccia
e molto peggio dell'uomo si alza dal letto del cuore
e va avanti. La neve soffia sulle alte foglie:
sono abbandonati i bambini nel bosco, quanto sono sole
le foglie del mondo! Verso nord, verso nord.
Senza finestre, senza porte, senza steccati.
Ogni cosa è circondata dal dio verde e dal silenzio.
Finché un urlo improvviso squarcia questa pace:
sono un orso imprigionato nella gabbia del bosco,
davanti a me ci sono gli alberi che mi accusano.
E questa fu la sentenza del silenzio: La porta ormai è chiusa.
POESIA PER JAÍM (3)
Raccontami le circostanze della tua morte, Jaím,
come ti hanno circondato in mezzo al blu, così lontano
dalla nostra città natia,
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tra grattacieli e pareti di nubi
di fronte a larghe frange di mare.
Lascia che per una volta possiamo camminare
dietro le piante di agrumi
dietro anni pieni di un anelito che uccide
sapendo che non è finita la canzone
perché nella città amata
la gente continua a uscire
dal buio delle sale cinematografiche
nella luce celeste del giorno
così un giorno
la vedremo la nostra amica
e insieme andremo a spasso
come Donna Flor e i suoi due mariti:
tu, lei, io
andremo a perderci tra la gente
in viali colmi di aranci
e di luce palpitante senza fine.
LE STRADE SI STANNO GHIACCIANDO
Le strade si stanno ghiacciando.
Le attraverso a piedi e penso alla mia prima professoressa di ungherese.
Adesso vive a Nyíregyháza (4) in una casa circondata da roseti,
dall'intonaco scrostato. Aveva una voce molto affettuosa
mentre leggeva la poesia Segreti di Attila József (5).
La sua testa mi sembrava un cipresso frondoso
dove avrei voluto fare il nido.
Muoio di freddo. Credo che oggi ci sia il pesce
alla mensa universitaria. Penso
alla mia prima professoressa di ungherese
e vorrei che fosse qui
a lenire con i suoi baci le mie cicatrici.
NELLA PICCOLA CASA DI VIA JALAFTA
I pomeriggi trascorrono serenamente
nella piccola casa di via Jalafta.
Gli amici vanno e vengono con piacere e profumo di mirra.
La palma crea una corona di pioggia trasparente.
Le rose quasi invadono la casa.
E nelle sere di questo infinito autunno
mi trovo sempre sul balcone
a guardare di fronte a me le luci di Talpiot (6),
a pensare in quale stagione ti troverai adesso,
alla tua scomparsa, come la vita.
ELOY SANTOS
Nato a Salamanca nel 1963, Eloy Santos si è laureato in Filologia romanica presso l’Università della sua città.
Ha vissuto a Roma la maggior parte della sua vita, per cui molte sue poesie sono apparse in traduzione
italiana prima che in spagnolo. Con la raccolta donde nadie dice ha ottenuto il I premio Alonso de Ercilla nel
2003. Attualmente vive a Salamanca. La poesie tradotte sono tratte dal suo Libro de olas (2006).
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I BOSCHI DELLA TUA VOCE
I boschi della tua voce, senz'altro.
Uccelli, per esempio, attardati
in vecchi pentagrammi che la tua bocca
irrequieta libera dalla gabbia per nessuno,
per te sola. Navi, per esempio,
golette verso il sud della nostra rabbia,
quasi dettando il mare dei Sargassi
in questo porto solo e vorace della pagina.
Le tue mani, per esempio, in un’altra notte,
venendo dall’oscurità fino alla musica
che solo per il dio più crudele si danza,
quando la pelle è semina ed è seme
di un essere che ci confonde, e siamo noi stessi
nel mortale abbraccio di esser vivi.
Le tue labbra questa sera, per esempio,
le palme, la mia sete come gabbiani
intorno alla tua finestra d’acqua scura,
flusso dove si cela un pesce d’oro pirata
e un arpione che ho perso quand’ero coraggioso,
ed ero segreto e tuo.
CHIARO DI LUNA
Una donna si culla tra le mie ciglia,
accende cordigliere nelle nubi
col suo sapone di luna, mentre soffia
la brezza di un crepuscolo futuro,
e brama il mare, e si frange contro il sogno.
Ovunque guardi sta pulendo
le mie palpebre da sabbia e da timori.
Sulla tela del mondo veglia e tesse
accordi per amare l'ignorato.
GLI UCCELLI
Principi dell'aurora piccolissimi,
araldi di follia alla mia finestra,
acqua dolce che nel piovere sul sogno
lo pulisce dal limo.
Sono gli uccelli
che ci chiamano alla genesi, al volo,
alla disubbidienza.
Chi mai potesse
fare del cuore un nido come allora,
mutarsi in aria, piuma, schiamazzo,
su ogni pioppo inventare un aprile
mettersi tutto nella stagione,
e dopo,
tornare alla neve, ammutolire senza tracce...
Chi mai potesse
abbandonarsi al giorno sui balconi,
sui confini del verso.
Così voialtri, che adesso azzardate
selvatiche armonie presso l'alba
appena nata e rosa, intarsio
inaugurale del trillo sul tempo che rinasce,
sollecitata e madre fenice.
Chi mai potesse
ardere a nuda voce nel mattino,
partecipare senza nome nell'azzurro spartito,
in mille lingue letto, che la luce
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spartisce tra le sue guardie.
Il vostro clamore, che va alla ricerca dei dormienti,
è l'antica verità degli insonni.
GAGAKU (7)
Questo incantesimo di vento e di betulle,
questa allucinazione, acquazzone sonoro,
questa dolcezza fu brezza a Cipango
un millennio fa. E strappò al ciliegio
il suo ultimo fiore, stella esausta e sola
dinanzi ai piedi di un musico della corte.
Con le dita tremanti verso il calamo
e ritorno ai fogli delle note
lasciò quel giorno un segno verticale
con cui diceva la pioggia, la pozza, il cielo,
l'alta calligrafia delle selve.
Così che ora la fugacità
descritta da un infelice uomo
mi attraversi e possa disfare la distanza
tra quel che non esiste e quel che fugge
in questa assorta sala di concerti,
e le stupite file
ascoltino commosse la lingua morta,
la leggerezza senza tempo di quella sera Heian
che viene a scompigliarci dopo mille anni
senza che sappiamo spiegare perché
né come può restituirci
dal nulla il profumo dei tigli.
NEL NOME DI NESSUNO
So che nel nome di nessuno nasce il verso,
che neanche chi lo rassetta e dice
viene da lui rappresentato, malgrado la prima,
menzognera persona che lo abbellisce.
Botanica verbale, dall'anima proviene.
Con me, contro di me, attraverso di me.
Arriva nella pagina, e da solo si salva,
senza sapere in quali abissi ha le radici,
né dei suoi pori aperti alla luce delle sillabe
che gli dei distillano sopra le rose.
Se qualcosa siamo, siamo solo terra,
morbida o vulcanica, argilla o torba,
dirupi o renai dove l'albero
della voce sorge, si sostiene, cresce
secondo la nostra misura, il nostro seme.
Se non posso essere un olmo, che l'alito
che vive in me fiorisca nell'acqua
minima dei cardi o dell'agave,
che non ceda alla brina, alla siccità,
che non lasci esaurire la sua fragile linfa.
Con la gola e con gli occhi dicono
i bimbi le loro canzoni, sollevano le mani
nell'aria che li chiama. Lo stesso gioco
raccontiamo con parole che la brezza
ci lascia tra le labbra, ragnatele
dove la carne canta la bellezza
d'essere il mondo e nulla, semenzaio
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dove germina solo
la vita da noi ceduta al caso.
SAMER DARWICH
Samer Darwich, nato in Libano nel 1965, si laurea in Giurisprudenza nel 1990 all’Università Libanese di
Beirut, e in lingua spagnola all’Università Cervantes di Madrid. Scrive sia per riviste letterarie che per
periodici, collaborando in primis con il giornale di lingua araba Al Nahar.
La sua prima raccolta di versi, Finestra in un muro, è stata pubblicata in arabo nel 2004 e poco dopo tradotta
e pubblicata in Francia (Fenêtre dans un mur, 2005). I testi qui presentati sono tratti da quest'ultima
versione francese.
NELL'OMBRA DI UN UOMO SOLITARIO
Gli alberi si aggrovigliano
i destini stagnanti si rifugiano
nell'ombra di un uomo solitario
e piangono in silenzio
Nell'ombra di un uomo solitario
le giornate trapassano
senza chiedere permesso
e cadono nel mare della memoria
Nell'ombra di un uomo solitario
i pensieri si disperdono
i sentimenti straripano come fiumi
e le nubi sono piogge di lacrime
Nell'ombra di un uomo solitario
un uomo che cerca se stesso
e con le dita tocca il muro
della solitudine che divide
il suo Io dalla Verità
e si frappone tra lui e i suoi piaceri
Nell'ombra di un uomo solitario
un uomo incontra se stesso
si libera dalle catene
cerca una finestra
per misurare la profondità del baratro
e trapassare il muro
Nell'ombra di un uomo solitario
un uomo decide
di sollevare la pietra
per abbattere il muro
NON SONO UN ALTRO
Chi sono nella lunga notte dell’inverno?
Chi sono nel letto di rose di seta e di gelsomino?
Chi sono negli occhi di un’altra straniera che guarda
nella mia direzione?
Chi sono all’età di 20 o 30 anni?
Chi sono io per essere io stesso oppure non esserlo?
Chi sono nel gioco di me di te dell’altro?
L’altro di cui non mi separa se non la parola “me”.
Chi sono nella notte della straniera addormentata
sul letto dei miei sogni?
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Chi sono nella monotonia dei giorni dei mesi degli anni?
Chi sono in mezzo a questa perdita
a questa nostalgia?
Per me è sufficiente viaggiare
nel segreto del mio essere
Per me è sufficiente interrogare
NELL’ARMADIO DI MIA MADRE...
Nell’armadio di mia madre
Una piccola foto mia
Il profumo di certi souvenir
E una pinzetta per le sopracciglia
Nell’armadio di mia madre
Lacrime prosciugate nei giorni
E poi scoppi di risate complici
Echi sgranati nella sfilza degli anni
Nell’armadio di mia madre
Un pizzico di nostalgia
Di vestiti invernali
Mio padre li ha lasciati
Quando se n’è andato
E il suo rosario e il suo orologio
Che ancora funziona
Nell’armadio di mia madre
Una piccola farfalla
Con la quale io mi divertivo
Nei giorni primaverili
E una scacchiera
Sulla quale i miei fratelli vincevano
Chimeriche battaglie
Nell’armadio di mia madre
Il mio quaderno della scuola
Tuttora leggibile
Malgrado le pagine ingiallite
Nell’armadio di mia madre
Un talismano e uno specchio
E abiti da prete
Un libro di invocazioni
E la sua foto prima di divenire
La moglie di mio padre
E non è tutto
Ciò che si può trovare
Nell’armadio di mia madre
IN QUESTI TEMPI MALVAGI
Un cuore di donna
Una mano di boscaiolo
E una pietra
In questa bassa marea costante
Le onde chiamano in aiuto la luna
Il mare canta la sua canzone abituale
La diffonde sullo spazio del tuo petto
Canzone promessa al vento
Lei si prolunga io mi dilungo
Fino a che ti sfioro
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Sull’orizzonte lontano
Ché la penna mi conduce
Ché le nuvole versano su di me
Una pioggia di fiori
Io mi smarrisco nelle tue ombre
Prima che si faccia giorno
Vengo sotto l’ombra dei tuoi occhi... vengo
Le onde non mi respingono più
Neanche i pensieri
Né la falce nella mano del boscaiolo
Né il vuoto detonante
Nel silenzio delle pietre
Io sono arrivato nei tempi malvagi
Del turbamento delle tragedie
E della sottomissione
Ma io arrivo sotto l’ombra dei tuoi occhi
Per lavare la mia polvere
Per immergermi nella luce del tuo volto
Per spogliarmi della verità nera del giorno
Mi allontano dai rumori della città
Mi libero di tutti gli sguardi del rancore
Per rinascere fuori
da questi tempi malvagi
YASUHIRO YOTSUMOTO
Poeta, traduttore, saggista, fotografo, pubblicista, giornalista, Yasuhiro Yotsumoto è nato a Osaka, in
Giappone, nel 1965. Comincia a scrivere poesia ancora adolescente, ma la sua prima raccolta poetica viene
pubblicata solo nel 1991. La sua attività culturale, molto ampia, comprende tra l'altro la pubblicazione di un
saggio sulla vita e l’opera di Rin Ishigaki, collaborazioni poetiche internazionali, concerti e recital insieme al
pianista jazz Kensaku Tanikawa, mostre personali di fotografia.
Ha vinto alcuni prestigiosi premi, come il Nokahara Chuya Award, il Takami Jun Award, e il premio letterario
Suruga Baika Bungaku.
Tra le sue raccolte, si ricordano A laughing bug (1991), Afternoon of forbidden words (2003), Golden Hour
(2004), Starboard of my wife (2006). È tradotto in dieci lingue, tra cui inglese, tedesco, francese, romeno.
Dopo aver vissuto dieci anni negli Stati Uniti, si è trasferito in Germania, a Monaco di Baviera, dove
attualmente risiede. Le poesie qui riportate sono state tradotte dalla versione inglese del suo ultimo libro,
Samurai in Manhattan and other poems (2006).
ASCOLTANDO MIA MOGLIE
Sono stanca
di mangiare pasti ogni giorno
non mi sto lamentando del lavoro,
semplicemente non ne posso più
di questa cosa di avere fame.
Mi chiedo come si sentono gli animali
quando sono affamati o doloranti.
Mia figlia ha dovuto aspettare l’autobus in ritardo per la neve
per un’ora a una temperatura sotto zero.
Diceva «Era freddo», semplicemente e come un dato di fatto
come se in realtà il suo vero io fosse stato da un’altra parte.
Sembra che mio marito pensi che è un peccato
che io non abbia un buon amico uomo.
Grazie per la comprensione, ma
io ho mie private relazioni con
il silenzio, che striscia fino in cucina il pomeriggio
e con gli alberi, che attorcigliano i loro corpi come in agonia
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in qualche notte tempestosa.
Non riesco mai a capire quelle donne
che hanno terrore del sole e lo evitano perché dà
loro bolle e lentiggini.
Io adoro fingermi morta stando sdraiata su una spiaggia bollente.
Si metterà in imbarazzo un’anima se il corpo si scioglie
come burro e
la pelle dell’anima, sottile e libera dalle rughe, rimane esposta?
È ancora un mistero per me, il modo in cui funziona il mercato azionario,
ma sento gli ululati della gente che gli si raccoglie intorno.
Fanno festa come un coro alla necropoli in cima alla collina
e apprezzano il varo di una nave nell’oceano.
I miei intestini sanno cosa fare dopo
senza nemmeno permettere alla mia testa di pensarci su.
Ma poi com’è che mi sento così sottosopra
quando provo ad alzarmi in piedi?
Guarda, una farfalla.
LA FARFALLA – PER UNA RAGAZZA DI GERUSALEMME
Con un’improvvisa folata di vento, io
vengo gettato in aria. Il mondo
è attorcigliato e perde la sua forma. La donna
di mezza età che stava chiacchierando sul suo telefonino,
stava piangendo e urlando, macchiata di sporco e strisce di sangue. Un ragazzo riccioluto
non si muoveva, sdraiato sulla pancia. Serie di sirene
venivano nella nostra direzione, i soldati
correndo ci oltrepassarono, urlando e strillando. I miei occhi
stavano filmando tutto questo da sotto il pelo dell’acqua fredda.
«Niente ferite esterne, solo
rotture ai polmoni e ai reni», disse un giovane medico
risentito, picchiettando il mio petto. Io
seppi sul momento che mi si era appena svegliata, la farfalla con cui ero nato e che mi ero tenuto sempre
dentro. Elicotteri
facevano cerchi infiniti sopra la mia testa. La farfalla
aprì le sue ali dentro il mio petto. Il silenzio
riempì tutto, ed era così profondo che se tu l’avessi ascoltato,
l’odio
sarebbe appassito, insieme al coraggio
di amare. Cocci di vetro
luccicavano per la strada. Madre!
Madre! Mentre un gigantesco limite blu
avanzava verso di me, la farfalla
vibrò.
SEGRETI
Mia moglie e mia suocera, cioè
sua madre guardano i nostri bambini che giocano,
stando l’una accanto all’altra.
Si scambiano qualche parola,
scoppiano a ridere,
e poi cade il silenzio, e rimangono
come canne al vento.
Sovrapponendo i sorrisi che sfumano sui loro visi,
vedo le antiche maschere
un deserto con un seme di rabbia sepolto nel profondo
un lago riempito di impenetrabile rassegnazione.
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Le due donne non si scambiano nemmeno una parola che sia pronunciata,
i segreti del sangue il serpente i frutti
come una punizione
inflitta solo a chi ha portato vita sulla terra.
Un piccolo cercò di montare su un agnello e quasi cadde,
le due donne immediatamente lo ripresero.
Quel momento da duemila anni
si ripete come un ologramma
nella grotta di questa mattina.
L’AUTOBUS CHE PASSA DA CASA MIA
Come un gran San Bernardo cammina sul marciapiede stretto,
la gente in fila alla fermata dell’autobus
uno dopo l’altro tutti piegano il busto e flettono i ginocchi
come ballando in fila, ma non troppo all’unisono.
È la neve che ha reso il marciapiede stretto.
Li guardo dalla mia macchina, intrappolato nel traffico.
Il cane segue il suo padrone senza chiedere permesso
bassa la testa, fradicio il pelo lungo e folto.
Ho appena mandato i bambini a scuola, mia moglie dev'essere a casa.
Non ho mai visto mia moglie (ovviamente)
sola in casa dopo che io e i bambini siamo andati via.
Quando il cane è passato, la gente
riprende, una persona dopo l’altra, la posizione originaria.
Nessuno sorride.
Si limitano ad aspettare l’autobus in questa gelida
temperatura.
Dovrei fare inversione ora
e tornare a casa da mia moglie? Sorpresa,
lei direbbe qualcosa del tipo “Dimenticato qualcosa?”
“No”, direi io e...beh, la mia immaginazione non andrà oltre.
Non c’è niente che voglia dirle, ho solo voglia di incontrare
questa cosa che non è umana,
che avvolge mia moglie quando è da sola.
Il traffico finalmente ricomincia a scorrere.
L’autobus appare oltre lo schermo della neve
che cade
e noi ci sorpassiamo l’un l’altro.
PHILIP MEERSMAN
Philip Meersman, poeta, studioso di letteratura contemporanea, conferenziere, consulente culturale e
direttore artistico, è nato il 5 maggio 1971 a Sint-Niklaas, in Belgio, si è laureato in Giurisprudenza nel 1992
e attualmente lavora nel Dipartimento Fiammingo degli Affari Esteri. Dal 1984 è attivo nei campi del teatro,
la poesia e le arti plastiche. Ha fondato i gruppi di attività culturale JAS e EXTOS, mediante i quali ha
lavorato alla ricerca e promozione di autori nuovi o sconosciuti. Come attore ha recitato in 17 opere. Come
direttore e drammaturgo ha creato diverse opere per le suddette associazioni culturali ed è stato invitato in
Bulgaria dallo scrittore Rumen Shomov.
Ha pubblicato 3 raccolte poetiche: Postume Brief aan Mezelf (Posthumous Letter to Myself, 1989), Speelse
Ogen Doven (Playful Eyes Faint, 1996), e The BG-Files – PART I, 2003-2005 (2005). Nel 2006 è uscita una
raccolta in inglese, Selected poems, scelta e versioni d'autore, dalla quale sono state tratte le poesie qui
presentate.
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GENEROSO
Metrostridente colletti bianchi incollati cottialvapore
scricchiolano le porte
gorgheggiafischiano
metroronzando via se ne va
un’onda oscillante
un tintinnio
per la moneta che suona
La scatola di cartone
isolata
da informazioni e illustrazioni
s’immerge
in mille calpestate alluvioni
il senzatetto bestemmia sottovoce
si sposta in silenzio
desidera in segreto
essere a Atjeh
SE IO
Se io fossi una pianta
crescerei per te
profumerei vistosamente per te
ti darei il benvenuto
ti nutrirei
Però
se io
non lo fossi?
Se io fossi un ruscello
serpeggerei per te
scorrerei silenziosamente per te
ti disseterei
ti rinfrescherei
Però
se io
non lo fossi?
Se io fossi un sasso
giacerei per te
sarei pietra per te
costruirei per te
ti appoggerei
Però
se io
non lo fossi?
Se fossi una nuvola
pioverei su di te
ti terrei all’ombra
ti rinfrescherei
ti seguirei
Però
se io
non lo fossi?
Se io fossi una fiamma
brucerei per te
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sarei un faro per i tuoi sentimenti
illuminerei i tuoi passi
ti riscalderei
Però
se io
non lo fossi?
Se io fossi una stella
brillerei per te
creerei costellazioni per te
canterei di te
ti orienterei
Però
se io
non lo fossi?
Se io fossi una noce
mi lascerei schiacciare da te
mi ibernerei per te
mi farei mucchio per te
getterei radici per te
Però
se io
non lo fossi?
Se io fossi un sogno
dormirei per te
raccoglierei immagini per te
ti cullerei
ti consolerei
Però
se io
non lo fossi?
Se fossi un uomo
ti sequestrerei
e sarei il tuo liberatore
ti porterei con me
ti sposerei
Però
se io
non lo fossi?
LA FANCIULLA E LA CROCE
lei parla, lei sente
la sua casa
il suo cuore
Sposata a quello dell’affresco sul soffitto
lei guida
scrittori terreni
nel paradiso dipinto
dei secoli persi da tanto
di un principe nella tomba
di una vergine incinta
di una pittoesultanza umana
Questa chiesa a croce greca
ha deformato il suo viso
per metà divino
ingenuo e senza parole
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per metà umano
in Lingua Franca
lei parla di anni passati
33 anni di tempi velocemente andati.
Lei sembra essere la
voce della chiesa
questo posto
queste mura
la sua casa
i suoi guardiani
Se mai lei se ne andasse
il cancello aperto
lei distruggerà
diventando la polvere
la sua vita perduta
Ho visto questa visione
ad ogni costo
serenità testimoniata
ho sentito umanità
come Ebrei e Musulmani e
Cristiani e Ortodossi
sono diventati mistici
vicino alle montagne
in un cortile
chiamato
Curtea de Arges
impresso
stampato
sigillato
chiuso
abbracciato
il mio cuore sta
con lei nella sua chiesa
quando i cancelli si chiudono
uudono
uuuuuuuuuuu-ddonoooooooooooooooooooooooooooooooooooo
NOTE.
(1) Carl Gustav Jung, Psicologia e poesia, Torino, Biblioteca Boringhieri, 1988, p. 70 e ss.
(2) La parola, inesistente in inglese, almeno finora, si può tradurre in italiano con un altro sostantivo calcato sul
femminile e inesistente al maschile (finora), quale massaio, o casalingo. L'affermazione di Yasuhiro Yotsumoto si trova
negli atti del Festival Internazionale di Poesia di Bucarest, a cura di Dumitru M. Ion e Carolina Ilica, Edizioni
dell'Accademia Internazionale Orient-Occident, 2006.
(3) Jaím: nome maschile in lingua ebraica che significa "vita" (N. dell'A.).
(4) Città nel Nordest dell'Ungheria (N. del T.).
(5) Attila József (1905-1937) è il massimo esponente di una tendenza poetica associata agli ideali della rivoluzione
socialista, che racconta la realtà quotidiana dei contadini e degli operai, della gente che patisce, con lucida e disperata
chiaroveggenza. (N. del T.)
(6) Talpiot è un quartiere di Jerusalem (N. dell'A.).
(7) Stile di musica cortigiana propria del Giappone nel periodo Heian (794-1185). Sia gli strumenti impiegati
dall'orchestra che la base armonica e le scale mettono in evidenza una sensibilità molto lontana, se non
completamente diversa dalla tradizione musicale occidentale, e molto legata ai suoni e alla contemplazione della
natura (N. dell'A.).
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L'INCOMPRENSIBILE E LA TRADUZIONE
Due fatti, tra tanti, s’inscrivono nell’idea di passaggio, di transito: il fatto che qualcosa è lasciato – per
sempre oppure nella speranza di un prossimo ritorno là, dove si è partiti; il fatto che una novità è attesa,
cercata, tentata. Il passaggio, il transito si danno in ogni partire. E partire e ri-partire è il gesto che
scandisce giornate e quotidianità fatte di incontri ed inizi destinati a far riaccadere un usuale che in esse
si destina a tornare nuovo. Persino nello scorrimento banale delle solite cose c’è un ripartire, e c’è il
mordente desiderio d’indefinita attesa che la banalità torni ad essere ciò che deve essere. Banale, da cui
banalità, è un francesismo coniato a partire da ban, a sua volta eredità del latino bannum. Banale nasce
dal bando che promulga e rende pubblico ed accessibile a tutti ciò che, fino ad un certo momento, è stato
appannaggio di pochi. Nasce in contesto medievale, ad indicare la possibilità elargita a tutti di usufruire di
forni, fonti e quant’altro fosse esclusivo privilegio e possesso del feudatario. Il bando elargisce e, con
esso, la banalità diventa capace di elargire, dare e concedere a tutti.
Anche la traduzione è banale. Rende accessibile a tutti ciò che sembrerebbe essere destinato soltanto ai
“pochi” che comprendono la lingua in cui una frase è pronunciata o, un testo, scritto. Traduciamo una
richiesta perché questa diventi comprensibile e trovi risposta; traduciamo un testo affinché sia fruibile ed
accessibile, finalmente a disposizione di tutti. La traduzione è, oggi come un tempo, quel bannum che
rende banale e disponibile a tutti ciò che, invece, rischierebbe di essere disponibile a pochi (e per pochi).
Bref, la traduzione rende la banalità ciò che deve essere. Non “il solito scorrere” ma “un mettere a
disposizione” ciò che è “per tutti”.
Che cosa, tuttavia, in questo caso, è banale e “per tutti”? Un testo, una lingua, un linguaggio? Certo, di
diritto dovrebbero essere “per tutti” ma, di fatto, le cose non stanno sempre e “per tutti” così. Di più, non
tutto si può tradurre e, per quanto laconica e superficiale, questa constatazione s’impone. O, forse, ad
essere “per tutti” è altro; non l’immediata ed impossibile disponibilità di tutto a tutti ma,
paradossalmente, proprio quel fondo di incomprensibile che nutre le differenze tra le lingue e i linguaggi,
che rende impervia ogni traduzione, interrogando innanzitutto il traduttore, mettendolo in discussione;
che, in fondo, spinge alla ricerca di “altro”, e dunque al passaggio, al transito. Incomprensibile che tocca
la traduzione perché, in prima istanza, ne tocca o, con un eloquente latinismo, ne affecta (da affectus,
che toccando modifica, cambia, incrementa o decrementa) l’esperienza.
Nella parola esperienza è contenuto il transito, il passaggio verso altro. Esperienza contiene in sé la
radice indo-europea per-, radice che essa condivide con il termine pericolo e che indica anche
l’attraversamento, l’andare per viam, il passare. Così, i termini empereia in greco, experiri in latino,
esperienza in italiano, experiencia in spagnolo… mostrano tutti che ogni volta abbiamo a che fare con la
plurivocità di tale radice, la quale connota, appunto, sia il nemico e il pericolo (periculum) che la
traversata e il passaggio. Ogni esperienza nutre in sé la duplice idea di una traversata pericolosa e
rischiosa, un’apertura verso “altro” ignoto.
L’esperienza perciò è un attraversamento che espone alla novità ma anche al rischio, al pericolo. Fare
esperienza è mettersi in cammino correndo il rischio del fallimento o esponendosi allo scacco; cosa che è
vera anche per l’esperienza della traduzione. Di fatto, la soddisfazione e il piacere che proviamo nel
vedere tradotto un testo, nostro o della nostra tradizione, è alla fine ben poca cosa rispetto allo scacco
che vi cogliamo: nel migliore dei casi talune sfumature linguistiche non sono colte, nel peggiore dei casi il
fraintendimento è sempre in agguato. Inoltre il traduttore si trova a fare non poche scelte e ad affrontare
altrettante difficoltà: impietosamente, infatti, deve scegliere non soltanto tra il senso e la lettera (eterna
croce – senza delizia! – dei traduttori) ma i tra suoni, i ritmi e le parole con le quali deve dire ciò che non
è quasi mai dicibile, in ogni lingua, allo stesso modo (1).
E tuttavia, malgrado ciò si traduce, e non soltanto traduttori ma mercanti, ambasciatori, viaggiatori,
viandanti, spie sono sempre esistiti e sono sempre stati “necessari” all’economia delle vicende storiche;
“personaggi” che hanno, nei secoli, reso “banali” le loro merci e, soprattutto, la loro esperienza. Di nuovo,
allora, la traduzione sembrerebbe essere sempre stata una forma di banalizzazione, quel bannum che
rende qualcosa, in questo caso l’esperienza (anche quella poetica), disponibile a tutti. Sembrerebbe,
tuttavia. Perché in realtà qualcosa cambia, se leggiamo la traduzione come esperienza. Entrambe, è vero,
dicono e fanno accadere un transito, un passaggio. O meglio, l’una lo fa accadere perché l’altra, di fatto,
lo è. In entrambe però accade più di un semplice andare verso e attraverso, come proprio l’origine del
termine traduzione mostra e rivela.
Il verbo tradurre e il sostantivo traduzione sono stati impiegati per la prima volta, nell’accezione che oggi
possiedono, nel XV secolo da Leonardo Bruni. Il quale, nel De interpretatione recta, giustificando alcune
scelte operate nella traduzione di un passo delle Noctes Atticae di Aulo Gellio, utilizza il termine
tra(ns)ducere «nel senso che oggi possiede» (2) contro la tradizione classica secondo la quale
«tra(ns)duco non ha mai avuto il significato di tradurre» (3) e per la quale «il solo rapporto della
traductio con la letteratura […] passava per il tramite della metonimia» (4). Il vocabolario latino (5),
sotto il termine traductio, dà infatti i significati di far passare, e dunque di trasferimento, tropo,
metonimia, ripetizione..., significati che il sostantivo deriva dal verbo tra(ns)duco/tra(ns)ducere e che
dovevano essere certamente familiari e noti ad un umanista del ‘400. Soltanto l’altro ceppo verbale che,
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con ducere, indica l’atto del trasportare e far passare, ossia il verbo ferre, il suo composto transferre e il
sostantivo derivato translatio, possedevano e possiedono il significato di tradurre (secondo l’esempio di
Quintiliano transferre ex Graeco in Latinum). Primo fra tutti Bruni utilizzò il termine tra(ns)ducere nel
significato posseduto da transferre, impiego che è stato definito dal linguista J.-Ch. Vegliante néologique,
conscient nonché heureux, vista la fortuna che la storia gli ha tributato; inoltre, Vegliante lo addita quale
«caso esemplare di traduzione creatrice» (6).
Tradurre è, dunque, far accadere un trasferimento di senso; tradurre è anche attingere alla potenza della
metafora, della metonimia… Non si tratta soltanto di passare – tramite vocaboli o lessici sempre più
specifici ed aggiornati – ad una lingua che è altra, o un rendere disponibile a tutti, ma è un mettere sul
tavolo la posta in gioco del testo da tradurre, la sua complessità, il suo senso e la sua storia. È desiderare
che nella banalità espropriante si acceda al proprium del testo e del suo linguaggio. «Dimmi come
consideri la traduzione e ti dirò chi sei», scrive Heidegger concludendo la Nota sul tradurre redatta allo
scopo di motivare la sua traduzione del coro dell’Antigone di Sofocle (7) (vv. 332-375), in particolare il
celebre neutro tÕ deinÒn, che propone di intendere come «l’inquietante, das Unheimliche» (8). Come
intendere l’ossimoro di una banalità espropriante cui è affidato l’accesso al proprium (del testo e del
linguaggio)? In fondo è questo che l’esperienza della traduzione insegna a chi traduce: quando si è
costretti a dire altrimenti ciò che si è detto; quando si è “costretti” a ripetere ciò che si vuole o deve dire
– insomma, quando si traduce testi e linguaggi o ci si traduce per farsi comprendere meglio, sempre si
parla ad altri per parlare meglio di sé a sé, per accedere – tramite il proprium di altri – al proprio
proprium. Per questo si scrive, si pubblica e si rende pubblico ciò che si ha da dire: perché nella banalità
che estende qualcosa all’uso comune ci si appropri realmente di sé; di quel sé che è veramente sé
quando si comunica, si scopre e riscopre in ciò che dice, scrive e traduce. Insomma, in altro. L’esperienza
e la traduzione come esperienza sono questo banalizzarsi per tornare a sé. Per tornare ad un proprium
altrimenti non conosciuto, non detto. Al proprio incomprensibile.
È l’esperienza di traduttori divenuti essi stessi teorici della traduzione, come nel caso di A. Barman (9); è
anche l’esperienza di poeti, scrittori e filosofi che si sono cimentati nella traduzione, dei quali evitiamo di
proporre l’elenco e la serie di “esempi” che normalmente viene aggiunta, a conferma dell’ipotesi proposta
e sostenuta, a questi nomi (10). Perché tradurre? Sicuramente perché «nessun problema è più
consostanziale con le lettere e col loro mistero di quello che propone una traduzione»: tradurre significa
portare alla luce l’infinita varietà di un testo, mai definitivo e definitivamente conchiuso (11). Di più, ha
osservato Caproni, non c’è differenza “tra lo scrivere e l’atto che, comunemente, è chiamato tradurre”; e
ancora «tradurre è disporsi all’avventura che suscita, in chi rilegge e trascrive la parola altrui, quanto in
lui stava occulto al suo fondo» (12). Si traduce affinché il testo sia sempre e di nuovo. Non è questo,
però, il solo motivo. Si diceva che l’esperienza e la traduzione come esperienza sono un banalizzarsi per
tornare a sé, per tornare al proprium del testo e, tramite ciò, a quel proprio proprium che non è mai il
risultato di una appropriazione definitiva ma che è il segno dell’incessante divenire, noi stessi, ciò che si
è; incessante divenire che accade grazie ai transiti e passaggi quotidiani che compiamo, vivendo.
Una novella tanto amata da chi scrive di traduzione è La ricerca di Averroè di Borges. Novella amata dai
traduttori ma che, in realtà, racconta di uno scacco, di una mancata traduzione. Averroè non riesce a
tradurre in arabo i termini aristotelici “tragedia” e “commedia” perché «chiuso nell’ambito dell’Islam»
(13), non riesce neppure a comprendere a che cosa tali termini (peraltro «impossibili da evitare» (14))
possano corrispondere. Alla fine, dopo una cena e dopo l’ascolto di vari e strani racconti dei commensali,
giungerà alla conclusione che «Aristotele chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi.
Le pagine del Corano abbondano di meravigliose tragedie e commedie» (15). Ma la vera “posta in gioco”
non è trovare la parola che dica quasi la stessa cosa; questa “posta in gioco”, Borges ce la rivela soltanto
alla fine della novella: «Sentii, giunto all’ultima pagina, che la narrazione era un simbolo dell’uomo che io
ero mentre la scrivevo e che, per scriverla, dovevo diventare quell’uomo e che, per diventare questo
uomo avevo dovuto scrivere quella storia, e così via all’infinito» (16). In fondo, la posta in gioco è il
mistero che il linguaggio del testo custodisce. È il mistero del sé, di chi scrive e traduce.
Ed è ancora questo sé ad essere in questione nelle parole di un poeta-traduttore, Y. Bonnefoy, per il
quale l’inevitabile scacco della traduzione è la fonte di sempre nuovi e felici incontri: traduttori e opere
tradotte formano, infatti, una comunità nella quale i primi, lungi dal tentare di rimediare al disastro
provocato da Babele, cercano proprio nelle differenze «ciò che possiamo chiamare Io», ossia, «quella
capacità di essere al mondo tanto più originale quanto virtualmente più universale»; “capacità di essere
al mondo” che Bonnefoy chiama Io nel senso in cui «Rimbaud dice “Io è un altro”» (17). Il problema del
traduttore è, allora, questo Io capace di de-figurare l’io finito, che il francese indica con moi. Il termine
de-figurare è coniato a partire da figure, volto e dal prefisso de-, che indica privazione ma anche
intensificazione – come, ad esempio, de-nominare, ossia dare nomi sempre nuovi e diversi. Ecco quanto
si dà e accade nella traduzione: il mistero di un linguaggio che si arricchisce, di un’opera che
banalizzandosi diventa sempre e di nuovo se stessa, linguaggio e opera nei quali “chi è” tradotto e “chi
traduce” passano l’uno attraverso l’altro facendo affiorare le novità ancora intentate ed inviste di quanto
si dà da tradurre. La banalizzazione, il “diventare di tutti” non è un perdersi del linguaggio, del testo,
dell’autore, né è un ripetere (da parte del traduttore). È un andare e tornare, è transito, passaggio,
fors’anche rischioso e periglioso, nel quale l’altro entra nel proprio; nel quale il traduttore, appropriandosi
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di una lingua o di un testo che non è suo, scopre meglio e di più la propria lingua e il proprio modo di
esprimerla (ed esprimersi) in testi e linguaggi, dandole altri volti e ricevendone, reciprocamente, altri.
Perché, tuttavia? Ovvero, perché ciò è possibile?
Transito, passaggio, esposizione, pericolo, ritorno a sé nell’attraversamento di altro. Riflettere
sull’esperienza e sulla traduzione come esperienza rivela questi tratti. Ma, di fatto, una “lingua di
partenza” (del testo da tradurre) passa ad e in una “lingua di arrivo” (del testo tradotto); niente di
rischioso, in questo. Non possiamo però ignorare – oggi soprattutto – il pericolo che in tale passaggio
rimane, comunque, in agguato. Le lingue nazionali, per un verso, sono arricchite da questi scambi ma,
per altro verso, subiscono spesso trasformazioni che finiscono col renderle sconosciute ed ignote a se
stesse. Inoltre, mentre lingue meno parlate sono destinate a trasformarsi profondamente, fino a perdere
la loro specificità, lingue globalmente diffuse (basti il riferimento all’inglese e allo spagnolo) vivono
mutazioni radicali del lessico e conoscono un uso spesso nuovo ed inusuale dei loro termini. È indubbio,
dunque, che la traduzione dà nuovi volti, de-figura lingue e linguaggi rinnovandole/i e arricchendole/i o
depauperandole/i. Le banalizza esponendole a cambiamenti, all’occasione e all’occorrenza, virtuosi o
perigliosi.
Ma, di nuovo, – di rischio in rischio, di scacco in scacco – si traduce, c’è un desiderio innato a tradurre, a
farsi comprendere, a conoscere altro e a farsi conoscere da questo altro. Nessun rischio di
fraintendimento è capace di arrestare il moto perpetuo di una lingua verso un’altra. Che cosa, allora,
rende ciò possibile, se non addirittura inevitabile? Forse, il fatto che in tale passaggio e transito è in gioco
altro, si media altro. Anche la mediazione, come la traduzione e l’esperienza, è passaggio, la filosofia ce
lo ha insegnato. E dobbiamo soprattutto ad Hegel l’averlo chiarito in modo pressoché definitivo. Infatti,
leggiamo nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, che «la mediazione è principio e
passaggio ad un secondo termine, in modo che questo secondo solo in tanto è in quanto vi si è giunti da
un qualcosa che è altro rispetto ad esso» (18). C’è però anche un altro senso di mediazione, che
prendiamo a prestito dalla linguistica. Tra le varie definizioni della diatesi (da diàstesis, disposizione)
(19), c’è quella di “diatesi media”. Si tratta di una forma che appartiene a verbi quali i media tantum, a
verbi, cioè, che possedendo una forma media non hanno valore né esclusivamente passivo né
completamente attivo. Ne forniscono esempi il greco gignomai, il latino nascor, nascere; o anche il greco
hépomai, il latino sequor, seguire. Si tratta di verbi evenemenziali, che esprimono un evento. Sono verbi
che descrivono una condizione del soggetto o un’azione di cui questi partecipa senza esercitarvi il
controllo diretto. Grammaticalmente, si chiamano “forme medie” perché esprimono un’azione che sta tra
passività e attività, compiuta da un soggetto che si trova già nel corso del suo svolgimento; un’azione che
un soggetto compie perché è da essa compiuto. In fondo, nasciamo perché altri lo rendono possibile, pur
essendo “nostra” la data di nascita in cui l’evento accade. Ciò detto, è lecito parlare di mediazione per le
azioni non-agite espresse da questi verbi? Forse sì, perché della mediazione conservano comunque un
tratto che li accomuna ad altre accezioni di mediazione, delle quali abbiamo citato quella più diffusa in
filosofia, ossia il suo essere passaggio. E a rendere effettivamente possibile questo passaggio è un
medesimo evento, o meglio, advento, accadimento; l’evento o advento dell’incomprensibile.
Incomprensibile è ciò che non può essere delimitato dal pensiero (alla lettera com-prehendere, ossia
prendere, stringere insieme), è ciò che eccede ogni spiegazione o rapporto di causa-effetto. È ciò che
accade senza ragioni altre dalla propria: accade perché accade, senza ragione altra da questo accadere. È
l’esprimersi di un evento capace di dare alle cose un volto nuovo, imprevisto ed imprevedibile.
D’altronde, non è difficile scorgere l’incomprensibilità fondamentale delle azioni non-agite sopra dette:
incomprensibile è la nascita, azione che, ignari, compiamo sotto gli occhi di chi la attende. Lo è la
creazione poetica, evento di cui si è protagonisti pur senza poterlo prevedere, comprendere o
circoscrivere definendone la somma dei fattori del suo accadere. Incomprensibile, dunque non
“prendibile” e delimitabile. Incomprensibile che è fondo misterioso e mai definitivamente attingibile, il
fondo inesauribile della creatività, dell’invenzione. Un fondo che, “senza perché”, spinge alla creazione
per rivelarsi e svelarsi sempre e di nuovo nel linguaggio e nella sua traduzione. Azione non-agita,
quest’ultima, che compiamo in grazia del medesimo fondo incomprensibile per cui tanti altri eventi
accadono. Fondo incomprensibile che, senza mai esaurirlo, la creazione artistica rivela e la traduzione
rinnova, così come ogni passaggio e transito accadono sotto la spinta di un andare verso il fondo della
quotidianità, verso ciò che rende le cose vere, rendendole effettivamente banali, a disposizione di tutti.
L’esperienza come viaggio, dunque, periglioso e avventuroso. Cammino e viaggio verso un
incomprensibile che può essere compreso solo incomprehensibiliter, come incomprensibile e in quanto
incomprensibile, cioè inesauribile e, al fondo, imprendibile. Fondo incomprensibile che è terra straniera,
forse, ma non estranea, che è terra dalla quale veniamo senza averla mai conosciuta e alla quale
incessantemente andiamo; incessantemente come incessante è il nostro esperire, ossia il nostro tentare,
sempre e di nuovo, altri passaggi e transiti. E in primo luogo il transito che per eccellenza è capace di
banalizzare, di rendere disponibili a tutti quell’incomprensibile di cui il poeta, lo scrittore, il filosofo fanno
esperienza, ossia la traduzione. Gesto nel quale l’incomprensibile spinge alla ricerca della “parola più
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adeguata” che porti all’espressione il pensiero e la creazione di cui un testo vive. Gesto sommamente
banale nel quale si tenta il viaggio verso ciò che è radicalmente proprio e che a qualcun altro, nella
propria esperienza, è accaduto di portare alla parola, al linguaggio, alla scrittura. Gesto che, infine,
spinge a tentare altre possibilità nel e del proprio linguaggio, affinché quell’anelito alla ricerca, al transito,
al passaggio, si riproponga, ancora e di nuovo, come compito. Compito che inesauribilmente tenta la
propria espressione: Sentii, giunto all’ultima pagina, che la narrazione era un simbolo dell’uomo che io
ero mentre la scrivevo e che, per scriverla, dovevo diventare quell’uomo e che, per diventare questo
uomo avevo dovuto scrivere quella storia, e così via all’infinito…
V. Et puis, et puis encore ?
V. E poi, e poi ancora?
(Ch. Baudelaire, Le voyage, Il viaggio dal Quaderno di traduzioni di G. Caproni).
Per Maria
Carla Canullo
Note.
(1) Nota U. Eco: «Ho posto queste mie riflessioni sul tradurre all’insegna di quasi. Per bene che vada, traducendo si
dice quasi la stessa cosa. Il problema del quasi diventa ovviamente centrale nella traduzione poetica, sino al limite
della ricreazione così geniale che dal quasi si passa a cosa assolutamente altra, un’altra cosa, che con l’originale ha
solo un debito, vorrei dire, morale» (U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano
2003).
(2) J.-Ch. Vegliante, Leonardo Bruni aretino, tra(ns)ducteur, in D’écrire la traduction, Presses de la Sorbonne Nouvelle,
Paris 1996, p. 22.
(3) Ivi, p. 23.
(4) Ibid.
(5) Come si legge in F. Calonghi, Dizionario latino-italiano (Rosenberg & Sellier).
(6) Vegliante, Leonardo Bruni aretino, tra(ns)ducteur, cit., p. 23. Sul termine “tradurre” e la sua introduzione nell’uso
oggi codificato si veda anche U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2003, pp.
234-235.
(7) M. Heidegger, Hölderlins Hymne « Der Ister », Klostermann, Frankfurt a.M. 1984 (Ga 53); tr. it. di C. Sandrin e U.
Ugazio, L’inno Der Ister di Hölderlin, Mursia (Biblioteca di filosofia), Milano 2003, p. 59.
(8) Tra le versioni italiane della tragedia sofoclea ne scegliamo due, dove il termine (che è pronunciato dal coro, v.
332) è tradotto con prodigioso (tr. it. di F. Ferrari, Bur, Milano 1982) o tremendo (tr. it. di Giuseppina LombardoRadice, Einaudi, Torino 1966).
(9) A. Berman, L’épreuve de l’étranger. Culture et traduction dans l’Allemagne romantique, coll. tel / Gallimard, Paris
1984 ; tr. it. di G. Giometti, La prova dell’estraneo. Cultura e traduzione nella Germania romantica, Quodlibet,
Macerata 1997; Id., La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain, Seuil, Paris 1999; tr. it. di G. Giometti, La
traduzione e la lettera o l’Albergo nella lontananza, Quodlibet, Macerata 2003.
(10) Bastino per tutti Eco, op. cit., e G. Steiner, After Babel. Aspect of Langage and Translation, Oxford UP, London
1975; tr. it. di R. Bianchi, integrata e rivista da C. Béguin, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione,
Garzanti, Milano 2004 (prima ed: Sansoni, Milano 1984). Di Steiner si veda anche il numero 454 di Le magazine
littéraire (giugno 2006), a lui dedicato, dove è pubblicato l’inedito De la traduction comme “condition humaine” (ivi,
pp. 41-43).
(11) J. L. Borges, Le versioni omeriche, in Discussione, tr. it. di D. Porzio, Mondadori Meridiani, Milano 200014, p. 72.
(12) E. Testa, Introduzione a G. Caproni, Quaderno di traduzioni, con prefazione di P. V. Mengaldo, Einaudi, Torino
1998, p. XIII.
(13) J. L. Borges, La ricerca di Averroè, in Aleph, tr. it. di Francesco Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 89100.
(14) Ivi, p. 91.
(15) Ivi, p. 99.
(16) Borges, La ricerca di Averroè, cit., p. 100.
(17) Per queste cit. cfr. Y. Bonnefoy, La communauté des traducteurs, Presses Universitaires de Strasbourg,
Strasbourg 2000; tr. it. a cura di F. Scotto, La comunità dei traduttori, Sellerio editore, Palermo 2005.
(18) G.F.W. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ed. it. a cura di C. Cesa, Laterza, Bari-Roma
1984, §12, p. 19.
(19) La “diatesi” è la categoria del verbo che esprime l’atteggiamento, la “disposizione”, dei partecipanti all’azione nei
confronti dell’azione stessa.
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APPUNTI SULL’ERMENEUTICA E SULL’ETICA DELLA TRADUZIONE DA SCHLEIERMACHER A
BERMAN
Da molto tempo che gli studiosi si sono resi conto della reciproca influenza tra il lavoro che il traduttore
svolge nel traslare un’opera d’arte poetica, e quella rete di leggi inconsce e culturali alle quali il traduttore
stesso è vincolato nell’operazione di lettura e di riscrittura. Coloro i quali hanno pianificato un lavoro
inteso a chiarire quelle leggi, si sono trovati di fronte ad ostacoli ardui da superare, visto che era – ed è
tuttora – difficile generalizzare in schemi logici e coerenti una pratica che risente in maniera
incommensurabile delle componenti soggettive dell’autore originario, del lettore finale e del traduttore
che è una figura di confine, liminare, partecipante ad entrambe le attività. Nell’ambito puramente teorico
la volontà di schematizzazione ha sortito degli effetti validi, ma che raramente si conciliano con la diversa
e variegata produzione dei versi tradotti: perciò il giudizio che un critico dà di un’opera è spesso
divergente, a volte contrario, rispetto ad altri. Per questo motivo la capacità maggiore degli studiosi è
stata quella di iniziare delle discussioni generali sulla base delle individualità dei traduttori e, a volte, sulla
scorta delle singole opere tradotte. Lo sviluppo della teoria riguardante la traduzione è così approdata ad
una estetica coerente con la poetica del traduttore o con quella espressa dalla singola opera poetica con
la quale si è cercato di giudicare e ridiscutere i risultati di un processo complesso e faticoso quale è quello
della traduzione poetica. Qualsiasi traduzione, infatti, non è solo un risultato testuale di un lavoro, ma è il
processo stesso di trasformazione di un testo in un altro praticato da un individuo che possiede una sua
cultura particolare, e nel contempo è posseduto da – fa parte di - una cultura. Il testo tradotto, oltre ad
essere il risultato del processo, è anche il banco di prova sul quale il traduttore si misura e sul quale lo
studioso tenta di ricercare le tappe tramite le quali il percorso traduttivo si è dipanato. In un’ottica quale
quella appena descritta, è difficile tralasciare il dato soggettivo e concentrare l’attenzione su una parte del
processo, poiché si escluderebbe dal campo di studio l’influenza reciproca a scapito della completezza di
giudizio sul testo tradotto. Lavorare “parzialmente” su di una traduzione, o spostare l’attenzione sul dato
più evidente e generale invece del dato comprendente il soggetto, è una operazione che risulta altresì
impossibile quando si voglia leggere la traduzione di un poeta. In questo caso la produzione “in lingua” è
tanto collegata alle traduzioni svolte, che giudicare queste ultime sorvolando sui testi originali è
un’operazione che lascia aperte delle zone d’ombra nella produzione completa dell’autore stesso, e quindi
inficia la completezza del giudizio che se ne possa offrire. Il lavoro traduttivo che comprenda un’analisi
soggettiva del testo “originale” presume di considerare in qual modo o maniera sia intervenuta
l’interpretazione del lettore-traduttore e se quell’interpretazione abbia o meno, e in che modo,
condizionato il prodotto testuale finale.
L’“obiezione pregiudiziale”, secondo la quale è impossibile tradurre poesia, è teorica e proprio perché tale
è sconfessata dalle traduzioni di opere poetiche che si sono fatte e vanno facendosi nel corso degli anni.
Il problema, infatti, è solo d’ordine linguistico; di quella linguistica che, confidando sulle teorizzazioni di
Mounin e Jakobson, ha sempre considerato la traduzione come un problema di sostituzione terminologica
e di equivalenza. L’impasse generato dalle forti motivazioni dei linguisti è stato superato anche nella
critica e nella teoria da George Steiner nel 1975 grazie al saggio Dopo Babele. Egli ha «[…] formalizzato
la prima grande ribellione internazionale ai dogmatismi della linguistica teorica […]. Perché Steiner allora
sosteneva che tradurre poesia o prosa poetica non significa trasferire le parole di una lingua in quelle
equivalenti d’un’altra lingua, bensì rivivere l’atto creativo che ha ispirato l’originale» (1). L’importanza del
saggio steineriano sta anche nell’aver aiutato un approccio riguardante lo studio delle traduzioni da un
punto di vista ermeneutico, nella consapevolezza che i veloci cambiamenti delle lingue e delle culture che
ne sono espressione condizionano la lettura delle traduzioni e l’atto di lettura stesso.
Quando si produce l’interpretazione, anche la più perfetta, quando la sensibilità si impadronisce dell’oggetto
salvaguardandolo ed intensificandone la vita autonoma, si è davanti ad una «ripetizione originale». Si riprende, nei
limiti di una coscienza straniera ma educata e momentaneamente esaltata, le tappe della creazione toccate dall’artista.
Si segue, tracciata sulla carta e lungo un sentiero malagevole, l’elaborazione del poema. Esperto in materia, una
specie di mimesis limitata, grazie alla quale la tavola, il testo, si trovano rinnovati secondo l’accezione riflessiva,
subordinata al modello che Platone attribuisce al concetto di «imitazione». (2)
L’ermeneutica tuttavia non è uno strumento moderno nello studio delle traduzioni ma un metodo che
accompagna la riflessione sul tradurre fin dalle origini. Cicerone è giustamente una delle fonti citate in
questo tipo di riflessione: «Ho tradotto da oratore (ut orator), non già da interprete (ut interpres) di un
testo, con le espressioni stesse del pensiero, con gli stessi modi di rendere questo, con un lessico
appropriato all’indole della nostra lingua.» (3) assieme a San Girolamo (Santo patrono dei traduttori) e
Martin Lutero, traduttori della Bibbia. L’ermeneutica moderna indipendente dalla teologia, filone
sotterraneo nell’umanesimo rinascimentale, è stata delineata durante l’Illuminismo e teorizzata da
Dannhauer che considerava l’Hermeneutica generalis quale dottrina di un’interpretazione corretta e delle
competenze di un esegeta esemplare. L’idea di ermeneutica di Dannhauer, in particolar modo, era quella
di comprendere e chiarire l’effettiva intenzione espressiva dell’autore originale, corrotta dalla tradizione
antica e dalle interpretazioni medievali dei testi classici. La necessità degli studiosi di ermeneutica era
61
quella di mediare, dopo la rivoluzione kantiana che affondava l’ottimismo razionalistico di Spinoza e
Wolff, l’opposizione tra la “lettera” originale di un testo e il suo concetto di “spirito”, cioè quello che va
compreso, il senso generale. È proprio grazie a questo passaggio che l’idea della funzione ermeneutica si
sposta da un processo di interpretazione corretta a quello di comprensione. I maggiori rappresentanti del
Romanticismo tedesco, tuttavia, hanno chiarito e dato forza all’ermeneutica moderna. Da Ast, colui che
legittima il “circolo ermeneutico” grazie alla reciproca implicazione dei significati parziali e totali nell’atto
di comprensione, a Schlegel, con la visione dell’ermeneutica spostata verso una ricostruzione filologica,
fino a Schleiermacher, agli scritti del quale – nella maggior parte dei casi – si rivolgono gli studiosi di
teoria traduttologica che si stanno per esaminare.
L’ermeneutica schleiermacheriana
è quella che più s’avvicina ad una riscoperta del concetto
comunicativo, proprio perché il comprendere ha il suo luogo naturale nel dialogo, nelle situazioni
comunicative derivate dalla lettura dei testi, seppure la comprensione dipenda essenzialmente dai
personali interessi conoscitivi. Secondo Scheleiermacher esistono due principali modi di comprendere:
l’interpretazione grammaticale e l’interpretazione psicologica:
Come ogni discorso possiede una relazione con la totalità della lingua e con l’insieme del pensiero del suo autore, così
anche ogni comprendere comporta due momenti: comprendere il discorso come elemento emergente della lingua e
comprenderlo come un fatto in chi pensa. […] Di conseguenza ogni uomo è per un verso un luogo in cui una data
lingua assume una forma peculiare e il suo discorso va compreso solo a partire dalla totalità della lingua. Ma, per un
altro verso, ogni uomo è anche uno spirito in costante evoluzione e il suo discorso è solo uno dei fatti prodotto da
questo spirito in connessione con tutti gli altri. (4)
I due tipi d’interpretazione, ove messi in correlazione, determinano il procedimento ermeneutico in
quanto procedimento riproduttivo; ricostruire, cioè, in maniera corretta l’intero processo interiore
dell’attività compositiva dell’autore originario. La correlazione tra testo e contesto, inoltre, come in Ast
aveva dato vita al circolo ermeneutico, in Schleiermacher crea quell’idea di circolo infinito della
comprensione, semplificato in questa affermazione:
Ora, se consideriamo da questo punto di vista l’intera operazione dell’interpretare, dovremo dire che, partendo
dall’inizio di un’opera e progredendo a poco a poco, la comprensione graduale di ogni singolo elemento e delle parti
della totalità che a partire da essa si organizzano, è sempre soltanto qualcosa di provvisorio. […] solo che quanto più
avanziamo tanto più tutto ciò che precede viene anche illuminato da ciò che segue. (5)
Il testo che ha più richiamato gli studiosi di traduzioni, nel quale si esprime sia l’ideale ermeneutico di
Schleiermacher sia il suo parere riguardo alle traduzioni, è la Memoria, letta il 24 giugno del 1813, Über
die verschiedenen Methoden des Übersetzens (6) (Sui diversi modi del tradurre). Le parole che vi si
leggono sono state spesso richiamate per descrivere le due uniche maniere grazie alle quali, secondo
molti, è possibile tradurre.
Quali vie deve allora percorrere il vero traduttore che intende realmente accostare questi due personaggi così separati
tra loro, quali sono lo scrittore e il suo lettore, e venire in aiuto di quest’ultimo, senza tuttavia costringerlo a uscire
dalla cerchia della lingua materna per poter capire e gustare il primo nella maniera più precisa e completa possibile? A
mio avviso, di tali vie ce ne sono soltanto due. O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove
incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore. (7)
Le sentenze sopra citate, sono state prese in considerazione dai più grandi ermeneuti e traduttologi
odierni, non soltanto per seguirle, ma anche per ridiscuterle. Nel campo ermeneutico, e più precisamente
in quello italiano, Emilio Betti è d’accordo con Schleiermacher per quel che riguarda l’idea di traduzione.
Nella sua Teoria generale dell’interpretazione (8). Betti considera la traduzione come una delle principali
forme della «interpretazione riproduttiva o rappresentativa». Al contrario della interpretazione artistica,
secondo la quale l’interprete deve ricostruire il processo genetico dell’opera d’arte considerandola quale
fusione di esperienze emotive (Erlebnis), meditazione e composizione dell’opera, l’interpretazione
riproduttiva è un
Riprodurre e ricreare esteriore, per così dire, transitivo e sociale, in quanto presuppone come destinatario un pubblico,
visibile o invisibile, a cui rivolgersi: un ri-creare tale che rappresenta il senso ricavato in una dimensione spirituale
diversa da quella del testo, in cui il pensiero venne in origine concepito o almeno oggettivato e fissato, in guisa da
concretarlo e oggettivarlo in una nuova forma rappresentativa. (9)
Più precisamente, per quel che riguarda il testo – semiotico, visti anche i richiami al rapresentamen
peirceiano – Betti spiega qual è il senso che caratterizza questo tipo di interpretazione.
«[….] la forma equivalente che viene foggiata con l’interpretazione riproduttiva, è qualcosa di
insostituibile, che è destinato a valere di per sé. Rispetto a una forma siffatta il testo originale rimane
solo come termine di raffronto e di controllo, alla cui stregua è da valutare la fedeltà della riproduzione»
(10). L’affermazione, pur richiamandosi alla interpretazione di Schleiermacher che diede Dilthey (11),
considera l’impostazione ri-espressiva della traduzione ardua e difficile poiché l’interprete traducente,
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dovendo rispettare un vincolo di fedeltà al pensiero correttamente compreso, deve integrarlo con uno
stile ed un ritmo adeguato per attualizzarlo al nuovo processo espressivo. Nella teoria bettiana, però, i
concetti di “equivalenza” o di “fedeltà” sono sempre ridiscussi all’interno di un processo argomentativo
sempre crescente. Nel riprendere alcune affermazioni sul soggettivismo di Humboldt, Betti non prende
posizione né per le traduzioni artistiche fedeli («il termine da sostituire, che pone al traduttore una
esigenza di fedeltà, non è la inerte e astratta lettera dell’originale, ma il discorso nella molteplicità delle
sue sfumature.» (12)), né per l’equivalenza di senso («né può riconoscersi fra le parole di una lingua e
quelle di un’altra la supposta equivalenza, sol che si tenga presente la differente forma interiore che
nell’una e nell’altra lingua governa la sintassi.» (13)) La posizione di Betti è fortemente legata a quella
del doppio metodo traduttivo schleiermacheriano; il giurista, tuttavia, analizza le esigenze di entrambe le
metodologie perché la traduzione ottiene la propria «finalità rappresentativa» con l’una metodologia o
con l’altra.
L’ermeneutica di Schleiermacher applicata alla traduzione viene ripresa da Berman e ridiscussa da
Venuti; entrambi si basano sulle idee di Schleiermacher e sulla ridiscussione del concetto di «approccio
ermeneutico» riguardo alla traduzione letteraria. Gli autori che si occupano di traduzione secondo il punto
di vista ermeneutico, però, sono tutti coloro che considerano la comprensione come un atto traduttivo
completo, la lettura o l’atto linguistico come un momento ermeneutico che traduce i concetti da un
contesto all’altro. Sebbene l’ermeneutica abbia una parte importante anche nelle teorizzazioni di
Meschonnic, per il quale la visuale interpretativa del testo non è la componente più importante della
traduzione, la componente linguistica e quella ermeneutica sono bilanciate in un equilibrio che forma la
poetica meschonnichiana di cui ci occuperemo più avanti. Mattioli riguardo a Meschonnic afferma che
Nella traduzione non prevale né la comunicazione né la comprensione. Concepire la traduzione come comunicazione
significa assegnare il primato all’informazione, al senso. Applicato alla lettura questo concetto comporta l’idea della
traduzione come trasporto dei contenuti delle opere letterarie. Equivale a traghettare cadaveri. Ugualmente riduttiva è
la coincidenza tra ermeneutica e traduzione. Applicata in modo indiscriminato la coincidenza fra ermeneutica e
traduzione comporta la dissoluzione dell’atto specifico del tradurre, se tradurre significa comprendere, tutto diventa
traduzione, anche l’espressione di un pensiero in parole. Questa idea di traduzione allargata contraddice alla
concezione sviluppata da Meschonnic, e non solo da Meschonnic, della traduzione come passaggio da testo a testo e da
discorso a discorso. (14)
L’approccio ermeneutico è alla base della riflessione traduttologica verso la quale si orienta l’odierna
Sprachbewegung il cui massimo esponente è Friedmar Apel. La critica della traduzione, secondo Apel,
non può essere scissa dal movimento storico che la lingua ha compiuto nel suo incessante percorso di
trasformazione. La traduzione di un’opera riflette un momento «sospeso» di quel percorso e offre
un’immagine istantanea della posizione linguistica dell’originale. La traduzione, tuttavia, non viene
considerata come un risultato parziale del processo ermeneutico; al contrario «Ogni traduzione compiuta
è la cristallizzazione di un processo dell’esperienza, che nella ricezione di un lettore di qualunque tipo
finisce sempre, per così dire, con il disciogliersi, e anche questo processo dell’esperienza di un’esperienza
nel medium della traduzione rientra nella stessa problematica» (15). La problematica ermeneutica
riferita alla traduzione viene sviluppata secondo una radicalizzazione contraria all’analisi della traduzione
al solo livello linguistico, poiché «la comprensione di volta in volta determinata di un testo si realizza solo
nella traduzione stessa» (16). Se la traduzione è, per Apel, una forma che comprende, e nello stesso
momento dà corpo, l’esperienza di opere in un’altra lingua, « Oggetto di questa esperienza è l’unità di
forma e contenuto, come rapporto di volta in volta instauratosi tra la singola opera e un dato orizzonte di
ricezione» (17). La ricerca sulla traduzione non si serve della sola ermeneutica ma ha bisogno del
fondamentale aiuto di altre discipline; solo attraverso una ricerca multidisciplinare la ricerca sulla
traduzione può essere esaustiva. Resta fermo il fatto che secondo Apel «La ricerca sulla traduzione non
può derivare la sua scientificità da criteri come quelli di “verificabilità”, “evidenza” o “coerenza”, ma
esclusivamente dalla caratterizzazione del rapporto, di volta in volta determinato, fra condizioni date e
identità del soggetto interpretante» (18).
L’ermeneutica stessa si deve “confrontare” con le altre discipline letterarie ed umane per descrivere in
modo soddisfacente il «movimento del linguaggio» originale, di quello del traduttore e della ricezione.
L’ambito dell’etica delle traduzioni è approfondito da Berman. È stato accennato al fatto che, entrando
nell’indagine anche l’interpretazione e la figura del traduttore, la disciplina ermeneutica svolge una
funzione importante nel processo di scelta e riscrittura della lingua e del testo. Berman, pur essendo
importante voce della teoria della traduzione, studia una disciplina in cui la teoria è inscindibilmente
legata alla pratica, in cui l’elemento normativo è calato nella soggettività del traduttore, un campo che
per essere indagato completamente ha bisogno d’attenzione verso tutte le componenti che entrano in
gioco nella traduzione.
La ricerca sulla traduzione non può dunque derivare la sua scientificità da criteri come quelli di «verificabilità»,
«evidenza» o «coerenza», ma esclusivamente dalla caratterizzazione del rapporto, di volta in volta determinato, fra
condizioni date e identità del soggetto interpretante […]. Con ciò si prospetta una via di mezzo, nel modo di procedere,
fra quella normativo-dogmatica […] e quella descrittivo-nomologica. (19)
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Il punto focale della teoria bermaniana è quello che analizza e stabilisce il senso del «lavoro sulla
lettera», che pone le basi di una traduzione culturale dell’analisi, e impegna lo studioso ad una trattazione
in campo etico e politico. Pur tuttavia la deviazione non consiste in un’uscita totale dal campo scientifico;
la teoria dell’etica e dell’analitica della traduzione offrono, anzi, le basi metodologiche tramite le quali la
nascente disciplina riceve lo statuto scientifico.
La prima definizione bermaniana del concetto di «etica della traduzione» si trova esplicitata in L’épreuve
de l’étranger (20), il voluminoso saggio nel quale Berman affronta in maniera sistematica la cultura della
Germania romantica e la storia della traduzione attraverso una serie di monografie specifiche riguardanti i
più alti esponenti del Romanticismo tedesco quali Herder, Goethe, Schlegel, Novalis, Humboldt,
Schleiermacher e Hölderlin. Difatti, prima dell’Introduzione, Berman appone un capitolo programmatico e
dal titolo chiarificatore, La traduzione in manifesto (21), nel quale esplicita tutte le difficoltà dei traduttori
e dei teorici della traduzione fino agli anni ottanta, soffermandosi in particolare sulle “resistenze” che le
culture hanno trovato verso le letterature straniere durante i secoli passati. La visuale non è più solo
linguistica ma culturale, di raffronto con l’Altro, e di ricerca in questo raffronto della «finalità etica» del
tradurre:
Il problema è che la traduzione occupa un posto ambiguo. Da una parte, si piega all’ingiunzione di appropriazione e
conquista, si costituisce anzi come uno dei suoi agenti. Cosa che crea traduzioni etnocentriche, o quella che si può
definire “cattiva” traduzione. Ma, dall’altra, la finalità etica del tradurre si oppone per natura a quest’ingiunzione:
l’essenza della traduzione è di essere apertura, dialogo, meticciato, decentramento. È un mettere in relazione, o non è
nulla. (22)
Nel quadro di una riflessione filosofica nella quale le categorie linguistiche dovrebbero essere sorpassate,
Berman riprende i concetti di «equivalenza» e di «fedeltà» attribuendo a questi un significato
prevalentemente etico:
L’etica della traduzione consiste, sul piano teorico, nel portare alla luce, affermare e difendere la pura finalità della
traduzione in quanto tale. Cioè, nel definire la natura della “fedeltà”. La traduzione non può essere definita unicamente
in termini di comunicazione, di trasmissione dei messaggi o di rewording allargato. Non è neanche un’attività
puramente estetico/letteraria, anche se è intimamente legata alla pratica letteraria di uno spazio culturale dato.
Tradurre significa indubbiamente scrivere e trasmettere. Ma questa scrittura e questa trasmissione prendono il loro
vero senso solo a partire dalla finalità etica che le governa. In questo senso, la traduzione è più vicina alla scienza che
all’arte – almeno se si presuppone l’irresponsabilità etica dell’arte.
I termini presenti in questa citazione indicano il salto metodologico proposto dalle ricerche bermaniane,
per le quali la «fedeltà» non è più, e solo, corrispettiva di un’equivalenza terminologica. Non è nelle
relazioni linguistiche, ma nella traslazione della volontà traduttrice, che il traduttore s’impegna,
caricandosi d’una responsabilità vicina alla morale sociale, e dunque non più e non solo individuale. A
quanto appena detto si aggiunge un altro corollario importante, che riguarda lo “spazio” nel quale
l’individuo-che-traduce è immesso, quello della cultura. La «finalità etica» della traduzione, sebbene
oggetto dell’analisi del testo, affronta la spinta motivazionale al tradurre della cultura.
[…] ogni cultura resiste alla traduzione, anche se ne ha essenzialmente bisogno. La finalità stessa della traduzione –
aprire sul piano della scrittura un certo rapporto con l’Altro, fecondare il Proprio tramite la mediazione dell’Estraneo –
si scontra frontalmente con la struttura etnocentrica di ogni cultura, o con quella specie di narcisismo in base al quale
ogni società vorrebbe essere un Tutto puro e non mescolato. Nella traduzione c’è qualche cosa della violenza del
meticciato. […] Ogni cultura vorrebbe essere sufficiente in se stessa e, a partire da questa sufficienza immaginaria,
insieme irradiarsi sulle altre e appropriarsi del loro patrimonio. La cultura romana antica, la cultura francese classica e
la cultura nordamericana moderna ne sono esempi impressionanti. (23)
L’etica positiva, secondo le posizioni del Berman, presuppone logicamente un’etica negativa, che esprime
una teoria dei valori ideologici e letterari, tendenti a distogliere la traduzione dalla sua pura finalità.
Quest’ultima è una teoria della traduzione etnocentrica, «ovvero della cattiva traduzione»: «Chiamo
cattiva traduzione quella che, generalmente sotto l’apparenza della trasmissibilità, opera una negazione
sistematica dell’estraneità dell’opera straniera» (24). Tale giudizio presuppone un sistema valoriale, e
quindi etico, al quale Berman ha lavorato attraverso il chiarimento di concezioni culturali formanti un
reticolo di tendenze “a forzare” nel quale operano le culture che entrano in contatto, le lingue e il
traduttore stesso. Nel discorso bermaniano, quindi, non vengono meno le funzioni e l’attenzione sugli
agenti traduttivi, che posseggono un’importanza peculiare all’interno del processo traduttivo volontario:
l’Opera, il Testo, l’Autore, il sistema ideologico di partenza. In questo ambito si fanno imprescindibili i
rimandi alle discipline di contatto della traduttologia.
La disciplina che Berman cercava di sistemare grazie agli undici “contenitori” nell’articolo del 1981 non si
ferma all’etica della traduzione, sebbene abbia in essa la parte teorica più innovativa, ma si svolge in tre
direzioni: l’analitica della traduzione, la storia, la teoria della letteratura o transtestualità (25). L’analitica
della traduzione controlla i sistemi di deformazione nati dalle resistenze prodotte dal traduttore o dalla
cultura espressa nel testo originario. Il metodo è vicino a quello della psicanalisi – poiché presuppone una
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riflessione oggettiva del traduttore su se stesso e della cultura su se stessa - «come Bachelard parlava di
psicanalisi dello spirito scientifico» (26), e apertamente derivante dalla struttura contestuale di partenza.
All’analitica dovrebbe aggiungersi un’analisi «effettuata nell’orizzonte della traduzione», che sia
complementare alla critica dei testi (originari), prestando attenzione sia al processo di trasformazione del
testo, sia alle trasformazioni del testo finalmente tradotto:
[…] ogni testo da tradurre presenta una sistematicità propria che il movimento della traduzione incontra, affronta e
rivela. In questo senso, Pound poteva dire che la traduzione è una forma sui generis di critica, nella misura in cui
rende manifeste le strutture nascoste del testo. Tale sistema dell’opera è al contempo ciò che offre la maggiore
resistenza alla traduzione e ciò che la rende possibile e le dà senso. (27)
L’analitica della traduzione è il luogo nel quale le discipline, che i teorici volevano complementari alla
letteratura comparata, si incontrano e collaborano ad una completa comprensione del testo tradotto; ma
è anche il settore che indica la parlanza della traduzione e che, a sua volta, potenzia la lingua della
cultura tradotta. La finalità etica del tradurre ha un risvolto psichico che tende a riconoscere la lingua
straniera come strumento di denaturalizzazione della lingua materna. La finalità metafisica della
traduzione, che esprime la pulsione a tradurre, invece, cerca di superare la finalità etica, stabilendo un
rapporto dialogico tra lingua individuale straniera e lingua individuale propria:«Si potrebbe dire che la
finalità metafisica della traduzione è la cattiva sublimazione della pulsione traducente, mentre la finalità
etica ne costituisce il superamento» (28). Insieme al discorso riguardo all’apertura alle altre discipline,
Berman fa emergere anche quello relativo alla «transtestualità», una pratica che ha il testo campione nel
Quijote cervantesco. Presentato dall’autore come una traduzione dall’arabo - nel quale si parla di
romanzi a loro volta tradotti - è un indice della coscienza culturale spagnola del tempo, ma anche
l’esempio del rapporto tra letteratura e traduzioni. Non fermandosi solo a questo, e riallacciandosi alle
ricerche sulle lingue e sulle culture, Berman propone la traduttologia come un campo pluridisciplinare nel
quale i traduttori potranno fruttuosamente lavorare con gli scrittori, i teorici della letteratura, gli
psicanalisti e i linguisti. Anche se di fondamentale importanza nel saggio che trattiamo ora, il concetto di
Bildung all’interno della cultura romantica tedesca e la storia sulle traduzioni – che Berman chiama
«archeologia della traduzione» - rappresentano parte di un contesto molto più ampio e complesso, cioè la
riflessione della traduzione su se stessa, inseparabile dalla pratica traduttiva. Gli sviluppi successivi a
questa “apertura al riflessivo” rappresentano i primi fondamenti pratici della teoria della traduzione. La
coscienza che l’atto traduttivo debba essere accompagnato da una riflessione su se stesso, porta il teorico
a confrontarsi con i pensatori che più avevano contribuito alla filosofia base della traduzione. Heidegger,
Benjamin, Schadewalt e Rosenzweig vanno, quindi, ripensati alla luce novecentesca del rapporto tra
filosofia e lingua. La questione della ri-traduzione indica un problema aperto che, sebbene appena
accennato dal teorico francese, rappresenta una specificità culturale e storica della teoria traduttiva.
Come dimostra il ciclico rifacimento della Bibbia, si fa fondamentale nel Novecento il ricorso
all’ermeneutica moderna, perché anche il pensiero e l’interpretazione fanno parte di un moderno processo
traduttivo del pensiero religioso, del pensiero filosofico, ma anche di quello che concerne le “scienze
umane”.«È importante sottolineare come la traduzione, nel novecento, divenga cura del pensiero stesso
nel suo sforzo di rilettura della tradizione religiosa e filosofica occidentale. Ed è in un’ottica simile che
l’atto di tradurre si vede infine a poco a poco riconosciuto nella sua essenza storica» (29).
L’inquadramento disciplinare della traduttologia è perfezionato nel saggio pubblicato nel 1999 da Seuil,
risalente però al 1984, anno in cui Berman aveva iniziato un seminario al Collège International de
Philosophie, del quale La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain (30) è la rivisitazione. Durante
tale seminario il problema centrale fu quello di chiarire la formula “traduzione letterale” contro la troppo
utilizzata metodica della traduzione “parola per parola”. Queste metodiche si confondono quando
interpretano il concetto di equivalenza. La “traduzione letterale”, infatti, non è la traduzione “parola per
parola” e dunque l’equivalenza assume significati differenti a seconda del metodo utilizzato. Il saggio è
incentrato su questa differenziazione: tentando di analizzare il metodo traduttivo letterale, Berman
spiega cosa bisogna intendere per equivalenza, distanziando la sua dottrina dalla teoria dell’equivalenza
dinamica di Nida. Il processo avviene nell’Introduzione in cui, richiamando le analisi di Valéry Larbaud e
Meschonnic, l’autore esemplifica le differenze con le traduzioni dei proverbi. Una traduzione parola per
parola, cioè servil, del proverbio è possibile a livello d’equivalenti funzionali –pratica che tutti i traduttori
operano – a scapito della «lettera» originaria che considera il proverbio anche come forma (31).
«Tuttavia, tradurre letteralmente un proverbio non è un semplice “parola per parola”. Occorre anche
tradurre il ritmo, la lunghezza ( o la concisione), le eventuali allitterazioni ecc. Poiché un proverbio è una
forma. […] Tale mi pare essere il lavoro sulla lettera: né calco, né (problematica) riproduzione, ma
attenzione portata al gioco dei significanti» (32). L’analitica, secondo il Berman, è lo spazio pragmatico
della traduzione; la riflessione, cioè, sull’esperienza storica del tradurre e sulla critica testuale dei testi
tradotti, spazio nel quale è possibile discutere sulla vera tripartizione della traduzione letterale, che si
contrappone all’immagine tradizionale ed etnocentrica della traduttologia, del tradurre e della traduzione.
Se esiste una traduzione etnocentrica, a quella si oppone la traduzione etica, mentre la traduzione
ipertestuale è contrastata da una traduzione poetica. Se esiste una lettera della traduzione, dunque,
l’analitica, in quanto critica negativa, studia il sistema di deformazione dei testi e le tendenze che hanno
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deviato la tradizionale opera sulla traduzione dalla lettera originaria. Il reperimento delle tendenze
deformanti, a esclusivo vantaggio del “senso” e della “bella forma” delle opere, costituisce in negativo il
primo canone operativo della traduttologia bermaniana (33).
L’analisi delle tendenze deformanti non rappresenta un canone vincolante per il traduttore letterario, né
la semplice lista degli errori da non commettere per scrivere una traduzione non etnocentrica. Berman
stesso avverte che, nelle opere tradotte, le tendenze sono compresenti e rappresentano in negativo
alcune devianze di base che allontanano la traduzione della lettera e danno vita a cattive traduzioni. Si
può immaginare la “lettera” dell’originale come un incavo col quale viene modellato il testo tradotto; la
potenziale rottura o deformazione dell’incavo rappresenta la tendenza a tradurre “a senso” – nel
significato dell’uso dell’equivalenza - che allontana gli elementi estranianti della traduzione e riporta alla
nazionalizzazione, all’etnocentrismo culturale etico e politico. Le tendenze deformanti sono lo strumento
per indagare la traduzione attraverso una metodologia negativa. Non vuol dire che Berman proponga
delle norme positive attraverso l’etica della traduzione. Sebbene sia possibile, infatti, definire dei principi
normativi non metodologici, la proposizione di un’analitica positiva presuppone la definizione dello spazio
della traduzione (opposto alle pratiche intertestuali) e una definizione obiettiva della purezza del prodotto
traduttivo. Ciò significa che l’etica della traduzione, in fase normativa, dovrebbe dare per sottinteso il
fattore comunicativo delle lingue – operazione che si attua nelle traduzioni tecniche – e,
contemporaneamente, dovrebbe offrire delle aperture di senso dell’opera tradotta. In questo spazio
filosofico entra in gioco la considerazione dell’obiettivo comunicativo, ma anche il fattore ricettivo. Il
considerare l’opera che sta per essere pubblicata come potenzialmente leggibile dal pubblico che la
riceve, determina una gabbia metodologica di stampo linguistico ed ermeneutico, nella quale il traduttore
si trova in balìa della funzione traduttiva.«Emendare un’opera delle sue stranezze per facilitarne la lettura
porta solo a sfigurarla e, dunque, a ingannare il lettore che si pretende servire. Occorre al contrario,
come nel caso della scienza, un’educazione alla stranezza. (34)»Nell’affrontare la discussione della
«comunicazione controproducente» Berman si rifà alle teorizzazioni sulla comunicazione di Giraud e a
quelle, considerate metafisiche ed «iperplatoniche», del Compito del traduttore (35) benjaminiano. La
comunicazione culturale sarà allora delegata alla dimensione etica del tradurre che si fonda sui termini
essenziali di «fedeltà e esattezza», termini che a loro volta rimandano, sì, ad una esperienza di
traduzione, ma anche ad un contegno dell’uomo di fronte al mondo, alla sua stessa esistenza e ai testi.
L’atto etico, secondo la riflessione di Lévinas (36), «[…] consiste nel riconoscere e nel ricevere l’Altro in
quanto Altro.» e dunque «aprire all’Estraneo il proprio spazio di lingua» animato dal presupposto
desiderio di farlo (37). Nella dimensione etica la lettera assume le caratteristiche di «carnalità»
linguistica, tra le quali è da segnalare l’iconicità; la fedeltà alla lettera non è più fedeltà allo “spirito” (o al
senso), ma soprattutto fedeltà alle clausole che vincolano il testo alla cultura ivi espressa:
Essere “fedele” a un contratto significa rispettarne le clausole, non lo “spirito” del contratto. Essere fedeli allo “spirito”
di un testo è una contraddizione in termini. […] Fedeltà e esattezza si rapportano alla letteralità carnale del testo. In
quanto obiettivo etico, il fine della traduzione è di accogliere nella lingua materna questa letteralità. Poiché è in essa
che l’opera dispiega la sua parlanza, la sua Sprachlichkeit, e compie la sua manifestazione del mondo. (38)
È nei tre saggi monografici (39), nei quali vengono analizzate le traduzioni di Hölderlin, di Chateaubriand
e di Klossowski, che Berman individua i risultati di una traduzione etica e delle metodiche che più si
avvicinano alle teorizzazioni appena concluse. Anzi, proprio mentre il discorso si fa pratico, emergono
altre suggestioni che ricalcano le problematiche che già i linguisti avevano incontrato nelle loro
supposizioni riguardo alla traduzione.
All’interno di questi lavori si fanno più insistenti i richiami agli studiosi della traduzione antecedenti le
speculazioni di Berman, cioè Walter Benjamin e George Steiner. La volontà di confronto con i due autori
nasce da un’esigenza bivalente: da un lato sta il fatto che i saggi di Benjamin e di Steiner sono le prove
più convincenti di un discorso sulla traduzione che, seppur inglobandolo, supera il metodo linguistico;
dall’altro c’è la partecipazione comune di una visuale filosofica d’indagine. Tale indagine comprende e
sviluppa le domande che i teorici sentivano affiorare quando, uscendo temporaneamente dal campo
metodologico della linguistica e della letteratura, s’imbattevano nell’importanza della motivazione a
tradurre, della funzione del traduttore, delle implicazioni etiche, sociali e politiche della traduzione stessa.
Inoltre, considerati anche gli sviluppi successivi alle teorizzazioni bermaniane, grossa parte dell’attività
speculativa è da ricercare nelle opere di Heidegger, Gadamer, Derrida, Quine, e Wittgenstein. La
traduttologia, in quanto pensiero-della-traduzione, ricade nella sfera speculativa dell’interpretazione e
dunque si sviluppa nel campo dell’ermeneutica, non partendo dalla filosofia, ma avendo in comune con
quella l’esplicitazione dell’atto inerente al tradurre.
Nell’ermeneutica esistono moltissimi concetti che stimolano i traduttologi; alcune volte le stesse categorie
traduttologiche sono direttamente derivate da metodiche filosofiche. Lo si è visto nel recupero, da parte
dei teorici, dei saggi filosofici imprescindibili alla organizzazione della materia traduttiva: l’ermeneutica di
Schleiermacher ripensata nel discorso moderno, l’etica di Schleiermacher stesso e di Lévinas, le riflessioni
di Gadamer e di Derrida sul problema della traduzione. Berman stesso, tuttavia, fa notare l’imperfetta
coincidenza tra interpretazione e traduzione:
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Nel campo della traduzione, i limiti della teoria ermeneutica – da Schleiermacher a Steiner – sembrano essere i
seguenti: dissolvere la specificità del tradurre facendone un caso particolare di processo interpretativo, essere
incapace di affrontare, in quanto teoria della coscienza, la dimensione incosciente in cui si giocano i processi linguistici
– e quindi la traduzione. (40)
Nell’opera di Heidegger il problema riguardante la traduzione è strettamente legato al concetto di
tradizione. Per l’autore di Essere e Tempo, infatti, nell’unificazione tra Storia e ontologia la tradizione è la
tramandabilità del Ci continuamente esposta; la ripetizione è la manifestazione della tradizione. «In
questo senso vogliamo intendere fin da adesso la ripetizione come un qualcosa di essenzialmente affine
al fenomeno della traduzione, e proprio nel fatto che essa rende manifesta la sua propria storia» (41).
L’intima coappartenenza di ontologia, storicità e traduzione, comporta l’unione di comprendere e
comprender-Ci solo nel campo della traduzione:
L’esserci, che noi siamo, è lo storicizzarsi della lingua, uno storicizzarsi che è istituito dal progetto poetico-pensante
che è la poesia; la Dichtung è l’anticipante esser-deciso del linguaggio (la profezia in cui il linguaggio si storicizza), è
l’av-venire alla parola più propria e, al contempo, il ri-torno al suo più proprio esser-stato. Dunque non solo è
progetto, è anche ripetizione, è, cioè, la trasformazione originaria dell’eredità che noi stessi siamo, ovvero di ciò che è
assegnato in dote, in ciò che è dato in compito. (42)
L’ermeneutica, secondo Heidegger, dunque, è la comprensione dell’esserCi attuale e dell’esser-Ci altro,
che si ripete nella traduzione. Per questo la traduzione è anche il divenire ed il compimento dell’essere:
«La traduzione è il divenire stesso dell’occidente, ma un divenire determinato dal modo in cui l’essere si
traduce. Il divenire dell’occidente è dunque la traduzione dell’essere, il che significa che nella traduzione,
quando questa sa adempiere al suo compito destinale, essere e divenire si dànno unitariamente. (43)»
L’appropriazione della storicità dell’esserCi porta il traduttore a comprendere ed interpretare l’estraneo e
relazionarsi con esso mediante un movimento doppio che Berman così descrive: «Solo il traduttore (e
non il semplice lettore, sia esso il critico) può percepire quello che in un testo è dell’ordine del ‘rinnegato’,
poiché fa apparire la lotta che si è svolta nell’originale, che ha condotto all’equilibrio che essa è» (44). Il
rapporto con l’estraneo è attuabile attraverso la traduzione, come afferma anche Paul Ricoeur nel saggio
La traduzione. Una sfida etica (45). Partendo proprio dalle affermazioni di Berman riguardanti le
“modalità di resistenza” delle traduzioni, Ricoeur mette in relazione il “lutto e la felicità” della traduzione.
La sfida della traduzione porta a risultati luttuosi solo se non si presuppone che la traduzione sia
impossibile. Nello stesso tempo la coscienza di questa impossibilità è all’origine della sua felicità.
Qui sta la felicità. Riconoscendo e assumendo l’irriducibilità della coppia del ‘proprio’ e dello straniero, il traduttore
trova la sua ricompensa nel riconoscimento dell’intrascendibile statuto di dialogicità dell’atto di tradurre come orizzonte
ragionevole del desiderio di tradurre. Di contro all’antagonismo che drammatizza il compito del traduttore, questi può
trovare la sua felicità in ciò che amerei chiamare l’ospitalità linguistica. (46)
La suggestione secondo la quale bisognerebbe uscire dall’alternativa teorica fra traducibilità e
intraducibilità delle lingue, apre un campo di rapporti etici tra le lingue che precedentemente era
conflittuale. «È quindi legittimo parlare di un ethos della traduzione: suo compito sarebbe ripetere, sul
piano culturale e spirituale, il gesto di ospitalità linguistica sopra richiamato» (47). La traduzione influisce
anche attraverso un modello che regola lo “scambio delle memorie”: mediante tale modello si
trasferiscono in un ambiente le categorie etiche e spirituali dell’altro. Si dà rilievo anche alla funzione
“narrativa”, cioè all’identità narrativa dell’estraneo. La comunicazione etica si esplica nella traduzione e,
dunque, «assume, in forma immaginativa o simpatetica, la storia dell’altro attraverso i racconti che lo
riguardano.» L’ermeneutica fenomenologica di Ricoeur, dunque, riesce a superare le contrapposizioni
teoriche della traduzione attraverso il concetto di “ospitalità”. Offre, inoltre, una definizione della funzione
del traduttore, che è ripresa dalla sua idea dell’ermeneutica; se «non si dà comprensione che non sia
mediata attraverso i segni, i simboli, i testi» (48), così non si dà scambio che non sia mediato dai testi e
dalle opere tradotte.
Giampaolo Vincenti
Note.
(1) Buffoni Franco, Dopo Babele vent’anni dopo, «Testo a Fronte», n. 14, marzo 1996, p. 91.
(2) Steiner George, Après Babel. Une poétique du dire et de la traduction, traduit par Lucienne Lotringer et PierreEmmanuel Dauzat, Albin Michel, Paris, 1998, p.62. Traduzione mia.
(3) Marco Tullio Cicerone, Qual è il miglior oratore, da M.T.Cicero, Libellus de optimo genere oratorum, in Siri Nergaard
(a cura di), La teoria della traduzione nella storia, Bompiani, Milano, 2002, pp. 51-62.
(4) Schleiermacher Friedrich, Ermeneutica, Rusconi, Milano, 1996, pp- 301-303.
(5) Ivi, p. 455.
(6) Schleiermacher Friedrich, Sui diversi modi del tradurre, a cura di Giovanni Moretto, in Idem, Etica ed ermeneutica,
Bibliopolis, Napoli, 1985, pp. 85-120, poi ripubblicato in Nergaard Siri, op. cit., pp. 143-179. A causa dei frequenti
67
richiami, vista l’importanza dell’opera in questione, ci si richiamerà al testo pubblicato nella miscellanea bompianiana
chiamandolo Orazione o Memoria.
(7) Ivi, p. 153.
(8) Betti Emilio, Teoria generale della interpretazione, 2 voll., Dott. A. Giuffré Editore, Milano, 1955.
(9) Ivi, Vol. I, p. 637
(10) Ivi, vol. II, p. 641. Più avanti, a dimostrare la linea schleiermacheriana dell’ermeneutica bettiana, ne I criteri
metodici dei vari tipi d’interpretazione in funzione riproduttiva, Betti afferma: «Così nella traduzione si tratterà, in
primo luogo, di ricostruire nel discorso originale il pensiero dell’autore col criterio grammaticale e con quello
psicologico[…]. Che se questo pensiero, oltre ad essere retto dalla logica della lingua originale genericamente intesa, è
governato anche da una legge e logica propria, […], dovrà il traduttore, per intenderlo appieno, mettere in opera, oltre
quei due criteri, anche l’interpretazione tecnica adatta a sviscerare quei tipi di discorso e di pensiero.» p. 651.
(11) «In questa sede ci si occupa in maniera così dettagliata dell’idea di coappartenenza di questi due aspetti
[interpretazione psicologica e interpretazione grammaticale] proprio in quanto l’ermeneutica, nella scia
dell’interpretazione di Schleiermacher offerta da Dilthey, è stata successivamente spesso intesa come un’attività che
intende isolare l’aspetto psicologico. In questo modo si è prodotta la caricatura della cosiddetta ermeneutica
dell’empatia che si basa sull’immedesimazione fra anima e anima, ovvero su una comprensione umana delle profondità
che si rivela incontrollabile da un punto di vista metodologico.» Jung Matthias, L’ermeneutica, Il Mulino, Bologna,
2002, p. 57.
(12) Ivi, p.665.
(13) Ivi, p. 666.
(14) Emilio Mattioli, Ricoeur e Meschonnic sulla traduzione, «Testo a Fronte», n. 29, dicembre 2003, p. 30.
(15) Apel Friedmar, Il movimento del linguaggio, a cura di Emilio Mattioli e Riccarda Novello, Guerini e Associati,
Milano, 1997, p. 37.
(16) Ibid.
(17) Friedmar Apel, Il manuale del traduttore letterario, op. cit., p. 28.
(18) Ivi, p. 44.
(19) Apel Friedmar, Manuale del traduttore letterario, a cura di Emilio Mattioli e Gabriella Rovagnati, Guerini e
associati, Milano, 1993, p. 44.
(20) Berman Antoine, L’épreuve de l’étranger, Gallimard Paris, 1984. [Berman Antoine, La prova dell’estraneo. Cultura
e traduzione nella Germania Romantica, Traduzione italiana a cura di Gino Giometti, Quodlibet, Macerata, 1997. Si farà
riferimento sempre a questa edizione].
(21) Berman Antoine, op. cit., pp.11-20. La stesura del capitolo risale al maggio del 1981.
(22) Ivi, p.15
(23) Ibidem.
(24) Ivi, p.16.
(25) «Nel superamento rappresentato dalla finalità etica si manifesta un altro desiderio: quello di stabilire un rapporto
dialogico fra la lingua straniera e lingua propria. […] sono questi le tre assi che possono definire una riflessione
moderna sulla traduzione e i traduttori.» Ivi, p.20.
(26) «Perché la pura finalità della traduzione non sia solo un pio voto o un “imperativo categorico”, all’etica della
traduzione dovrebbe dunque aggiungersi un’analitica. Il traduttore deve “mettersi in analisi”, reperire i sistemi di
deformazione che minacciano la sua pratica e che operano in modo inconsapevole sul piano delle sue scelte
linguistiche e letterarie. Tali sistemi dipendono simultaneamente dai registri della lingua, dell’ideologia, della
letteratura e dello psichismo del traduttore.» Ivi, p.17.
(27) Ibidem.
(28) Ivi, p.19.
(29) Ivi, p.227.
(30) Berman Antoine, La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain, Seuil, Paris, 1999. [Berman Antoine, La
traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, traduzione italiana e cura di Gino Giometti, Quodlibet, Macerata,
2003]. Durante la trattazione di questo saggio si farà riferimento all’edizione italiana.
(31) «Poiché cercare degli equivalenti non significa solo stabilire un senso invariante, una idealità che si esprimerebbe
nei diversi proverbi da lingua a lingua: significa rifiutare di introdurre nella lingua traducente l’estraneità del proverbio
originale, la bocca piena d’oro dell’ora mattutina tedesca, significa rifiutare di fare della lingua traducente “l’albergo
nella lontananza”, significa, per noi, francesizzare: vecchia tradizione.» Ivi, p.14.
(32) Ivi, pp.13-14.
(33)
1. Razionalizzazione. È un modo di tradurre che deforma l’originale secondo un’idea pregressa di linearità. In base a
questa tendenza il traduttore tende a linearizzare logicamente e razionalmente un originale che trova nella
“ramificazione” o nell’imperfezione sintattiche il proprio stato artistico. La razionalizzazione opera sulle strutture
sintattiche e di punteggiatura, ma anche sull’ambizione alla concretezza del testo da tradurre poiché astrattezza e
generalizza un discorso che era tesa alla ricerca della materialità.
2. Chiarificazione. Chiarisce proposizioni e concetti che nel testo originario si muovevano nell’indefinito, tende a
rendere chiaro ciò che non voleva esserlo. Corollario della razionalizzazione, la chiarificazione opera nel passaggio dal
polisemico al monosemico e da un parafrastico ad un altro.
3. Allungamento. Spiega, allugandolo, il testo di partenza e rilassa la ritmica dell’opera. Ciò comporta una variazione
dell’uniformità relativa alla lunghezza o alla frammentarietà del sistema di partenza. Non ha una base linguistica ma è
una tendenza inerente al tradurre.
4. Nobilitazione. Retoricizzazione per la prosa, poetizzazione per la poesia, tende a riprodurre l’originale in maniera più
bella, inserendo nell’atto traduttivo una valutazione estetica basata sulle categorie del traduttore. Inoltre ri-scrive
l’originale producendo frasi eleganti per nobilitare l’opera tradotta e ricorre a falsi patois nel caso voglia volgarizzare
un testo.
5. Impoverimento qualitativo. Riguarda l’iconicità terminologica, espressiva e strutturale del testo di arrivo poiché
sostituisce alla significatività originaria la denotazione.
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6. Impoverimento quantitativo. Dispersione lessicale, opera un impoverimento dei significanti nel testo d’arrivo e
riguarda il numero lessicale; in molte traduzioni, ad esempio, i sinonimi vengono unificati.
7. Omogeneizzazione. «Essa consiste nell’unificare su tutti i piani il tessuto dell’originale, allorché questo è
originariamente eterogeneo». Berman ammette che questa tendenza raggruppa la maggior parte delle precedenti.
8. Distruzione dei ritmi. Modifica i ritmi del testo prosastico e poetico.
9. Distruzione dei reticoli significanti soggiacenti. Il sottotesto costituisce parte della significatività e della ritmica
dell’opera; anch’esso però intrattiene delle relazioni con le sottoparti. Le relazioni soggiacenti di un’opera, in
traduzione, vengono spesso sottaciute.
10. Distruzione dei sistematismi. Vi è compreso il concetto di sistema in senso moderno visto il fatto che quello si
estende non solo al livello dei significanti ma concerne l’impiego dei verbi o delle subordinate. La «scrittura-dellatraduzione», operando una chiara tendenza omogeneizzante nello stesso tempo appare incoerente, mostrando la asistematicità della scrittura di arrivo. Ne consegue che una scrittura traducente desistematizza la scrittura tradotta.
11. Distruzione o esotizzazione dei reticoli linguistici vernacolari. É una delle tendenze più importanti in quanto
concerne un ambito che, nelle letterature europee è molto utilizzato; l’elemento vernacolare è uno degli indici di oralità
e di concretezza, di testualità del testo tradotto. La soppressione dei reticoli vernacolari è attuata in vari modi ma in
particolare attraverso soppressione di diminutivi, sostituzione di verbi attivi con verbi uniti a sostantivi, trasposizione di
significanti vernacolari. La tentazione di conservare l’elemento vernacolare del testo dà luogo all’esotizzazione: o
isolando ed esagerando l’elemento vernacolare oppure utilizzando un vernacolare locale per sostituire lo straniero:
«Solo le koinè, le lingue “coltivate”, possono tradursi l’un l’altra. Una simile esotizzazione, che rende lo straniero di
fuori con quello di dentro, finisce solo per ridicolizzare l’originale.»
12. Distruzione delle locuzioni. Le locuzioni, come i proverbi, sono il banco di prova della traduzione letterale. La
tendenza alla distruzione delle locuzioni per mezzo dell’equivalente in lingua finale, distrugge la lettera – la parlanza –
dell’opera a vantaggio del senso, ma propone una traduzione etnocentrica.
13. Cancellazione delle sovrapposizioni di lingue. Elimina l’eteroglossia e l’eterofonia scaturente da sovrapposte koinè,
conscie o inconscie, dell’opera.
(34) Ivi, p.60.
(35) Benjamin Walter, Il compito del traduttore, op. cit.
(36) Lévinas Emmanuel, Totalità e Infinito, Jaka Book, Milano, 1980.
(37) «Aprire è più che comunicare: è rivelare, manifestare. Si è detto che la traduzione è la “comunicazione di una
comunicazione”. Ma è ancor più. Essa è, nell’ambito delle opere (che qui ci riguarda), la manifestazione di una
manifestazione. Perché? Perché la sola definizione possibile di un’opera non può avvenire che in termini di
manifestazione. In un’opera è il “mondo” che, ogni volta in maniera diversa, è manifestato nella sua totalità. […] La
manifestazione che l’opera è, verte sempre su una totalità. Essa è inoltre manifestazione di un originale, di un testo
che è primo non solo in rapporto ai suoi derivati tranlinguistici, ma primo nel proprio spazio di lingua. […] L’obiettivo
etico, poetico e filosofico della traduzione consiste nel manifestare nella sua lingua questa pura novità preservandone il
volto di novità. E anche, come diceva Goethe, nel dargli una nuova novità allorché il suo effetto di novità si è esaurito
nella originaria area linguistica.» Ivi, pp.62-63
(38) Ivi, p. 64.
(39) Hölderlin, o la traduzione come manifestazione, pp.65-80; Chateaubriand traduttore di Milton, pp.81-95; L’Eneide
di Klossowski, pp.97-119.
(40) Berman Antoine, La prova dell’estraneo, op. cit.
(41) Giometti Gino, Martin Heidegger. Filosofia della traduzione, Quodlibet, Macerata, 1995, p.52.
(42) Ivi, p.101.
(43) Ivi, p.117.
(44) Berman Antoine, La prova dell’estraneo, op. cit. p. 271.
(45) Ricoeur Paul, La traduzione. Una sfida etica, a cura di Domenico Jervolino, Morcelliana, Brescia, 2001.
(46) Ivi, p.49.
(47) Ivi p. 79. In precedenza Ricoeur scrive: « Sul piano propriamente spirituale, [la traduzione] invita a estendere lo
spirito della traduzione al rapporto tra le stesse culture, ovvero ai contenuti di senso trasmessi dalla traduzione. Di qui
il bisogno di traduttori da cultura a cultura, di bilingui culturali, in grado di accompagnare quest’operazione di
trasferimento nell’universo mentale dell’altra cultura, tenendo conto dei suoi costumi, delle credenze di base, delle
convinzioni principali – dei suoi riferimenti di senso.»
(48) Ricoeur Paul, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, traduzione italiana di G. Grampa, Jaka Book, Milano,
1989, p.28.
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Le traduzioni dei poeti
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DEL TRADURRE: QUATTRO TESTIMONIANZE SINGOLE + UNA DOPPIA
Due aneddoti, per incominciare, con funzione eziologica e scaramantica. Primo:
“Lo sai perché Pavese s’è ammazzato? Veramente?” Chiese Giampaolo Dossena durante uno dei nostri
primi colloqui alla Rizzoli, nel 1964.
“No”.
“Perché faceva il traduttore”.
Come traduttore, sia pure in erba, come allora si diceva, mi pare, senza temere di incorrere nell’accusa di
leziosaggine, preferii non accertarmi se l’enunciato avesse qualche fondamento di verità, o se fosse
soltanto uno dei cento modi che hanno i redattori smaliziati di tormentare quelli alle prime armi.
So soltanto che un paio d’anni dopo lo stesso Dossena respingeva, implacabilmente e, bisogna però che
aggiunga, giustamente, la mia prima traduzione di un libro intero: Metateatro di Lionel Abel, un saggio
così così che io, vittima di profonde insicurezze, non ero neppur riuscito a far diventare così cosà. Avevo
accolto in italiano stilemi assolutamente non frequentabili... perché c’erano nell’originale. Non avevo
messo in pratica quel che io stesso avevo predicato rivedendo traduzioni altrui. Se in italiano non si dice,
non bisogna dirlo.
Secondo: A Roma qualche anno dopo, quando ormai un po’ di gavetta l’avevo fatta, ebbi la dabbenaggine
di accettare un’offerta impudente fattami da un editore (si fa per dire) impudente: Gherado Casini,
passato dalla mediocrità ai tascabili nelle edicole.
“Fammi un Typhoon. Hai tre settimane”.
Facendomi aiutare da una santa donna di madre lingua inglese giunsi a tappe forzate al termine della
breve e per me, come si vedrà, vergognosissima avventura. Nella fretta rimase fuori dal manoscritto,
cioè finì nel cestino della carta straccia, proprio la pagina in cui Conrad descrive lo sconquasso del tifone.
Il redattore (maneat iniuria verbis)... ci pensò lui a inserire una frase di raccordo. Non fui avvertito. Attesi
con fatica e dolore i pochi quattrini e mi lamentai per qualche tempo con gli amici che incontravo in
trattoria e a cui poco importava, di Casini, di Conrad e di me. Roma era, in quel tempo, la capitale
italiana della cialtroneria editoriale. Ha perso in tempi recenti questo primato, essendosi la cialtroneria
diffusa senza quartiere in tutta penisola. Vivo ancora oggi quest’incidente come un’offesa, come
un’umiliazione.
Da molti anni, se dio vuole, non traduco più per bisogno; e dunque traduco quel che mi pare. Faccio delle
proposte (quasi sempre di testi poetici) a editori che quasi sempre le rifiutano o che non hanno i soldi per
pubblicarle. Due eccezioni: Cesare de Michelis della Marsilio e Antonio Riccardi della Mondadori.
Il primo pubblicò le mie versioni di La sacra Emilia e altre poesie di Gertrude Stein e però poi si rivalse
incatenandomi, e chissà ancora per quanto tempo, al dolcissimo tormento di tradurre, e anzi di
ritradurre, The Piazza Tales. ovverosia i Racconti della veranda di Herman Melville. Melville è assai meno
generoso di Gertrude Stein. È anzi uno schiavista dello stile. La Stein gioca e ti invita a giocare. Melville ti
aggioga. Se ti fai sedurre dal gioco delle tappe di avvicinamento all’originale (ed è inevitabile che ciò
avvenga), dopo non c’è più verso di accontentarsi (1).
Per fortuna che c’è uno scrittore piemontese di successo immediato incline ai barbari e alle sete (tanto
per non fare nomi) che lo sta prosciugando a dovere. Lunga vita alla democrazia! Ma non bisogna
aspettare che tutti capiscano che questa paccottiglia non è Melville, per ridare vita all’obbligo e alla
responsabilità del tradurre. La sfida comincia dal non pensare che Call me Ishmael e Mi chiamo Ismaele
siano sintagmi equivalenti. Sono piuttosto il contrario l’uno dell’altro. Chiamatemi Ismaele... E’ cosi che
voglio farmi chiamare... ma io mi chiamo in un modo che non voglio che si sappia. Un caso di
nominazione, questo, che farebbe impensierire Walter Benjamin (2).
Mi sembra un buon caso di ascolto delle implicazioni del linguaggio, cioè di quell’attività noetica per cui ci
si accorge dello spaventoso abisso che separa l’enunciazione dall’enunciato. Un altro caso potrebbe
essere quello proposto da Heidegger nel commento alla poesia La parola di Stefan George che sta al
centro del suo L’essenza del linguaggio. A proposito del verso “nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca”, il filosofo tedesco rovescia il senso di una lettura motivata da un semplice rapporto di referenza
(per cui la cosa incomincerebbe a rendersi percepibile e a circolare quando incontra la parola che la mette
in essere) e risale invece a quella meraviglia per cui la parola è sì ma solo nel dire. “... La parola non si
limita a essere in rapporto con la cosa [...] ma è ciò che porta e serba la cosa come cosa; [...] la parola,
in quanto ciò che porta e serba, è il rapporto stesso.” E si può dunque concludere che nessuna cosa può
essere laddove la parola cessa di essere rapporto per diventare cosa.
Credo che siano fondamentalmente di questo genere le ragione per cui Melville è tanto più sfuggente e
difficile da tradurre della Stein. Nella Stein la parola è piuttosto un oggetto. È come un pezzetto di lego:
va montato e rimontato. Con Melville non è che non si incontrino occasioni di gioco, ma queste non sono
71
mai il motore centrale dei procedimenti di significazione. Per meglio dire: il referente non è il risultato di
un’attività plastica, di un montaggio (lo scrivere dipingendo della Stein). L’astrazione collabora in Melville
con la cosa da cui si astrae. È, a parte le difficoltà terminologiche (il gergo marinaresco) una lotta
immane tra lo scrivere che si scrive mentre si scrive e lo scrivere che scrive di qualcosa . Così, a un
dipresso, si era espressa la Stein medesima a proposito di Henry James, ma mi pare che vada bene
anche (soprattutto) per Melville (3). L’importante è ricordarsi che in questo genere di scrittura che
racconta senza perdersi di vista, la verità va e viene: una volta sta nel raccontato e una volta nel
raccontare e qualche volta in entrambe le opzioni.
Melville e la Stein sono comunque, per me, riti perenni di iniziazione. Sono e restano (spesso mischiando
le proprie istanze e i propri tranelli) i miei instancabili banchi di prova. Melville su di un piano meno
immediato; più che come maestro di bottega come filosofo operante nel livello poetico del linguaggio. Nel
tradurlo mi barcameno tra due pericoli: il seguirlo e l’inseguirlo. La differenza tra i due è di sostanza. Si
segue quel che si pensa di riconoscere. Si insegue ciò che vuol farsi conoscere prim'ancora di
manifestarsi. Ma poiché sono giunto sì e no a metà del guado, con Melville, preferisco non dire altro e
invitare il lettore a condividere con me un febbrile stato di allerta.
Il secondo anfitrione è stato, come più sopra accennato, Antonio Riccardi, il quale non ha battuto ciglio (e
anzi ha sorriso) all’idea di gettare uno sguardo “leggero” sul mondo poetico americano degli ultimi
trentacinque-quarant’anni per vedere ciò che di nuovo è emerso da quel panorama, senza ignorare ciò
che deve la propria esistenza a energie e influenze esterne o anteriori ad esso (4). L’opera è in corso e la
sto conducendo insieme a Paul Vangelisti della cui collaborazione con me parlerò più avanti. Per ora basti
dire che, ispirati, ancora una volta da Getrude Stein, e cioè dalla sua istigazione a pensare la storia in
termini di geografia, ci siamo convinti che i luoghi di appartenenza lascino tracce evidenti nella scrittura
(anche in quella poetica).
Ci è parso dunque plausibile, oltre che proficuo, adottare una tassonomia di ordine topografico:
suddividere gli autori sulla base del territorio fisico da essi scelto o, comunque volontariamente occupato.
Abbiamo preferito topografico a geografico, parendoci, il primo, più prossimo all’evocazioni di fattori
contingenti e culturali. Certi tratti “pop” e certe sviolinate aritmiche ci sono parsi più “pop” e più aritmiche
a Los Angeles che a San Francisco o a New York, etc. Ma, anche qui, il criterio adottato non diventa mai
una camicia di forza e dunque non impedisce, quando sia necessaria, la messa in luce di comuni
denominatori stilistici o tematici o retorici etc.
L’egida sotto cui abbiamo inscritto le poesie di Los Angeles è quella che ormai tutti conoscono, e cioè
quella del posto che non c’è (Il Big Nowhere di Ellroy). Una cupola buona per le poesie di San Francisco ci
è sembrato invece di poterla trovare nel carattere utopico di questa città che potrebbe essere... quello
che è. Di New York possiamo dire per il momento che l’ombrello buono potrebbe essere quello di un
posto che pensa di esserci e di contare perché è convinta di essere stata. Questo spiega come mai
mangiare un hot dog sulla Quinta Avenue sia diverso che mangiarlo a Topeka (Kansas). Ma è chiaro che
si tratta di una topograficità problematica che mostra troppo spesso la corda (specialmente in prossimità
della morte).
Per Chicago non sappiamo ancora bene: ma c’entrerà di sicuro l’idea del Realismo che in America e’ quasi
sempre assurdo, cervellotico, né plausibile come esperienza, né accettabile sul piano della logica.
Abbiamo qualche problema per il Sud. Sarebbe inopportuno sfruttare la tragedia di Katrina e scegliere
come emblema New Orleans? In realtà gli stati del Sud (dove conta ancora l’idea molto nostalgica della
secessione), hanno fondamento culturale agricolo, di campagna. Andrebbe dunque bene una città
giardino: Richmond, per esempio, o Charleston, che non sono vere città industriali e tanto meno postindustriali.
Ci sarà poi un volume conclusivo intitolato a Washington (District of Columbia), capitale dell’impero, città
dei pescecani e dei lobbisti, città inventata a tavolino, sede ufficiale del vanverare linguistico, luogo di
respinta ufficiale della poesia (vi nominano infatti, ogni anno, un poeta laureato). Sotto il toponimo di
Washington può starci di tutto: dal Nuovo Messico, alla Nuova Inghilterra. Per farsi iscrivere in questa
rubrica bisogna comunque, e prima di tutto dimostrare di voler resistere alle bordate dell’omologazione,
secondo uno stile diffusamente, (non universalmente) americano: insomma secondo quella “tipicità”
americana che si coglie “da fuori”.
Quest’impresa della poesia americana, (con la quale siamo già dentro il solco della prima testimonianza)
è, devo dire, quella in cui mi sento più a mio agio, come traduttore, o revisore di traduzioni. Muovendomi
dall’inglese all’italiano, oltretutto, vado più sul sicuro. Anche se sicuri non si può essere mai, ovviamente.
E la non sicurezza funziona spesso come un bene. Primo perché ti toglie dalla faccia il sorriso di
compiacimento che tende a installarvisi quando un’equivalenza interlinguistica (semantica o retorica) si
affaccia all’orizzonte, e, secondo, perché ti ricorda che parlare bene le lingue non è necessariamente un
segno di intelligenza e comunque non coincide affatto con il conoscerle sul serio.
Quel che conta, in fatti, è capire il senso profondo che emerge dal dire in una lingua e che non può
essere tralasciato, o inteso come ingombro. E per tale senso credo che si possa intendere la qualità
dell’affetto (dove sta memoria, avrebbe aggiunto Ezra Pound, citando in parte Guido) che lega un
significante al suo referente, qualità e, dunque, differenza, in cui abita il vero significato. E qui torniamo
per un attimo alla Stein la cui eredità è visibile in Ron Silliman quando scrive “Be wood” e cioè a prima
vista “Sii legno”. Ma il contesto sconsiglia una tale specularità per cui giustamente il suo traduttore,
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Gialuca Rizzo, ha pensato a “Be would” (stesso suono), rovesciamento di “Would be”: la qual cosa
verrebbe a dire “Sarebbe”; e però, non potendosi ignorare la metatesi testé scovata, quel che leggiamo
alla fine è “Ebbe Sara”, una soluzione lontana mille miglia dalla materia della grammatica (e della
morfologia) e perfettamente idonea alla leggerezza, all’andirivieni, al “rapporto” in cui la parola invera il
proprio pensiero poetico (5). E non è detto neppure se Sara sia l’oggetto avuto da qualcuno (che rimane
a sua volta innominato) o se si tratta di una prolessi. (Con Sara che diventa il soggetto posposto della
minuscola proposizione).
Un altro caso “steiniano” può dirsi anche il breve distico “voice ink / voice-nik” di Brenda Hillman,
magistralmente reso da Francesca Leardinini con “Voce inchiostro / evoc-inchiostro” (6). Quel che
succede, nella traduzione, è che l’attenzione viene a concentrarsi sull’anagramma di voice (voce – evoc)
anziché su quello di ink. (nik) che è però desinenza “evocativa” (sputnik, beatnik). Il miracolo è dunque
che l’inchiostro e la voce continuano a proporsi, anche in italiano, nella loro funzione evocante. La
differenza è che in traduzione tale funzione è dichiarata, laddove nell’originale essa si manifestava in re.
Quest’idea del trattenere la qualità del rapporto parola-cosa, cioè del mantenere in vita lo “stretto
indispensabile” che collega le due realtà cominciò a diventarmi chiara dopo le prime escursioni che feci in
questa “palude”della poesia americana che per me ha tutta l’aria di essere diventata definitiva. Risalgono,
tali escursioni, alla metà degli anni ‘60 quando pubblicai, sulle pagine del Marcatrè, (7) alcuni testi non
impervi di Charles Olson e di LeRoi Jones (oggi Amiri Baraka). Ma fu solo nel 1969, con la traduzione (per
Guanda) di Kora all’inferno di William Carlos Williams che il furioso e doloroso apprendimento insito nel
tradurre si manifestò sotto le spoglie non mentite del godimento. Kora fu la prima delle mie traduzioni
che non mi recò nessun fastidio retroattivo. Mi piacerebbe, in effetti, aver cominciato da lì. Era infatti la
prima volta in cui il lavoro di traghettamento lessicale, contestuale e, se si potesse dire, perfino
metalinguistico, mi appariva come qualcosa di utile non solo per gli eventuali lettori, ma prima di tutto
per me stesso. Tradurre era diventato la mia grammatica trasgressiva, rispetto, mettiamo, alle
grammatiche normative (oramai) dell’avanguardia in seno a cui erano sbocciate le mie prime (e
comunque tardive prove di scrittore e poeta). Cioè mi sentivo spinto in quella direzione... in realtà, prima
che potessi trarre profitto da quelle esperienze dovettero passare molti anni, durante i quali riuscii solo a
chiudermi in un caparbio e nevrotico silenzio. Ma non fu un silenzio totalmente arido. Una ventina d’anni
dopo, quando la lunga criolizzazione cominciava a dare segni di scioglimento, ebbi addirittura la temerità
di scrivere:
“Contrariamente a quel che capita per gli autori facilmente traducibili, i quali andrebbero sempre
frequentati (qualora proprio se ne avvertisse il bisogno) nei testi originali, un autore “intraducibile” è
sempre meglio leggerlo in traduzione. E non intendo solo da parte di chi, non conoscendo un certo
idioma, si credesse costretto a fare di necessità virtù, ma anche, e aggiungo, sia pure con qualche
ritegno, soprattutto, da parte di coloro che, conoscendolo anche troppo bene, corrono il rischio di non
sapere più godere delle capriole, delle complicazioni, degli “arrangiamenti” con cui un autore
splendidamente capriccioso e delittuosamente irrinunciabile – mi riferivo partitamente a Gertude Stein –
ha voluto dare a quell’idioma un andamento fuori del normale. (8)
Rileggendo oggi queste parole, per immodeste che siano, mi pare di poter ancora sottoscrivere tutta la
loro paradossale irruenza: l’unica avvertenza è, giova ripetere, che sono certamente autoriferite. In
sostanza per me la traduzione non è più un perdersi, un farsi stiracchiare di qua e di là, ma un ri-trovarsi.
Questo funziona quando si affrontano autori o affini o utili alla propria libertà. E così per restare nella scia
dei poeti contemporanei che vado voltando in inglese in questi anni o sui testi dei quali agisco come
episcopo, vorrei approfittare di queste pagine per rendere un “sentito omaggio” a un poeta come Philip
Whalen (9) da cui ho imparato a contraddirmi, cioè a non farmi ricattare dalle premesse (ciò che è vero
in un dato momento e clima, può, in altro clima e in diverse circostanze, elargire energia al proprio
contrario, anche all’interno di un’unica elaborazione poetica) e a Bob Crosson (10) da cui ho imparato a
dimenticare la materia dichiarata del proprio racconto, cioè a configurare la storia dei fatti all’interno di
esigenze psichiche sopraggiunte e messe in risalto dall’abbandono, dal venir meno dell’interesse per
l’impresa... intrapresa.
Ma è ormai gran tempo che si affrontino le successive testimonianze. La seconda riguarda le traduzioni
che ho fatto di me stesso dall’inglese (in cui mi ero peritato di scrivere) in italiano. Questo significa
dipingere se stessi come poeti bilingui. Solo che il bilinguismo poetico è, per fortuna, un’illusione. Il fatto
è che una delle due lingue è, per forza di cose, seconda. E ciò significa che chi se ne serve ha a
disposizione un maggiore quantità di insicurezza (rispetto alla lingua prima). Vero è che, prima o seconda
che sia, una lingua, in poesia, deve essere comunque lasciata libera di dire e di dirsi; ma è altrettanto
vero che l’eccitamento che scaturisce dall’impiego di semantemi familiari e ignoti allo stesso tempo è più
ampio e variegato nell’impiego della lingua seconda: quella che si è in grado di controllare di meno
Nella lingua seconda capita più spesso che nella prima, non solo di pensare di sapere quale sia il senso di
una determinata espressione (che poi si rivela erroneo), ma di usare con impunità espressioni che
funzionano perfettamente senza che se ne possieda il senso. È così che per istigazione di Filippo Bettini, è
venuto al mondo, nel 1996 presso l’editore Quasar di Roma, Shakespeherian Rags/Stracci
Shakespeariani, un testo che già nel titolo denuncia la sua anfibia natura. Grazie al raddoppiamento
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sillabico in shakespeherian (un cospicuo prestito dalla Terra desolata di T.S. Eliot) il termin rag aggiunge
un valore musicale (rag-time) all’originale accezione sartoriale (rag = straccio, straccio d’un vestito etc.).
Ma per l’appunto in Italiano è solo questo senso sartoriale che viene mantenuto.
L’idea dell’autotraduzione in realtà non fui veramente capace di condurla fino in porto, non nel modo
previsto, quanto meno. Gli stracci shakespeariani essendo tutti rigidamente strutturati come sonetti di
pentametri giambici (breve lunga, breve lunga etc.) non ci fu verso di volgerli in endecasillabi. Può anche
darsi che il pentametro giambico abbia avuto in inglese una frequenza pari a quella che ha avuto in
italiano l’endecasillabo, ma i due versi non hanno assolutamente nulla in comune. Per assaporare la
difficoltà in cui mi dibattevo potrebbe illuminante leggere in proposito quel che sul rapporto metricacanto-poesia ha scritto Giuseppe Ungaretti in un suo celeberrimo saggio:
In quegli anni, non c'era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno, una
poesia in versi. Non esisteva un periodico, nemmeno il meglio intenzionato, che non temesse ospitandola,
di disonorarsi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria a me pareva, invece, una àncora di salvezza:
io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o
quello del Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi:
cercavo in loro il canto. Non era l'endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che
cercavo: era l'endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della
lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e così
diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari ciascuna nell'esprimere pensieri e
sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia col battito del cuore dei miei
maggiori di una terra disperatamente amata.
E allora ricorsi anch’io alla prosa, alla prosa cosiddetta poetica che oggi, mi pare, è di gran moda, una
prosa marcata da battiti e battute.
Credo che abbia ragione Maurizio Cucchi quando dice che la prosa poetica dovrebbe essere scritta
inseguendo il suono che ha una poesia in versi quando il poeta la legge, alleggerendo cioè la distinzione
tra unità metriche e unità di senso. La prosa poetica sarebbe dunque una lettura scritta della poesia in cui
la metrica non funge da controcanto rispetto al senso, non ne determina l’enfasi, ma ne è, per così dire,
l’ipostasi. Io, per lo meno ho capito così. E negli Stracci shakesperiani è venuto fuori che
diventasse:
“Fondling, she sayth,” but in that tone of voice
that Garbo was to flaunt in mide career
when lamentation was not yet lament,
and “ haved hemmed thee here” could shift from sweet
rebates to flagellation.
“Dolcezza, dice lei,” con quella voce che una Garbo ti sapeva tirare fuori a metà della sua carriera,
quando il lamento non era ancora una lagna e “ti ho irretito qui” poteva trasformarsi da un dolcissimo
risarcimento in flagellazione. (11)
E ora, per procedere alla terza “aberrazione” che è anche la terza testimonianza singola, bisogna che tiri
in ballo Guido Cavalcanti. Preso da un entusiasmo che tuttora non accenna a diminuire per la folle
esiguità lessicale e sintattica del dialetto milanese, ma soprattutto per la sua rocciosa durezza, volli
misurarmi con la profonda e astuta leggerezza del corpus cavalcantiano (e non del personaggio storico
che porta il suo nome a cui, dopo le Lezioni americane di Calvino, viene corrivamente assegnata).
Trasferire Cavalcanti in milanese vuol dire in primis mettersi in una posizione sado-masochista. E cioè
trarre godimento dall’idea di piegare e riforgiare una materiala ostile che, comunque, alla fine non si
lascia né piegare né riforgiare. Il cavalcantiano:
Tu m’hai sì piena di dolor la mente
diventa nel mio milanese:
Ti de dolor te m’ee impienì talment.
Mente è sostantivo di altissima frequenza nello stilnovista; è, notoriamente, una delle sue parole chiave.
Ora ment non è che non esista in milanese, ma è termine logoro e svilito. È frequente solo in locuzioni
come Fagh a ment, Avegh in ment che vengono a voler dire, bada, fai attenzione, e aver intenzione di:
garanzie frastiche che o scivolano nella melma delle espressioni fatiche, delle zeppe riempitive, o sono
vincolate a modalità espressive fisse e invalicabili. Se mente in Guido vuol dire sede dell’attività
intellettiva (ma per lui bisognerebbe dire sensivita o razionale inceppata), si potrebbe supporre di poterla
trasporre in cou, e cioè in testa, come si evince da Ste gh’et in del cou? (Ma cos’hai nella testa?) Ma
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anche cou, a non dire del suono (più sordo che cupo) ha profilo basso, dozzinale. Ed è maschile (sarebbe
un disastro ignorare questa differenza di gender) È sorprendente quanto sia generica la terminologia
meneghina delle attività pensative! E allora, parendomi che il dolore derivante dallo scacco subito dal
pensiero sotto l’influsso di amore, fosse, in milanese, di difficile collocazione ho preferito ribadirne la
presenza con un rafforzativo modale. Talment si offriva spontaneamente allo scioglimento della difficoltà.
Da un lato il suono del significante ment si fa sentire chiaro e tondo. Dall’altro, rintanato nella sua culla
avverbiale, non rischia di arrogarsi funzioni incongrue. In sostanza, il fatto di evitare la presunta
specularità in cui sarebbe facile cadere (mente = ment) mi sembra che consenta alla lingua ospitante di
mantenere viva la peculiarità di quella ospitata.
La smania del tradurre dal toscano in milanese (di Porta Ticinese), ma anche dallo scrivere direttamente,
e con rigore filologico, in dialetto (vedi Che Oror l’Orient) (12) si è alla lunga tramutata in voglia di
sapore regionale, e anche adesso con la Trilogia germanica (i primi vagiti sono apparsi nell’ultimo numero
de l’Almanacco dello specchio) sto cercando di fabbricarmi uno strumento che non dissomigli da quello
che aveva in testa il Baldassar Castiglione quando scriveva che era meglio scrivere da lombardo essendo
lombardo piuttosto che come toscano non essendolo. Ma questo col tradurre c’entra poco per cui passerei
senz’altro alla quarta insula del mio arcipelago di traghettatore.
E qui si parlerà del mio ruolo di facilitatore e di consulente (ruolo in cui mi trovo calato sempre più
spesso, e che non è slegato da quello di docente di testi poetici contemporanei). In questo settore
dell’andirivieni tra italiano e inglese la superficialità è talmente diffusa che viene da piangere. Per un
eccellente Michael Moore o per una straordinaria Murtha Baca ci sono decine di rimestatori e grassatori da
strapazzo. Di commettere errori, anche grossolani, capita a tutti (me compreso). Ma come si dice, est
modus in rebus. Il problema non nasce mai dal non sapere, ma dalla presunzione di sapere. Insomma c’è
al mondo un sacco di gente che pensa di conoscere la lingua da cui traduce, la quale, contrariamente a
quel che sostiene Diderot – in un suo fine paradosso, e cioè che non sia necessario intendere una lingua
per tradurla, in quanto che la si traduce per dei lettori che ne sono digiuni anche loro – non rilascia i suoi
segreti se non a patto di esercitare su di essa una curiosità anche maggiore di quella con cui ci si
dovrebbe rapportare a quella in cui si traduce.
Ma questa condizione di totale ignoranza è, ai tempi nostri, insostenibile. Le spie (non quelle che vengono
dal freddo, ma quelle linguistiche) sono dappertutto e a portata di mano. I muri hanno non solo orecchi,
ma anche occhi. E, allora, per fare un esempio tra mille, se Adriano Spatola usa, in un suo breve
componimento, il verbo stagliare (nel senso che si può stagliare contro il cielo il profilo di qualche cosa) e
il suo traduttore americano lo rende con il verbo to slice (tagliare, fare a fette, come se si trattasse di un
salame di Varzi), ne nasce sicuramente ilarità, ma è dubbio che essa basti a compensare dell’offesa
inflitta al testo originale (nonché alla memoria del poeta scomparso). Né il consuntivo diventa meno
catastrofico quando si prendono in esame le traduzioni dei poeti americani contemporanei fatte “alla
macchia” in Italia, cioè da editori tipografi volonterosi, ambiziosi e impreparati. Generosi ma impertinenti.
Con loro non ci si allontana mai troppo dagli esilaranti equivoci degli anni cinquanta quando gli
appuntamenti mancati (missing dates) potevano diventare datteri mancanti (missing dates) e i cepugli si
poteva batterli attorno (to beat around the bush) ogni volta che si intendave menare il can per l’aia (to
beat around the bush).
Ma per restare con i poeti italiani in America vorrei segnalare un problema costante che si ripresenta
puntualmente grazie alla “naturale” proletticità del discorso italico: non si tratta neanche tanto di
rispettarlo. Basterebbe accorgersi della sua presenza e misurarne di volta in volta la pregnanza eristica. È
chiaro che nei casi in cui due letture sono possibili, una prolettica e una no, prendere a destra piuttosto
che a sinistra (nel tradurre) può essere questioni di vita o di morte testuale. Prendiamo il caso di un
classico testo ungarettiano: l’amore non e’ più quella tempesta etc. Nella prima strofa il poeta denuncia il
venir meno delle battaglie amorose e si chiude con la presenza di una virgola di sospensione seguita da
un cospicuo spazio bianco. La seconda strofa attacca con un verbo: balugina da un faro verso cui va
tranquillo (cito a memoria) il vecchio capitano. Il problema non potrebbe essere più chiaro: o balugina è il
predicato verbale di amore (quello lontanissimo della prima strofa) oppure è il predicato del vicino (e
prolettico) vecchio capitano. Nel primo caso il testo non dice nulla di sorprendente. Non è che la conferma
di una deplorevole e verificabile condizione umana: più vecchiezza = meno tempeste amorose. Nel
secondo caso abbiamo invece un capitano che balugina e che va verso un luogo (il faro) da cui viene.
Questo ha tutta l’aria di un busillis più redditizio, più produttivo. Intanto è magnifico che un capitano
balugini assorbendo in sé, sia pur debolmente, la luce di un faro. E poi che stupenda ed energetica
contraddizione in questo flebile ma lancinante desiderio di rifare la strada a ritroso, desiderio che può
sprigionarsi solo se i versi vengono letti e accolti, prima di tutto, per il modo in cui sono stati scritti e
battuti e giostrati e forgiati.
Alla luce di esperienze di questo genere ho accettato di fare da spalla a Patrick Rumble dell’Università del
Wisconsin, che è alle prese con una nuova versione di Girl Named Carla di Elio Pagliarani. Farà parte di A
Girl named Carla and Other Poems che uscirà presso Agincourt (New York), nell’autunno di quest’anno.
E adesso, per concludere, la testimonianza doppia. È doppia perché coinvolge il poeta e traduttore
americano Paul Vangelisti. Lavoro con lui ... o è lui che lavora con me? Chi di noi è Gianni e chi di noi
Pinotto? Ce lo siamo chiesti spesso, dopo lunghi e perniciosi conflitti. Sono ormai anni che collaboriamo
sui due versanti del crinale e siamo ormai convinti che le traduzioni a quattro mani si facciano non tanto
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con un collaboratore quanto contro di lui. Il problema nasce dal fatto che nell’esagitazione del tradurre
(certo non nella serenità di una happy hour) ci convinciamo ogni volta di sapere la lingua dell’altro non
solo meglio di quanto lui conosca la nostra, ma di quanto lui conosca la sua. Ma non tutte le fratture
vengono per nuocere, e quando uno dei due si arrende alla competence dell’altro (ma sempre con
qualche salutifero dubbio intorno alla performance) allora, nel comporsi della cura (e non della curiositas)
vengono fuori chiaramente i vantaggi. In generale le rese avvengono sul piano del ritmo finale che il
testo acquista nella lingua allofona. Intorno al senso gli accordi si riesce a raggiungerli un po’ più
facilmente. E, anche qui, basti un esempio...
Se Ray DiPalma apre il suo Paving the River con Substantiation only an afterthought e io riconosco nel
primo termine solo una dejezione nominale del verbo to substantiate (e cioè dare sostanza alla propria
tesi, in una parola: dimostrarla) e mi lascio sfuggire il senso che il termine ha in ambito cristologico
(presenza del corpo di Cristo nel pane dell’eucarestia e, dunque, Ipostasi) il discorso va letteralmente a
farsi benedire. Grazie all’intervento di Vangelisti invece il malcapitato “prendere corpo” proposto in prima
battuta, potrà ora rifluire nel suo giusto alveo teologale. Purtroppo, e proprio nella veste di quella prima
battuta, il testo ha già visto la luce in Italia, grazie ai tipi di un editore veramente raffinato che ha avuto
la bella pensata di ringraziarmi nella pagina delle scritte d’obbligo “per l’inestimabile aiuto” da me dato
alla traduzione. Ora tutti sanno (e sapevano) che io il testo non solo non l’avevo rivisto , ma che, per
motivi diversi, mi ero categoricamente rifiutato di discuterlo con Vangelisti.
“Ecco il giudizio uman come spesso erra”, scriveva l’Ariosto, con ottime ragioni. Non solo, connivente il
mio sodale, un tirannello editoriale fa scempio del mio nome e si fa beffe dell’accaduto (non una riga di
scusa)... impegnato come senz’altro sarà in qualche sua caccia alla volpe nello Yorkshire, ma ora che
desidero includere quel testo nel volume dei poeti di New York, mi tocca comunque intervenire
pesantamente con grave imbarazzo mio e del giovane traduttore (cui quell’aiuto era stato promesso e
anzi garantito). Non è tipico ma può capitare... come può capitare che due irlandesi escano
spontaneamente da un bar.
Mi domando quanto di questo importi a Gianni. E a Pinotto? E mi scuso per la buona dose di superciliosa
baldanza con cui mi sono, in pratica, confessato. Anche la confessione può essere vista come una sorta di
traduzione? Non lo escluderei. Ma devo ricordare senza un vero pentimento inginocchiarsi e tradurre non
ha nessun valore redentivo.Anche se questo, chiaramente, nulla toglie all’odore della santità che tale
attività può comunque procurare. Vedi Ser Ciappelletto.
Luigi Ballerini
New York, 30 dicembre 2006
Note.
(1) Ai problemi inerenti alle “Traduzioni italiane di Herman Melville e Gertude Stein” è stato dedicato il secondo
seminario sulla traduzione letteraria dall’inglese, tenutosi a Venezia, presso l’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti,
nel 1997.
(2) Vedi i suoi saggi sul linguaggio umano e sul compito del traduttore. E per quanto riguarda l’incipit melvilliano mi si
permetta di ricordare come nella trappola non sia caduto Ruggero Bianchi che ha tradotto, con giusta enfasi:
“Ishmael... chiamatemi così”. Vedi la sua edizione di Moby Dick, Milano, Mursia, 1993, p. 19.
(3) “Four in America” (1947).
(4) Gli proporrò presto di farmi ritoccare le traduzioni delle poesie di LeRoi Jones (oggi Amiri Baraka) fatte da Giovanni
Raboni e Riccardo Mainardi e pubblicate nel 1968.
(5) Vedi Nuova Poesia Americana: San Francisco, Milano, Mondadori 2006, pp. 362-63.
(6) Ibid. pp. 152-53
(7) Ma ricordo con estremo piacere le molte ore passate con Elio Pagliarani (negli anni 1965-66) sulle pagine di The
Distances di Charles Olson.
(8) “Avvertimenti utili (si spera) per una prima ricognizione nella foresta di Arden” in La sacra Emilia e altre poesie,
Venezia, Marsilio, 1998, p. 9.
(9) Vedi Nuova poesia americana: San Francisco, Milano, Oscar Mondadori, 2006, p. 449 et sgg.
(10) Vedi Nuova poesia americana: Los Angeles, Id., 2005, p. 73 et sgg.
(11) Le frasi tra virgolette appartengono al Venus & Adonis di Shakespeare. Con un leggerissimo ritocco riporto qui
quanto ho scritto e tradotto alle pagine 52-53.
(12) Bergamo, Lubrina, 1991.
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LA FRASE BREVE E LA FRASE LUNGA
Si può vedere la propria lingua dal di fuori, come se fosse una lingua straniera. Mai completamente,
senza dubbio nemmeno in situazioni di bilinguismo. Perché il punto d’appoggio dell’altra lingua parlata
produca il decentramento necessario, dovrebbe situarsi, al livello più profondo della nostra parola, e
dunque essere esistito sin dai primissimi tempi dell’acquisizione del linguaggio, mentre in quei mesi una
lingua, una sola, predomina quasi sempre. Ma talvolta è possibile farsi un’idea di quello che altri, rispetto
a noi che la parliamo fin dalla nascita, percepiscono della nostra lingua (il francese) e del suo discorso.
Accade per esempio, quando si osservano le reazioni di quanti traducono in una lingua che conosciamo
abbastanza bene, un testo scritto nella nostra.
Un testo: preferibilmente uno di quelli scritti da noi, in prima persona, poiché evidentemente esso ci è
noto non solo per quanto dice ma anche per quanto cerca di dire o avrebbe voluto dire, anzi per quanto ci
si stupisce di avere detto e ancor più spesso per quanto si rimpiange di non aver potuto dire, rimpianto
che rende sensibile lo scarto che priva ogni lingua dello spessore infinito della presenza del mondo.
Questa situazione in cui possiamo constatare che qualcuno si stupisce di quanto ci ha stupito, ma in
maniera diversa da come avremmo fatto noi. E un’occasione buona per un esame della propria lingua
“dal di fuori”. È un’occasione ancora migliore se, traduttori a nostra volta, abbiamo vissuto sul versante
opposto, quello che distingue la sua lingua dalla nostra. E siccome questa è la mia situazione, avendo io
tradotto dall’inglese Yeats e Shakespeare, ed essendo stato tradotto a mia volta — tanto per i versi che
per la prosa — nella lingua di Yeats e di Shakespeare, ho la sensazione che mi sia possibile fare qualche
riflessione; e insieme ho la sensazione di una responsabilità che bisogna senza dubbio che mi assuma
nella misura dei miei mezzi. La sensazione, inoltre, di un dovere.
Un dovere? Certo, perché quello che separa le nazioni non è privo di pericoli, in quanto non sono tanto le
esperienze della sensibilità e del pensiero a venir rifiutate da una cultura all’altra. Senza dubbio la
bellezza come la intendeva un Cinese dell’epoca Ming, lo humour inglese, o l’ironia francese, sono più
facili da apprezzare per quanti li hanno conosciuti sin dall’infanzia ma quando vengono spiegati vi si
accede ovunque, rispetto all’essenziale: questo riporta al problema fondamentale dei rapporti tra le
lingue e alla ricerca dell’articolazione concettuale che permetterà all’altrimenti parlante di apparirci.
E, sapendo che è questo il piano a cui occorre attenersi, si deve prestare attenzione al fatto che ciò che in
esso più conta non è tanto la particolarità dei concetti, in effetti mai ripetibili da una lingua all’altra,
quanto la maniera in cui li si impiega: impiego che in ogni è il risultato di abitudini, difficilmente
identificabili, che la parola ha contratto nel corso dei secoli. Le società non entrano in conflitto riguardo
alle opinioni, ai pensieri elaborati o ai valori — sempre contraddetti nel luogo stesso in cui si formano —
ma riguardo alla maniera in cui questi vengono espressi. È il discorso e non il suo contenuto a irritare. È
ciò che la parola ha di spontaneo, di inavvertito e di incontrollato a provocare il fraintendimento, non ciò
che ha di meditato. Dunque conviene, ed è certamente un dovere, prestare attenzione a questo elemento
spontaneo, quando per esempio un traduttore ci mostra, svelando se stesso ai nostri occhi, alcuni aspetti
di quello che siamo.
Per mancanza di tempo, una semplice osservazione su una delle cose per cui un Inglese, o anche un
Americano, si irritano abbastanza spesso con noi, o ci sospettano di orribili peccati dello spirito, cercando
di correggerli o attenuarli quando traducono.
Questo il pomo della discordia: la frase come la scriviamo noi, parecchi di noi, nel saggio.
Si tratta, per quanto la concerne, proprio di un’abitudine. Niente costringe il saggista francese a scrivere
in quel modo, come del resto niente costringe gli anglofoni a rifiutarsi di farlo. E ci sono tra loro, cosa che
non meraviglia affatto, molti esempi di frasi imparentate con quelle che sono, tra noi, le più frequenti.
Ma, per il fatto di essere solo un’ abitudine, e non un’ evidente fatalità della struttura della nostra lingua,
questo aspetto della nostra tradizione letteraria è accolto con un’impazienza anche maggiore, almeno da
certi traduttori che si impegnano a cancellarne le tracce. “Ah, le vostre frasi francesi!”, mi diceva uno di
loro. E aggiungeva, osservazione che va nello stesso senso, come si vedrà: “Ah, i vostri paragrafi!” Per
arrivare a dire: “Ritengo la mia traduzione conclusa, e ben fatta, quando ho rintracciato in un paragrafo
le idee che contiene e le ho rimesse a posto, all’interno del mio, nell’ordine opportuno”. Con questo
intendeva una sequenza di proposizioni che a me sembravano di colpo completamente nude e
sgradevolmente scoordinate. La frase francese? Non si tratta necessariamente di una frase molto lunga,
benché la lunghezza in quanto tale abbia buone probabilità di essere malvista, essendo una conseguenza
del carattere che cercherò di mostrare. Piuttosto è un’architettura in cui si vedono slanciarsi gli uni verso
degli altri come travature i dal momento che o i tanto più che o i ne segue che, fornitici dalla sintassi. A
essere sospetto, non è tanto il ricorso a queste articolazioni del discorso, quanto lo spirito che, nel loro
impiego, accompagna le parole verso la fine della frase, del paragrafo o del libro. Ciò che caratterizza la
frase francese, in effetti, è il fatto che colui che la scrive sembra vederla accadere in un luogo mentale in
cui, dispiegandosi in una forma intelligibile, essa può pretendere di costituire la verità dall’interno:
trionfando così sull’ oscurità dei fatti che ha il compito di analizzare ma anche, ancora di più, sull’idea
stessa di oscurità, vincendo il timore che ciò che è sia impenetrabile a colui che pensa. Insomma, si
direbbe che l’autore di questa frase tridimensionale non dubiti affatto del suo svilupparsi nello spazio
stesso dello spirito, accedendo a una tale purezza attraverso l’esercizio congiunto della logica e di una
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sintassi che aiuta a dissipare, di fronte alle parole e in esse, quanto intralcia l’adæquatio rei et
intellectu... Da ciò seguirebbe che — ecco tre parole veramente francesi — il tipo di temporalità, che
porta dall’inizio alla fine della frase, non sarebbe il calco di alcunché nell’ordine dei fenomeni — tempo del
vissuto, tempo dell’acquisizione di un pensiero — ma una struttura inerente all’idea del mondo, con uno
sguardo rivolto agli sviluppi collaterali di questa stessa idea, cosa che fa dell’intera frase, del paragrafo e
del libro, veramente un’architettura, che appartiene, in effetti, già un poco allo Spirito, bellezza tanto
quanto verità.
Capisco che ciò irriti, perché nessuno accede all’ adæquatio della cosa e dell’intelletto; questo fa sì che la
frase vissuta in tal modo non sia che un sogno, che può aver luogo solo a prezzo di semplificazioni se non
addirittura di distorsioni, nel momento in cui, proprio al contrario, si lascia intendere di aver penetrato
tutto, tutto compreso e riordinato. Sotto l’apparente rigore si nascondono, nella frase lunga di moltissimi
saggisti, concetti senza autentica presa sul reale, e il sogno non potrà essere protratto se non da una
soggettività sempre più dissimulata, cosa che si può considerare prossima sia all’ingenuità che
all’arroganza. Di fronte a tale pratica della parola, la frase breve dello scholar — soggetto, verbo,
complemento e il minimo indispensabile in più — può apparire più veritiera: e colui che l’ha forgiata può
credere di aprirsi più efficacemente alla verità, nei limiti meno ambiziosi che avrà avuto ragione di
assegnarsi. Viene detta una cosa, ma con pochissime parole, vale a dire con pochissime idee, affinché si
abbia modo di percepire e soppesare tutto di esse nel momento in cui — subito dopo la frase breve,
tenuta ben ferma dal punto — la realtà interrogata acquista il suo diritto di replica, per mezzo di qualche
nuovo osservatore. Saremmo così in presenza di una dialettica del pensiero e della sperimentazione, che
tenderebbe a svincolare lo spirito dal suo sogno di signoria illimitata, vale a dire di soggettività senza
controllo; saremmo in presenza di un empirismo, che andrebbe solo con grande prudenza da un punto
solidamente stabilito — o in ogni caso sottoposto con chiarezza alla vantazione collettiva — a un altro
ugual mente verificato o verificabile.
Ed è del tutto naturale che, in simili condizioni, da una frase all’altra, o da una parte della frase alla
seguente, non si coordini, non si cerchi nemmeno di articolare, anzi si provi quasi avversione per i di
conseguenza o i cosicché: infatti, non spetta all’autore del testo passare da una proposizione all’altra, ma
al lettore che, essendo esterno al testo, ha il compito di testimoniare in vece della realtà indagata, di
verificare se il suo diritto di replica è stato davvero rispettato, e in seguito di operare o meno la
deduzione lasciata virtuale. Chi scrive non deve catturare il lettore nella rete delle sue congiunzioni,
soffocarlo nelle maglie di una sintassi speculativa. Coordinare, iperarticolare non è altro, si potrebbe
pensare, che una colpevole sopravvivenza della magia; e la conseguenza nel discorso non potrà essere
altro che un genere, il saggio, proprio per questo totalmente sospetto e pochissimo praticato in lingua
inglese (se non in modo più Indico, più consapevole del suo carattere di gioco).
Se le cose stanno così, se ne intende la ragione? La tradizione della frase complessa, in cui un eccesso di
sintassi permette di differire il chiarimento delle nozioni, abitudine che d’altronde non riguarda la totalità
del discorso in lingua francese perché l’università, per esempio, vi si è a lungo opposta, non sarebbe
allora altro che una pratica senza verità né sostanza propria, che sarebbe opportuno riformare?
Di fatto, e nell’istante medesimo in cui qualcosa della cultura francese ci appare in uno sguardo straniero,
credo si possa altrettanto bene considerare un giudizio del genere, ossia il ritenere semplice illusione la
frase lunga, nient’ altro che un’illusione a sua volta, infatti la lingua che ha giudicato non si è accorta di
assolutizzare un punto di vista limitato, e di cadere dunque in una trappola.
Non si tratta, tuttavia, di dubitare del fatto che la frase lunga accresca la precarietà epistemologica del
pensiero, assicurando alle nozioni che mette in gioco una tregua, una tregua veramente lunga prima che
esse siano costrette a incontrare le cose. Ma sulla via di questo incontro, non bisogna forse chiedersi
ugualmente cosa sia vero, o reale, e se c’è una sola maniera di pervenirvi? Per quanto mi riguarda
ritengo che se anche una concettualizzazione fallisce nel penetrare l’essere del mondo, può esser riuscita
ad approntare una pratica dell’esistenza, una modalità di rapporto della persona con il mondo. Penso, in
altre parole, che un inquadramento apparentemente azzardato nei dati empirici possa aiutare la fioritura
di categorie di pensiero (teniamo ferma quest’ultima parola) veramente necessarie da questo nuovo
punto di vista. Credo inoltre che lo spazio inerente alla frase lunga, la sua capacità di tenere a distanza
dalle fantasticherie del desiderio il momento e il luogo in cui esse dovranno rinnegare se stesse, sia la
calda atmosfera di serra che permette di opporre all’universo neutro dei fatti — un universo nel suo
intimo asociale — un mondo che non si dovrebbe tanto definire soggettivo e senza verità, ma
consapevole dei bisogni della vita e adeguato ai rapporti tra le persone: quello che, con Mallarmé, si può
chiamare un soggiorno. Il progetto del saggio è meno l’adæquatio rei et intellectu che quella del luogo
terrestre e del parlante che deve viverci. Le parole, in esso, non sono astratte — nel senso di chi le
accusa di gratuità — se non nella misura in cui questo permette loro di essere concrete in modo diverso,
inanalizzabile forse, ma senza dubbio abitabile: sono, se così posso dire, parole umane, nel cui orizzonte
riappaiono quei grandi fatti della vita tanto utili da meditare quanto inafferrabili per il pensiero scientifico:
la finitezza, la circostanza tragica, la gioia, la speranza o la disperazione, tutto quello che si può chiamare
non più il significato del fenomeno, ma il senso dello sguardo rivolto al proprio destino.
Quanto all’errore, anzi alla compiacenza o all’impostura, va da sé che esistono veramente nella frase
lunga, ma in un modo diverso che in quella breve, la quale dovrà dunque, prima di metterla sotto accusa,
cosa che è un suo diritto, se non suo dovere, non immaginare di essere sola al mondo. Insomma, il
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discorso incriminato può non aver voluto far altro, nello specifico, che abbozzare ciò che il lettore dovrà
portare a compimento, non la formulazione dì una legge, ma la sintesi di un essere-al-mondo. Quello che
non si dovrà mai più scordare è, però, che vi sono due funzioni nel discorso, ugualmente necessarie,
semplicemente a volte eccessivamente intolleranti e inconsapevoli l’una dell’esistenza dell’altra. Così, ai
confini di due tradizioni culturali, dove accade che questi rapporti si dispongano conviene non irritarsi.
Conviene piuttosto porre nuove domande.
Si può dire, per esempio, che se l’enunciazione inglese, oggi ama molto la frase breve è perché dispone
di mezzi diversi da quella lunga per portare a compimento la sintesi che è l’obiettivo di entrambe, senza
che tuttavia tale sintesi sia appannaggio di alcuna lingua sulla terra. Si pone allora una questione: la
frase breve non è forse compensata, in inglese, dalla vasta e tanto ricca tradizione del romanzo, uno
degli apporti del quale è precisamente suggerire un luogo di vita, un soggiorno, nell’orizzonte della
finzione che dispiega? Osiamo avanzare questa ipotesi: la frase del saggio francese. autorizzata a far uso
di tutti i mezzi della sintassi e dei tropi, rende inutile il romanzo: Montaigne e Diderot, o Mallarmé nelle
Divagations, tolgono all’immaginazione romanzesca la responsabilità che potrebbe spingerla a
un’invenzione forte e potente. Proust non sarebbe quell’ immenso sguardo sulle situazioni e sugli esseri,
se una riflessività — da saggista — non continuasse a dirigerne la parola.
E bisognerebbe anche porsi la questione della poesia, che ha ovunque lo stesso scopo: lacerare la rete
della rappresentazione per giungere a una maggiore unità, a una maggiore presenza al mondo nelle cose
che viviamo; ma dovrà allora far convergere il proprio sforzo di contestazione affascinata in inglese sul
romanzo, ossia sulla finzione, sempre troppo chiusa su se stessa, e in francese sulla parola del saggista,
che infittisce la trama della coscienza delle cose e la coordina con troppa forza.
Yves Bonnefoy
a cura di Donata Feroldi
[da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004; per gentile concessione
dell’autore.]
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DA UN’OFFICINA DI TRADUZIONE
Provo a inseguire a ritroso negli anni le mie prime prove di traduttore di poesie e trovo, alle più remote
sorgenti del ricordo, ma non sulle carte che saranno finite in qualche misericordioso cestino, due poesie di
Baudelaire: Élévation e L’albatros (mi sembra che fossero). Dovevo avere diciotto o diciannove anni, non
ero poi così precoce, nemmeno come traduttore: il mio primo contatto con dei versi di Baudelaire era
avvenuto grazie a una antologia della letteratura francese curata da Diego Valeri e forse anche attraverso
quella non spregevole Letteratura universale del Prampolini, che consultavo qualche volta a casa di un
amico. Ma perché tradurre Baudelaire? Potrei rispondere molto genericamente perché “mi piaceva” (come
poi, qualche anno più tardi, ebbi un po’ ingenuamente a dire a Pietro Paolo Trompeo nel chiedergli una
tesi sul poeta delle Fleurs du mal, peraltro giudiziosamente dirottata dal mio bravo Professore su altro
argomento); ma la risposta più probabile e più sincera perché il francese era la sola lingua straniera che
avevo imparato a scuola e nella quale mi fosse consentito di leggere e di comprendere una poesia.
Dunque uno dei presupposti dai quali partivo era, evidentemente, che per tradurre (naturalmente in
versi) versi da una lingua straniera si ponesse come condizione la conoscenza di quella lingua; e che da
tale conoscenza si dovesse fondamentalmente procedere per arrivare al risultato della traduzione. Non
avrei, allora, mai sospettato che potesse valere in certo qual modo anche una via esatta inversa: dal
lavoro di traduzione e attraverso di esso arrivare a una conoscenza dell’altra lingua sia pure nella
fattispecie e nei limiti dell’originale tradotto.
Se accogliamo quest’ultima ipotesi, vedremo subito che essa non avrebbe potuto applicarsi a quei miei
tentativi su Baudelaire, e considerando la cosa col senno di poi, non fu senza una profonda ragione che
essi abortirono in un risultato di fiacchi versi martelliani nei quali avevo risibilmente provato a trasferire la
sontuosa eleganza dell’alexandrin francese.
Quale “interesse” avevo io (e dico “interesse” nel più nobili senso stendhaliano per cui non esiste
addirittura “amore” che non sia fondato su un “interesse”); quale “interesse” avevo io a tradurre in versi
italiani dei versi scritti in una lingua che già conoscevo e dunque per me leggibili, godibili e usabili nel loro
testo originale? Personalmente, direi, nessuno, se non quello della labile gratificazione che poteva
derivarmi dal mettermi a tu per tu con un grande poeta del passato; né, tanto meno, potevo esser mosso
da un interesse economico, perché nessuno si era sognato mai di commissionarmi quelle traduzioni,
giustamente poi cestinate e dimenticate come un ordinario esercizio di scuola.
Già da questa premessa si può capire come mai manchino nell’ormai troppo lunga lista dei poeti da me
portati in versi italiani autori dell’unica lingua studiata a scuola e abbastanza lungamente praticata,
quando si faccia eccezione di un breve scherzo su tema erotico di un Anonimo cinquecentesco, incluso in
un repertorio antologico di Lodi del corpo femminile. Altrettanto varrà per i poeti di un’altra lingua ancora
più vicina alla nostra, lo spagnolo, da cui peraltro ho tradotto un libro di prosa, gli Esercizi spirituali di
Sant’Ignazio, perché affascinato dal mistero di quella un po’ sghemba e claudicante sintassi e curioso di
quel che sarebbe venuto fuori a trasporla sic et simpliciter nel lessico italiano. Allora la spiegazione
soggettiva del perché io non abbia tradotto poesie da queste lingue sorelle potrebbe consistere in una
sostanziale mancanza di stimoli a penetrare della poesia di quelle lingue un “mistero” che non era per me
(o che io presumevo non essere) un tale, non frapponendosi alla loro lettura e comprensione nessuna
apprezzabile barriera d’ordine puramente lessicale, anche se ciò non significa che non possano sussistere
nella fattispecie del singolo testo poetico “barriere” d’altro genere corrispondenti a questa o a quella fase
extra-lessicale della cosiddetta “lingua poetica”. Ma possiamo addurre anche una spiegazione più
oggettiva, assumendo almeno come ipotesi che tra le condizioni favorevoli alla traduzione di poesia si
debba comprendere anche quella di una forte “escursione” (o differenza) tra la lingua da cui si traduce e
quella in cui si traduce; ho detto una forte differenza, non una differenza così radicale come quella
(poniamo) che si presenta fra le lingue fondate sulla scrittura alfabetica e quelle fondate invece su
scritture ideografiche o comunque su segni grafici per noi violentemente inconsueti (per empio arabo o
ebraico o hindi; ma non altrettanto dovrebbe dirsi per alfabeti come il cirillico o il greco), tenuto conto del
fatto che allo spessore semantico di una parola può concorrere anche la facies del segno. E per forte
escursione o differenza intenderei dunque quel divario o “salto” o gap che sia sufficientemente
apprezzabile da invogliare allo sforzo di colmano e nel quale si colloca appunto lo spazio ideologicomotivazionale-operativo della traduzione.
Tradurre una poesia in queste condizioni è una sorta di avventura, un inoltrarsi in un paese sconosciuto,
mossi da un amor de lonh, affascinati come Jaufré Rudel da una bellezza non veduta, da un un “sentito
dire”; è un conquistare a noi stessi quella poesia e con sa qualche più o meno vivo lacerto della “strana”
ed “estranea” lingua in cui è scritta e magari del più o meno remoto tempo e/o luogo in cui venne scritta
in origine. Azzarderei, a questo punto, un primo non so se corollario o postulato: che l’ideale traduttore di
poesia al quale penso sia uno che traduce prima che per gli altri per se stesso, sulla spinta di un suo
proprio affetto o diletto, di una sua ambizione o curiosità, fosse pure per frugare, attraverso la lingua di
una persona amata, l’anima e il mistero della stessa. Naturalmente la gamma delle motivazioni private
non si esaurisce in questa sfera, diciamo così, sentimentale; si può voler tradurre poesia per ammirazione
verso il poeta o per verificare l’ammirazione che ne professino altri, esperti della lingua in cui egli scrive;
si può voler tradurre per nutrire e tentare di irrobustire una propria troppo gracile musa; si può voler
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tradurre anche su commissione, quasi a vendere la merce-lavoro di una propria (vera o presunta) perizia
artigianale; si può voler tradurre per sperimentare nuovi modi di una personale lingua poetica e, infine,
anche per qualche temeraria e allegra sfida dell’inosabile. Queste due ultime motivazioni potrebbero, per
esempio, spiegare la mia traduzione in versi italiani dell’Evgenij Onegin di Puškin.
Ma torniamo alla diacronia. Ed ecco che, rovistando tra le vecchie carte non ancora cestinate, trovo una
mia, assai poco brillante, traduzione delle prime due sezioni di Ash Wednesday di T. S. Eliot, della cui
datazione non sono completamente certo; doveva essere intorno al 1947, epoca in cui la conoscenza
dell’inglese in Italia non era ancora abbastanza diffusa e la mia in ispecie si trovava a uno stadio più che
primordiale… Ma come allontanare da me la tentazione di affrontare, con l’ausilio di un dizionarietto da
conversazione, un testo di Eliot, a quel tempo il più celebre e celebrato poeta vivente di lingua inglese? A
ben pensarci, il voler tradurre un gran de poeta è per l’aspirante-poeta anche un sotterraneo e non
confessabile peccato da Paradiso Terrestre, un voler essere (insomma) “come Dio”, come lui; un
proporsi, cioè, il poeta che si prova a tradurre come modello più o meno inconscio. Le mie nozioni di
lingua inglese erano, lo ripeto, di una desolante povertà; non ero ancora passato attraverso i sei e più
anni in cui avrei lavorato come traduttore (di prosa, ahimè, di propagandistica prosa!) in un ufficio
americano dove l’inglese lo appresi, sì, abbastanza bene, ma un inglese, comunque, soltanto scritto e
letto in silenzio… E invece sappiamo di quali sfumature foniche sia ricca quella lingua specialmente,
trattandosi di poesia, in funzione della rima. Le mie traduzioni da Ash Wednesday le conservo ancora in
una vecchia cartella, ma appaiono piene zeppe di tardive correzioni, quasi che io avessi voluto, in anni
recenti, rendere più presentabili, se non addirittura recuperabili, quei miei giovanili esercizi. Migliore esito
avrebbero avuto, di lì a poco, alcune traduzioni da John Donne, che infatti avrei poi inserito, senza
bisogno di eccessive correzioni, in Addio, proibito piangere, un’antologia del mio lavoro di traduttore,
messa insieme per invito di Giulio Einaudi. Ma fin qui la scelta degli autori da tradurre era avvenuta, da
parte mia, in modo quasi del tutto casuale per suggestioni esterne, senza un’intima spinta. Trovo in una
vecchia cartella testi di poeti illustri o meno illustri, famosi o meno famosi: un’unica poesia di Hopkins,
uno o due frammenti di Robert Lowell, l’intera sequenza dei Voyages di Hart Crane (qualcuno doveva
avermene segnalato l’importanza), alcune poesie di Emily Dickinson tradotte quasi per passatempo nello
sfogliare verso il 1957 la splendida edizione critica del Johnson, versi di allora giovani poeti americani,
come Viereck o Wilbur o Karl Shapiro, incontrati a Roma quando ancora ci abitavo e tradotti per atto
amichevole o per accompagnare con quei loro versi un articolo, un’intervista.
Tutto ciò, ripeto, è per sottolineare la causalità delle scelte che un traduttore di poesie si trova a
compiere nella sua incerta carriera, tonto più incerta quando si trovi contigua o sovrapposta (come è
stato nel mio caso) a un’ambizione di scrittore di poesie in proprio.
Come fu, del resto, che m’imbattei in Ezra Pound del quale non avevo ancora letto, né in originale né in
traduzione, nemmeno una riga? Forse perché commosso dalla sua (magari non del tutto immeritata)
sorte di recluso, del quale il giovanissimo Vanni Scheiwiller stampava qui in Italia gli ultimi Cantos? Certo
è che mi trovai a dover tradurre nel 1955 per un numero poundiano di una rivistina romana chiamata
Stagione una delle poesie di Hugh Selwyn Mauberley, quella che nella seguente E. P. ode sur l‘élection de
son sepulcre, inizia con un “Combatterono, in ogni caso” e che trae argomento dalla delusione dei reduci
della Prima guerra mondiale, mandati al massacro per difendere quella che, nella traduzione fatta da
Eugenio Montale della poesia che ad essa immediatamente segue, era una “scanfarda spremuta”, una
“civiltà scassata”, per cui gli si poteva non dare, al vecchio “Uncle Ez”, pur con tutte le sue sciagurate
bizzarrie, un minimo di ragione. Ma lasciamo andare. Il fatto è che, dopo quel mio primo misurarmi col
Mauberley, durante una pausa di quasi disoccupazione a Torino decisi, chissà, forse per ingannare l’ansia
o la noia, di tradurre tutto il Mauberley, benché non potessi dire di avere colto compiutamente il senso e
il significato di non poche parti. Mi aiutai con un saggio-commento, quello dell’Espey, e riuscii a condurre
a termine la piccola impresa. Luciano Anceschi, sempre nobilmente sensibile a tutto ciò che sapesse in
qualche modo di avanguardia, pubblicò quella mia versione in uno dei primi numeri della rivista Il Verri, e
Scheiwiller la riprese subito dopo in un volumetto, che presentammo a Pound appena rientrato in Italia
dalla sua detenzione americana. La traduzione era piena zeppa di errori — errori, appunto, di significato,
di senso — e Pound conosceva l’italiano abbastanza bene da accorgersene a prima vista; ma
probabilmente doveva esserci, in quella versione, qualcosa di fondamentalmente fedele al “tono”
dell’originale, non sbagliato, se il vecchio Maestro, notoriamente di carattere tutt’altro che facile, arrivò a
ringraziarmi e ad apporre sul volumetto una dedica: “A G., il responsabile”, della quale però proprio
adesso avverto la sottile ambiguità. Non avrà, infatti, voluto dire che ero io, e non lui autore
dell’originale, il “responsabile” di tutte le sciocchezze e di tutti gli errori di quella traduzione? Ciò non
toglie che, già con qualche emendamento, egli la volesse nell’edizione italiana delle sue Opere scelte,
pubblicata da Mondadori nel 1970. Ma su quella traduzione sono ritornato parecchie volte nel corso di
quasi un ventennio: oso sperare che l’ultima stesura del 1982, per emendare la quale mi giovai del
consiglio di uno specialista poundiano come Massimo Bacigalupo, sia finalmente in regola. Ma, proprio a
proposito del Mauberley, voglio ricordare un’indicazione che mi fu data dallo stesso Pound a proposito del
passo in cui, nella poesia intitolata “Mr. Nixon”, viene riportata una citazione dagli Atti degli Apostoli
secondo la classica versione inglese detta di King James: “Don’t kick against the pricks” dice il testo; e
corrisponde in italiano a un “Non recalcitrate al pungolo”, che nella mia versione definitiva è “Al pungolo
non recalcitrare”. Però sappiamo che in inglese la parola “prick” è anche, in un “parlato” volgare, il
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membro virile; e questa sfumatura conserva naturalmente il suo peso nell’originale inglese della poesia.
Nel 1963, incontrando per caso Pound a Padova, volli domandargli un chiarimento: “Signor Pound, quel
‘Don’t kick etc.’ è una citazione dagli Atti degli Apostoli, ma nello stesso tempo ha anche un significato
così e così… Come risolverlo?”. Pound, che in quegli anni si era chiuso in un mutismo quasi totale, mi fece
la grazia di alcune parole in risposta: “Ma c’è” mi disse “una versione italiana degli ‘Atti”. Non ha molta
importanza ricordare qui come quelle parole abbiano dato poi origine a un verso apparentemente senza
senso di una mia poesia; ma quel che mi preme sottolineare è che l’indicazione di Pound era, come
criterio di traduzione, assolutamente giusta. Egli non aveva manipolato il testo sacro in inglese. Che cosa
era, infatti, più importante salvare di quella frase? La sfumatura oscena? O non piuttosto il riferimento,
pur nel contesto di una materia profana, a un testo della Sacra Scrittura? Chiaramente Pound propendeva
per questa seconda alternativa. Questo episodio mi porta a riflettere che, in fondo, il lavoro del traduttore
di poesia si configura come una serie o successione di scelte, una serie o successione di costrizioni a
rinunciare a qualcosa che è nell’originale e che non potrà essere nella traduzione se non al prezzo di
sacrificare qualche altro valore di senso ancora più importante e magari decisivo, perché una certa
“essenzialità” o “tipicità” dell’originale sia in qualche modo veicolata nella traduzione. Ma è proprio
nell’affrontare certe scelte e nel passare attraverso le forche caudine di certe costrizioni che si definisce
l’opera del traduttore di poesia; ed appunto perché consapevole di quello che per certe scelte e a causa di
certe costrizioni egli ha dovuto tralasciare o alterare o “interpretare”, il traduttore saprà anche che il
risultato del suo lavoro sarà comunque, rispetto all’originale, qualcosa di meno o di diverso.
Fu con l’inizio degli anni Sessanta, e quindi anche in coincidenza con una meno incerta definizione della
mia ricerca poetica, che mi si presentò la prima e più importante occasione di tradurre le poesie di un
grande poeta, su commissione di un editore. Il poeta era Robert Frost, del quale conoscevo appena il
nome, la fama e l’etichetta (pigra e pompier come tutte le etichette) di “poeta nazionale” americano.
L’editore era Einaudi, e il tramite, Franco Fortini. Ma non credo che fosse stato proprio lui a fare il mio
nome in una delle famose riunioni einaudiane del mercoledì; credo piuttosto (e forse fu, a dirmelo, lo
stesso Fortini) che fosse stato Daniele Ponchiroli, al quale erano piaciute (sembra) quelle mie
esercitazioni sulla Dickinson, sottopostegli da non so chi. Presi i Collected Poems di Frost e, senza
nemmeno tentarne una lettura in originale che avrei potuto gustare poco o niente perché troppo
assorbito dallo sforzo di capire il puro e semplice significato delle parole, cominciai a tradurre poesia dopo
poesia. A guidare la mia scelta fu quasi esclusivamente il criterio della più facile traducibilità, oltre
all’esigenza di tradurre un numero di poesie sufficiente a mettere insieme un libro che fosse, fra
traduzione e testi a fronte, di decente spessore. Sicché tradussi in tutto sessantaquattro poesie, che
vennero pubblicate nel 1965 con una mia breve premessa e col titolo Conoscenza della notte e altre
poesie, mantenuto anche in una nuova edizione pubblicata ora presso Mondadori, con l’aggiunta di altre
sei brevi poesie: anche in questa occasione, Massimo Bacigalupo mi ha molto aiutato a correggere non
pochi errori della edizione precedente. Come si può vedere, forse per il fatto di non essere uno specialista
di letteratura inglese o anglo-americana e di non dover dunque difendere una rispettabilità professionale
e professorale, non ho nessuna remora a rendere di pubblica ragione un certo dilettantismo del mio
approccio a Frost. Peraltro mi è stato assicurato che la scelta da me condotta secondo un criterio in
apparenza piuttosto superficiale non era affatto criticabile, anzi rappresentava e rappresenta in modo
adeguato i caratteri essenziali della poesia frostiana (il che mi induce a sospettare, sia pure con tutte le
cautele e le eccezioni del caso, che anche il grado di traducibilità possa costituire un dato da tenere
presente nel giudizio di valore su una poesia).
Il mio tradurre poesia dopo poesia senza una lettura preventiva dell’insieme era certamente un po’ troppo
avventuroso: davvero un inoltrarmi in un paese sconosciuto. Testo originale a sinistra, macchina per
scrivere davanti a me e dizionario Webster sulla destra, traducevo in prima stesura quasi come se
traducessi prosa, badando anzitutto ai significati letterali, di grado zero. Però, non so come, forse per un
istintivo timor reverentiae di fronte al testo di un poeta famoso, non mi permisi, nemmeno nella grezza
stesura, di alterare quella che (l’avrei imparato più tardi traducendo Il problema del linguaggio poetico di
Jurij Tynjanov) è l’unità di base della lingua della poesia, cioè il verso: tanto che rimasi un poco
meravigliato quando, a lavoro finito, Giulio Einaudi ebbe a lodarmi perché le traduzioni contavano lo
stesso numero di versi che gli originali. E come altrimenti avrebbe dovuto essere? È vero che non poche
traduzioni poetiche del passato (dette talvolta anche “imitazioni”) trasgredivano tranquillamente a quella
che per me sembrava e sembra una norma irrinunciabile. Del resto, avrei in seguito riflettuto che della
“lingua poetica” di un certo testo è parte e fattore anche il suo aspetto esterno, grafico.
Ma la lingua inglese è, rispetto all’italiana, più sintetica, ricca di vocaboli mono- e bisillabici; cosicché i
“miei” versi risultavano, rispetto a quelli di Frost, assai più lunghi, anche per la mia preoccupazione di
sinotticità; ed ecco allora che dovevo dilatare in senso orizzontale quel che non dilatavo in senso verticale
e risolvere le dieci o undici sillabe del blank verse inglese (che in Frost è prevalente) in misure sillabiche
quasi sempre maggiori: di dodici, tredici, quattordici, quindici e magari diciassette sillabe. Ciò mi
costringeva a cercare soluzioni ritmiche alternative rispetto a quelle consuete del nostro vecchio
endecasillabo, ma sempre (un po’ “a orecchio”, per così dire) di una più o meno eguale “durata”
prosodica. Questa esperienza (che avrei qualche anno dopo ripercorso nel tradurre, sempre su
commissione, una scelta di quel classico e incantevole poeta fugitive che è John C. Ransom) fu per me
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assai importe perché mi incoraggiò a trasferire tali soluzioni o soluzioni analogiche, orientate cioè su
valori di “durata” prosodica oltre che meramente sillabica, nelle mie poesie.
Qualcuno potrebbe ora sollevare l’annoso problema del come e del quanto un poeta possa essere
influenzato dai poeti che traduce viceversa, possa trasferire sugli stessi una certa patina del proprio stile.
Io dirò, per quanto mi riguarda, che spero di essere andato abbastanza esente dall’una e dall’altra cosa;
ma subito aggiungendo che senza dubbio, sulla mia scrittura ha influito il mio “modo di tradurre” poesie
di altri, e che le mie traduzioni riflettono probabilmente quel “modo di tradurre” assunto come la via
meno improbabile a convogliare il senso poetico degli originali a me stesso e ad altri lettori della mia
lingua. Comunque non bisogna essere troppo presuntuosi: una traduzione di poesia è pur sempre
un’operazione che altera e diminuisce l’originale su cui si lavora e, anche nella migliore delle ipotesi, va
accolta come una specie di “male minore”, in vario grado preferibile all’alternativa di una totale non
comprensibilità. Con ciò non si esclude, anzi si raccomanda, l’utilità certe traduzioni cosiddette “di
servizio” che si propongono a lettori capaci di “leggere” la lingua dell’originale, senza però comprenderla
sufficientemente. Forse ci si aspetterebbe che io indicassi almeno un abbozzo di normativa sul “come-sifa-a-tradurre-una-poesia”; ma qui devo confessare, a parte la mia naturale diffidenza nei confronti delle
normative in genere, l’estrema povertà del bagaglio teoretico, che poi si esaurisce quasi completamente
in una memoria del già citato libro di Tynjanov e del suo concetto di “principio costruttivo”. Tynjanov dice
che la lingua poetica risulta l’interazione di vari “principi costruttivi” come quello sintattico-semantico,
quello ritmico, quello fonico, quello della rima, quello dei possibili riferimenti contestuali ecc. E in ogni
poesia c’è (o dovrebbe esserci) uno fra questi principi costruttivi da ritenersi fondamentale, cioè
irrinunciabile se non a costo di compromettere l’identità, l’esistenza della poesia stessa. Sappiamo bene
che in questa materia non si può essere troppo categorici; ma in linea di massima credo che l’indicazione
di Tynjanov costituisca ancora un piccolo, ma utile, vademecum per il traduttore di poesia, il cui primo
compito sarà dunque di stabilire quale sia, nel testo poetico tradurre, il “principio costruttivo
fondamentale”. Mi viene in mente quel sonetto del Belli che inizia col verso Ecco qua er bene come
incomincio e va avanti per gli altri tredici versi terminanti in parola tronca, con un grande effetto
dinamizzante per il lettore italiano di testi in lingua, che non è abituato alle frequenti ossitonìe del dialetto
romanesco; ma, in qualunque lingua si dovesse tradurre tale sonetto, credo proprio che non si potrebbe
non ravvisarne il “principio costruttivo fondamentale” in quella sprizzante e scintillante successione di
versi ossitonici e si dovrebbe quindi fare assolutamente in modo da mantenerla, anche perché essa
appare coerente col tema della piccola e sorridente vicenda erotica che del sonetto è occasione. Ma in
tanti altri casi il “principio costruttivo”, più o meno “fondamentale”, sarà da ritrovarsi in altri ordini o
“serie” della lingua poetica; ovvero potrà trattarsi di stabilire, anche nell’ambito di un singolo verso, ciò
che appare essenziale a trasferire nell’altra lingua il massimo, tenendo fermo che l’impegno del traduttore
di poesia comporta non una semplice traduzione di significati lessicali da lingua a lingua, ma una
proiezione di senso da “lingua poetica” a “lingua poetica”, dove ispirazione, passione e invenzione
potranno essergli preziose e forse indispensabili alleate.
La passione fu quella che mi portò alle più arrischiate e temerarie prove di traduttore: dal cèco e dal
russo. Il mio primo contatto con la lingua russa era stato nel 1966, quando per ragioni di lavoro avevo
passato a Mosca più di un mese e, rientrato a Milano, mi ero messo volonterosamente a studiarla su una
grammatichetta in francese intitolata Le russe sans peine. Gli amici di Mosca mi avevano parlato di Puškin
col calore e con l’entusiasmo che soltanto i Russi possono avere quando la conversazione tocca il loro
grandissimo poeta. Si era così fatto strada nella mia mente il fumoso, e soprattutto utopistico, progetto di
conoscere un mio Puškin, un Puškin di prima mano traducendo io stesso e soltanto per me il suo
capolavoro, Evgenij Onegin. Mi ero già procurato i dischi sui quali Vsevold Aksënov, un celebre attore già
da anni scomparso, aveva inciso una splendida dizione di quell’irripetibile “romanzo in versi”; ma il mio
progetto si era ben presto arenato sia per la difficoltà dell’impresa, sia perché (dopo un primo viaggio a
Praga nel 1967) il mio interesse si era repentinamente rivolto alla lingua cèca. Mi aveva affascinato la sua
impenetrabilità: come una pietra nera, durissima, levigata al punto da non consentire il minimo appiglio…
E mi ero messo a studiare il cèco, su un’altra grammatichetta, questa volta in inglese. Quanto a divario,
quanto a gap, tra il cèco e l’italiano, ce n’era assai più che rispetto al russo: in fondo la cultura russa,
attraverso i grandi romanzieri del secolo scorso, non era affatto estranea anche agli italiani della mia
generazione; né la scrittura cirillica rappresenta un problema per chi abbia a suo tempo studiato un po’ di
greco. Ma a tradurre versi dal cèco non fui indotto da una mia personale scelta anche letteraria, bensì
dall’esigenza creare un pretesto affinché le autorità cèche autorizzassero un mio amico, Vladimir Mikeš, a
soggiornare in Italia per qualche tempo; e così avevamo deciso di tradurre a quattro mani una scelta di
poesie di Jífií Orten, un poeta morto giovanissimo nel 1941 e mai tradotto nella nostra lingua. A facilitare
l’attuazione del progetto presso l’editore Einaudi contribuirono in modo determinante due persone oggi
non più vive: Italo Calvino e Angelo M. Ripellino. Il lavoro, piuttosto intenso, richiese circa un mese e
mezzo: Mikeš leggeva il cèco, mi diceva il significato letterale in italiano e (dove necessario) mi
specificava le varie ulteriori implicazioni di lingua poetica: rime, figure retoriche, ambiguità semantiche
ecc. Io lo seguivo e andavo avanti passo passo, come procedendo in una fitta foresta, con gli occhi
bendati e tenuto per mano. Ancora oggi, non credo che La cosa chiamata poesia (questo è il titolo della
scelta pubblicata nel 1969) sia un libro da trascurare… Ma la mia passione per la lingua cèca non si esaurì
a quel punto: insieme ad altri amici praghesi si era progettato di mettere insieme un’ antologia di giovani
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poeti, che io mi ripromettevo di tradurre col solito sistema dell’andare con gli occhi bendati e tenuto per
mano. Ma gli avvenimenti del 21 agosto 1968 avevano poi reso meno agevoli i viaggi a Praga e il
progetto era diventato pressoché inattuabile: Vanni Scheiwiller avrebbe invece pubblicato alcune mie
poesie e prose di soggetto praghese, completate da una breve scelta di poesie d’autori cèchi del
Novecento. Nelle traduzioni mi fu d’aiuto decisivo Jítka Kfiesalková, a quel tempo Lettrice e oggi Docente
universitaria nostro Paese. Il Piccolo libro, sulla cui copertina disegnata da Jífií Kolar non volli che
figurasse il mio nome, si chiama Omaggio a Praga: anno di pubblicazione, lo stesso 1968.
E veniamo infine all’Onegin. Mi misi al lavoro nel 1970, avendo per soli strumenti i già menzionati dischi
di Aksënov, le traduzioni in prosa e i versi di Ettore Lo Gatto, la traduzione in prosa e le note di Eridano
Bazzarelli, il dizionario russo-italiano e le modestissime nozioni linguistiche. Ma il mio interesse non era
più soltanto “sentimentale”: volevo proprio fare un Onegin “italiano”, nel senso di conquistare alla forse
troppo smaliziata e disincantata poesia moderna quello che nell’Onegin mi pareva essere un rapporto più
libero, più spontaneo, più nobilmente ingenuo fra autore e testo, e alla nostra prosodia italiana un verso
poco consuete e il meno lontano possibile dall’incantevole tetrapodia giambica puškiniana. Volevo
cimentarmi con l’ordine di quelle strofe e della perfetta gabbia delle loro rime, con sette diverse
terminazioni per strofa, essendo per di più ridotta al minimo, per i caratteri strutturali del nostro lessico,
la possibilità di alternare com’è nell’originale rime piane e rime tronche o, se si preferisca, femminili e
maschili! Non starò qui a rievocare narcisisticamente le mie fatiche di quasi cinque anni, i miei numerosi
errori di tòno e di significato che nel passaggio dalla prima edizione del 1975 alla seconda del 1983, ho
potuto emendare grazie all’aiuto disinteressato e impareggiabile di Giovanna Spendel, insieme alla quale
ho poi tradotto anche una scelta di liriche puškiane che speriamo di ampliare; ricorderò comunque la
pazienza degli amici russi che in diversi casi rispondevano a mie improvvise richieste di spiegazioni e,
finalmente, la generosità di Gianfranco Folena che, con la sua prefazione a un’ultima edizione che
chiamerò “di autore”, ha voluto sancire l’annessione del “mio” Onegin alla storia della poesia italiana.
Per l’Onegin non oserò riproporre l’ipotesi che un mio modo di tradurre abbia conferito al “romanzo in
versi” un tòno troppo diverso da quello che il testo russo suggerisce: sono incorso, sì, in questo rischio,
soprattutto nelle prime stesure dei capitoli iniziali; ma col procedere del lavoro, e grazie ai competenti
consigli ricevuti, credo di avere poi ubbidito a una più composta disciplina che mi sentivo imposta
dall’originale stesso. “Puškin” mi si diceva, ad esempio, “non avrebbe mai adoperato questa parola!” e
devo riconoscere che il rilievo era quanto mai appropriato nella quasi totalità dei casi: è soprattutto
traducendo l’Onegin che ho imparato come non ci si debbano prendere troppe confidenze con la “lingua
poetica” del poeta che si traduce. Se questa traduzione abbia poi avuto un’influenza particolare sul mio
modo di fare poesia non starà a me giudicarlo: da La vita in versi in poi ho sempre fatto un largo ricorso
alla rima (che è, oltre tutto, una generatrice di significato di senso), così come la tendenza
all’organizzazione strofica è presente in tutta la mia opera.
Mi accorgo, nel concludere questa specie di inventario della mia “officina di traduzioni”, di non avere fatto
cenno di un lavoro che è l’ultimo della serie e che probabilmente resterà l’ultimo anche della mia carriera
di traduttore: mi riferisco a La rima del vecchio marinaio di Coleridge, a tradurre la quale passione e
commissione mi hanno indotto in eguale misura. La “commissione” sotto forma dell’invito, da parte di una
società di doppiaggio, a tradurre gli ampi brani della Rime inclusi nel “parlato” di un breve film di Ken
Russell su Coleridge; la “passione” come stimolo a tradurre poi l’intero testo, dal momento che ancora
una volta capitavo a dovermi cimentare con una prosodia in fondo prediletta, prossima a quella
dell’Onegin: una prosodia, che, nel caso dovesse restare di me una poesia sola, mi augurerei, in fondo,
che fosse di tale poesia norma e misura.
Giovanni Giudici
[da La traduzione del testo poetico, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2004; per gentile concessione
dell’autore.]
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UNO SHAKESPEARE PRATICABILE
Nella Notizia posta a corredo del proprio travestimento faustiano(1) nell’agosto 1985, Sanguineti
confessava che tradurre il Faust di Goethe aveva significato per lui realizzare un “vecchio fantasma
mentale”: quello di misurarsi, propriamente, col “mito per eccellenza della modernità”.
I miti lasciano il segno. E se si comincia, è difficile sottrarsi ai confronti. Così, di mito in mito, dentro e
fuori modernità, può capitare – è capitato al traduttore/ricreatore del Faust(2) - di imbattersi in un’altra
sfida, quella con Dante, riadattandone la cantica dell’Inferno per una resa drammaturgica (la splendida
Commedia dell’Inferno dell’89)(3). E poiché non è mai bene lasciare le cose a metà (impossibile, poi, con
le potenziali triadi, tanto più se canoniche, da canone occidentale indiscusso nei secoli), l’approdo a
Shakespeare era in qualche modo fatale. Mostro sacro non inferiore di certo ai precedenti: e in più
sufficientemente concettoso e ambiguo, nei suoi 154 Sonetti (Sonnets, 1609), un canzoniere erotico
restato a sfidare il tempo, tra inferno e cielo, luce e buio, dark lady e fair friend intricati, ibridati e un po’
interscambiabili, uni e bini (“thou mine / I thine […]” – “tu sei mio / io sono tuo […]”, CVIII).
A nove sonetti si limita la scelta di Sanguineti, datati a mano sul dattiloscritto “aprile 1996”. Un
canzoniere mutilo e selezionato, destinato anch’esso a rappresentazione scenica, come precisa l’autore
nella sua nota, e mai uscito prima d’ora integralmente a stampa. Gli si è affiancato qui il testo originale
per consentire un confronto diretto che non manca di riservare sorprese, a cominciare, intanto, dal
metro.
Come renderlo, il sonetto inglese? Si era già cimentato Ungaretti, in una sua traduzione di 40 sonetti di
Shakespeare iniziata nel ’31 e protratta sino al ’46(4), che mirava nelle intenzioni a rispettare in primo
luogo la “flessibilità fonetica” della lingua inglese. Rinunciando alla rima e al verso regolare, Ungaretti
puntava piuttosto al rispetto del “suono”, optando per un verso di “circa sedici sillabe italiane”
indispensabili, a suo dire, per rendere il “senso” dell’originale e conservare la fedeltà all’andamento del
sonetto “nel suo complesso”. Impegnato, negli anni del Sentimento del tempo, a riscoprire l’ordine
nell’avventura, o a ricondurre l’avventura all’ordine, Ungaretti ammetteva di agire “per approssimazione”,
ma con la volontà di rendere evidente, anche nel percorso ritmico, il rapporto tra “concretezza” dell’idea
– scriveva – e “tangibilità corporea, materiale” presente in Shakespeare. Ne faceva, insomma, un classico
moderno, alla maniera sua e delle ricerche francesi a lui vicine, evitando al possibile ogni “sorta
d’abbagli: di parole; o di tutto un indirizzo: quello enfatico dei Romantici, quello pettegolo dei
Novecentisti, quello imbacuccato di tanti altri” (5). Nel contatto “segreto”, “diretto” con Shakespeare,
Ungaretti cercava semmai conferma alla “misura nella dismisura”, all’accordo tra “tendenze romantiche e
classiche in un’espressione esemplare”, guardando a lui sulla scia di una reinterpretazione petrarchesca
che passava per Góngora e il barocco.
Che c’entra tutto ciò con Sanguineti? A parte l’interesse per un confronto – che potrebbe rapsodicamente
chiamare in causa anche Montale, lui pure traduttore dei Sonnets, in misura più parca(6) – almeno un
punto delle sue considerazioni potrebbero coinvolgerlo e intrigarlo: ed è là dove Ungaretti pone l’accento
sul carattere di “lingua legata” proprio del sonetto shakespeariano, una “lingua legata” che diviene, per
lui, “forza ossessiva d’immagine dominante”.
Un obbligo formale, dunque. Una contrainte, per dirla nei modi attualizzati dell’Oulipo. E proprio qui sta il
punto, o meglio ciò che definisce la singolarità della resa di Sanguineti, che opta per un verso lungo, non
regolare e non rimato, anche se qua e là, a volerli individuare, certi settenari o novenari, o endecasillabi e
quinari, compaiono pure, ma come straniati nel contesto, sottratti alla loro funzione (basterà leggere
l’avvio di II., segnando mentalmente uno iato tra i due emistichi di cui il verso si compone: “quando
quaranta inverni assedieranno la tua fronte […]”).
Non in questo, e cioè nella opzione per il sistema chiuso, per il verso regolare, risiede per lui la
contrainte, il bisogno insomma di crearsi delle regole, che ritiene per parte sua uno stimolo necessario, e
tanto più necessario quanto più forte, non solo per tradurre, ma per lavorare sulla parola. Perché per lui
la contrainte, intesa in particolare come l’attenzione a mantenere, in traduzione, il ritornare di un
termine, del suo suono, quasi a stimolare – parola d’autore – “associazioni libere”, aiuta a definire una
sorta di codice, cui Sanguineti resta fedelissimo.
Non ne mancano esempi, in questi nove sonetti. Alcuni davvero creativi, estrosi, efficacissimi: come nel
sonetto XX., ove rispettando la sonorità di “thing” e “nothing”, in un verso di allusione oscena (“By
adding one thing to my purpose nothing”), si gioca, nella resa italiana, sul mantenimento della sonorità
iterata, e insieme si ottiene, come in inglese, il ribaltamento di senso per pura soppressione di lettere
(“thing” – “nothing”: “ente”, “niente”. Ma si ascoltino integralmente i versi 10-12: “finché la natura,
mentre ti formava, ha fatto una follia: / con una sua addizione, a me ti ha sottratto, / addizionandoti un
ente che è un niente, per il mio desiderio”; dall’inglese: “Till Nature as she wrought thee fell a-doting, /
And by addition me of thee defeated, / By adding one thing to my purpose nothing”). Il “Master”
“Mistress” “of my passion” (signore, signora della passione) è così servito, cioè preservato nella sua
ambiguità semantica per semplice eco fonica.
Una resa fedelissima: e ci si può sbizzarrire davvero a rintracciarla, la fedeltà assoluta all’originale, ogni
volta che si impongano nel testo shakespeariano forme di iterazione, stilemi anaforici, parallelismi. Come
subito in apertura di II.: “quando quaranta inverni assedieranno […] e scaveranno”, a rendere l’inglese
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shall besiege […] and dig” (laddove Ungaretti traduce: Quando quaranta inverni faranno assedio alla tua
fronte / Scavando trincee fonde […]”)(7). Si va dalla rifrazione semplice di un termine (ancora in II.:
“sconveniente encomio” – “maggiore encomio” dei vv. 8-9, a rendere “thriftless praise” e “more praise”;
o in CXXIX.: “delirantemente ricercata” – “delirantemente detestata”, vv.6-7, per “Past reason hunted” –
“Past reason hated”), ai chiasmi (LXIV., v.8: “accrescendo guadagno con perdita e perdita con
guadagno”, per “Increasing store with loss, and loss with store”); sino a giungere a un più complesso
articolarsi del periodare sintattico (in LXIV, vv.1-3-5-9: “quando io ho veduto”, “quando talvolta le vedo”,
“quando io ho veduto”, “quando io ho veduto”, per “When I have seen”, “When […] I see”, “When I have
seen”, “When I have seen”).
Si potrebbe continuare: ma è meglio leggerseli, questi sonetti, di prima mano, per coglierne, intendo,
proprio dal vivo, sulla carne viva della resa letterale, la concretezza delle soluzioni proposte. Una poesia
“praticabile” diviene quella di Shakespeare: come quando “to be new made” di II. si rende proprio con
“essere fatto nuovo”, al riparo dell’ungarettiano, assolutizzato, “rinnovamento”, e “old” e “cold”, in
chiusura dello stesso sonetto, significano null’altro che “vecchio” e “freddo” (in posizione finale,
quest’ultimo aggettivo, contrapposto ossimoricamente a un “caldo” – “e vederlo caldo, il tuo sangue,
quando già lo sentirai freddo” - che l’anticipazione proclitica della particella rende di immediata, realistica
fruibilità visiva). O in CXXIX. basta l’aggiunta di un dimostrativo (“questo cielo”, nel primo emistichio del
verso 14) per creare, oltre che un perfetto parallelismo con l’”inferno” che segue, una più diretta e per
nulla enfatica raffigurazione dell’umana sorte e dei suo sogni fallaci:
“tutto questo lo sa bene, il mondo, eppure nessuno sa bene
sfuggire a questo cielo, che porta gli uomini a questo inferno”
“All this the world well knows yet none knows well,
To shun the heaven that leads men to this hell”.
Sarà anche vero che il traduttore non è che un “puro mediatore linguistico”, anzi “un mezzo, un medium,
un mediatore, un mezzano”, un interprete impossibilitato “ad annichilirsi a fondo”. Un
“traduttore/traditore”, insomma, come piace a Sanguineti definirsi, che “volente o nolente”, lo brucia, il
testo d’origine, e “senza residuo”(8). E però si gode a seguirlo, nelle sue acrobatiche invenzioni verbali
che penetrano a fondo nello spirito e nella carne dello “scespirismo” e lo restituiscono nei modi di un
divertito abbassamento tonale (“due amori io tengo”, in CXLIV, ove si apprende anche che “il mio angelo”
– la “passion”, insomma, del poeta - “sta mutato in demonio”) o di calibrate, concettose, virtuosistiche
proposte che delineano sulla pagina, con fedeltà piena, la “condizione manierista della contemporaneità”
(di Cortellessa la definizione (9)). Una contemporaneità intrisa di tradizioni, stratificate nel derma, nel
corpo della parola, nel suo tessuto linguistico, sintattico, metaforico, pure se la traduzione pare destinata,
come suggerisce l’autore, a sottolineare una “invalicabile distanza” dal testo di partenza.
Basterà scorrere, ancora, il sonetto XLIII., tra tutti il più concettosamente petrarcheggiante, non fosse
altro che per l’estensione sinonimica dei lemmi della visività e della sua negazione (si va dagli “occhi”,
dalla loro “luminosità”, al “sogno”, all’“oscurità”, all’”ombra”; dal “mostrare” e dall’”apparire” alla
condizione di cecità, dal “giorno” alla “notte”). Uno Shakespeare mascherato da Petrarca e un Petrarca
rifratto sanguinetianamente è il risultato: ed è qui che il travestimento raggiunge punte di autentica
maestria. Come quando il traduttore gioca sul plurisenso di un vocabolo (“happy show”, al v.6: un vero
“spettacolo felice”, per lui), o dà forza a un’epifania onirica isolando a fine verso il lemma che la veicola,
potenziato di senso da uno “stare” (“stay”) a un “apparire”
petrarchescamente, ma poi anche
leopardianamente, connotato (“quando, nella morta notte, la tua bella ombra imperfetta, / attraverso il
sonno profondo, ai miei ciechi occhi appare!”; in inglese: “When in dead night thy fair imperfect shade /
Trough heavy sleep on sightless eyes doth stay?”).
E sarà il caso poi di rileggersi i due versi finali, che la contrainte obbliga al più rigoroso rispetto fonico,
timbrico, lessicale, ma che nella loro piana, normalizzata, discorsiva cadenza, riconducono senza
apparente scarto al poeta delle “petites proses en poème”:
“tutti i giorni sono notti, a vedersi, finché non ti vedo,
e le notti giorni luminosi, quando i sogni ti mostrano a me”
“All days are nights to see till I see thee,
And nights bright days when dreams do show thee me”.
Non occorre commento. Forse ha ragione, ancora una volta, Sanguineti: “Che alle spalle si dia un testo,
alla fine, è un accidente”. Non solo. Ma che “quel testo possa mai trasparire, in qualche modo, è finzione
culturale acquisita e socializzata”. D’accordo. Ma è, quell’accidente, fortunato e fertile, se costringe a
mettere a prova la parola nelle sue potenzialità infinite, rendendo gestuali sino le interpunzioni – come
quella aggiunta al testo inglese, quasi senza parere, nel verso finale di XCI., che conferisce una carica
gestuale alla drammatizzazione dell’assenza, spazializzandola, la perdita (“infelice in questo, soltanto, che
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tu mi puoi togliere / tutto questo, via, e farmi, così, il più infelice: “Wretched in this alone, that thou
mayst take / All this away, and me most wretched make”).
Resta il piacere della lettura. Quello che un locutore (traduttore-interprete) più o meno camuffato ci
trasmette. Ma che ci prende, as a fever, coinvolgendoci nel travestimento.
Niva Lorenzini
NOTE.
(1) Cfr.E.Sanguineti, Faust. Un travestimento, Genova, Costa & Nolan, 1985, ora Roma, Carocci, 2003, pp.123-125.
(2) Di “ricreazione” a proposito del travestimento faustiano (con riferimento al “significato dilettoso” del termine) parla
Sanguineti in un intervento dedicato a La canzone di Greta, pubblicato in E.Sanguineti, Per musica, a cura di
L.Pestalozza, Ricordi Mucchi, Modena, 1993, pp.232-33
(3) E.Sanguineti, Commedia dell’Inferno, Genova, Costa & Nolan, 1989, con Introduzione (teatrale) a commedia
(cinematografica) di Federico Tiezzi, regista della compagnia dei Magazzini che debuttò con quel testo a Prato il 27
giugno 1989.
(4) G.Ungaretti, Vita d’un uomo, IV, 40 sonetti di Shakespeare tradotti, Milano, Mondadori, 1946, con Nota
introduttiva dell’autore.
(5) Ivi, p.12.
(6) Tre soli sonetti di Shakespeare compaiono in E.Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana,
1948. Si tratta dei sonetti XXII, XXXIII, XLVIII, tradotti da Montale in endecasillabi a rima alternata, spesso retta su
assonanze o consonanze. Ne deriva una musicalità da ode pariniana o da tonalità chiabreriana travestita in vesti
arcadiche, che rende curiosamente ‘cantabile’ il testo inglese, alleggerendolo e sfumandone il pathos (come nell’incipit
del sonetto XXII – “Allo specchio, ancor giovane mi credo / ché Giovinezza e te siete una cosa. / Ma se una ruga sul
tuo volto io veda / saprò che anche per te morte non posa”, o del XXXIII -. “Spesso, a lusingar vette, vidi splendere /
sovranamente l’occhio del mattino, / e baciar d’oro verdi prati, accendere / pallidi rivi d’alchimìe divine”). Nella Nota
introduttiva il poeta informa che i suoi “rifacimenti” shakespeariani sono anteriori al ’38.
(7) I corsivi sono miei.
(8) Lo si legge in E.Sanguineti, Il traduttore nostro contemporaneo, in La missione del critico, Genova, Marietti, 1987,
p.185.
(9) Cfr. A.Cortellessa, Sanguineti-Shakespeare: “Dove finisce il mio io non lo so io”, in “Poesia”, n.117, maggio 1998,
p.44.
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Sui dialetti
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Spostare la scena
Sul tentativo di aprire il sipario minore sul maggiore: traduzione teatrale e lingue sconfitte (1)
“Nella scrittura scegli la parola,
a teatro una parola non è mai definitiva”
Ascanio Celestini [Di Giammarco 2006]
1. Alcune questioni ancora aperte
Il noto scrittore keniano Ngugi Wa Thiong’o, imprigionato dalle autorità del suo Paese e successivamente
costretto per oltre vent’anni all’esilio per aver contribuito alla stesura collettiva di una pièce scritta nella
lingua nativa Gikuyu, abbandonando definitivamente nella scrittura creativa la lingua “colta” del
dominatore inglese, e attuale professore di inglese e di letterature comparate nonché direttore
dell’International Centre for Writing and Translation all’Università della California a Irvine, sostiene che
Intellectuals, from what we at the International Centre for Writing and Translation at the University of California at
Irvine call marginalised languages – we call them marginalised not marginal – have to realize that their primary
audience is that of the language and cultural community that gave them. It’s only they who can produce knowledge in
their own languages for that audience defined by their access to that language, and then later, through translation,
autotranslation, or by another person, open the works to audiences outside their original language community (2)
[Pozo 2004: online].
È, ovviamente, sempre arbitrario voler adattare posizioni sorte in determinate situazioni socio-culturali e
linguistiche, come quelle post-coloniali a cui si riferisce lo scrittore keniano, ad altre affatto differenti.
Tuttavia, il dato di fatto inconfutabile del dominare o dell’essere dominati, se non solo, primariamente
attraverso le lingue, e la posizione che ogni scrittore (traduttore) assume, più o meno direttamente, nei
confronti dei codici con cui si trova a operare, possono essere considerate delle costanti spazio-temporali
universali che, quindi, ci permettono di confrontarci con alcune problematiche sollevate nella citazione
sopra riportata, tanto più che Wa Thiong’o è perfettamente a conoscenza dei rapporti di forza linguistici
vigenti anche nelle le società occidentali e tra di esse, e non solo tra l’Occidente e le ex colonie [cfr. Wa
Thiong’o 2000: 73-85].
In sostanza, l’affermazione citata mette in campo, mutatis mutandis, alcune questioni che ci interessano
da vicino, sia che si tratti dello scrivere in lingua emarginata/dialetto tout court, sia che ci si presti a
tradurre in una data lingua emarginata priva di koiné non formalizzata, un’opera teatrale di un autore
“classico” che ha scritto in una lingua imperiale del passato, classica e codificata immutabilmente, come
potrebbe essere Plauto, o un autore “classico” della contemporaneità scrivente nella lingua pervasiva e
mobilissima dell’Impero (3), poniamo il Premio Nobel Harold Pinter, nella language of the capital [la
lingua del capitale/della capitale/del centro/dei grandi immaginari] come la definisce egli stesso [Pinter
1988: 21].
Che cosa significa, innanzitutto, tradurre per il teatro? Perché si fa? Quali sono le motivazioni che
spingono qualcuno a tradurre per la scena? Perché, in una situazione di diglossia scemante in cui una
lingua nazionale (seppure nelle sue varianti regionali) si sostituisce nelle funzioni comunicative principali
a un’altra preesistente ma ormai sconfitta, si traducono opere teatrali proprio in quest’ultima, costretta
tra l’altro a una consistente dose di prestiti (4) per adempiere a tale compito? D’altro canto
quest’operazione di lingue in contatto non può forse, in certi casi, restituire caratteristiche dell’opera
originale meglio di una piatta versione in una qualche sorta di pseudo-standard? “E dove mettiamo il
prestigio?”, dirà qualcuno. Non è un’operazione altamente svalutante trasporre l’opera di un “classico”,
antico o moderno che sia, in una lingua per troppo tempo ormai sanzionata socialmente proprio per la
sua mancanza di prestigio? E poi, ancora, come far fronte con un “povero” codice orale, destinato quasi
esclusivamente alla servile comunicazione quotidiana tra le pareti domestiche, a una lingua che può
vantare secoli di grandissima scrittura in tutti i generi testuali stoccata tra gli scaffali di altissime
biblioteche? Esiste una tale tradizione di linguaggio, in questo caso, teatrale nelle sue varianti (da quello
in versi a quello eminentemente colloquiale) da consentire un’assunzione nella lingua emarginata
(indolore per l’opera originale) di una tanto forte e alta alterità (5)? D’altro canto, la lingua teatrale per
sua natura non è forse “written to be spoken” [scritta per essere recitata/detta] [Snell-Hornby 1996:
33]? E come la mettiamo col cronòtopo bachtiniano, con le coordinate spaziotemporali (ma anche
culturali e psicologiche) in esso racchiuse, “poiché le difficoltà traduttive aumentano in proporzione alla
distanza cronotopica tra il testo che viene tradotto e la cultura verso la quale viene proiettato attraverso
la traduzione” [Osimo 2000: 13-14]? E a proposito di graffiare il prestigio di una lingua di cultura “alta” e
dei relativi argomenti “alti”, non è proprio questo ciò che succede anche con il latino della liturgia
cattolica, addirittura con la parola di Dio in greco o della Vulgata tradotta nelle tante parlate africane
senza alcuna tradizione scritta (6)?
Ma sì, – si potrebbe ribadire ribaltando la prospettiva – è assolutamente questo il compito
dell’intellettuale, dello scrittore/traduttore nato dialettofono: “produrre la conoscenza proprio nella lingua
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di quel dato pubblico definito dal suo accesso a quella data lingua” (cfr. traduzione della citazione di Wa
Thiong’o) e, in tal modo, contribuire ad arricchire la sua lingua, allargandone l’orizzonte culturale e,
soprattutto, sviscerandone le potenzialità espressive con la propria bravura, affermare la propria
“necessaria” peculiarità e creare la tradizione. Perché è proprio quest’operazione di ripresa e di
valorizzazione di un elemento (la lingua), se vogliamo, del passato di un luogo e di una comunità, a farne
semenza per un possibile futuro, o perlomeno a procrastinare ancora un poco la definitiva scomparsa:
Aesthetics does not develop in a social vacuum. The aesthetic conception of life is a product of life itself which it then
reflects. A flower, so beautiful, is the product of the entire tree. But a flower is also an important marker of the identity
of a particular individual plant. The flower, so delicate, also contains the seeds for the continuation of that plant. A
product of the past of that plant, it also becomes the future of the same plant (7) [Wa Thiong’o in Pozo 2004: online.
Enfasi mia].
Ma, si potrebbe obiettare, siamo propri sicuri che esista ancora una comunità di parlanti pronti a recepire
quell’opera in traduzione? Non si tratta forse di un’estrema illusione in cui cade
l’intellettuale/scrittore/traduttore in lingua sconfitta? Non è soltanto un’operazione intellettualoide fine a
sé stessa dal momento che ormai il dado sembra definitivamente tratto per determinate lingue (8),
impossibilitate a succhiare la linfa vitale di ogni lingua che si rispetti e perpetui, cioè quella che oggi le
proviene in gran parte, sebbene non solo, dai mezzi di comunicazione di massa?
E se invece non fosse proprio così? Le fortune degli uomini e delle loro lingue possono essere caduche,
come pure le sfortune: se, dati certi presupposti socio-culturali, una data lingua sconfitta viene
paradossalmente “ripescata”, anche solo temporaneamente, nell’alta società della cultura prestigiosa (9)
proprio ad opera di quegli intellettuali/scrittori/traduttori di cui parla il nostro autore keniano,
quest’operare – d’accordo, probabilmente per un lasso di tempo limitato – potrà forse avere ancora una
sua porzione di senso.
Le questioni che si sono appena poste, il cui elenco potrebbe essere allungato a piacere, sono variegate,
complesse, stratificate e colme di molteplici implicazioni. Di seguito non si cercherà tanto di sviscerarle e
di risolverle, bensì semplicemente di proporre qualche prospettiva per una loro parziale lettura.
La “dominante” nella traduzione teatrale – Necessità o committenza? Scrittura o performance?
Nel caso della traduzione per il teatro, tra “le occasioni pratiche del processo traduttivo, cioè i motivi
concreti a causa dei quali una traduzione viene realizzata” [Zuccato 2004: 469], generalmente si
riscontra in un numero infinitamente minore di casi rispetto ad altri generi letterari come la poesia, la
prosa poetica, il frammento, la narrazione-lampo epifanica, la short story ecc., la libera scelta, cioè
quell’assoluta spinta interiore, quella Sehnsucht, quella nostalgia/desiderio struggenti del testo, anzi
dell’anima di un autore (10). Quello che, insomma, potremmo definire il gesto gratuito e necessario di
un’acquisizione testuale in una data lingua autoriale, quel
quantum di forza tensionale e differenziale, sentito come reagente (e agente) all’interno della lingua nella quale si
vuole dare ‘traduzione’[…]. Da un’altra lingua, dalla sua poesia, può partire l’impulso a riconoscere un’esigenza viva di
intonare il respiro e lo sguardo della nostra lingua. […] la vocazione a configurare un nuovo legame del sentire e del
conoscere, che già ci chiama, e vuole che gli sia data riconoscibilità, vuole e offre riconoscenza” [Villalta 2005: 41-42].
Quasi sempre, anche nel caso di opere teatrali in versi o a forte componente di scrittura poetica,
l’occasione della traduzione è un incarico attribuito da un committente a un traduttore (specialista di una
certa lingua, autore teatrale in proprio conoscitore di quella lingua o quant’altro). Indipendentemente dal
tipo di occasione traduttiva, questa determinerà comunque la scelta di una specifica “dominante” nella
realizzazione pratica della traduzione, secondo quanto proposto da Torop [2000] sviluppando un concetto
di Jakobson [1987], cioè di un “elemento, all’interno di un testo, che viene considerato irrinunciabile per
caratterizzare il testo stesso. In funzione della dominante viene attuata la strategia traduttiva, che
consiste nel trovare tutti i mezzi necessari sacrificando elementi secondari di cui si può dare conto nella
traduzione metatestuale, ossia sotto forma di note, indicazioni in postfazione o prefazione o in altra forma
al di fuori del testo vero e proprio” [Osimo 2000: 14]. In sostanza, nel caso di un’occasione di desiderio
del testo senza fini scenici, la dominante si indirizzerà verso una soluzione eminentemente scritturale
ovvero di leggibilità autoriale, cioè letteraria, che comunque farà i conti, se non con una visione
“sacralizzante” del testo originale, almeno con un approccio rispettoso della sua letterarietà; mentre nel
caso di una commissione a fini drammaturgici, la dominante propenderà quasi sicuramente per una resa
scenica con tutte le conseguenze del caso, affidandosi a una visione traduttologica, se non proprio
“etnocentrica” [cfr. Berman 1985: 48-49], in buona parte “addomesticante” [cfr. Venuti 1998b: 67-87],
ripiegata se non altro sulle esigenze della produzione e della regia con in mente il loro pubblico, dunque
funzionalistica [cfr. Reiß-Vermeer 1991] (11). Quanto affermato da Pirandello a proposito del
drammaturgo si potrà, allora, estendere al traduttore, che si ritrova in una posizione molto simile alla
figura del “Dramaturg” nella tradizione teatrale tedesca, cioè di ganglio vitale (per la messa in scena) tra
l’autore, il testo, gli attori, il regista e il palcoscenico, quindi di “manipolatore”, “adattatore” dell’opera
secondo quanto richiesto dalle esigenze della produzione:
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Ma perché dalle pagine scritte i personaggi balzino vivi e semoventi bisogna che il drammaturgo trovi la parola che sia
l’azione stessa parlata, la parola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’atto, l’espressione unica
che non può essere che quella, propria cioè a quel dato personaggio in quella data situazione; parole espressioni che
non s’inventano, ma che nascono, quando l’autore si sia veramente immedesimato con la sua creatura fino a sentirla
com’essa si sente, a volerla com’essa si vuole [Pirandello 1908: 235].
Con questa affermazione il Premio Nobel siciliano tocca le questioni fondamentali del tradurre un’opera
per la sua drammatizzazione, questioni – come si legge tra le righe – che intrecciano indissolubilmente
l’operare linguistico con le giuste pretese di altri codici espressivi, ricordandoci la recitabilità in uno spazio
e in un tempo precisi, o meglio l’usabilità performativa del testo scritto, la sua attuabilità da parte di
attori/agenti, suggerendoci ciò che più tardi verrà definito come un insieme in cui interagiscono codici
multipli [Bassnett-McGuire 1985], un tutto costituito da elementi interrelati che – come in un’esecuzione
musicale – cambiano a seconda delle singole costellazioni delle componenti coinvolte. In ciò, il testo
verbale può essere paragonato allo spartito, il quale può adempiere le sue potenzialità soltanto all’interno
dell’ensemble costituito da strumenti e musicisti [Snell-Hornby 1993].
Nella stragrande maggioranza dei casi, l’occasione della traduzione in una lingua sconfitta, al pari di tante
pièces scritte direttamente in quella lingua, è data dalla committenza (teatro, produttore, regista ecc.),
intenta a soddisfare una certa aspettativa da parte di un pubblico “popolare” ancora parlante abbastanza
attivo, magari solo tra le mura domestiche o in situazioni amichevoli (bar, circolo ecc.) della lingua in cui
si traduce, oppure volta a sperimentare nuove formule espressive per un pubblico “colto” che, pur non
parlando più (nel caso delle generazioni più mature) quella lingua essendosene “emancipato”, ancora o in
qualche modo la comprende perché a suo tempo imparata, oppure non parlandola affatto perché solo
orecchiata (nel caso delle giovani generazioni) è disposto a impegnarsi nella comprensione
dell’espressività creativa (12). Vale la pena, pertanto, soffermarsi brevemente su cosa comporta la scelta
quasi obbligata di una “dominante” d’uso, cioè di una specifica strategia traduttiva tesa a produrre un
testo destinato a un’effettiva messa in scena.
2.1. Cambio di scena: da lingua teatrale a lingua teatrale
Al pari di ogni altra espressione linguistica creativa (letteraria), anche quella teatrale nel suo aspetto
dialogico (monologico) è una forma particolare di discorso, scritto per essere recitato, a volte ricalcato
sulla più bassa oralità, ma assolutamente distinto dal discorso naturale in quanto creato arti-ficialmente,
cioè arti-sticamente a tavolino, caratterizzato da particolari forme di coesione testuale, di densità
semantica, di forme ellittiche complesse, da una deissi particolarmente adatta all’interpretazione attoriale
ecc., insomma da tutto quanto in ambiente teatrale da Stanislavskiy in poi è noto come sottotesto. Esso
è, inoltre, contraddistinto da un’interazione di prospettive multiple derivanti dal gioco simultaneo di
diversi fattori e da ciò che essi risvegliano nel pubblico; particolarmente produttivo da questo punto di
vista si rivela l’impiego di elementi paradossali, ironici, allusivi, metaforici, di climax o di anticlimax
improvvisi ecc. Si può intenderlo anche come un’azione potenziale in progressione ritmica. Per ogni
singolo personaggio/attore il discorso teatrale assume le caratteristiche di un idioletto, di una maschera
linguistica che assieme al colore della voce, alla mimica, al movimento e quant’altro va a costituire
nell’interpretazione in palcoscenico un tutto che si tiene. Infine, si può dire che per il singolo spettatore
tra il pubblico il discorso e l’azione in scena vengano percepiti come un tutto sinuoso e, in ogni caso,
come un’esperienza personale diretta, coinvolgente (anche al negativo nel caso della noiosità dello
spettacolo). Queste componenti basilari del discorso teatrale devono essere tutte riconosciute e tenute in
considerazione nella drammatizzazione ovvero in egual misura nella traduzione da drammatizzarsi [cfr.
Snell-Hornby 1996: 33-34]. In sostanza, i testi teatrali possono essere descritti “as texts conceived for
possible theatrical performance, as dominant verbal sign-systems which rule and integrate all other
theatrical sign-structures” (13) [Totzeva 1999: 81]. A questo proposito Totzeva parla di “potenziale
teatrale”, Theatrical Potential [TP], cioè della relazione semiotica tra segni verbali e segni non verbali
ovvero strutture della performance, i codici (14) e le norme della quale devono essere compresi e
studiati come un particolare sistema per la creazione di senso, basato storicamente su determinate
tradizioni e convenzioni, che in un’ipotesi traduttiva devono essere ben presenti all’operatore.
TP can be seen as the capacity of a dramatic text to generate and involve different theatrical signs in a meaningful
way when it is staged. The concept of TP aims to clarify how the various structural characteristics of a dramatic text
stimulate and regulate the integration of theatrical signs to create intersemiotic meaning structures; for, after all, it is
only the written dramatic text that provides the literary communication and allows the creation of all the different
meanings which can be rendered through theatrical signs. […] The problem for translation as an interlingual
transformation of the dramatic text is therefore how to create structures in the target language which can provide and
evoke an integration of nonverbal theatrical signs in a performance (15) [Totzeva 1999: 82. Enfasi mia]
Dal punto di vista del traduttore – che almeno da ora in poi dovremmo definitivamente e idealmente
vedere come una sorta di figura plurale o perlomeno come figura-ombra del regista-adattatore, esperto
91
non solo dei codici linguistici ma in qualche misura anche del loro interrelarsi con codici d’altra natura,
nonché delle tradizioni/convenzioni teatrali in gioco –, l’approccio di Totzeva, integrante altri importanti
studi precedenti sempre di impianto semiotico che avevano sottolineato gli elementi necessari alla
“eseguibilità” di un testo e, conseguentemente, da tenere presenti per la sua traduzione (16), ha il
pregio di ricordare da un lato che, nel teatro di parola, il testo rimane pur sempre l’elemento che
concretizza la comunicazione letteraria, che permette ancora l’identificazione dello spettacolo come
appartenente, seppure in modo particolare, a una ben specifica tradizione di scrittura (a meno che non si
vogliano cancellare secoli di storia letteraria) (17). Dall’altro, esso evidenzia che questa stessa
comunicazione letteraria è qualcosa di assolutamente dinamico, mobile, che si dà nel dialogo permanente
del testo col sistema comunicativo non verbale. Tale dialogo apre nel momento traduttivo – in base a
elementi definiti aesthetics dominants [dominanti d’estetica] che tengono conto delle rispettive tradizioni
teatrali coinvolte – la possibilità di ricreare a livello linguistico strutture in grado di evocare o di procurare
nella rappresentazione un’integrazione di segni teatrali non verbali. In sostanza, il traduttore nella
stesura del testo d’arrivo fa già “leggere” a chi di dovere (regista, scenografo, costumista, tecnico delle
luci, ingegnere del suono ecc.) le possibilità drammaturgiche implicite in esso, “dentro” la sua lingua, cioè
quanto è stato definito come TP [Theatrical Potential]. Questo, a sua volta, potrebbe essere visto come
una sorta di TP1 Translational Potential [potenziale traduttivo] (18) che contempla la possibilità –
attraverso la trasformazione dei segni verbali e, di conseguenza, di quelli non verbali e la nuova
interazione tra tutti – di enfatizzare o indebolire determinati elementi-significati a scapito di altri (19),
riconfigurando, tra l’altro, creativamente il concetto di “residuo intraducibile” [cfr. Osimo 1998: 23]. Da
questo punto di vista si può ben dire che il testo teatrale d’origine, oltre che a essere ricollocato nel
tempo e nello spazio a ogni sua nuova messa in scena in quella sua data lingua d’origine, nel passaggio
da una lingua teatrale a un’altra lingua teatrale, cambia letteralmente di scena, venendosi a trovare in un
ambiente segnico affatto diverso.
Dati questi presupposti, e pur coscienti che ogni generalizzazione si scontra con la “realtà” (linguistica,
letteraria, socio-culturale, drammaturgica ecc.) di ogni singola opera e relativa messa in scena, in linea
teorica si dovrebbe poter sostenere che qualsiasi codice linguistico, indipendentemente dal grado di
scritturalità/letterarietà da esso sviluppato, in mano a un traduttore capace di stimolarne al massimo le
potenzialità – per brevità e comodità si rimane nel vago di questo termine, non intendendo
assolutamente impiegare una categoria preromantica abusata quale “genio della lingua”, tra l’altro troppo
spesso associata all’altra famigerata categoria di “genio del popolo” – ovvero di spremerne capacità
impensate (20) disponga di sufficiente TP1 [Translational Potential] per realizzare un adeguato TP
[Theatrical Potential], a prescindere dalle specificità di ogni singolo testo teatrale (periodo, argomenti,
ambientazione, personaggi e relativi registri ecc.) in qualsiasi lingua.
3. Spostare la scena: tradurre il maggiore col minore (21)
Negli ultimi anni in campo traduttologico si è cominciato a prestare una significativa attenzione a
problematiche complesse come quelle di “minoranza” e di “minorità”, soprattutto in una prospettiva postcoloniale, inter- e multiculturale e di genere, con un’attenzione particolare al non-canonico angloamericano e francofono (in cui però è del tutto assente il discorso minore-dialetto interno, ancora una
volta fuori moda [cfr. Zuccato 2004b: 185]), nonché – entrando nello specifico linguistico – alle difficoltà
di riproduzione nella lingua d’arrivo di elementi linguistico-culturali minoritari. Molto produttivo si è
dimostrato in questo campo il settore degli studi sulla traduzione multimediale, di cui la traduzione
teatrale fa parte appieno, anche se non si può disconoscere la tendenza generale a restringere l’attributo
alle forme di traduzione legate ad altri media, in particolare il cinema e la televisione, cioè il doppiaggio e
il sottotitolaggio, per i quali negli ultimi tempi è stata coniata la più precisa etichetta screen translation
[traduzione per lo schermo]. Proprio al settore del doppiaggio cinematografico-televisivo dobbiamo una
messe di scritti concernenti la resa di elementi dialettali (soprattutto nell’accezione anglosassone del
termine, cioè di varietà diatonica, diastratica e diafasica di una lingua, di substandard, e meno in qualità
di codice orale autonomo e distinto, come invece viene inteso in ambito italiano e tedesco) verso una
grande lingua veicolare, ovvero la “pulizia linguistica” (perché in soldoni si tratta di questo) a scapito di
tutto quanto non ha le sembianze di uno pseudo-standard [cfr. in particolare Herbst 1994; Heiss-Leporati
2000; Heiss 2001; Heiss 2004; Nadiani 2004a]. Sempre nella direzione dialetto (nell’accezione data per il
doppiaggio) verso lingua ufficiale, sul versante letterario interessanti questioni traduttologiche ha
sollevato Schreiber [2006], e teoricamente molto produttivi risultano essere gli studi di Englund
Dimitrova, dimostrandosi molto convincente, in particolare, il modello da lei sviluppato, alternativo al
concetto di continuum, per inquadrare le tendenze osservabili nella traduzione di opere letterarie con
parti in substandard [2004: 134]. Nella direzione dal minore riconosciuto ad altro minore formalizzato
importanti considerazioni si devono a Venuti [1998] e Cronin [2003], che parzialmente potrebbero essere
estese alla traduzione, avvenuta in particolare in passato in Italia, di testi da certi dialetti teatralmente
più blasonati (si pensi ad esempio alla grande tradizione del teatro veneziano, napoletano e siciliano) a
dialetti di altre aree. Meno studiate sono, non a caso vista la materia abbastanza scivolosa e sfuggente, le
implicazioni connesse con la direzione opposta del movimento traduttivo, cioè dalla lingua verso il codice
92
minoritario formalizzato [Cronin 2003], mentre assolutamente non studiate risultano essere le
implicazioni concernenti il tradurre in un minore sconfitto.
Eppure ancora oggi ci troviamo di fronte – per restare al nostro Paese – nonostante la pericolosamente
“scemante diglossia” citata all’inizio, a fenomeni curiosi, che qualcuno vorrebbe catalogare come
assolutamente “superflui”, “ridondanti”, perché “anacronistici”, mero gioco intellettuale, linguisticamente
e culturalmente a-funzionale: opere di Plauto trasposte in siciliano [cfr La Paglia 2002: online],
romanesco trasteverino [cfr. La Paglia 2001: online] e ora in romagnolo [cfr. Savini 2006] (22); poeti
classici e contemporanei di lingue diverse antologizzati e tradotti nel friulano della koiné da Giorgio
Faggin [1999], come pure grande narrativa neerlandese mai tradotta prima nemmeno in italiano [1993];
famose ballate di Villon godibilissime nel milanese di oggi di Claudio Recalcati e Edoardo Zuccato [2005];
il grande William Shakespeare selezionato e “ridotto” in Romagna da Franco Mescolini, come era
avvenuto in passato (e ancora avviene) in tante altre regioni anche per Molière, fino ai teatri e alle
trasmissioni della radio pubblica in dialetto della Svizzera italiana; un classico del teatro irlandese di
lingua inglese come John Millington Synge trasposto in romagnolo [cfr. Leech; Suprani 2006], senza
dimenticare la grande messe di testi teatrali scritti nella lingua nazionale (il “maggiore locale”) riversati
nei vari dialetti, anche questa un’interessante operazione di traduzione tra Kultursysteme (23) all’interno
di una “sovra-cultura” comune, e molto altro ancora. Fenomeni simili, in alcuni casi di ancora più vasta
portata, si riscontrano in altre regioni europee: sia citata esemplificativamente la costante opera di
traduzione in svariati dialetti tedeschi di testi drammaturgici contemporanei e, nel caso della produzione
di Hörspiele [radio-drammi], un genere letterario da sempre molto frequentato in Germania, la
trasposizione e l’adattamento in una sorta di koiné radiofonica basso-tedesca [plattdeutsch, l’insieme dei
dialetti del Nord della Germania] di copioni inglesi, e scandinavi, un procedimento all’ordine del giorno
anche in altri macrodialetti come il “bavarese”. E come dimenticare la creazione dei tanti siti web dedicati
al “minore”, la cui terminologia di superficie, di navigazione insomma, viene localizzata, cioè tradotta e
adattata direttamente dal principale gergo di cui si serve oggi the language of the capital?
Questo vasto e diversificato operare traduttivo non cade, del resto, in un vuoto, bensì si inserisce in un
“naturale” e stratificato sommovimento minoritario (24), che, non datando certo da oggi, come una sorta
di sciame sismico culturale, a ondate successive più o meno intense, ha attraversato e attraversa un po’
ovunque in Europa con sfaccettature diverse gli ultimi decenni [cfr. Nadiani 2006b], la cosiddetta seconda
modernità secondo la definizione coniata da Ulrich Beck per la sua collana di studi sociali edita dall’editore
tedesco Suhrkamp [1997].
Nel nostro Paese, ad esempio, si è assistito negli ultimi anni, oltre alla continua fioritura della poesia
“neodialettale” [si vedano, in particolare, Santi 2001; Bagnoli 2001; Zuccato 2003; Zinelli 2005],
significativa per le intere lettere nazionali nonostante alcune giustificate posizioni critiche [cfr. Villalta
1997], e a quella del teatro dialettale amatoriale diffuso in gradi diversi praticamente in ogni regione,
spesso di basso profilo letterario ma con un suo vasto e fedele pubblico, a una decisa affermazione di
notevoli esperienze teatrali a base dialettale (anche in parlate senza una forte tradizione in questo
campo) di compagnie e gruppi di ricerca tra i più importanti, risultate spesso “esportabili” con successo
nelle lingue maggiori e in festival e teatri prestigiosi (25). A cui si aggiungono altre forme teatraliperformative, che assieme alla parola e alla scena coinvolgono diversi linguaggi musicali (26), per tacere
del successo ottenuto da gruppi musicali, in particolare del Sud, frequentanti generi nuovi, spesso
innestati su quelli tradizionali rimodellati. Fenomeni simili sono riscontrabili in diverse aeree linguistiche
europee, dalla lontana Finlandia [cfr. Helin-Piispa 2004] al variegato universo tedesco passando per le
isole britanniche, per arrivare alla Slovenia [cfr. Zorko 2004] o all’Ungheria [Koloman 2004]. È in questo
sommovimento, in questo sciame sismico che si trova carsicamente a “fluire” il lavoro, anzi il compito del
traduttore minore nel senso di operatore dal minore (27) e verso il minore nell’accezione di Venuti.
3.1. Il compito del traduttore minore
Già in passato si è avuta l’occasione di creare la definizione di traduttore minore riferendosi
all’importanza che può avere per il minore la sua opera di traduzione nel/col maggiore. Nel giusto
tentativo di estendere tale concetto anche all’operazione inversa, quella dibattuta in queste pagine, che,
ovviamente, ha implicazioni diverse seppure rientranti nella stessa problematica (principalmente, anche
se non solo, l’acquisizione di prestigio del minore e il temporaneo rallentamento del suo processo di
patoisement), sia concessa una lunga autocitazione per favorire la ripresa dell’argomentazione.
Non si tratta di riterritorializzare il minore in un altro minore, ma di instaurare dall’interno un esercizio minore d’una
lingua maggiore, di affrontare il problema di come strappare a questa lingua una “letteratura minore”, nel senso
positivo e alternativo di Deleuze-Guattari, capace di scavare il linguaggio e di farlo filare lungo una sobria linea
rivoluzionaria, di come diventare il nomade, l’immigrato e lo zingaro della propria lingua [1996: 35]. […] Il “compito”
del traduttore dal minore consisterà non tanto nel tentativo di “redimere” imperialisticamente questo nel maggiore con
l’obiettivo di assegnargli chissà quale dignità, bensì nello sforzo di far risuonare nel maggiore la memoria (le
stimmate) di un diverso minore, il suo “dialetto” nell’originaria accezione etimologica del termine, di dialégein, di
“parlare attraverso”. Attraverso la ferita stratificata, fascicolata, comune a tutte le lingue, anche se in gradazioni
significativamente diverse (28). Ciò comporta, come afferma lo scrittore creolo, Édouard Glissant, che si abbandoni il
93
monolinguismo, l’altro grande feticcio del maggiore, che si parli e scriva in presenza di tutte le lingue del mondo.
Scrivere in presenza di tutte le lingue del mondo non vuol dire, ovviamente, conoscere tutte le lingue. Vuol dire che,
nel contesto attuale delle letterature e del rapporto fra la poetica e il caos-mondo, non si può più scrivere in maniera
monolingue. Significa dirottare e sovvertire la lingua maggiore non operando attraverso sintesi, ma attraverso
aperture linguistiche, che permettano di pensare i rapporti delle lingue fra loro, oggi, sulla terra: rapporti di
dominazione, di connivenza, d’assorbimento, d’erosione, di tangenza, eccetera – come il prodotto di un immenso
dramma, di un’immensa tragedia a cui la lingua dello scrittore non può sottrarsi [Glissant 1998: 33]. Si tratta di
pensare all’interno del proprio habitat di significato [cfr. Hannerz 2001], del proprio immaginario la totalità delle lingue
e di realizzarla attraverso la pratica della lingua d’espressione maggiore, aprendo il luogo, senza annullarlo o diluirlo,
“traducendo” la ferita, il dramma (che in un’operazione di traduzione include la trasformazione della lingua, la sua
irriconoscibilità) mediante una poetica della Relazione [Glissant 1998: 25] nell’imprevedibile, in cui arrivare a
sperimentare la debolezza, la mitezza, la fortezza e la violenza dell’alterità, di altri mondi, lingue e identità, e in essi
finalmente scoprire che il nostro stare è sostentato da incontri, dialoghi e conflitti con altre storie, altri posti, altre
persone [Chambers 1996: 9]. Il traduttore “minore”, colui che ricrea il minore nel maggiore, cerca di fare di
quest’ultimo un uso minore o intensivo, opporre il carattere oppresso di questa lingua al suo carattere oppressivo,
trovare i punti di non-cultura e di sottosviluppo, le zone linguistiche di terzo mondo attraverso le quali una lingua
sfugge, un animale si inserisce, un concatenamento si innesta, facendo il sogno contrario, rivoluzionario, alternativo ai
veri rapporti di forza: creare un divenir-minore [cfr. Deleuze-Guattari 1996: 49]. [Nadiani 2004c: 391]
Chiaramente, per il traduttore minore ora si tratterà di trovare una strategia con lo stesso fine di creare
un divenir-minore e un divenire per il minore andando nella direzione inversa: aprire il sipario minore sul
maggiore affinché questo venga inglobato dal minore.
Lo studioso irlandese Michael Cronin è uno dei pochi ad aver puntualizzato l’importanza dell’opera di
traduzione per le lingue di minoranza. Riferendosi in particolare a situazioni simili a quelle sperimentate
dalla sua madrelingua gaelica che, pur dovendo far fronte all’attuale lingua imperiale per antonomasia e
ridotta al lumicino nel numero degli ancora-parlanti effettivi (poche decine di migliaia), per certi versi
gode di invidiabili condizioni di favore, essendo la prima lingua ufficiale dello stato, che le permettono di
continuare a stringere coi denti il boccaglio della bombola dell’ossigeno (mantenere in vita una lingua
presuppone sempre un consistente sforzo economico), egli scrive:
[…] for minority languages themselves it is crucial to understand the operation of translation process itself as the
continued existence of the language, and the self-perception and self-confidence of its speakers are intimately bound
up with translation effects (29). [Cronin 2003: 146].
Pur consapevole delle difficoltà e dei pericoli insiti nell’operare traduttivo in una lingua minore in
situazione di diglossia per questa stessa lingua (diventare sempre meno riconoscibile come entità
linguistica autonoma capace di sviluppo futuro limitandosi a essere in “traduttorese” una pallida
imitazione della lingua di partenza), giustamente egli si fa paladino di una politica traduttiva “offensiva”,
che non disdegni nessun campo del sapere, in particolare quello scientifico e tecnologico, cioè di un
tradurre con funzioni pragmatiche che non si limiti a funzioni estetiche, pur correndo il rischio
dell’interferenza e del “forestierismo” per non soccombere alla stasi dovuta al totale “addomesticamento”
(in questo caso, infatti, la traduzione non funzionerebbe più come agente rinnovatore della lingua
d’arrivo) [cfr. Cronin 2003: 147]. Ovviamente, una posizione simile, contemplante una traduzione a tutto
campo del maggiore, in particolare della sua modernità, è comprensibile soltanto tenendo presenti le
condizioni di lingue in qualche modo “garantite” (30) e non “abbandonate a se stesse” come quelle
sconfitte, pur dandosi encomiabili tentativi in questo senso in diverse parti d’Europa (31).
Realisticamente, il traduttore minore potrà al massimo concentrarsi sulle funzioni estetiche della
traduzione, in quanto egli è perfettamente cosciente della sconfitta, del fatto che le sorti non potranno più
essere ribaltate. Il suo compito, non dandosi le condizioni politiche, sociali e economiche in cui si trova a
operare il collega del minore “garantito” occidentale, non dandosi più (se mai si è data) una comunità di
riferimento compatta nel senso di Wa Thiong’o, rinvenibile forse ad altre latitudini, polverizzata
nell’atmosfera accelerata dell’epoca in insiemi di singoli con orbite individuali, sarà molto più limitato, ma
non per questo meno importante.
Al pari e più di ogni altro intellettuale e operatore culturale (scrittore, poeta, commediografo, musicista,
regista teatrale o cinematografico (32) ecc.) minore, egli pur limitandosi, come già detto, alle funzioni
estetiche della traduzione di prodotti della modernità o dell’antichità, può contribuire a dilatare le
potenzialità espressive del suo codice immettendovi il maggiore considerato elevato e di prestigio,
secondo strategie e modalità dipendenti da ogni singola testualità nonché dalle sue capacità. Così facendo
e in presenza di traduzioni di valore di determinate opere, cioè commisurabili – in base al genere, alle sue
caratteristiche intrinseche, alle storie letterarie, maggiore e minore, di quel dato paese ecc. – ad altre
opere simili, in grado altresì di costituire un’apertura verso l’alterità, un dialogo con esso spingendo la
lingua d’accoglienza a registrare l’estraneità del testo straniero [cfr. Berman 1992: 4], egli favorirà il
superamento dello snobistico scetticismo da parte di chi ha abbandonato quel codice perché considerato
“zotico” e, d’altra parte, potrà incuriosire i membri delle generazioni successive ai quali esso, per
mancanza di prestigio e di “utilità”, non è stato trasmesso, a confrontarsi minimamente con quel
“fantasma” che continua ad aggirarsi nella contemporaneità a nome Minore.
94
Restando in ambito estetico, quanto più vasto sarà il suo operare traduttivo, tanto maggiormente egli
contribuirà allo stratificarsi del polisistema letterario nella sua lingua, nonché al modellamento del centro
di tale polisistema (33) – dato il livello quasi sempre molto elevato delle imprese traduttive, connotate
dunque da forze innovative o primarie – [cfr. Even-Zohar 1998-110-111], con influenze dirette su altri
sistemi culturali, che a nostro avviso, stante la restrizione geografica della lingua-cultura in questione,
possono rivelarsi di fondamentale importanza per la produzione-promozione estetica in quella lingua
sconfitta.
Con la sua piccola opera, egli non bloccherà di certo il processo di patoisement: di fronte si trova il rullo
compressore economico-mediatico del maggiore schiacciadiversità, o meglio, risemiotizzante a sua
immagine le peculiarità: quella language of the capital, neanche più da identificarsi con una lingua
specifica stanti le forti pressioni provenienti da molte aree geopolitiche, bensì proprio col sistema
economico vincente senza più vincoli morali e frontiere:
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta […] le tecnologie di comunicazione istantanea hanno prodotto una circolazione
estremamente rapida e pervasiva dei flussi immaginari che modellano la psiche sociale. L’integrazione economica si è
accompagnata a un processo di omologazione dei modelli di consumo […]. Ma questo non significa che nel mediascape
globale l’omologazione prevalga (34). Il capitalismo non funziona essenzialmente come omologazione, ma funziona
come potenza di sovradeterminazione semiotica […]. Il capitalismo realizza il suo dominio non solo omologando i
bisogni e le attese di consumo, ma soprattutto attraverso la risemiotizzazione delle forme culturali identitarie” [Berardi
2000: 151-152].
Questa risemiotizzazione, seguendo il pensiero di Arjun Appadurai, fa sì che le nascenti culture glocali
(vedi nota 33) non siano più legate a filo doppio né ai luoghi né al tempo, sono prive di contesto, una
miscela delle più disparate componenti create dal sistema della comunicazione globale. È dunque, di
nuovo e sempre, l’immaginario veicolato dal maggiore linguistico-economico-mediatico ad assumere un
potere fortissimo nella nostra quotidianità. La prassi del nuovo potere delle industrie mondiali
dell’immaginario prevede che forme di vita locale vengano scompaginate e reimpaginate secondo
immagini-modello provenienti da chissà dove [cfr. Appadurai 1997]. Il traduttore minore, pur non
potendo assolutamente fermare il processo di patoisement, può momentaneamente (forse per lo spazio
di una generazione o due) rallentarlo, inserendosi strategicamente in tale risemiotizzazione movimentata
dalla Globalkultur, da una Referenzkultur, cioè da un sistema mondiale a cui sempre più persone
oggigiorno fanno riferimento attingendo a un crescente numero di categorie universali, concetti e
standard, nonché a merci e a storie disponibili un po’ ovunque [Breidenbach-Zukrigl 2000: 207] su cui è
impressa la ferrea impronta del maggiore, trafugando quest’ultimo nel minore. Il tradurre contribuirebbe
a quell’“invenzione del discorso letterario locale”, in realtà dotato di una ben grande tradizione, all’“autoriconoscimento, cioè al riconoscimento delle norme e delle risorse culturali locali che costituiscono il sé,
che lo definiscono come soggetto locale” [Venuti 1998b: 76-77], a inventare, a partire dalla propria carne
attraversata dal maggiore, assieme agli altri operatori culturali, il presente minore, a inventare il
linguaggio per dire questo presente minore, poiché ancora si è questo linguaggio, rifiutando di
rinchiudersi nella stasi linguistica privatistica, nel silenzio. In definitiva:
Can the garment ever be made of a piece again, and if so will it be merely a costume on some museum mannequin, a
hollow reminder of what we once were, of what we might have become. […] The writer has to resist this process of
stultification, because by definition the living subtlety of language is his lifeblood. One of the dangers facing the writer
whose language no longer retains a currency is that the literary language may become a private language (35) [O’
Muirthile 1991: 82-83]
Il traduttore minore sarà uno dei protagonisti non tanto nel resistere, ma nel desistere, nell’accettare di
mettere in gioco la propria minorità [Cfr. Casagrande 2003: 82] in un’apertura e non in una chiusura, per
poter così perseverare a pronunciare la continua ferita della risemiotizzazione in una prospettiva down-totop con la flebile voce del vecchio idioma della montagna [cfr. Pinter 1988] trasformato, trasfigurato, del
minore-dialetto, spremendo creativamente da esso tutto l’insospettabile TP1 [Translational Potential] di
cui è dotato, allargandone i limiti linguistico-culturali.
Insomma, si è propensi a pensare che un arresto temporaneo, o perlomeno una decelerazione del
patoisement, una sopravvivenza del minore sconfitto, una limitata rinascenza non tradizionalistica, non
pseudofolklorica del minore locale, possa avvenire solo ricollocando globalmente le particolarità locali
rinnovandole conflittualmente [Beck 1996: 97], e per l’appunto l’operazione del tradurre il maggiore
nel/col minore è naturalmente un conflitto sotto tutti i punti di vista (36), ma questo è – nei rapporti di
forza sproporzionati – il prezzo da pagarsi per potersi ricol-locare un poco oltre, ancora per un poco.
Corollario di quest’ultima strategia alternativa alla stasi, al retrocedere della chiusura a riccio dei falsi
movimenti revanchisti delle identità, delle lingue e delle tradizioni inventate di sana pianta, figlie della
nostalgia per una Heimat idealizzata e della paura di una Verfremdung alla porta di casa (quale casa?),
dovuti proprio a un rinnegamento di una parte di sé, a una mancanza di riconoscimento di un sé (37)
preso in un continuo mutamento, il lavorio del traduttore minore assolutamente non etnocentrico (vedere
se stessi come misura di tutte le cose e adeguarle al proprio centro) in quanto perfettamente consapevole
dell’inesistenza di un centro-Heimat-comunità, frammentato, polverizzato dalla modernità maggiore,
95
inglobato in essa, procura ai suoi potenziali ancora-interlocutori il labile legame con gli unici, sfilacciati,
contaminati, “veri” valori-puzzle identitari e comunitari possibili, certo, anche questi “costruiti”, perché
sempre in divenire, valori comunque necessari per una minima “autoidentificazione” [cfr. Bauman 20053:
98], di cui l’uomo per sentirsi tale non può fare a meno, costituiti dal minore-dialetto (38).
Last but not least l’atto di tradurre da parte del “minore sconfitto” potrà testimoniare/insegnare, finché a
esso sarà dato esistere, al “maggiore locale” con cui coabita, seppure ai piani sotterranei, la capacità di
accogliere l’alterità-stranierità (39), per quanto forte essa sia, e altresì che i rapporti tra le differenti
lingue e culture saranno sempre rapporti di forza asimmetrici, che un giorno potranno interessare da
vicino anche lo stesso maggiore locale. E chissà che quest’ultimo, in un’ormai impossibile opzione
plurilinguistica, non impari a essere più rispettoso del minore che si trova in casa [cfr. Zuccato 2004b:
188], vittima e testimone della sopraffazione e dell’ingiustizia, del fatto che sul palcoscenico del mondo le
parole, scritte e orali, sono sempre definitive, perché condannate alla morte. A meno che non le si
rimetta in scena con la traduzione.
Giovanni Nadiani
Note.
(1) Queste note sono scaturite a margine della lettura della commedia di T. Maccio Plauto Mostellaria nella versione in
romagnolo di Marcello Savini dal titolo U s’i sênt (2006, in corso di stampa). In alcuni punti esse riprendono e
rielaborano concetti in precedenza già espressi altrove [cfr. Nadiani 2002 e 2004c].
Per “lingue sconfitte” s’intendono qui tutte quelle lingue, a forte valenza orale pur con significativi monumenti scritti,
prive di uno status culturale e funzionale riconosciuto e riconoscibile da parte dei potenziali parlanti o presunti tali,
anche in presenza di uno status “politico” ufficiale, in preda dal punto di vista socio-linguistico a un definitivo processo
di patoisement (in una situazione di lingue in contatto i parlanti una data lingua assumono e accettano mentalmente e
praticamente la svalutazione ufficiale del loro codice, visto come meno prestigioso e incapace di rinnovamento con il
conseguente abbandono dello stesso [cfr. Lafont 1976]).
(2) “Gli intellettuali delle lingue, che noi al Centro Internazionale di Scrittura e Traduzione dell’Università della
California a Irvine, chiamiamo emarginate – si badi bene emarginate ma non marginali – devono rendersi conto che il
loro primo pubblico è quello delle lingue e delle comunità che gliele hanno date. Soltanto essi sono in grado di produrre
la conoscenza nelle loro lingue per quel dato pubblico definito dal suo accesso a quella data lingua, e poi, attraverso la
traduzione, l’autotraduzione, oppure per mezzo di un’altra persona, aprire le opere a tanti tipi di pubblico al di fuori
della loro comunità linguistica originale”. [Traduzione mia. Lo stesso dicasi per le citazioni successive quando non
diversamente indicato].
(3) Per questo concetto si vedano, sia pure da angolature diverse, Ashcroft, Griffiths, Tiffin 1989; Hardt, Negri 2000.
(4) Si vedano, ad esempio, i nomi(gnoli) in lingua italiana di alcuni personaggi della citata versione in romagnolo di
Marcello Savini dell’opera plautina, che comunque potrebbero costituire parte di una strategia traduttiva per far fronte
allo stratificatissimo stile del grande classico latino [cfr. Blänsdorf 2004: 200]; oppure le indicazioni di regia, sempre
rigorosamente in lingua italiana. Accorgimento, quest’ultimo, che troviamo anche nel più scalcagnato copione della più
infima compagnia amatoriale, probabilmente per “calco”, per abitudine alla lettura/scrittura di copioni in italiano. Si
tratta, comunque, di un fenomeno curioso, quasi che chi scrive, da un lato, dubitasse della capacità descrittivoinformativa del dialetto, buono solo sul piano dialogico-espressivo, e dall’altro volesse ammiccare al regista, agli attori
ecc. facendo loro capire che sì, il copione è dialettale, ma l’autore è persona di cultura, che padroneggia la lingua di
cultura: tutte operazioni che sembrano sottolineare un’inferiorità del codice locale.
(5) Questo problema è stato affrontato in modo dettagliato dal traduttore scozzese Bill Findlay [2000] a proposito della
resa in Scots dell’opera Enfantillages dello scrittore contemporaneo Raymond Cousse scritta in francese standard.
Questa traduzione apparentemente “asimmetrica” solleva questioni concernenti l’integrità sia del testo di partenza sia
di quello d’arrivo, particolarmente a livello diastratico e del rapporto tra dialetto e performance.
(6) Per questa complessa problematica si veda Tanner 2004.
(7) “L’estetica non si sviluppa in un vacuum sociale. La concezione estetica della vita è un prodotto della vita stessa
che questa poi riflette. Un fiore, tanto bello, è il prodotto di tutto l’albero. Ma un fiore è anche un importante
contrassegno dell’identità di un particolare gruppo di piante come pure di una particolare singola pianta. Il fiore, tanto
delicato, contiene in sé pure la semenza per la continuità di quella pianta. Un prodotto del passato di quella pianta
diventa dunque il futuro della pianta stessa”.
(8) Secondo quanto riportato dall’Atlante delle lingue minacciate pubblicato dall’Unesco, alla fine di questo secolo
potrebbero essere scomparse 3.000 lingue locali minori, cioè quesi la metà di tutte le lingue esistenti [cfr. Stagliano
2005: 22].
(9) Si pensi, esemplarmente, a quanto accaduto a partire dalla metà degli anni Cinquanta in Italia alla poesia in molti
dialetti italiani, in particolare in quello romagnolo, e alle continue fortune di un teatro, anche internazionale, che ha
fatto del dialetto la sua bandiera espressiva.
(10) “Poiché – come sostiene il poeta-traduttore Gianni D’Elia parafrasando in qualche modo Foucault – più che poter
godere di cosa esistente, si cerca e si insegue qualcosa che ci seduce attraverso la lingua; da un’altra lingua. Non si è
neppure convinti che in questo modo si sia lì a tradurre un testo o soltanto il testo; proprio perché il libro che si
cercava era un autore, quell’autore, più che la cosa scritta di un autore; insomma un’anima, più che un manufatto di
essa” [D’Elia, 1990: 59-60].
(11) Queste diverse impostazioni possono, in realtà, costituire le diverse fasi a cui è sottoposto lo stesso testo in vista
dell’obiettivo finale [targeting] della messa in scena. L’ultima fase prevede la totale riscrittura del testo originale da
parte di un drammaturgo della lingua d’arrivo, allontanandosi totalmente dal lavoro dei traduttori ovvero dal testo di
partenza. Riferendosi a questa drastica pratica in vigore nel teatro britannico, in particolare nel caso di testi moderni e
contemporanei, Aaltonen sostiene che “targeting a particolar audience as a part of a specific theatre praxis decides the
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way this dramatic or theatrical is conveyed in translation” [l’operazione di mirare a un pubblico particolare, come
elemento di una specifica prassi teatrale, determina il modo in cui l’elemento drammatico o teatrale è trasmesso”
[Aaltonen 2005: online].
(12) Queste sono due macrotipologie di un fenomeno riscontrato negli ultimi decenni in Romagna e in altre regioni
italiane e nordeuropee, in cui a tutti gli effetti si inserisce la traduzione dell’opera di Plauto di Savini.
(13) “Come testi concepiti per una potenziale messa in scena teatrale, come sistemi di segni a dominanza verbale che
regolano e integrano tutte le altre strutture segniche teatrali”.
(14) A questo proposito Pfister [1994] ha proposto un repertorio dettagliato di codici e canali; mentre Fischer-Lichte
[1994] ha esplorato l’interazione di multipli segni sistemici teatrali nella “performance come testo”.
(15) “Il TP può essere considerato come la capacità di un testo teatrale di generare e coinvolgere segni teatrali
differenti in modo da veicolare un senso al momento della messa in scena. Il concetto di TP intende chiarire come le
diverse caratteristiche strutturali di un testo teatrale sollecitino e regolamentino l’integrazione di segni teatrali al fine di
creare strutture intersemiotiche significanti; dal momento che, dopo tutto, è soltanto il testo teatrale scritto a fornire
la comunicazione letteraria e a permettere la creazione di tutti i significati diversi che possono essere prodotti
attraverso i segni teatrali. […] Per la traduzione intesa come trasformazione interlinguistica del testo teatrale, il
problema è di come creare strutture tali nella lingua d’arrivo in grado di fornire e evocare nella messa in scena
un’integrazione di segni teatrali non verbali”.
(16) Ci si riferisce, in particolare, a quanto elaborato dal gruppo di ricerca viennese di Snell-Hornby su concetti
fondamentali quali: Spielbarkeit [rappresentabilità/performabilità]; Sprechbarkeit [recitabilità]; Atembarkeit
[respirabilità] e, per il teatro musicale, Singbarkeit [cantabilità] [cfr. Snell-Hornby 1996: 33].
(17) Pur concedendo che nella realtà dei fatti a teatro avviene di tutto (potenza dei registi!), questo aspetto sembra
passare troppo spesso in secondo piano nel lavoro di molti traduttori/adattatori che, pur nel tentativo di adeguarsi alla
consegna pirandelliana citata sulla lingua dei personaggi, ripiegati completamente in modo funzionalistico sul loro
pubblico fanno scomparire del tutto la lingua – e quindi ciò che essa veicola non solo a livello del contenuto – dietro i
personaggi e l’azione, come ben riassume la posizione di un noto traduttore anglosassone: “The language has to get
out of the way. In a perfect translation […] the audience would not be listening to the language as such; the audience
would be experiencing the response of the character, and the language would be merely a fully transparent means to
that end”. [La lingua deve togliersi di mezzo. In una traduzione perfetta (sic!) […] il pubblico non ascolterà la lingua in
quanto tale; esso farà esperienza della reazione del personaggio, e la lingua sarà soltanto il mezzo del tutto
trasparente per questo scopo] [ Bethune 2004: online]. Vi sono, tuttavia, anche altre posizioni di valenti traduttori che
hanno adottato strategie traduttive funzionali al loro pubblico e, ad un tempo, rispettose della letterarietà d’arrivo,
come il famoso statunitense Paul Schmidt e colleghi canadesi [cfr. Veltman 1998; Lavoie 2000].
(18) Ci sia concessa la messa in campo per analogia di questa definizione.
(19) Secondo Totzeva “a concept of translation in which the translator tries to render and create within the structures
of the target language all meanings realized in the dramatic text leads to a reduction of TP. […] A further reason for
the reduction or loss of TP in translation is frequently a narrow concept of textuality, where text is understood not as a
complex of communicative signals, but only as a complex of verbal signs” [1999: 89]. [Una concezione della
traduzione in cui il traduttore tenti di riprodurre e creare dentro le strutture della lingua d’arrivo tutti i significati
realizzati nel testo teatrale porta a una riduzione del TP. Un’ulteriore causa di riduzione o di perdita di TP nella
traduzione spesso è da imputarsi a una concezione ristretta di testualità, intendendo il testo non come un complesso di
segni comunicativi, bensì soltanto come un complesso di segni verbali].
(20) Lo scrivente, ovviamente, non sostiene alcuna posizione “puristica” della lingua, tantomeno di quella locale
eminentemente orale, vedendo le lingue piuttosto come qualcosa di dinamico, in perenne contatto tra loro e frutto di
meticciamento continuo, e nemmeno una posizione passatista o rinunciataria. Egli “sente” la lingua come qualcosa di
dinamico, che contempla la possibilità da parte del codice sub-alterno di assumere prestiti lessicali, di creare calchi e
adattamenti morfologici e fonologici dal codice maggiore o da quelli “imperiali”. Pur essendo cosciente che ciò può
contribuire a una forte diluizione della sua lingua, rendendola un’imitazione della maggiore, egli ritiene che questa
estrema ratio possa avere una funzione, da un lato, nel rallentare un poco il citato processo di patoisement e,
dall’altro, nel “cogliere metaforicamente” la continua trasformazione in cui il suo mondo ed egli stesso sono coinvolti.
Da ciò deriva il suo atteggiamento critico nei confronti di studiosi (in particolare di letterature dialettali) che per
decenni hanno tacciato ogni tentativo di spostamento/sfondamento dei limiti linguistico-letterari, per esempio, dei
dialetti italiani, di mero sperimentalismo fine a se stesso [cfr. ad es. Brevini 1996: 238; Civitareale 2005: 105-121],
concependo in fondo grettamente l’uso degli stessi in modo esclusivamente regressivo e rivolto a un mondo finito. La
realtà è ben più complessa, variegata e, appunto, dinamica.
(21) Il termine “minore” qui si ricollega al concetto di “lingua sconfitta” e lo si intende nell’accezione data da Venuti di
“minority”, che, ovviamente, ingloba anche i concetti di “dialetto” e “dialettale”: “I understand ‘minority’ to mean a
cultural or political position that is subordinate, whether the social context that so defines it is local, national or global.
This position is occupied by languages and literatures that lack prestige or authority, the non-standard and the noncanonical, what is not spoken or read much by a hegemonic culture. Yet minorities also include the nations and social
groups that are affiliated with these languages and literatures, the politically weak or underrepresented, the colonized
and the disenfranchised, the exploited and the stigmatized” (1998a: 135). [Intendo “minorità” per significare una
posizione culturale o politica subordinata, a prescindere dal fatto che il contesto sociale che la determina sia locale,
nazionale o globale. Tale posizione è assunta da lingue e letterature prive di prestigio o di autorità, dal non-standard e
dal non-canonico, che non è molto parlato o scritto da una cultura egemonica. Inoltre rientrano nelle minorità le
nazioni e i gruppi sociali correlati con tali lingue e letterature, il politicamente debole o sottorappresentato, il
colonizzato e il non affrancato, lo sfruttato e lo stigmatizzato].
(22) Di altre precedenti e illustri trasposizioni in romagnolo di commedie plautine (in parte pubblicate) ad opera di Aldo
Spallici, Rina Macrelli e Walter Galli si ha notizia, ma al momento mancano a chi scrive i relativi riferimenti bibliografici.
(23) Uso impropriamente questo concetto derivato da Mudersbach [2002]. Per un approccio applicativo al suo modello
di Kultur si veda Nadiani 2006.
(24) Tale sommovimento minoritario, solo in alcuni casi storicamente motivati (ad es. in Scozia o Irlanda) fa
effettivamente il pari con quello identitario. Nella maggioranza dei casi si tratta di un insieme di fenomeni che, per il
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loro spessore qualitativo e la coscienza interculturale degli attori, non rientrano nel localismo becero e mitizzante, da
tradizione inventata, constatabile in alcune regioni europee e, in particolare, dell’Italia del Nord [cfr. Nadiani 2004b].
(25) Si pensi solo alle esperienze di artisti come Spiro Scimone e Enzo Moscato e, per restare alla Romagna, al Teatro
delle Albe di Ravenna di Franco Martinelli e Luigi Dadina con testi propri o con quelli di Nevio Spadoni, il quale ha
scritto pure copioni commissionati da Ravenna Festival; al cesenate Teatro Valdoca di Mariangela Gualtieri e Cesare
Ronconi; al fulèsta [narratore] Sergio Diotti della compagnia Arrivano dal mare! di Cervia; al pressoché “inspiegabile”
fenomeno del teatro e della poesia a vocazione teatrale di Raffaello Baldini [1998; 2000; 2003], il cui maggiore
interprete, il ben noto attore del cinema e della televisione Ivano Marescotti, da ormai tre lustri continua a esibirsi
davanti a un pubblico “da stadio”, seguito a ruota dall’altro grande interprete Giuseppe Bellosi.
(26) In Romagna si contano, tra le altre, le produzioni di spettacoli poetico-musicali dell’attrice e cantante Daniela
Piccari su testi di Raffaello Baldini e Nino Pedretti; di musical e cabaret musicale del musicista-attore-autore Paolo
Parmiani; di reading di jazz-poetry e di monologhi e dialoghi in musica di chi scrive col gruppo Faxtet.
(27) Non si dimentichino, ad esempio, i tantissimi e continui esempi di trasposizione anche nelle grandi lingue di
“cultura” (il maggiore) dei nostri autori dialettali del passato e del presente: l’elenco sarebbe lunghissimo.
(28) Su questo argomento vedi anche Nadiani 2002.
(29) “[…] per le lingue di minoranza è cruciale intendere il processo traduttivo in sé come prolungamento dell’esistenza
della lingua, e l’auto-percezione e l’autostima dei parlanti sono strettamente collegate con gli effetti della traduzione”.
(30) Oltre allo specifico caso della lingua irlandese, si pensa in particolare a tutte quelle lingue, che dotate di una lobby
politica (cioè di parlanti-elettori autocoscienti in grado di far pressione sui loro rappresentanti) sono riuscite a farsi
accogliere nella Charta delle lingue minoritarie e regionali, con tutti i vantaggi del caso, consultabile al sito:
http://www.coe.int/T/E/Legal_Affairs/Local_and_regional_Democracy/Regional_or_Minority_languages/.
(31) Si pensi, ad esempio, al lavoro dei teologi luterani basso-tedeschi che da decenni portano avanti la loro
riflessione, fatta anche di numerose traduzioni da diverse lingue, in plattdeutsch, oppure, restando sempre in
quest’area linguistica, alla redazione quotidiana dei notiziari radiofonici delle emittenti pubbliche del Nord della
Germania che, di necessità, deve trovare il modo di “tradurre” di continuo la modernità, l’attualità del maggiore nella
citata pseudo-koiné radiofonica del minore.
(32) Anche in questo settore, particolarmente esoso dal punto di vista della produzione, si sono avute importanti
esperienze negli ultimi anni anche nel nostro Paese, seppure di valore estetico diverso, segnatamente in Friuli, nelle
Puglie, in Romagna e altrove.
(33) “To say that translated literature maintains a central position in the literary polysystem means that it partecipates
actively in shaping the centre of the polysystem” [Even-Zohar 1998: 111]. [Dire che la letteratura tradotta mantiene
una posizione centrale nel polisistema letterario, significa che essa partecipa in modo attivo all’operazione di
modellamento del centro del polisistema].
(34) Robertson a questo proposito ha coniato il termine glocalizzazione (globale nel locale e viceversa).
Globalizzazione significa anche la compressione, l’incontro/scontro di culture locali che, di conseguenza, devono
ridefinirsi [Robertson 1995: 45]. La cultura glocale non deve essere vista in modo statico (come ad esempio quando si
usa il concetto di Mcdonaldizzazione, cioè tutti uguali), bensì come processo contingente e dialettico, e niente affatto
solo economicistico. Secondo il modello della glocalizzazione si tratta di cogliere e decifrare nella loro unitarietà
elementi fortemente contraddittori.
(35) “Si potrà mai rifare un vestito da un frammento, e se sì, sarà forse semplicemente un costume da museo, un
vano ricordo di quel che fummo un tempo, o di quello che avremmo potuto diventare? […] Lo scrittore deve resistere a
questo processo di ridicolizzazione, perché per definizione la finezza di una lingua gli è vitale. Uno dei pericoli che corre
lo scrittore la cui lingua non ha più diffusione è quello di fare della lingua letteraria una lingua privata” [Traduzione di
Mario Giosa].
(36) “Die Globalkultur ist kein machtfreier Raum, in dem jeder höflich um seine Meinung gebeten wird. Jede Differenz
muss ausgehandelt, die eigene Position verteidigt werden, und wer nicht laut genug schreit, geht unter. Globalkultur
ist nicht unter gleicher Partizipation aller Kulturen entstanden und fördert auch nicht automatisch die Entwicklung hin
zu einer fairen Welt.” La Globalkultur non è uno spazio privo di rapporti di forza in cui ognuno viene invitato
gentilmente a esprimere la propria opinione. Ogni differenza dovrà essere contrattata e la propria posizione difesa, e
chi non urla abbastanza forte, soccombe. La cultura globale non è sorta con la partecipazione equanime di tutte le
culture e perciò non promuove automaticamente lo sviluppo di un mondo più leale” [Breidenbach-Zukrigl 2000: 207].
(37) “Care for others, understanding of them, are only possible if one can adequately distinguish oneself from others.
If I see myself as ‘undistinct’ from you, or you as not having your own being that is not merged with mine, then I
cannot preserve a real sense of your own well-being as opposed to mine. Care and understanding require the sort of
distance that is needed in order not to see the other as projection of self, or self as a continuation of other” [Grimshaw
1986: 182-3]. (Interessarsi agli altri, comprenderli, sono azioni possibili soltanto a partire da un’adeguata distinzione
di sé dagli altri. Se io vedo me stesso come ‘indistinto’ da te, oppure ti vedo privo del tuo proprio essere che non è
unito al mio, allora non sono in grado di mantenere un senso reale per il tuo ben-essere opposto al mio.
L’interessamento e la comprensione necessitano quel tipo di distanza in grado di far percepire gli altri non come
proiezioni di sé, oppure se stessi come una continuazione dell’altro).
(38) Anche nel dibattito “progressista” sulle identità culturali sembra predominare ancora una concezione di identità
granitica, dai confini circoscrivibili [cfr. Snell-Hornby 1999: 105-106], e non mobile e stratificata, fascicolata,
“narrativa” [cfr. Giesen 1999; Assman, Friese 1998].
(39) “Dal momento che la diversità culturale è sempre di più il destino del mondo moderno, e l’assolutismo etnico una
caratteristica regressiva della tarda modernità, il pericolo maggiore nasce da forme di identità nazionale e culturale –
nuove e vecchie – che tentano di assicurare la loro identità adottando versioni chiuse di cultura o comunità o rifiutando
di impegnarsi […] con i difficili problemi che sorgono dal cercare di convivere con la differenza” [Hall 1993: 360].
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101
L'ALCHEMIA DELLA LINGUA
Nel costruirci un percorso di crescita e di verità è inevitabile partire dalle origini, ripercorrere a ritroso
l’evoluzione della nostra esistenza fino alla genesi, al contesto storico e politico e alla tradizione che
l’hanno condizionata.
Si portano segni e codici acquisiti, ereditati da consegne antiche, talora infelici, talora fondanti di un
nuovo modo di esistere.
Sono nato e cresciuto in Veneto, a Caorle, in provincia di Venezia, sul mare, fino ai diciannove anni. Le
conversazioni quotidiane avvenivano in dialetto, le cose della vita le ho imparate in dialetto, i sogni stessi
li ho nutriti in dialetto, la mia lingua madre e nutrice.
Lingua madre è la lingua nella quale apprendi l’essenza vitale delle parole, il respiro che è loro concesso è
lo spazio che hanno nell’esistenza quotidiana: si apprendono i concetti con le loro altezze e le loro
profondità.
Il suono nasce per modulazione del respiro e compressione del pneuma vitale, e la reiterazione del suono
si fa rito attorno alle cose, si fa rito di evocazione, di vocazione e osservazione.
Il quid osservabile si pone in mutamento, ciclico, anch’esso reiterato, e mutevole, inafferrabile se non per
pochi lembi.
I concetti sono suoni legati alle cose e il dialetto è stato, per me, la sola via per arrivarvi. Per questo mi è
stato lingua madre, in un tempo non molto lontano in un luogo alquanto appartato dove l’italiano non era
ancora forte da porsi come alternativa di lingua viva.
L’italiano era la lingua dell’amministrazione anagrafica, scolastica, la lingua della televisione e della
burocrazia.
In questo incide molto la dimensione del microcosmo familiare, popolare, poco attraversato
dall’informazione dei media, più legato alla parola di strada, alla parola tramandata e alla diceria.
Il lessico familiare crea ulteriori declinazioni alle parole, le adatta ad esigenze domestiche, crea piccole
storture, mutazioni consonantiche, assorbe l’umore delle persone.
Il dialetto muta da famiglia a famiglia, da persona a persona; quello di mio padre è arcaico, stretto e
duro, legato alla terra; quello di mia madre è dolce, suadente e musicale, si apre al mare e si apre al
mondo.
E il dire della vita e della sua assenza rimane un dire per approssimazione, un dire che solo di rado cade
nella grazia dell’estasi e, oltre, della rivelazione.
Non ha senso dire se non nel segno della verità o del sogno, il resto è glorificazione dell’assenza, idolatria
della perdita.
Le verità, non più assolute, si intrecciano e portano a fiorire l’essenza della vita, la sua spendita: la vita
non sempre è vissuta, talora è subita, talora è patita, ma ogni verità a priori cade di fronte all’esperienza,
che sola può vestirci di sapere, nelle sue profondità e nelle sue altezze.
I sogni sono la forza motrice, sono la spinta al rinnovamento. I sogni sono il desiderio che alimenta la
vita, che la porta ad esperire, ad entrare nella metamorfosi dell’esistente.
Mi rendo conto solo ora che in casa mia, una famiglia patriarcale di dieci persone, prevaleva il dialetto di
mia madre, in continuo contrasto con l’altro medesimo dialetto di sesso diverso, arcaico – come dicevo –
asciutto, che riporta alla durezza del solco, alle asperità dell’esistenza, una lingua spigolosa e spezzata,
serrata nel respiro.
Per dirla con parole di Anna Maria Farabbi: “La lingua dialettale come materia linguistica, per me, è figlia
del padre. Proviene da un’origine contadina o urbana in cui il modo di disporre il dire, il comportamento, il
ruolo delle persone e delle parole, e quindi dei concetti – esistenziali e relazionali – avevano un timbro
maschile”.
Una lingua aggressiva e troppo spesso volgare da poter esprimere solo rabbia e amaro dolore.
La lingua del padre è lingua chiusa legata alla fissità e alla tradizione, è quel dialetto che non si apre, che
non riesce a dire cose nuove, eppure rivendica il controllo: sul tramandabile, sul pensabile.
Dico che in casa mia prevaleva il dialetto di mia madre, ma quello di mio padre dominava, in aperto
contrasto imponeva, non accolta, l’oligarchia dei patriarchi.
Ma a questo punto non è più questione di lingua o di dialetto, è questione, come sostiene Anna Maria
Farabbi, di linguaggio, maschile e femminile.
Il dialetto è carico di forte valenza sessuale, è lingua corporale, legata all’istintualità del pensiero fisico,
risente molto dell’umoralità della materia e degli elementi.
Ci sono un dialetto di mare e un dialetto di terra, un linguaggio femminile del moto fluente della nebbia
evanescente e un linguaggio maschile della concretezza, della materia dura.
Il mio dialetto assomiglia alle parlate della costa dell’alto Adriatico, è aperto, ha in sé la vibrazione del
vento e il movimento del mare e questo determina un particolare sguardo sul mondo, proprio della gente
di mare. Vi è una vastità immensa e, a guardarla, un piccolo sguardo.
Ecco il dire che descrive, attento alla luce e al movimento, ecco il dire che non può fermarsi su se stesso,
ma deve bilanciarsi con un altrove che non ha misura. Il suono porta in sé il limitare del porto, la soglia e
il confine, la tensione verso l’ignoto, le partenze e i ritorni. Tutte cose insostenibili al raziocinio umano,
più facili da accogliere se affidate all’incertezza delle nebbie, alla vaghezza delle ombre. E il dialetto è
102
magico in questo: flessuoso e mobile, continuamente mutevole, si concede innumerevoli licenze
espressive, crea sodalizi fra le parole e germinazioni alchemiche, dove la metamorfosi è legata non tanto
a un’istintualità cruda, ma ad una percezione della mutevolezza dei concetti dei quali le parole sono
contenitori.
E la dimensione popolare concede un dire disinibito, capace di parlare di vita e morte insieme,
intrecciando in un unico tessuto i grandi amori e le grandi disgrazie e le piccole cose del fare quotidiano.
Il dialetto popolare ha una visione naturale del ciclo vitale e per questo riesce ad avere quella forza
universale, quella capacità di parlare a tutti, di nominare sentimenti ed emozioni per consegnarli alla
collettività.
Gli archetipi vengono continuamente richiamati al sentire comune tramite metafore, simbologie e
costruzioni analogiche.
L’invenzione è trovare qualcosa che già c’è (dal latino invenire, trovare), il gioco sta nello sguardo libero
da quel raziocinio della mente che spesso porta a non vedere, a non sentire, a bloccare le emozioni.
In una lingua metamorfica ci sono meno argini al pensiero, al fluire di pensieri, all’espressione delle
dinamiche emotive, dei moti del cuore. In questo sta la forte fisicità del dialetto, nell’uso di una
intelligenza del corpo.
Il dire è antico, nella struttura biologica del corpo e nelle profondità vaste di un inconscio collettivo che ci
accomuna.
Il dire ha strutture archetipiche, geometrie interiori che ritornano a costruire immagini e concetti a
testimonianza di una continuità nel ciclo vitale. E la costanza esige che la coscienza, per rinnovarsi, ritorni
su se stessa, ritorni in sé, restituendosi all’in-conscio.
E così è per la lingua. Per rigenerarsi, la parola deve ritornare al non detto, all’indicibile, mai detto o non
più detto, deve riversarsi nella propria ombra e attraversarla. È la rigredo alchemica, la macerazione di
quanto ha esperito ed è volto al compimento, per predisporlo a nuova vita, a nuova forma, a nuovo
desiderio.
E la melancolia è ricaduta del desiderio su se stesso. Etimologicamente significa bile nera e nel linguaggio
alchemico è sinonimo di “materia al nero”, il piombo da trasformare in oro, la “prima materia” che si deve
trasformare in luce, la parola detta in nuovo verbo.
Per avere nuova forma, la lingua deve tornare su se stessa, sulle proprie ombre, e il dialetto è pieno di
zone oscure, offuscate dalle nebbie dell’indicibile, legato alle venature della storia e del corpo.
Soprattutto, il dialetto è lingua esperita che volge al termine, carica di tradizione, da intendersi come
insieme di verità vissute e subite, di concetti e precetti tramandati.
Il declino è dato da una discrasia tra concetto e idea, tra la vita e il desiderio.
Il pericolo del dialetto è la caduta in una visione nostalgica di un mondo perduto, fatto di altri valori e altri
concetti, ma in una inarrestabile deriva del sentimento dalla contemporaneità.
L’opus alchemico richiede che si vada oltre, che si agisca sulla materia e quindi sulla parola. L’azione è
alla base della trasformazione, è desiderio che torna in circolo.
Nel fare è l’essenza della poesia, dal greco poiein, fare, creare. Il poeta è creatore, demiurgo di nuova
forme e per questo deve mettere le mani in pasta, entrare nel denso della materia e ricomporla. Il poeta
risveglia.
Il poeta rifiuta i valori indotti, per condurre le coscienze ad un sentire profondo, radicato negli archetipi. Il
poeta pesca nel torbido, ne trova il suono e ne fa canto così da raccontare la materia in divenire e
accompagnare i sensi alla perceptio e, oltre, alla visione e al sogno, per nutrire la coscienza, per aiutare
l’uomo a mantenersi in armonica relazione col cosmo.
Il canto è lo sforzo/istinto dell’essere umano che cerca di sintonizzarsi al rumore di fondo, al suono
primario, alla metrica universale.
L’alchimista si fa cantore e segue i ritmi vitali, le geometrie frattali che narrano i profili della materia e
dell’ignoto, travalica le soglie e ne torna mutato.
La ricchezza del dialetto sta nell’abbondanza di soglie, nello sguardo analogico che unisce immagini e idee
tramite accostamenti del simile. È questa la natura della lingua arcaica, legata ad un’osservazione
costante che unisce cose lontane in forza di analogie. Il micro e il macrocosmo sono richiamati l’uno
all’altro, seguendo gli ordini frattali di una geometria che non taglia il mondo con linee rette, ma ne segue
la tortuosità delle curve.
Non è il dialetto in sé ad avere tale prerogativa, ma il suo dire magmatico che riesce a sciogliersi per
ricomporsi: solve et coagula è principio alchemico della trasformazione.
Solve è sciogliere, nelle strutture interne e da legami esterni, coagula designa la composizione, la
reductio ad unum. Per lo sviluppo della coscienza la lingua deve aprirsi ad un continuo mutamento,
svincolarsi da forme rigide per creare schemi fluidi, non cristallizzati.
Elio Talon
103
POLITICHE DELLA LINGUA: I DIALETTI, L’ITALIANO E LA POESIA
La sistematizzazione della poesia italiana del Novecento attualmente in corso tramite numerose antologie
e convegni non sembra deviare granché dalle linee impostate dalla storiografia risorgimentale, i cui
contributi alla formazione di un canone nazionale unitario (e quindi di un’identità nazionale) sono stati
tanto decisivi quanto falsificanti. In campo linguistico, come è ben noto, si fronteggiarono un secolo e
mezzo fa un’opzione plurilinguistica e una monolinguistica. La prima fu rappresentata al meglio da
Graziadio Isaia Ascoli, per il quale la diffusione di una lingua e di un’identità nazionale non doveva andare
a scapito della lingua e dell’identità locale, cioè dei dialetti; la seconda opzione, quella monolinguistica,
rappresentata all’epoca da Manzoni e altri, fu quella che poi prevalse, assorbendo in sé e aggiornando gli
scopi di quel filone puristico così influente nella nostra tradizione almeno da Bembo in poi (1). La politica
linguistica ebbe un contraltare preciso nella storia letteraria nazionale, che tramite l’istruzione
obbligatoria ha capillarmente diffuso l’idea di una tradizione teleologicamente unitaria di cui il
Risorgimento sarebbe il naturale sbocco. Malgrado qualche recente segnale di revisione di tale
impostazione, non è difficile prevedere che nelle scuole si continuerà a presentare una storia letteraria
tendenziosa e intellettualistica in cui c’è posto d’onore per Marino ma non per Basile e Maggi, per Monti,
Manzoni e Carducci ma non per Porta e Belli, per Marinetti e Quasimodo ma non per Giotti e Tessa, e
domani per Sanguineti e Zanzotto ma non per Pierro, Baldini e Loi (se non come note a piè di pagina per
sembrare pluralisti) (2).
L’ostilità all’Italia delle regioni e delle città, quella cioè dei dialetti, ammessa tutt’al più come fenomeno
comico e folcloristico, è l’altra faccia della mentalità diffusa da cui emerse un nazionalismo che si risolse
in breve in un penoso provincialismo (dall’italietta postunitaria al delirante strapaese del fascismo).
Questa miopia di fondo del Risorgimento si avverte in innumerevoli atteggiamenti, fra i quali si può
citarne uno significativo. Nella Milano della Restaurazione, il gruppo di letterati del Conciliatore (Pellico,
Berchet, Di Breme ecc.) si adoperò lodevolmente per istituire un canale di comunicazione con la cultura
europea coeva. Questi intellettuali mostrarono grande interesse per la poesia popolare straniera, il cui
recupero, come ben sappiamo, ebbe un ruolo essenziale nella letteratura dell’epoca. Il dato singolare è
che quei romantici italiani mostrarono un interesse solo letterario e superficiale per la cultura popolare del
proprio paese, tanto che nessuno di loro sottoscrisse la pubblicazione della Collezione delle migliori opere
scritte in dialetto milanese, l’antologia in 12 volumi curata da Francesco Cherubini per l’editore Pirotta nel
1816-17. Come rileva Luca Danzi, se l’assenza dei classicisti montiani era scontata, colpisce che fra i
romantici solo Ermes Visconti sottoscrivesse il progetto di pubblicazione dell’opera, “segno evidente che
la poesia nella lingua del proprio municipio non rientrava nell’orbita di un’avanguardia che era invece
attratta dalla tradizione popolare europea.” Ovviamente la poesia milanese da Fabio Varese a Maggi a
Porta non è poesia popolare; è un modo di utilizzare la lingua del popolo in “presa diretta”, radicalmente
diverso dall’uso turistico dei romantici italiani. Non sorprende allora scoprire che il pubblico dei
sottoscrittori della Collezione di Cherubini “era composto di impiegati governativi […] di qualche avvocato,
architetti, negozianti e molte persone ‘comuni’”, il che porta a concludere che la voce di quei poeti
dialettali “trovò ascolto quasi soltanto nel vario e stratificato popolo di Milano e in pochi altri letterati,
curiosi o illuminati”, fra cui spiccano Volta e Manzoni. Non meno sospettosa degli intellettuali fu l’editoria,
tanto che perfino Giovanni Gherardini, amico e mentore di Cherubini oltre che direttore del Giornale
italiano, gli suggerì di dedicarsi a una versione italiana delle migliori produzioni tedesche invece che
all’antologia meneghina (3).
Atteggiamenti del genere, tipici del più gretto provincialismo, si sono ripetuti infinite volte da allora. In
tempi recenti, è sufficiente notare l’attenzione delle case editrici e della pubblicistica per le minoranze,
linguistiche e d’altro genere, importate dall’estero seguendo le mode e le tendenze per lo più della cultura
anglo-americana – un’attenzione a cui fa riscontro un’indifferenza, travestita in alcuni casi da
condiscendenza, verso il patrimonio letterario delle lingue dell’Italia (4). Meglio quindi ricordare, per
chiudere l’excursus, la Milano di Parini, Verri, Beccaria, Balestrieri e Porta, cioè la Milano dialettale,
nazionale e internazionale che precedette quella dei romantici. Non è certo ignorando o addirittura
combattendo la tradizione locale che ci si apre ad orizzonti più ampi, tanto meno in un’epoca come la
nostra in cui l’internazionalizzazione di molti problemi cruciali (dall’economia alla difesa, all’ambiente, alla
politica, alla ricerca scientifica ecc.) sta rendendo le strutture nazionali sempre più inadatte a risolverli.
Illuminanti a riguardo le parole del poeta genovese Roberto Giannoni:
Ogni volta che il nostro progetto, individuale o collettivo, sembra cozzare contro un’esistenza, anzi contro
un universo, che ci si parano dinanzi al modo di dati ineluttabili; o quando la storia umana si configura
davanti a noi come una res aliena perché inter alios acta, e il succedersi degli avvenimenti assomiglia a
uno sforzo ciclico che torna inevitabilmente su se stesso; o quando persino i mercati, di beni e di segni, ci
appaiono simili ad entità imperscrutabili: in tutti quei casi noi siamo profondamente, irrimediabilmente
dialettali. (5)
104
Troppo piccole per affrontare molti problemi materiali, le nazioni paiono invece a volte troppo grandi per
soddisfare quelle esigenze emotive di appartenenza che, per quanto pericolose e criticabili, sembrano
comunque necessarie ai più.
In alcune parti d’Italia (soprattutto quelle che si pregiano di essere più “avanzate”) le ultime generazioni
hanno dimenticato o stanno dimenticando il dialetto, senza aver per questo davvero imparato l’italiano,
come può notare chiunque, dalla scuola dell’obbligo all’università, si trovi a correggere le composizioni
italiane degli studenti. Né le ultime leve hanno imparato l’inglese, spesso citato come il motivo per cui
non vale la pena di perder tempo con i dialetti. In realtà non è che molti studenti scrivano male in italiano
perché hanno una competenza fenomenale in inglese; anzi, in Italia la percentuale di popolazione con
una competenza effettiva nelle lingue straniere è fra le più basse dei paesi occidentali (6). All’ignoranza
si pensa quindi di rimediare con un uso superficiale e quasi sempre a sproposito di anglicismi. Volendo
essere un po’ cattivi, ma purtroppo non lontani dal vero, si potrebbe dire che dall’unità d’Italia a oggi si è
verificato un passaggio dall’analfabetismo di massa all’analfabetizzazione di massa – il cosiddetto italiano
dei “semicolti”. Un paio di secoli fa, un artigiano analfabeta sarebbe stato in pieno possesso della sua
lingua (un dialetto); il suo omologo odierno alfabetizzato in genere possiede in modo parzialissimo e
imperfetto l’italiano (ma, per fortuna, spesso anche un dialetto), tanto che si potrebbe discutere a lungo
sul “progresso” implicito in un mutamento che provoca più di un imbarazzo anche ai suoi paladini. Paolo
D’Achille, ad esempio, scrive che “se gli analfabeti e i semianalfabeti di ieri sono oggi diventati semicolti,
si tratta pur sempre di un passo in avanti, da considerare anche nei suoi aspetti positivi”. L’espressione
“un passo in avanti”, tuttavia, indica in italiano un progresso reale, un miglioramento effettivo, che non
può avere “anche” dei lati positivi; solo ciò che è negativo o di dubbio valore può avere “anche” degli
aspetti positivi. A parte i lapsus (comunque indicativi), D’Achille auspica che questa situazione venga
superata portando fasce di popolazione sempre più vaste ad un pieno possesso della lingua nazionale –
un obbiettivo di realizzazione alquanto incerta vista la direzione che tecnologia e sapere stanno
prendendo in questi anni (7). Per il momento, il risultato concreto dell’italianizzazione “compiuta” del
paese ha condotto alla confusione fra parlato e scritto e a una scrittura media modellata sempre più sul
parlato, ma un parlato di una povertà sintattica e lessicale allarmante (8). Inoltre, non è affatto certo che
un arricchimento in tal senso si verifichi nel prossimo futuro: è noto che la tecnologia spinge verso
un’iconizzazione della cultura, producendo immagini più che parole – a prescindere dal fatto che nelle reti
informatiche le parole non sono in genere neanche italiane. Legato a ciò è un fenomeno di notevole
gravità di cui poco si parla: la scomparsa dell’italiano come lingua scientifica, sostituito dall’inglese per
intero nei settori tecnico-scientifici e parzialmente anche in quelli umanistici, ad esempio nella linguistica
(9). Poiché l’uso speculativo scritto di un idioma è ciò che maggiormente distingue una lingua da un
dialetto, ciò significa che l’italiano, in un’ottica planetaria, sta oggi regredendo verso una condizione di
dialetto.
Nell’insieme non mi sembra un quadro culturale incoraggiante per contribuire a un progetto politico,
qualunque esso sia, di Europa, anche perché non mi è chiaro con quale coscienza l’Italia si ponga nei
confronti delle diversità a lei esterne, quando la storia della sua politica culturale è stata in buona parte
quella di una lotta per ignorare o sopprimere le diversità a lei interne. Istruttivo a riguardo è il percorso
che ha condotto il Parlamento ad approvare il 15 dicembre 1999 la legge n. 482 per la tutela delle
minoranze linguistiche storiche. Si tratta di norme che garantiscono alle popolazioni albanesi, catalane,
germaniche, greche, slovene, croate, francesi, franco-provenzali, friulane, occitane e sarde insediate sul
territorio italiano la possibilità di mantenere viva la propria tradizione culturale tramite l’insegnamento
scolastico e altre forme di bilinguismo, dalla toponomastica all’uso dell’idioma locale accanto all’italiano
negli atti pubblici. Ma come si è giunti a questo necessario provvedimento? Dopo decenni di discussioni,
nel 1991 la Camera dei Deputati aveva già approvato una legge sulla tutela delle minoranze linguistiche,
salvo che a quell’epoca un gruppo di intellettuali torinesi (Valerio Castronovo, Gian Enrico Rusconi, Nicola
Tranfaglia e Saverio Vertone) scrisse un accorato appello ai partiti di sinistra perché venisse bloccata,
affermando che la sua attuazione avrebbe messo in pericolo l’unità del paese. I grandi giornali italiani si
mobilitarono a sostegno di questa iniziativa, che ottenne un consenso e una risonanza di gran lunga
superiori alle aspettative dei suoi promotori. Come puntualizza Tullio De Mauro, con poche eccezioni
“‘l’intera cultura giornalistico-intellettuale italiana dichiara di schierarsi e si schiera contro la legge’”, la
quale infatti non fu approvata. A che cosa sarà mai stato dovuto, allora, il rapido ravvedimento dei
parlamentari e degli intellettuali italiani verificatosi tra il 1991 e il 1999? A una maggiore maturità
democratica o a un’impennata del buon senso? No. Semplicemente al fatto che l’Unione Europea approvò
nel 1995 una serie di norme sulla tutela delle minoranze linguistiche che l’Italia dovette sottoscrivere.
Ancora una volta c’è voluta l’Europa per imporre dei comportamenti civili a una classe intellettuale e
dirigente che nel 1991 non aveva, nelle parole di De Mauro, “‘un Hitler da scimmiottare’ … o un regime
che potesse ‘avere bisogno di polarizzare le attenzioni contro i diversi. Il rigurgito contro le lingue meno
diffuse ha una sua completa autonomia, viene dal profondo della cultura antropologica indigena di
universitari, giornalisti e dirigenti politici italiani.’” (10)
Tutto questo senza entrare nel merito della legge 482 in sé, che è un primo passo necessario ma non
esaurisce affatto la questione coinvolta. Mi pare infatti che l’impostazione di fondo del problema sia molto
discutibile. A mio modo di vedere, non si tratta solo di difendere le minoranze linguistiche, cosa di per sé
giustissima, ma di permettere che rimanga attivo e in vita tutto il patrimonio linguistico dell’Italia, che,
105
come sappiamo, non ha eguali per varietà e ricchezza in nessun altro paese europeo (11). Non si capisce
per quale ragione solo al friulano e al sardo sia concesso uno statuto particolare, come se, ad esempio,
napoletano, dialetti siciliani, veneziano, milanese e romagnolo non potessero vantare una tradizione
altrettanto notevole. La sfida per il futuro, a mio parere, è quella di trovare un atteggiamento ragionevole
ugualmente distante sia dall’ostilità verso i dialetti che troppo spesso è prevalsa in passato fra le autorità,
sia dallo spirito da riserva indiana che le norme sulle minoranze si portano sovente appresso.
Edoardo Zuccato
Note.
(1) Com’è noto, Tullio De Mauro ha calcolato che nel 1870 solo il 2,5% della popolazione conoscesse l’italiano. Questo
dato è stato messo in discussione da altri studiosi, i quali, facendo leva sui concetti di semi-competenza, lo hanno
portato al 10%. Confermando così loro malgrado, vista la miseria dei numeri anche in questa ipotesi di massima,
l’irragionevolezza della politica linguistica post-unitaria. Oltre agli studi di De Mauro, si veda P. D’ACHILLE, “L’italiano
dei semicolti”, in Storia della lingua italiana, a c. di L. SERIANNI e P. TRIFONE, 3 voll., Einaudi, Torino, vol. 2 (“Scritto
e parlato”), 1994, pp. 47-8.
(2) Si vedano – ma sono davvero due fra i tanti esempi recenti – le antologie Poeti italiani del secondo Novecento
1945-1995 curata da M. CUCCHI e S. GIOVANARDI per Mondadori (Milano, 1996), che contiene 55 poeti in italiano
contro 5 poeti in dialetto, o Poesia italiana del Novecento, a cura di E. KRUMM e T. ROSSI, Banca Popolare di Milano,
Skira edizioni, Milano, 1995, con 81 poeti in italiano contro 7 in dialetto (più alcune poesie in vernacolo di Pasolini e
Zanzotto). Sarebbe opportuno o intitolare i libri di questo genere Poeti in italiano del Secondo Novecento e Poesia in
italiano del Novecento, escludendo tutti i dialettali, o ripensare radicalmente gli equilibri della poesia nelle varie lingue
dell’Italia.
(3) Le citazioni e i riferimenti provengono da L. DANZI, “Francesco Cherubini”, in Varon, Magg, Balester, Tanz e Parin:
La letteratura in lingua milanese dal Maggi al Porta, Bibliografia delle opere a stampa della letteratura in lingua
milanese, a c. di D. ISELLA, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano, 1999, pp. 182-4. Come si nota, niente è cambiato
da quei tempi. Nelle avanguardie novecentesche, ma con poche eccezioni anche fra i letterati in genere, esterofilia e
populismo sono stati di nuovo i surrogati di interesse e affetto per la vita e la lingua reale del popolo, un
atteggiamento ampiamente condiviso e sostenuto dall’editoria.
(4) Fra i mille esempi possibili, si veda Introduzione alla letteratura comparata, a c. di A. GNISCI, Bruno Mondadori,
Milano, 1999, un aggiornato panorama della materia con contributi di numerosi studiosi su miti e temi letterari,
letteratura e arti, i viaggi, la traduzione letteraria, imagologia, multiculturalismo e studi post-coloniali, femminili e di
genere. In tanta abbondanza di trame interculturali non c’è però una sola riga sulle letterature dialettali, mentre sono
abbondantemente ammesse le minoranze e le prospettive extra-canoniche oggi al centro del dibattito nordamericano.
(5) R. GIANNONI, ’E trombe, Menconi Peyrano Editori, Milano, 1997, p. 10.
(6) In base ai rilevamenti statistici consultabili al paragrafo “The languages spoken in each Member State” della
sezione
“Languages”
nel
sito
ufficiale
dell’Unione
Europea
(http://europa.eu.int/comm/education/languages/lang/europeanlanguages.html), alla data dell’1 giugno 2000 solo
Regno Unito, Irlanda, Spagna e Portogallo mostrano percentuali di diffusione di seconde lingue più basse dell’Italia, il
che, per altro, nel caso dei primi due stati menzionati è giustificabile col fatto che l’inglese è la loro lingua madre. Altre
informazioni sullo scarso numero di ore, rispetto ad altri paesi dell’Unione, dedicate all’insegnamento della seconda
lingua in Italia sono consultabili al paragrafo “The place of languages in the educational systems”.
(7) P. D’ACHILLE, cit., pp. 78-9. Anche quando si realizzasse una vera diffusione della lingua italiana, non si vede
comunque a che pro aver distrutto le precedenti competenze linguistiche della stragrande maggioranza della
popolazione per sostituirle con altre, invece di aggiungere le seconde alle prime.
(8) Su questi fenomeni si veda M. DARDANO, “Profilo dell’italiano contemporaneo”, in Storia della lingua italiana, cit.,
vol. 2, p. 373, e C. MARAZZINI, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattito sull’italiano, Carocci, Roma,
1999, pp. 216-7.
(9) È noto che anche in ambito umanistico si pubblica in Italia più di una rivista specialistica in lingua inglese, pena
l’esclusione dai circuiti sempre più internazionali della ricerca. Sul tema si vedano, oltre al già citato C. MARAZZINI,
pp. 226-7, M. A. CORTELAZZO, Lingue speciali. La dimensione verticale, Unipress, Padova, 1990, Tradurre i linguaggi
settoriali, a c. di G. CORTESE, Cortina, Torino, 1996, e Studi sul trattamento linguistico dell’informazione scientifica, a
c. di T. DE MAURO, Bulzoni, Roma, 1994.
(10) Le vicende del 1991 e i commenti di De Mauro si trovano in C. MARAZZINI, cit., pp. 199-200.
(11) La normativa europea stessa presenta delle stranezze, fra le quali spicca il fatto che uno degli idiomi tutelati sia il
catalano, parlato da circa 7 milioni di persone, quindi in realtà molto meno “minoranza linguistica” di alcune delle
lingue riconosciute come ufficiali dall’Unione (ad esempio, lettone e finlandese). Lo stesso discorso si potrebbe ripetere
per diversi dialetti italiani, comunemente parlati e compresi da un numero di persone superiore a quello delle lingue
dei paesi più piccoli dell’Unione Europea.
106
In dialogo
107
IL FONDO DEI DISCORSI
Un’intervista con Umberto Fiori (1)
Come si rappresenta la relazione tra poesia e filosofia? Pensa che si tratti di una relazione
complementare o piuttosto paradossale? L’espressione poetica, nella sua esperienza, ha
qualcosa in comune con l’articolazione filosofica della vita? La sua scrittura è in qualche modo
stata influenzata da una prospettiva filosofica?
Fin dal suo sorgere, più o meno duemilacinquecento anni fa, quello che chiamiamo ‘filosofia’ (e che nel
nostro mondo assume forme diverse, dall’ideologia alla scienza) vede proprio nella poesia l’antagonista
principale. Eraclito si scaglia contro Esiodo e Omero, Platone bandisce i poeti dalla sua Repubblica. La
poesia, in quei secoli, si presentava come portatrice di verità fondanti per un’intera comunità; la ragione
voleva soppiantarla, voleva sostituire al sapere tradizionale la propria epistéme. Già Aristotele, come
sappiamo, era meno ‘intollerante’ nei confronti dei poeti, e nei secoli successivi i filosofi hanno
riconosciuto e anzi celebrato i valori poetici: va comunque osservato che – salvo eccezioni – ogni
riconoscimento non fa che ribadire la posizione della poesia nel nostro tempo: una posizione di relativo
prestigio, ma sostanzialmente subalterna rispetto ai saperi ‘davvero’ fondati. Oggi la poesia ha a che fare
– agli occhi dei più – con la sfera dell’estetico, che è come dire del superfluo, del vago, dell’inessenziale.
Può dare piacere e conforto; ma le risposte decisive vanno cercate altrove.
Nella mia esperienza, la scrittura poetica muove da questioni etiche; è una forma di riflessione, di ricerca
vitale che – come la filosofia – mette in gioco il linguaggio e il mondo, si interroga sull’esistenza, sulla
verità, sulla salvezza. Come la filosofia, la poesia cerca di andare al fondo delle cose, al fondo della
lingua. Entrambe sono alla ricerca della parola giusta.
Vorrei soffermarmi sul senso in cui linguaggio e mondo sono messi in gioco nella sua scrittura
poetica. La scelta di un registro linguistico piano, di una lingua dell’ordinario, non sembra una
semplice opzione stilistica nella sua poesia. Proprio a questo livello è avvertibile il
radicamento etico della sua scrittura: come se proprio qui fosse in gioco un modo di abitare il
mondo, di farne esperienza, che non è scelto ma accolto. Crede che il poeta possa muoversi
liberamente tra i vari livelli e registri linguistici, intesi come modalità che danno accesso a
differenti forme di esperienza – un assunto che a ben vedere sta alla base di diverse forme di
scrittura d’avanguardia - oppure è dell’idea che vi sia una sorta di costrizione cui il poeta cede
già nel punto d’attacco della sua lingua?
Negli anni ’70, in una serie di tentativi di scrittura poetica che poi ho scartato in blocco, partivo dall’idea
che la lingua fosse un “materiale” a disposizione dell’autore, e che la poesia nascesse da un’accorta
manipolazione di quel materiale in vista di un risultato artistico. A interessarmi era soprattutto la lingua
parlata: ascoltavo i discorsi della gente, isolavo certi reperti lessicali, sintattici, ritmici, li utilizzavo come
“mattoni” per costruire il mio testo. Il risultato, però, non mi convinceva: c’era sempre qualcosa di troppo
freddo, di troppo ideologico. Sentivo che senza una spinta forte, senza un’emozione, un rischio vero,
avrei continuato a produrre degli oggetti a volte interessanti, magari, ma senza vita. A un certo punto ho
capito che ad attrarmi, nella lingua parlata, era la forza di una parola “in atto”, che si rivolge all’altro, si
espone, si mette in gioco. Da un rapporto con il parlato che potrei chiamare estetico sono passato a un
rapporto etico. La lingua ordinaria –ora mi era più chiaro- mi interessava perché cercavo ciò che è
comune; nei discorsi di tutti i giorni inseguivo la traccia di una verità condivisa, di un fondo, di un
terreno, di un ethos appunto. Cominciavo a pensare alla lingua non come a uno strumento da utilizzare
opportunamente per generare “plusvalore” poetico, ma come a un destino, alla parola “normale”, che ci
norma, che ci mette al mondo, che ci fa essere quello che siamo. Per rispondere alla seconda parte della
sua domanda: certo, un autore può muoversi liberamente tra i vari livelli e registri linguistici, controllarli,
manipolare la lingua e con questo produrre pagine bellissime, ma questa io la chiamerei letteratura in
versi; la poesia, per me, nasce quando si fanno i conti con quella che lei chiama “costrizione”, insomma
col limite, con la necessità; nasce quando ci si fa investire dalle parole più familiari, e si pensa la loro
familiarità, e la si lascia agire.
C’è un paradosso costitutivo che colpisce profondamente nelle sue raccolte poetiche. Il
linguaggio di cui i suoi libri sono intessuti è discorsivo e molte delle situazioni che questa
lingua dice sono contesti argomentativi: si tratta di una poesia che cerca di andare al fondo
delle cose, spesso, esponendosi al fondo dei discorsi. Eppure vi sono pochi esempi a mio
avviso di una poesia che restituisce una esperienza non discorsiva del mondo, del fondo non
discorsivo dei discorsi. È come se qui il linguaggio articolato si annullasse, lasciando
riaffiorare il grido, se il suono si risolvesse in un rumore sordo. Possiamo forse dire che il
fondo della lingua sta radicalmente oltre il linguaggio?
108
Delle parole, anche delle più ordinarie, mi ha sempre colpito la forza. Le parole operano, hanno una
potenza magica che noi occidentali abbiamo dimenticato ma nella quale non smettiamo di credere: in due
di noi che banalmente discutono, la fede in questa potenza è pari a quella che poteva avere un antico
sciamano, a quella che avevano Tiresia o Socrate. Nella dialettica, nella parola che argomenta, che
dibatte, che vuole stringere insieme l’altro e la verità, questa potenza emerge più che altrove; io l’ho
sentita molto, direi quasi fisicamente, ma ho anche sentito che un chiarimento (Chiarimenti si chiama un
mio libro del ‘95), un suo dispiegamento definitivo, non è possibile. La forza del linguaggio non trionfa,
ma neppure si estingue: anche nei discorsi più familiari, nelle frasi più comuni, preme sempre come un
non detto, un non dichiarato, qualcosa di alto e di tremendo che fa voler dire e fa dire e intendere e
rispondere.
La poesia sembra avere un accesso privilegiato alla soggettività e la poesia lirica è forse la
forma letteraria più soggettiva. Come intende questa relazione tra poesia e soggettività?
Concorda con l’idea che l’espressione poetica sia il medium di una conoscenza personale cui
altrimenti non saremmo in grado di dar forma? Pensa che la poesia, dando una forma artistica
e oggettiva alla voce privata e singolare del soggetto, giochi un ruolo pubblico che non può
essere sostituito da altre forme di espressione?
Quando diciamo ‘soggettivo’ pensiamo a qualcosa di vago, di indimostrabile, in opposizione a ciò che si fa
valere, a una realtà salda, evidente, incontrovertibile. La soggettività che la lirica mette in opera rischia
sempre di cadere nell’arbitrio, in un furioso ripiegamento su ciò che solo io posso esperire. Non scriverei
se non pensassi che la mia esperienza di singolo possa in qualche modo incontrarsi con l’esperienza
dell’altro, con l’esperienza di tutti. La poesia – anche la più oscura e impenetrabile – si muove in questa
tensione – mai risolta – tra ciò che è ‘privato e singolare’ e ciò che è ‘pubblico’. La parola poetica è la mia
parola, ma non cessa mai di essere anche la parola di tutti. In un certo senso, il poeta è – in senso
etimologico – un idiota, ma al fondo della sua idiozia, della sua singolarità, trova ciò che a tutti è
comune: la lingua. A differenza di altre forme di espressione, la poesia è esperienza della lingua non
come “strumento”, ma come orizzonte invalicabile, come destino comune.
Come intende la relazione tra tradizione poetica e individualità dello scrittore? Tra strutture
formali, sviluppate attraverso il tempo nel corpo della tradizione poetica, e la voce singolare,
incarnata, del poeta che tenta di esprimere e universalizzare esperienze altamente
individualizzate? Tra la costrizione delle norme, mediate dalla trasmissione della tradizione
letteraria, e la libertà creativa del singolo?
Solo un dilettante potrebbe presumere di creare la ‘sua’ poesia senza aver fatto i conti con la tradizione.
Ponendo l’accento soprattutto sulla rottura col passato, sulla ‘sperimentazione’, sul nuovo, sulla “libertà
creativa del singolo”, la modernità non ha fatto che rafforzarne il peso. Il rischio è quello di scrivere
pensando solo a ciò che è stato scritto, per imitarlo o per negarlo, per ‘superarlo’. Si pensa che la cosa
più importante sia imporsi come ‘autore’, fabbricandosi una propria originalità letteraria. I grandi ci
insegnano che la vera originalità nasce non dalla mia volontà di stile, ma dalla fedeltà più umile e
appassionata alle cose e alla lingua. Non ci sono forme – né vecchie né nuove – se non ci sono cose da
dire, cose che davvero premono. È da loro che proviene l’impulso. La ‘libertà creativa’ non è nulla senza
l’amore per le cose, per il loro ritmo, per la loro voce. È questa – credo – la vera forma, la ‘norma’ più
profonda della poesia.
[a cura di Italo Testa]
Note.
(1) Questa intervista riproduce il testo, ora ampliato con nuove questioni, di un’intervista con Umberto Fiori apparsa in
“La Società degli Individui”, Numero 22, 2005/1.
109
GLI AUTORI
110
lei dice la tua lingua
mi riguarda, dice ti vedo e vedo
che un oceano si mescola come il volto radioso di un
morto
all'assedio segreto della terra – così lei
lo tiene in movimento nel cuore
fino a che ogni cosa sarà caduta
oh
morti che camminate senza dolore
cose altissime
godute fino all'estasi
che volano appena con disumana dolcezza
cori di specole sottili sangue bianco
di fantasmi felici
spinti coi palmi aperti dall'amore
seduti qui sui nostri letti dall'inizio del mondo
tra le stesse canzoni come pozzi altissimi che ripetono
ancora io ti amo
voglio il tuo cuore io voglio dal tuo cuore
la levità dei morti
*
nell'acqua orfide
bianco lattiginoso delle falangi ultraviolette
delle pupe – ferme
macchine da guerra nei lillà
il movimento prima della strage
sfaldamento dei metalli del corpo
segmentato che richiude le antenne
in un letto di polline e crateri
la vedetta distesa
nella sua lunga morte – divaricata
tra i polpastrelli del fiore
*
l'isola, lo scisma terrestre
l'estate porta a lungo le tracce
di un comando senza volto, un salgemma di vegetali morti
come torri eoliche, profili
di rame nel suono verde dello strapiombo – e i diademi e la
plaga
della fronte sotto
la calca nera dei capelli – lei appare oltre la pietà come una
cosa
dipinta
il rumore bianco del fiore
nella palpebra chiusa del reattore
ma sembra sia la terra a sollevarsi
sul femore delle cagne
che splendono nel nero come ferite – vento
dal cuore lustro che risorge da terra, dal suo pianto
al centro della terra con le cere
proiettate dal vulcano
infiltrazioni di fuoco
111
con cemento ed acciaio e con sabbia – invece
è un crollo di petali di rose sul volto
che assume la passione
io assisto alla preistoria di un corpo
io coltivo sambuco
*
su parole d'amore, scisti bituminosi
la pura luce del dolore
l'oro del sangue nella terra
segni del diavolo tra le ginestre
ruota il silenzio della fenice
nella gemma, la torrida notte
parla rotondamente con i fiori
cambia in luce la macchia del corpo
teca nuda
installata
sulla sabbia gioiosa ingoiata
al momento di dire
fai del corpo la porta del giardino
nell'alba i riflessi d'argento delle parabole
in quiete per la tendenza di ogni cosa
eretta a essere albero – sappiamo
insieme agli iris
viola la fermezza precaria delle carcasse
foresta bianca
tra pluralità e cosa
viva nella zolla
che perdona e ripopola senza comprendere
*
panorama del vetro senza luce
il platino solare disfa
creature silenziose, rose
dormienti come di domenica nell'oro
dell'alba, corpo fatto di fiori
diventati nessuno
almanacchi di stelle invertebrate
l'angelo nero delle mante
o i nastri delle alghe
in profondità il bianco
filare dei tentacoli
la città di puntali e di vette
lunario nella schiuma: questo
è il corpo senza volontà
l'estremo della barca
uno stridìo di rondine sul calore del suolo
112
*
niente di questo sangue
dorme al sole fa erba e madonne
di fuoco, croci, fili di rose
bianche e l'insieme dei raggi sulla spalla struttura
la montagna, le reni
del villaggio che sotto
rompe la bolla della sua grandezza
spinge
senza giudizio come un'orda di nuvole
la cavalla impazzita delle vesti a un soffitto di chiome
pieghevoli, sguscia
nell'impervio perchè il muscolo teso dei rami solleva da terra
i suoi figli
lo zolfo santo delle ginestre nei roveti montani e nella
cesta artificiale
delle cime del mondo è la dogana
della festa: niente
di questo fuoco tocca terra – sgocciolerà
solo al ritorno un sangue verde nel mortaio del cuore
un girare perfetto di rondini
su lei
che si perde dal basso – su lui
sparso come una sera d'estate e li sorvola
*
una quieta fiducia
la calma degli oggetti
svaniti a caso dai balconi
con il viso sporcato di polveri
nella voragine dei suoi vestiti
il sistema nervoso, i filamenti
impermeabili nella lesione della sella
la larga panca della campagna al sole
occidentale: macine d'acqua
nel silenzio dell'ora di cena
l'ocra muta
una schiuma di piante rasoterra e una mandorla lieve come
il sesso progredisce e si enuclea
la vedrai in una stasi, vedrai
la metamorfosi lavica del volto
senza più guarnizione
tra i cespugli di sorbo all'ingresso
dell'autostrada – i capelli
diffusi come uccelli
la corolla indifesa
guarda la terra mentre si alza in volo e la sua bocca
spugna bianca tra i dischi del silenzio
cosa nobile e calda
col sasso dentro
[da: Nel luogo perfetto (inedito)]
113
Notizia.
Maria Grazia Calandrone è nata a Milano nel 1964 e vive a Roma. Ha pubblicato il libro-premio Pietra di
paragone (Tracce, 1998), La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini opera prima, cinquina
premio Dessì)uartesoloQ e Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) varie scelte di testi in
antologie di premi quali Montale (1993) Bellezza (1999), LericiPea (2000) e su riviste quali Le Fram,
Poesia, Nuovi Argomenti, Pagine, La Mosca, Gradiva International Journal of Italian Poetry. Ha collaborato
al quadrimestrale di filosofia Homo Sapiens e scrive per il magazine on-line Fuoricasapoesia. Compare
inoltre in raccolte antologiche in Venezuela e in Argentina.
114
COS’È la terra? Erba
aria folate erbe
fruscio contesa
fra radicati e sradicati.
E tu fra i due chi sei?
SE COM’È vero sono tre gli accenti
che i nostri orecchi intendono,
suona acuto il presente, grave la storia,
circonflesso l'eterno,
guardalo questo – è un tetto,
aperto ai quattro venti,
e sotto è freddo
e tutt’una contesa.
FRA TRECENT’ANNI gli uomini, diceva un russo,
avranno vinto i mali
e saranno felici buoni e uguali.
Ma nessuno vorrebbe.
Siamo ognuno uno scoglio,
un incidente
fra gli altri, fra le cose
e un grido solo “e io?”–
O follia del dire io son diverso,
e non sapere come andrà a finire.
O mio destino singolo e perdente:
certo, è perverso,
ma solo in questo è gioia.
*
QUATTROCENT’ANNI che dalla bottega,
da quel buco di Gőrlitz, dal deschetto,
sognava il mastro calzolaio Bőhme
che anche Dio lotta,
perché Dio è doppio,
saggio e malvagio, è ragione e istinto.
La guerra infuria, Guerra dei trent’anni,
la Germania è nel sangue, e lui da solo,
il calzolaio al lume di candela,
scrive “L’Aurora o il rosseggiar dell’alba”:
alba, speranza, ora dell’inizio,
ma, dice lui, la lotta è la sostanza
di tutti gli esseri.
Nostro è un corto armistizio per pensare.
E certe notti è lì da lui in bottega
il dio oscuro,
nel retro o a volte nella stanza accanto,
o nella fiamma del camino acceso,
o sotto la sua mano, fra le carte.
Perché l’ambiguo ama
ciò che di lui si scrive.
RESTA, come dice un poeta,
residente di gulag, Mandelštam,
che “davanti al potere io sono un bimbo”.
Mi ha colpito.
Vuol dire:
non lo capisco e mi fa solo orrore?
O vuol dire: è mio padre e mi protegga?
115
*
LA VERITA’?
O Dio c’è o non c’è
e le filosofie, le laiche e le pie,
non tengono di fronte al desiderio:
e non mentite, tutti ce l’abbiamo.
Sarà illusione? Sì, come l’amore,
ma chi direbbe non dovete amare?
Io lo so bene a che mi serve Dio.
Che sappia dove sono,
oh non ogni momento, non pretendo,
nemmeno lui potrebbe,
basta quando lo cerco,
e mi assicuri:
in qualche forma ci sarai per sempre.
Io non domando quale.
Poi mi serve a sperare nell’inferno –
e che sia eterno
per chi tortura i corpi.
Non basta il nulla? dice l’illuminato,
nel nulla andiamo tutti!
No, niente nulla, io ho la testa dura.
ho sete di salvezza e dannazione.
E poi, che altro resta
se non Dio, per sognare?
Che cosa io non lo so,
nikogdà ničéj ja ne byl sovreménnik,
di chi di quando fui contemporaneo?
Dio è libertà.
Notizia.
Anna Maria Carpi, autrice di romanzi (Racconto di gioia e di nebbia, 1995; E sarai per sempre giovane,
1996; Il principe scarlatto, 2002; Un inquieto batter d'ali. Vita di H.v.Kleist, 2004) e di poesia (A morte
Talleyrand, 1993; Compagni corpi, 2004; E tu fra i due chi sei, in uscita da Scheiwiller, 2007). è
traduttrice della lirica tedesca del '900: di H.M.Enzensberger,di H.Mueller, di D.Gruenbein, K.Drawert,
H.Hartung.
116
A giudizio puntuale
Dove la ragione ha ceduto di schianto
gettando tutte le parole in una
nebbia di pensieri senza l’imprimatur
e la bilancia ha sprofondato un piatto
schizzando l’altro verso l’alto
non puoi portare lo specchio
a rivelare puntuale un dolore.
Accade nelle case migliori
che la lucertola si faccia drago di San Giorgio.
Dove il giorno le consegna macchie intatte
la notte muove blatte lungo i muri.
*
Interno giorno con blatte
Di colpo mi manca uno scheletro esterno
sei zampe per sottrarmi non visto.
Guadagnano l’alba corazze rampanti,
gusci vuoti ma svelti lungo i muri
ascesi nottetempo a soprastanti.
A giorno complimenti in cerca di riguardo.
Dote da lattanti lo stupore.
*
In treno
Stazioni illuminate in corsa fuori
si susseguono binari e treni
come oasi di luce passano pensieri
brillanti nel cuore e sul viso.
Le luci pungono buio indistinto
ferite della notte che sono piccoli porti.
Il treno ha un cuore con battito.
*
Ionica
Mi regali una conchiglia muta
lasciapassare ed invito
al palco delle recite corsare.
Dici che il mal di mare si vince in mare
anche dove il mare è finto falsi i marinai.
Tento di non essere un pirata
all’imbarco su navi in bottiglia.
Amo l’ombrello dei pini
che trasfondono infinito nei polmoni
profumato lungomare Policoro.
117
*
Incompiuta
a Nazario
Trascorro ingressi androni interni
innumerevoli legni di portoni
la tua via Pincetti dolce in fondo al giro
ora che sono il tuo postino
scusa se non prima non in tempo
mi accoglie tua moglie in tuo nome.
Mi sillabavi sulle dita mi contavi i suoni
lo scarto da levare per estrarre una parola
per mancarti di parola infine.
Torno
la gru smaniosa di futuro fra le case
il sole fra i muri come il fiume fra i pioppi
e scrivo dalla tua persona in poi
un incompiuto
che sembra basti liberarlo dalla terra
perché accada.
*
Instabile
Vorrei governare meglio il momento
pensano in termini di testa o croce
questo cielo raffermo
addebitarlo a un giro di stagione.
*
Il fuoco sui muro
Il fuoco sul muro l’abbiamo dipinto
insieme di giallo di arancio
di rosso sontuoso.
Appena accennata la fiamma
già si sgranchisce il tannino,
cuce con la lingua i morsi
dei pettini di pioggia a denti fitti.
Ancora fresco il colore divampa
un galletto tutto cresta e coda.
*
La figlia del boscaiolo
La figlia del boscaiolo studia
due volte cento: la prima per sé
la seconda per non perder tempo
- chi le vuol bene la stimi per questo.
Lei taglia alla voce “distrazione”
sfronda capitoli di svago
e se il villaggio si affretta al sabato sera
118
affila nella testa un voto di rigore.
*
Un pesciolino nelle vene
Affiora a tratti pesciolino che nuota
trasparente eppure rosso di corallo
a qualunque rete sfuggente,
sola traccia l’onda mossa dalla coda.
Non so concepire un sogno così vero
la notte non saprebbe contenerlo
devo essere sveglio, devi essere tu
questa presenza guizzante nel sangue.
[da Carta annonaria (LietoColle 2005)]
Notizia.
Lorenzo Caschetta, nato a Modena il 4 gennaio 1975, postino. Nel 2001 risulta fra i vincitori del premio
“Dario Bellezza”, sezione inediti. Carta annonaria (LietoColle 2005) è la sua opera prima.
119
Questo tempo qualcosa
ti ha dato: quest'estate
si è mossa, ha buttato
in tre giorni tutto
un calore seduto,
sulle foglie e sui vivi.
Oggi sarebbe domenica.
Ti ho messo la voglia
di capire cos'è una stagione,
un tronco. Una scia
di tenerezza lo sa. Qualche volta
visitiamo la morte
con la testa per terra.
E l'acqua appare alle volte
come vento basso che ci apre,
dopo mesi.
*
TO
L'attore alza la bocca fin troppo,
mentre penso che si può mangiare
sano per una vita, star male
e mangiare porcherie quando oggi
manca la fame per il dolore.
È cosa di questi giorni
l'alternanza delle posizioni,
quando la luce è accesa in cucina.
*
Per te accetto venire
all'ultimo momento,
scoperto, vivo
dei soli spazi che hai
inventato.
(Aperta la porta di colpo
della camera di due
zie morte
c'era - solo - il rumore dei secondi.)
*
Ci si vuole bene.
Non lo si dice
praticamente mai.
Poi si muore, si corre,
si prende la misura
di un’altra vita,
ci piace l’esempio solito
delle stelle perché abita
tanti mondi e i lampi.
*
Parlo della vita come
fosse una lente che guarda.
Ho preso casa qui, nella pianura.
Vorrei non dire più io, tu.
120
Adesso i nomi sono
tutti nelle nuvole, impressi
al di qua dei capannoni.
Viverci, con le foglie di novembre rastrellate
in testa, fa venire voglia
di morire.
*
Provi a venirmi
in testa, da morto
da pochi anni. Accade
di sera e mi vergogno un po’
che sia così.
Forse il buio, forse la vera
paura di non riconoscermi
nella pelle che può
tenere uguale un viso vivo e uno morto
e che pelle è, pelle rimane.
La tua pelle con poca barba.
La pelle come un confine,
né tua né, ora, mia.
*
Non è certo lavoro
trovarsi con le sere
a sostare vicino agli autocarri,
tenere acqua nelle orecchie.
Sento, al posto tuo,
quando gli specchi
doppiano gli inverni chiamati
per mancanza.
*
AL LAVORO
Fuori i visi sono rossi,
pieni di sangue. Il passo
di un torno è sempre meglio
di avere la schiena
spaccata da una sedia.
Preferirei uscire, credere a tutto,
svuotare lo stomaco.
Essere qui, al lavoro
e non capire più niente del tempo.
*
Alla fine sono sempre
piccolezze, bassezze
a occuparti la giornata.
Vorresti essere altrove,
dove passano i treni
e non si fermano.
Ma sei qui a girare carte;
facesse caldo, e tu, così, aria.
121
*
Ho ripreso oggi la linea 4,
Carità-Casier. L'usavo
vent'anni fa per andare
a Fontane. Corriera più
un chilometro di bus.
Neanche 7 chilometri in tutto.
Dentro l'autobus Giada
e Emanuele, una sorella
di Gloria, compagna di giochi, dai nonni.
L'altro caro amico delle elementari
perso di vista ai primi anni,
figlio di carabiniere.
Ma non sono sicuro che fossero
veramente loro.
*
IL PROSSIMO
In questo giro di vita,
di calme strade, di alberi
con fronde in fumo,
in questa bocca che tiene
due lingue morte
che si cercano nella notte
dal canale alla notte,
nei sassi. La mattina è questo
grande senso, qualche piega
che vuole l’inizio di un mattino.
Ci sono troppi negozi intorno.
Ogni viso è legato a quello
dopo e a quello vicino.
Ricordo spesso dei visi e si
muovono come un’onda.
*
SCENA INVERNALE
Tutti si sono parlati,
avevano il cuore alto,
fra i capelli
e la neve che spingeva
sotto i piedi.
Non hanno più chiesto niente,
gli alberi hanno perso
la forza, vengono alti
e sempre più soli;
un cielo come la
mano rovescia
mentre tocca terra.
Notizia.
Alberto Cellotto è nato a Treviso nel 1978. Ha pubblicato il libro di poesia "Vicine scadenze" per Editrice
Zona (2003). Suoi testi critici e poetici (in lingua e dialetto), sono apparsi sulle riviste Atelier, Tratti e
Semicerchio. Dal 2000 è redattore della rivista trimestrale "daemon - libri e culture artistiche"
(www.daemonmagazine.it).
122
CICATRICI
Delle ferite, di tagli e abrasioni
declinati all’infinito
che vale parlare: se è qui,
in mano il ferro ancora rosso
che ha marchiato troppi dei suoi giorni,
avrà guadato i suoi torrenti
verso corpi illuminati dal sole,
scalato muri verso fughe o paradisi
e attraversato campi di sterpaglie
(se lo contiene un qui,
se ancora sa aggrapparsi ai propri giorni)
ma in questa sera immobile di mezza estate
sente il fremere delle più nuove la persistenza delle lacerazioni
sotto il velo pietoso delle cicatrici.
**
NIPOTI
Svaniranno
lentamente come foto infradicite:
incontri sempre più radi,
un nome che sfugge, tre mesi
e una notizia scarna, la visita
di una nipote; sei mesi, un paio d’anni
a incespicare imbarazzati
in un volto, un nome
o un indirizzo che ha perso significato,
ridotti a voce di chi ancora vive
un poco, poco, e poco a lungo.
Il ricordo di un gesto peculiare,
un ninnolo comparso sul termosifone,
fuori moda e sempre più ingombrante
che svanirà nel nulla o nell’ammasso
che ogni giorno ci sparisce dalle mani
per rintanarsi chissà dove un mondo trasparente
parallelo al nostro, intoccabile
e inaccessibile a chi progetta e ancora
spera, con lumi fiochi e fiori marci.
(Nel fango, le mani ingombre di cose,
la vecchia radio rossa, un ninnolo, tre foto,
fango e polvere, un camioncino verde,
giocano i nipoti a reinventare il mondo,
a dare un seguito alle strade
un giorno ad ogni giorno.)
[Da: Il poco cielo che ci guarda (Fiori di torchio, Seregno 2006)]
**
PRIMA LINEA
Le bombe hanno quasi cessato
ma il conto non torna.
Il mio compagno ha la fiasca in mano,
morto, e gli stambecchi sono fuggiti
fra i ghiacci più alti -
123
ombre contro l’alone biancastro della luna.
Anche il vento ha cessato.
Notte, e pace oscura nella trincea dei vivi
come se l’ultimo grido della carne macellata
fosse stato risucchiato in cielo.
Silenzio e attesa, qui.
A casa
da pochi istanti hanno iniziato a bombardare.
**
IL CORPO POI
A Rocco Siffredi
Soltanto un grumo che vorrebbe essere vita,
scava nicchie e gallerie, s’innalza statue
e invece agogna solo un fuoco
inestinguibile ma rapido,
che non ecceda il fremere
del sangue puro e semplice. Fermento
e mordere della passione - un osso lasciato
a nudo sulla spiaggia.
E noi nel buio della sala, stagnanti nella brama
o trascinati dall’appagamento,
vorremmo come cavalli all’ambio della vita
goderci un mondo dal teleologismo elementare:
copula di corpi inanimati
nell’imbuto del piacere,
lombi che si svuotano
e più nulla chiedono
(questa è la vita, solo questa, trama
di nodi semplici ma instricabili
che ottunde ogni lama che da lontano
arrivi presuntuosa,
e il filo che non guida fuori
- e non importa - ci conduce in tondo.)
Prima di rendere alla terra il prestito del corpo,
lieve ti sia questa parentesi
d’immagini brucianti, a ritardare
il vero eccesso, l’unico,
del fotogramma impresentabile
per cui non pagherai il biglietto:
il corpo immobile nel sempre, reduce
da mille orgasmi, adesso addormentato.
**
DOPO UNA FINE
*
Dev’esserci un centro
da qualche parte
(di stanza in stanza
di noia in noia)
doveva esserci -
124
e fuori è un temporale
*
Una pianta quasi
morta ha rigettato.
(dentro.)
(Fuori nevica.)
*
Un tempo fa. (Un gesto
accomoda capelli e veste,
gli anni.) E poi le foto antiche
con prospettive esatte,
il fuoco dell’ellisse
ancora e sempre.
Un tempo qua.
*
Da una finestra all’altra
(ritraendomi): tutto
diviene troppo in fretta.
(Non so come essere.)
*
(Se immaginassi paradisi,
avrebbero le luci fosche del Mantegna;
se inferni, le ombre che ci fanno infermi.)
*
Con che autunno ci flagella l’anno,
con quali lunghe ombre, fradice:
i boschi ci compensano con doni poveri.
*
Cosa ha lasciato l’uragano?
Indicazioni sommarie:
i corpi sulla spiaggia,
da rimuovere, case da rialzare
con cartongesso ad arte:
nessuno ha conoscenza d’uragani
quanto i registi. (I gatti
imparano l’ardua stagione.)
*
(Così vicino dunque il territorio,
tanto sottile il discrimine della follia?)
Un muro alto fino alla vita
e quasi palpabile ciò che di là sobbolle,
come infilare la mano nella bocca della verità.
*
Nei libri delle elementari
c’era sempre un passero
affamato di briciole
(ha nevicato
ancora, spruzzi
candidi assassini).
(Forse ritornerà
bussando alla finestra.)
*
Ancora a confondere
tra battiti e respirazione?
125
Cammino tra i crolli degli alberi
e l’erba che preme sotto la neve:
vedere la vita, sentirla crescere
è morire (in me
la vita freme come un’ala
in una fabbrica abbandonata).
Notizia.
Mauro Ferrari (Novi Ligure 1959) è direttore editoriale delle Edizioni Joker, da lui fondate nel 1994, e
direttore del semestrale di cultura letteraria La clessidra.
Ha pubblicato le raccolte poetiche: Forme (Torino 1989); Al fondo delle cose (Joker, Novi 1996); Nel
crescere del tempo (con l’artista valdostano Marco Jaccond, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza
2003); Il bene della vista (Joker, 2006, che raccoglie anche la precedente plaquette). Ha partecipato con
quattro racconti alla silloge Storie da Novi (ivi 1994); ha inoltre pubblicato saggi di poetica, Poesia come
gesto. Appunti di poetica. Joker, Novi 1999. È presente nell'antologia fiamminga della poesia italiana Het
stuifmeel van de sterren (Il polline delle stelle, a cura di Gemain Droogenbroodt, Point, Ninove 2000) e
nella monografia sulla poesia italiana contemporanea (110) della rivista francese Po&sie.
Come critico ha collaborato all’Annuario di poesia Castelvecchi. Con Alberto Cappi ha curato L’occhio e il
cuore. Poeti degli anni 90, sulla poesia delle ultime generazioni (Sometti, Mantova 2000); ha collaborato
alla silloge critica Sotto la superficie. Letture di poeti italiani contemporanei (Bocca, Milano 2004); ha
curato la sezione inglese dell’antologia della poesia europea La voce che ci parla (Bottazzi, Suzzara
2005), in cui figura come poeta nella sezione italiana.
Nel settore dell'anglistica si è interessato di Conrad, Tomlinson, Hughes, Bunting, Hulse, Paulin e diversi
altri poeti contemporanei. Suoi testi e interventi sono apparsi su Altri termini, Atelier, clanDestino,
Coscienza storica, Erba d’Arno, Esperienze letterarie, Galleria, Graphie, Hebenon, Hortus, Il Cobold, Il
lettore di provincia, La Rocca Poesia, Poeti e poesia, Quaderno, Steve, Testuale, Versodove, Zeta e,
all’estero, Y.I.P. - Yale Italian Poetry, Gradiva, Meja Ponte (Brasile), Po&sie (Francia), Cuadernos del
Matematico e Empireuma (trad. di Emilio Coco, Spagna).
126
C'ERA QUELLA BARRIERA QUESTO LIMITE
c’era quella barriera questo limite invalicabile ed era improvviso. ed era che da sempre all’improvviso
nell’aria si stendeva una cortina. un po’ di particelle convergenti nel centro esatto della messa a fuoco.
dove moltiplicando l’attenzione confluire la polvere del mondo. non doveva guardare non poteva restare
mai fermo a fissare un luogo. non vi trovava il vuoto o un solo punto cieco nel dare un po’ di tregua agli
occhi. dove ruotarli ancora si chiedeva per rifugiarli nelle inconsistenze. non c’era che arrestarli per quel
poco che si deve alla palpebra e appariva. come una tela di sipario gonfia di corpi che rimangono in
attesa. ne era gravida l’aria che aspettava solo uno sguardo che li rapprendesse. solo che un occhio
ripopolatore animasse di solidi il sublime. prima un po’ di pulviscolo in un raggio come l’aveva scorto
quella volta. era mamma a socchiudere le imposte e il sole trapelò fra quei fermenti. li vedeva convolgere
sul letto convergendo finché lei si voltò. perché piangi diceva è solo l’aria quella che viene e va da me e
da te. ora chissà dove era defluita e se aspettava dietro quella tela. l’aria o la mamma o tutto il teatrino
che s’era susseguito lungo gli anni. perché dopo i corpuscoli la nebbia col tempo s’era sempre più diffusa.
bastava che restasse a sogguardare un punto nello spazio e tracimava. bianca nei lembi ancora
svolazzanti ingrigiva nel centro il suo spessore. finché tutto non era che il confine di un mondo divenuto
inaccessibile. una grata che sempre separava il suo restare a vivere lì dietro. o magari lì dentro fra i
congegni che mettevano in moto il proiettore. tutto si dava con il primo sguardo con cui si riposava la
pupilla. virare l’iride durava poco e anche la testa a voltarla si stanca. prima o poi cade il ciglio su una
scena che sembra messa lì a pacificare. e proprio in quella piccola porzione saliva su dalla periferia. prima
i puntini e poi la nebulosa e infine il velo presto di velluto. e non appena solido il sipario sùbito si gonfiava
di presenze. non come se vi fossero nascoste bensì consustanziando nei risvolti. da principio era un
lembo più convesso fra la casualità di tante pieghe. una forma d’un tanto familiare che poi si trasmetteva
nelle altre. ogni risbuffo lì nel centro grigio s’adeguava alla prima e rinveniva. poi persino nel bianco si
effondeva come la malta che diviene crespa. per quanto si sforzasse ad inseguirli colli non s’allungavano
né corpi. non dai rilievi appena sporti volti in volti sempre noti e sempre quelli. ogni volta gli stessi ad
ogni nuovo solito giro di ricognizione. cambiava forse l’ordine il diritto di prima esposizione la sequenza.
ma restavano quelli con qualcuno ogni tanto in aggiunta ma già noto. come se fosse sempre stato lì ad
aspettare il turno nella maglia. lì con quegli altri a stringere la trama che non si passa a non pagare il
dazio. per tutti c’è un tempo da scontare da scompitare in numeri di nomi. ripeteva tessendo quelle teste
l’una con l’altra e ognuna al proprio addio. cari conforti disse sconfortatemi è l’aria che separa a ritenerci.
quella che viene e ancora se ne va da me per richiamare tutti voi. e allora si metteva a pronunciarli quei
nomi come per sfiatarli via. ogni volta di nuovo per forare la loro consistenza di silenzio. quegli occhi fissi
che non conoscevano umidi gli occhi che li riguardavano. assenti tutti e a malapena gonfi e indifferenti al
tremito del velo. senza nemmeno attendere il respiro che anche il sipario avrebbe dissipato.
Notizia.
Gabriele Frasca, nato a Napoli nel 1957, è poeta, narratore, saggista, autore teatrale e traduttore. Ha
collaborato con RadioRai e attualmente insegna Letteratura Comparata all’Università per Stranieri di
Siena. Si è occupato di Medioevo, Barocco, Modernismo e di teoria delle comunicazioni. Fra i suoi saggi:
Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (1988), La furia della sintassi. La sestina in Italia (1992) e La
scimmia di Dio. L’emozione della guerra mediale (1996), La lettera che muore (2005). Per la poesia ha
pubblicato: Rame (1984), Lime (1995) e Rive (2001). Per la narrativa: Santa Mira (2001) e Il fermo
volere (con Luca Dalisi, 2004). Ha curato e tradotto opere di Samuel Beckett (Watt, Le poesie, Murphy) e
Philip K. Dick (Un oscuro scrutare).
127
Da OGNI CINQUE BRACCIATE (2002-2006)
[Questo poema racconta la vicenda delle nuotatrici tedesche della ex DDR. Le campionesse olimpiche diedero il corpo
per il loro Paese e diventarono paradigma di una nuova epoca. Dopo le vittorie subirono i danni fisici dovuti all’uso
pesante di sostanze dopanti che furono costrette ad ingerire. Qui si presentano le Sequenze I e II (inedite) tratte dal
IV Canto, che accolgono la voce monologante del dottor Starkino, Sportführer (guida sportiva, filosofo ed imbonitore)
della squadra olimpica tedesca fino alla caduta del muro; si presenta, inoltre, la Sequenza I, Canto V (inedita), che
tratta della malattia delle giovani campionesse, Ute, Karla, Renate e Lampe. Al disfacimento del loro corpo seguì la fine
dei paesi del socialismo reale].
“Dunque, l’uomo moderno è colui che batte i record. Ed ecco improvvisamente che i record stessi ci
inquietano. Hanno cessato di essere inebrianti: ormai siamo troppo veloci, e lo sportivo da simbolo
dell’umanità in movimento rischia di diventare la cavia della post-umanità. Così entreremo, senza averlo
voluto, in un nuovo paradigma.”
Alain Finkielkraut
Poema in 5 Canti,
Ogni Canto è di 5 Sequenze,
Ogni Sequenza di 5 Ottave,
Ogni Ottava una pausa,
Ogni pausa il rischio della perdita,
Oppure la possibilità che la Storia respiri.
*
Sequenza I (Canto IV)
UN ORGANISMO MONDIALE
“Ho lasciato la pretesa d’immortalità
ad una Germania faustiana e decadente,
ho legato la mia aspirazione alla flessibilità
d’un muscolo, al centimetro più giusto, stringente;
come in una frazione algebrica, la priorità
dei liquidi assorbiti dai tessuti è stata la mente
che ha guidato la mia mano sul loro busto,
così ho operato la distinzione di ciò che è giusto.
Il secolo l’ho costretto in una provetta di vetro.
Chi può biasimarmi, se il mio gesto
è stato lo slancio di chi resta al centro,
immobile a fissare il corpo trasformato dall’epo.
So del tempo e del suo disfacimento,
e, in fondo, mi vanto di questo;
di un’effimera vittoria sulla Storia,
della soluzione chimica della memoria.
Perché il bacino tirato fino all’osso
è l’unico calco che resta della tradizione:
questo è l’unica certezza che posso
offrire come nuovo mito di fondazione:
Oral Turinabol (1), nandrolone, così ingrosso
il progresso con la loro azione;
seleziono la razza con il testosterone,
sostituisco la purezza del sangue con la sua pressione.
Non ho ragione e non voglio averne,
voglio sentire solo il futuro che preme,
insiste più del passato e non voglio vedere
dove finisce il mio seme;
128
anestetizzo il modello della specie:
lo rende unico, più che unico, a-gene,
proiezione d’un idea materiale,
pura potenza senz’atto, perché agisce ciò che vale.
Basta con la voglia di restare,
basta con la nostra tradizione,
basta con la letteratura nazionale,
basta con Goethe e l’immaginazione!
Costruisco in laboratorio il nuovo corpo morale.
Che al resto ci pensino i politici, diano la loro adesione,
si confrontino con l’Occidente che langue
tanto, prima o poi, avremo tutti lo stesso sangue.”
(1) Oral Turinabol, è stato il tipo di steroide più usato nella ex DDR. Le dosi somministrate alle ragazze superava
anche di 1000 milligrammi le dosi dopanti usate negli anni ottanta da alcuni atleti occidentali.
*
Sequenza II (Canto IV)
IL CORPO DELLA NAZIONE
Un solo organismo mondiale, senza distinzione,
dove l’esterno sarà lo specchio di ciò che è dentro:
questa sarà la sua rivoluzione.
Un sistema organizzato intorno ad un centro
e il centro sarà in ogni corpo, in ogni cuore
che avrà registrato un semplice metro
di valutazione, una sola legge mondiale:
“la tua dieta è ciò che vale!”
L’Occidente sarà come l’Oriente
e tutti avranno bisogno delle pillole azzurre,
e allora l’Oriente non sarà più lontano dall’Occidente,
tutti avranno una meta comune, senza più guerre:
il corpo sarà l’unica meta, l’unico vero ente.
I filosofi cederanno il posto allo Sportführer
nazionale e smetteranno di parlare,
perché tutti rifletteranno dio nei muscoli e nella carne.
“Gott ist tot e dio è rinato
per farsi uomo-chimico e animale
Gott ist tot e dio s’è incarnato
nella specie delle specie, nella specie universale!
Annunciate a tutti che è tornato
per farsi uomo, per la pace mondiale,
per farsi corpo che trattiene l’energia del creato,
corpo che porta in grembo il codice di Stato.
L’individuo selezionato sarà la forza d’ognuno
e tutti allo stesso modo saranno potenti,
il Comunismo vuole che l’uomo sia Uno
paragonabile solo a se stesso, senza altri riferimenti.
Cristianesimo, Romanticismo, Idealismo saranno tuttuno,
chimiche dissolvenze nelle menti,
fino all’immediata acquisizione
in uno spettacolo comune, nella partecipazione.
Nessun superuomo, non ci sarà un mito
per decidere dove, quando e come
si è superato il limite consentito.
Niente più proletariato, saremo la classe superiore,
129
la rivoluzione chimica sarà la fine del Partito!
Saremo tutti figli del testosterone.
La nazione sarà “ciò che io penso”,
senza saperlo, sciolta nel corpo d’ognuno; muto consenso.”
*
Sequenza I (Canto V)
I SEGNI DEL TEMPO
La tac totale ha scoperto il segno del tempo,
i tumori hanno invaso l’aria neutra della pedana di tuffo;
hanno ingerito il veleno del loro fallimento,
è finito l’assedio, s’è concluso,
ora tutto è osceno:
le ghiandole ingrossate oltre il muro,
la trasparenza della pelle sulle dita,
il ricordo dell’ingenuità patita.
La piscina ora è deserta.
Sono lasciati a se stessi i gocciolii del soffitto.
Nessuna resistenza li conserva,
nessuna forza ne trae profitto,
riverberano in eterno …riverberano…
nessuno più ne è afflitto,
catturato nell’ecosistema d’un respiro
d’un mondo isolato e condiviso.
La morte non è più un fatto personale, questo è stabilito,
nelle sedute di chemioterapia,
quando tutto è nausea senza vomito,
quando il centraggio della cellula spia,
il tatuaggio sull’organismo colpito,
indica la parte sana unita a quella in agonia.
La legge immobile della Stasi,
ora si propaga in meta-stasi.
“Noi portiamo il nuovo,
portiamo in grembo qualcosa che non è nostro
e non appartiene a nessun uomo,
dobbiamo partorire un cristo o un mostro”
la Storia, il contrasto vissuto,
lotta senza più corpo,
non ha più ricordo;
non ha luogo, il ritorno.
Sono pronte al prossimo futuro,
mostro santo in corpo ridotto,
all’innesto di un frutto maturo,
mostro santo in corpo ridotto,
cisti ovariche formano un grumo,
ciò che resta del feto -ha stimmati in ogni postoLe loro gesta, le loro azioni,
ora si propagano in radiazioni.
---
Da MECCANICA PESANTE (2003-2006)
Scrive O. Mandel’štam, nel suo Viaggio in Armenia: “Lamarck sente le frane tra le classi. Sono gli intervalli dell’ordine
evolutivo. I vuoti si spalancano ai nostri occhi. Sente le sincopi e le pause della serie evolutiva. Intuisce la verità e si
smarrisce sgomento per l’assenza di fatti e materiali che la confermino.” Queste parole sembrano quanto mai indicate
per descrivere il passaggio dalla realtà di un mondo materiale, fondato sul racconto di un corpo individuale e collettivo,
ad una realtà immateriale. La Meccanica pesante è, per chi scrive, l’espressione del calco doloroso impresso dalla
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relazione filiale: la meccanica delle successioni, delle generazioni, ha mostrato una falla, uno sterminato spazio vuoto.
La necessità di riempire questo spazio, di dargli spessore storico, resta in fondo un’esigenza d’amore.
Sezione “Sonetti da terre straniere”
RISORGIMENTO (2)
“Sono Solo Sonno” si legge sulla centralina elettrica
della stazione di Magenta e in quella scritta
di vernice nera, è come se l’energia cinetica
interrompesse la sua regola, ritrovasse la sua etica.
Allora tutto si ferma. E la battaglia,
ricordata con una targa commemorativa
ritorna nella nebbia. Così anche le grida.
L’Italia risorge questa mattina dalla poesia
di un adolescente che riprende l’impresa
iniziata più d’un secolo prima;
resistere alla voce straniera, all’incondizionata resa
del cupio dissolvi della nuova politica,
descrivere la provincia che fagocita
e il fagocitare che fa di tutta l’Italia provincia.
(2) Questo sonetto è stato presentato per la prima volta sul catalogo antologico, “60 anni della Repubblica Italiana.
ArteStoria”, Il laboratorio le edizioni, Nola, 2006. Il progetto è stato ideato dalla “Casa del popolo” di Ponticelli e
patrocinato dalla Regione Campania.
*
LA MIA STORICA PARTE DI PENA
this ready flesh
no honest equal, but my accomplice now,
my assassin to be, and my name
stands for my historical share of care
for a lying self-made city,
afraid of our living task, the dying
which the coming day will ask*
s’arriva ad invocare la propria parte di pena
quando in casa, l’ennesima,
si confonde la manopola dell’acqua calda
con la manopola dell’acqua fredda,
quando la città volteggia libera nell’aria
come il polline di questi pioppi in primavera;
si cerca la parola stretta nella Storia
quando la società caracolla
nell’abbaglio “del tutto si deve, perché si può fare”,
si resta da soli a fermare la morte
mentre la si guarda arrivare,
costante come una funzione del nostro atto vitale,
ci si ripete: tutta qui la scienza appresa ad arte,
la propedeutica della vecchia classe materiale;
quella di un padre che s’inabissa
mentre il mondo straripa…
ed ora vorresti una colpa tutta tua,
131
vorresti vederla fare ombra,
vorresti stanare i nomi dalla loro piega,
vorresti chiamarli fino a svanire
nel nucleo scintillante e mortale
del loro essere parziale
(3) W. H. Auden, Horae Canonicae, “Prima”: “[…] questa carne pronta/ non è un onesto compagno, ma il mio
complice oggi,/ il mio assassino domani,/ e il mio nome/ implica la mia storica parte di pena/ per un’autoctona città
mentitrice/ paurosa del nostro impegno alla vita, per il morente/ che il nuovo giorno reclama.” tr. It. Aurora Ciliberti.
*
CONVIVIALE
... aber des Vaters Grab seh ich und weine dir schon?
Wein und halt und habe den Freund und höre das Wort, das
Einst mir in himmlischer Kunst Leiden der Liebe geheilt.
Andres erwacht! (4)
…il carnascialesco tributo che non ho cantato,
le baccanidi in velluto,
le vallette di nero vestito
non ho sentito, non ho sentito…
…più volte mi sono seduto sul mio talento.
Mi sono detto: “sei giovane, sarà per questo!”
ma non è per un motivo, o per un partito,
che ci si accolla tutto il silenzio
…lo scarto del conviviale banchetto…
e se ho pianto, ho pianto nel sonno
misurando la distanza di ghiaccio tra le colonne familiari:
mio padre, mia madre, spezzati nel mezzo
da un freddo primordiale.
Non avrei mai voluto che il loro sguardo,
si posasse su tutto questo:
una versione così lurida del sacro.
Ho cercato di sostituirmi a loro nel patimento.
Solo in questo ho fallito. Del resto non mi pento.
Di un Paese che mi si chiude addosso,
come la bara del consenso,
non ho alcun perdono.
La mia vita, amore, fugge da sola
verso qualcosa d’altro
ed io non posso fermarla,
perché sei tu che la tieni dall’altro capo.
Ed oggi so,
con assoluta precisione,
che il mondo senza di te
è solo una stupida astrazione.
(4) F. Hölderlin, Stuttgart: “E io vedo la tomba di mio padre, già piango?/Piango, sosto, mi tengo all’amico, ne ascolto
la voce/ sacra arte che sanava le mie pene d’amore./ Altro si desta.” tr. It. Enzo Mandruzzato.
132
Notizia.
Vincenzo M. Frungillo è nato a Napoli nel 1973. Si è addottorato in filosofia teoretica con E. Mazzarella
con la tesi su Il rischio di una reificazione del linguaggio. Sé e perdita di Sé in M. Heidegger (1998-2001).
Ha pubblicato diversi saggi scientifico-filosofici. E’ presente tra l’altro nel libro collettaneo dal titolo
Biopolitiche, Elio Sellino editore, Avellino, 2006. Il suo primo libro di versi è Fanciulli sulla via maestra
(Palomar, Bari, 2002, nota di Milo De Angelis) contiene testi scritti tra il 1994 ed il 2001. Tra il 2002 ed il
2006 ha scritto il poema in cinque Canti, Ogni cinque bracciate (con prefazione di Elio Pagliarani) ancora
inedito nella sua versione integrale. Lavora ad una nuova raccolta di versi, Meccanica pesante (20032006), e al tentativo di una definizione di un linguaggio spaziale o neo-epico. I suoi versi e i suoi articoli
(su Fenoglio, Luzi, Celan etc.) sono stati pubblicati su antologie e riviste cartacee ed elettroniche tra le
quali Galleria, Gradiva, Specchio della Stampa, NAE, La Clessidra, La Mosca di Milano, Sinestesie.
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1. (28/10/06; 22.19)
Non sta succedendo più niente, non succede niente, non è mai successo niente, da miliardi di anni non
succede, nella mia testa non succede assolutamente niente, non potrà mai succedere, che sia dentro o
fuori la mia testa, che sia sulla mia testa, intorno, sotto la mia testa, tra i piedi, neppure sotto i piedi
succede niente, ancora niente, per un sacco di tempo non succederà niente, niente di cui si possa dire è
successo, è successa una cosa, una stupidissima cosa, un b, un b piccolo, anche la metà, anche niente,
per errore, fosse pure per errore, non succederà mai.
2. (28/10/06; 22.41)
È passato molto tempo, da allora è passato un sacco di tempo, troppo, molto, tanto tempo, alla finestra,
acqua sotto i ponti, di continuo, ricordando che passa, e pioggia, e acqua, dietro alla finestra, e vento, da
allora, da quel medesimo, cosa?, giorno, gesto, attimo, mai all’opposto, che fosse all’indietro, risalendo, o
fermando tutto, seduto su una sedia, e basta, nessuno che si allontani o si avvicini, e silenzio, ma già c’è
stato, c’è stato anche quello, passando via, da allora, come un altro, come un’altra volta, come un fesso,
a passare, da allora, è sempre così che passa, da fessi.
3. (28/10/06; 22.53)
Tutto succederà ieri come se fosse successo oggi.
4. (28/10/06; 22.54)
Animali, dunque scappano.
5. (28/10/06; 22.55)
Uomini, dunque scappare.
6. (28/10/06; 23. 26)
La piccola zona nostra, la zona cattiva, la zona morta, l’uomo nella zona, che attraversa, che si lascia alle
spalle la zona, ma poi è zona, nuovamente nostra, cattiva, morta, nuovamente una piccola zona,
d’ostacolo o di rifugio, dove tutto avviene, sempre in zona, sempre in piccolo, sempre morendo, morendo
cattivi, a capofitto nella zona, nell’unica.
8. (29/10/06; 11.19)
Bisogna assumersi le proprie responsabilità di fuga, bisogna responsabilmente saper fuggire, bisognosi
sempre di nuove vie di fuga, responsabilizzando i fuggitivi alla maggior fuga, bisogna fugare i sospetti
sulle proprie responsabilità fuggendo, sapendo assumere tutto il non pensato mai detto, che mai quanto
si è detto è stato pensato, che mai pensando abbiamo detto, pronti a fuggire nel non detto,
nell’impensato, responsabilmente, tutti, di tutto.
9. (31/10/06; 10.50)
Ancora solo, ancora un piccolo sforzo e più solo, meglio, in solitario, più concentrato e attento, lasciando
alle spalle, con sforzi quasi leggeri, insensibili, è facile, insensato, avviene velocemente, di nuovo più
solo, meglio, in solitario, completando, ancora perfezionabile, lasciando alle spalle, con facile ancora
piccolo sforzo, più fermo, più lento, isolato, ma anche insopportabilmente abbandonato, a piccoli strappi
costanti, di giorno e di notte, vigilando, questo abbandono, per essere poi lì, da qualche parte, a
riceverlo, come un grave, liberatorio malanno, magari fermo allo specchio, su di un libro, ai vetri, per
vedere quello che passa, per cercare di vedere quello che passa come passa, per non ascoltare, per
parlare meno, sempre meno, per abbandonare, per abbandonare anche l’abbandonato, e non basta, non
ti ammali mai fino in fondo, puoi ancora parlare, e ascoltare, tutto che ti traversa ancora, tutto di nuovo,
perché non c’è altro, in piedi, non c’è che questo, al bancone del bar, qualcuno ti chiede l’ora, rispondi,
ricomincia.
12. (13/11/06; 16.39)
È organizzato questo ritiro, abbastanza ben organizzato, a concessioni graduali o violente, le vie
ritrovate, riattraversate fino all’ultima risalita, passando vagamente lo sguardo, e ritraendolo, da quanto
si lascia fuori, remoto, tutto quanto poi cresce, dalle finestre, o dietro le pareti, le porte, fin dalle
134
fondamenta, rigoglioso, mugghiando, ai lati, con bagliori, colpi d’ala, o sotto, in scivolamenti, frane
soffocate, e davanti, con sfida, è così, il piano di ripiegamento, dolcemente, e nient’altro da dire,
pochissimo forse, un dire ultimo, prima del ritiro completo, già molto ritraendosi, andando all’indietro,
verso la sedia o il divano, o nelle braccia di lei, se si andasse, retrocedendo, soprattutto nelle braccia, a
cercare le labbra, e poi bloccati, tra braccia e labbra, con la lingua che ancora si muove dentro l’altra
bocca, ma non c’è uscita, non c’è affatto possibilità di uscire, ora che, dentro, fermi, nelle nostre carni,
rimaste, dopo il ritiro.
13. (15/11/06; 18.19)
Non ci penso per ora alla fine del mondo, non ne parlerò adesso, non subito, che comunque avverrà, anzi
avviene, ma remotissima, con schianti violenti su certi fondali, o il millimetro, quel millimetro di più o di
meno, d’acqua, o ghiaccio, o anidride, o qualsiasi cosa, che cambia tutto, azzera infallibilmente superfici
boscose, polverizza centinaia di sistemi nervosi, annienta occhi, ali, larve, o come il godimento della luce,
se venisse meno il godimento della luce, di quando entra di traverso, a ondate ininterrotte, la mattina,
anche dalla finestra quadrata e piccola del bagno, posta in alto, impossibile ad aprirsi, sempre azzurra,
senza tetti o antenne, la fine del mondo, se mancasse quella distensione dei muscoli, quel perdere di
massa delle parole, tutto pacatamente nello sguardo, come animali forse, quando la luce, o il cielo di
mattina, se poi la fine, la fine che non risparmia, quella equanime, incessante, di tutti i crolli e gli
sprofondi, ma non ci penso, forzatamente, facilmente non ci penso, anche se è già qui, lambisce la punta
delle scarpe, la si vede persino girando l’angolo, là, oltre i binari morti, nel capannone fatiscente, la fine,
tra i rimorchi, qualcosa, che non indietreggia, anzi viene, soprattutto di sera, sotto il raggio dei neon,
qualcosa si avverte, presagi pittorici, ma non ora, devo pensare a te, a come sei, che a forza di vederti
ieri e oggi mi confondo, non ricordo le cose che dici, non tutte, quelle più di fretta, di lato, quasi a bassa
voce, quando entri in cucina, devo ricordarle, ripeterle, con chiarezza, prima della fine del mondo,
adesso.
15. (19/11/06; 2.07)
Dobbiamo pensarci, non dobbiamo sottovalutare, anche redigere, portare di lato e avanti argomenti, non
troppi, non troppo sottili, è anche urgente farlo, in tanti, col dovuto consenso, ma unanimi, utilizzando
brutti ricordi, sensazioni sgradevoli, e in conclusione, così appare, nell’evidenza, nell’abbagliante
evidenza, non differibile, anche questa guerra, questa nuova guerra, assolutamente da fare, ma
pensiamola, stavolta con la massima riflessione, da più parti, anche trovandoci sui pianerottoli, come
muovere guerra, ma precisi, a filo, senza sbavature, chiazze, residui inquinanti, una guerra che tagli, che
tolga fiato al nemico, lo isoli, che sappia trovare un nemico assiduo, e premerlo, e punire, anche questo, i
nemici, poi, hanno oscuro destino, ma molto sotto, al di sotto del visibile, nel non documentato, è per
necessità, mai improvvisata, o approssimativa, i dettagli, ne bastano pochi, il nemico, ne basta uno, poi
si chiarirà meglio, ma conta l’anticipo, la velocità dell’impatto, anche stavolta, sempre anticipare, con
guerre, migliorare, allargare.
16. (26/11/06; 12.30)
Limitatamente alle concezioni dominanti, alla mia concezione se fosse dominante, al dominio che ho sulle
mie concezioni, alla cognizione che ho del mio dominio, limitato, e limitatamente a questo, o alle
questioni oscure, come il potere e i suoi pori, o le operazioni del potere, o il transito, di tutti, in un punto
del potere, il punto senza dimensione del potere, e il dominio che il potere esercita sulla concezione, e il
concepimento per gradi, scale, velocità scostanti, che il potere ha dei concepiti, limitatamente a questo,
allo sfuggire di questo, all’ipotesi o al sogno di questo, all’indizio magro o macabro, limitatamente all’odio
concesso e distribuito, al motivo annesso all’odio, all’esercizio dell’odiare nei limiti dell’odiabile, mi chiedo
per quale spazio, idea, faglia, si limiterà a passare, in senso inverso, o del tutto altrove, o diffuso,
l’amore, quell’amore non concepito, inordinato, che non domina, non tiene, non ha netta concezione, e
scorre, nei limiti, e li annulla.
(da “Le circostanze della frase”, inedito)
Notizia.
Andrea Inglese è nato a Torino nel 1967. Vive e lavora a Parigi. Insegna attualmente letteratura e lingua
italiana presso l’Università di Paris III. Ha pubblicato un saggio di teoria del romanzo dal titolo L’eroe
segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo per le edizioni del Dipartimento di
Linguistica e Letterature comparate di Cassino (2003). Assieme a Chiara Montini ha curato il numero
monografico della rivista “Testo a fronte” dedicato a Samuel Beckett (n° 35).
135
Ha pubblicato la raccolta poetica Prove d’inconsistenza, con prefazione di G. Majorino nel VI Quaderno
italiano (Marcos y Marcos, 1998), Inventari (Zona 2001) con postfazione di B. Cepollaro, Bilico (d’if,
2004). Nel 2005 è apparso l’E-book, L’indomestico, Biagio Cepollaro E-dizioni (www.cepollaro.it). Presso
l’editore Arcipelago è appena uscita la plaquette Quello che si vede (Milano, 2006).
Traduzioni in francese dei suoi testi appaiono nelle riviste francesi Action poétique (n°177, settembre
2004) e If (n° 27, 2005), nella rivista canadese Exit (n° 40, 2005), nella rivista belga Le Fram (n° 14,
inverno-primavera 2006). Traduzioni di suoi testi in rumeno sono apparsi nella rivista Semn (n°3-4, 2005
e n°1, 2006). Traduzioni in inglese sono disponibili sul sito Poetry International Web, nella sezione
dedicata alla poesia italiana.
È presente nelle antologie di poesia italiana contemporanea Parola Plurale (Sossella, 2005) e Il presente
della poesia italiana (LietoColle, 2006).
È il curatore di Per una poesia futura. Quaderni di critica letteraria, rivista di critica letteraria on sul sito di
Biagio Cepollaro (www.cepollaro.it/poesiaitaliana/CRITICA/critica.htm).
Ha partecipato a diverse manifestazioni di poesia in Italia e all’estero, tra cui Ricercare ’97 (Reggio
Emilia), Romapoesia (1999 e 2005), Festival Internazionale di Poesia del Mondo Latino Ars Amandi
tenutosi in Romania (2005), 34ème Rencontre québécoise internationale des écrivains a Montreal (2006) e
Milano Festival Internazionale di Poesia (2006).
136
IN IPSO NUDO AMORE CARNALI
*
Le due giovani, stelle,
si mostrano stupite, nel riflesso
quasi uguali, gemelle,
il loro corpo cinto in un amplesso,
sfiorandosi la pelle
- sciarpe in silk cru, collant di lycra, il sesso e al telefono digitano i tasti.
La lingua sulla lingua, in tutti i posti.
*
Paffuta, piccolina, dolce e mora,
tra i baci sparsi da bocche voraci,
sorridendo spompina,
e la cappella, con la lingua, sfiora,
tra le labbra carnose ben capaci,
sopra e sotto, carina,
in un sessantanove,
toccandosi le tette nel pullover.
*
Strette ai lati, le mani bianche e il petto,
tra neri paramenti, le due donne
con calze autoreggenti e un fazzoletto,
la bara al centro e i ceri, la croce,
inginocchiate s’alzano le gonne
- il pizzo nero, i glutei - a fil di voce
stringono le unghie sulle carni nude
e i seni sodi. Devote madonne
provano a turno il grosso anal intruder.
*
Già dal divano s’erge
giovinetta lasciva
di pura grana e viva
il suo volto orna e asperge
con struccante deterge
passa una ciocca dietro al suo orecchio
e giudice è lo specchio.
*
Tra i panni stropicciati,
la mano che alza l’orlo della veste,
muove arti affusolati.
Simulando lap-dance,
tagliente occhio celeste,
si muove quasi in trance.
Poi inquieta fa i capricci,
stira con l’indice i capelli ricci.
*
Mordicchia con morbosa morbidezza
la carne intorno al collo, un poco scura
la pelle del prepuzio. S’accarezza
le spalle, fuori di sé dalla gioia.
La testa turgida del glande, dura,
ingoia. Gode. Sembra poi che muoia.
137
Restano immobili, quasi dipinti.
Vesti gualcite di due corpi avvinti.
*
Il volto in mille stille
- rugiadosa, umidetta s’incipria e inrossetta
fa toeletta con perle e il maquillage,
lei, negli spogliatoi della palestra
tra i phon e la finestra.
*
A sera, in un condominio, lasciva
un’universitaria, sul divano
a fiori, bionda, si stende passiva.
Lo prende un poco ovunque,
verginella di un romanzo sadiano fino a venire al dunque.
Fuma sigarette. La saloppette
si sfila e succhia il succo che poi cola
su mani e labbra strette,
giù, scorrendogli caldo nella gola.
*
Col musino carino, i lineamenti
marcati, ma cortesi,
mostra rosati i labbri, le sue lenti
da sole, a due intenti
tatuati uomini che in sforzi tesi
gli vengono sui denti
e sulla montatura
da segretaria - cerbiatta sparuta negli occhi. Trattenuta
s’accarezza, creatura che ha paura.
*
Brillano braccialetti
e gioielli d’oro e d’argento,
legati alla caviglia
e al polso un poco stretti.
Scivola a terra l’ultimo indumento:
l’accappatoio bianco di ciniglia.
Ninfa moderna, fina
modella, figurina alabastrina.
Notizia.
Tommaso Lisa (Firenze, 1977). Esordisce nell’antologia Ottavo quaderno di poesia italiana
contemporanea (a cura di Franco Buffoni, Milano, Marcos y Marcos, 2004), pubblicando poi, in volume,
Pornopoemi (Arezzo, Zona, 2004 con allegato CD del gruppo fonografico Rapsodi) e rebis.periferiche
(Pordenone, Old Europa Cafe, 2005, con allegato CD Reset) realizzato in collaborazione con l’ingegnere
del suono Bad Sector. Dopo aver coordinato la rivista letteraria “L’Apostrofo” (Firenze, Chegai, 20012004) dirige adesso, assieme ad Alessandro Raveggi, il progetto multimediale “Re;” (www.revista.org).
Dottore di ricerca in lettere con una tesi dal titolo La poetica dell’oggetto da Anceschi ai Novissimi. Tra le
sue pubblicazioni critiche Scritture del riconoscimento. Su Ora serrata retinae di Valerio Magrelli (Roma,
Bulzoni, 2004); Poetiche contemporanee. Colloqui con dieci poeti (Arezzo, Zona, 2006); Pretesti
ecfrastici. Edoardo Sanguineti e alcuni artisti italiani. Con un’intervista inedita (a cura di Tommaso Lisa,
Firenze, SEF, 2004). Altri suoi saggi e poesie sono uscite su riviste (“Semicerchio”, “Nuovi Argomenti”, “il
verri”).
138
Da NUN: 1,6,7 (I),
gennaio-febbraio 2003
1
die leere Mitte, Paul, dov’è?
dove ti sto cercando,
per l’ora della tua morte,
dans l’eau, dir folgend,
Phlebas
6
1.
ritorna ciò che rimane,
ritorna
inaridito d’ossido,
non come,
non concavo,
solo parole andate,
che rimangono,
a fare piaghe,
una dopo l’altra,
lamina frangia intaglio,
a fare un corpo nuovo,
fatto di piaghe, fitte,
una accanto all’altra,
parole piaghe,
parole vere non più vere,
parola tace,
taci
taci
2.
ti vorrei nome, nome
ti vorrei cosa, cosa
vorrei sapere
e non sapere
senza parole
senza più parole
3.
ogni non dire,
che non tace,
vortice, voragine
non c’è
non cessa
silenzio che sia silenzio,
che sia silenzio
139
4.
[ ardere, dando ]
mai soltanto il bene
per ogni gesto,
un gesto non compiuto
[ ogni ricordo il non ricordo,
ogni rammendo scuce ]
5.
parole preme,
non sa,
parole preme, e taglia,
e poi fa la premura,
s’accoda, si strascica,
per fare nenia, ninnolo
parole fine, mai
6.
taglia la mano monca
ancora
parola preme
memoria che fa premura,
taglia
l’ultimo nervo che ha memoria,
e preme
[ tàgliati via da qui, da solo ]
7
1.
molto, per molto che sia,
si fa silenzio,
fa silenzio
[ il sempre, che rimarrà,
che sarà sempre troppo,
parole, troppe,
tutte le non taciute,
parola tace, taci,
taci ]
2.
è tutto un distogliere lo sguardo
per non guardare, ognuno,
i nostri occhi ciechi
140
3.
non più parole scure?
non più
né mai
solo chi guarda vede
[ tienigli stretta la sua mano,
portalo, piccolo figlio tuo,
il tuo accecato ]
4.
portami cieco, cieca
[ chiuditi gli occhi,
tutti i tuoi occhi ciechi ]
[ come, sempre,
come se fosse
[ come una luce grande,
quando arriva, nell’ora,
luce di luce
luce di luce
5.
stare nell’ombra
come una luce spenta
non come
non più lasciare che divenga,
che ti divenga scura,
la tua luce
6.
è tutto un fuoco di fuliggine?
[ tre sillabe fredde, Arnaut,
sopra tre suoni uguali –
mai –
non si ripete mai ]
7.
vita che ti è segreta,
che sarà sempre,
finché
[ uno schiocco di lingua,
uno scroscio, un crepitare –
crepita adesso, ancora,
ricopriti di crepe, di voragini,
di luci
non è vuoto ]
141
*
da NUN: 1,6,7 (II),
gennaio-luglio 2003
1
[ légami a un legno di naufragio ]
[ arenante ]
[ arenami nella tua rena ]
[ tremante ]
6
1.
[ apri, sperduto ]
darti non più che un non andare,
stare che non rimane
[ stessa radice sterrata,
stessa come la tua,
senza pietà
del non restare mai ]
2.
così, attraversando
[ così,
guardandoti lontano, da lontano,
come ti guarderebbe chi allontana –
la vita che ti finisce,
accanto, dentro ]
3.
[ chiudere, racchiudere ]
fosse solerte,
caterva del racchiudere
[ chiuso nel chiuso,
ripieno, ricolmo ]
frange, fessure, no –
crepe, crepitanti
[ refoli, raffiche –
tutto quel vuoto vento,
intorno ]
142
4.
acredine,
crespa, s’increspa
[ come, non come ]
[ ogni parola non taciuta ]
5.
[ avviene, s’avventa ]
sì,
così
[ tronco ritorto,
raschio di ruggine ]
6.
se ci sarà un silenzio nero
[ portami cieco, cieca ]
albe del non attendere,
più
mai più parole vere
[ ti porterò del cibo, dei liquori,
per riscaldare il corpo ]
7
1.
[ non tornerà,
né col silenzio
né con le parole ]
[ non hai vissuto,
non l’hai vissuto tu ]
2.
che cosa rimarrà
senza parole condivise?
[ tatá, tatá,
jusqu’à semer,
tatá ]
3.
[ tracce ]
tacciando il tempo
di farsi livido
come se tutto il tempo, dopo,
a vendicare,
a ribattere i colpi,
143
uno a uno
[ tá – tá,
tátá ]
4.
[ nega la negazione,
e basta –
no,
e no ]
5.
[ batti e ribatti,
mentre non batte più,
la sfilza di parole ]
[ fa solo finta,
fa solo effetto d’ombra,
in ombra ]
[ en esta hora, ahora,
en esta sombra fría,
sin sembrar ]
6.
ta croûte crevée, enfin,
sans la blesser, encore –
blessure brûlée de bruit,
qui sera le froid
de la foi perdue
[ herida helada, ahora,
y nada, nada ]
7.
[ siamo soltanto
grumi di non pensiero,
strenuamente incapaci di pietà ]
[NdA. Questi motivi derivano dal testo d’incipit di nun (nyn), intitolato fuga tripla, e leggibile, adesso, sul sito curato
da Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano,
gammm.blogsome.com.
Fuga e motivi sono stati pubblicati insieme sul fascicolo 8-9/2005 della rivista “Trame”.]
Notizia.
Giuliano Mesa è nato nel 1957 a Salvaterra (Reggio Emilia). Ha pubblicato “Schedario” (1973-1977),
Geiger, Torino, 1978 (nuova ed. e-book, Biagio Cepollaro Edizioni, 2005); “I loro scritti”, Quasar, Roma,
1992; “Improvviso e dopo”, “Anterem”, Verona, 1997; “Quattro quaderni”, Zona, Lavagna, 2000. E’ tra i
curatori del volume “àkusma. Forme della poesia contemporanea”, Metauro, Pesaro, 2000.
144
La cellula abitacolare tocca le derive periferiche e va in oltranze.
La sera avanza avanzi fino all’anello radiale in sottopasso dello svincolo
dove lo sterzo gira miele concentrico in reimbocco
lasciando ai retrovisori lingua pronuciata dai soli distributori.
(Da “Multidispenser”, inedito, 2004)
*
Racchiuso
Perielio
# 1
del
Luce
Locato
Levigo dalla
perimetro
per
zenithale
Striscia
Fuggita
dentro
strada
cancellato
mobile
Motile
angolatura
Appartato
lato
#2
Definitoria
#3
la linea
Trattenendo
nei fiati
entro
compressure
grigi
(Da “Comparti”, inedito, 2004)
*
DOMOPAK
e
Pressurizzando
l’oggetto
spiega
ravvolto
il cilindro cartonato
verso
impugnato srotolo
città
surgelo
(Da “perplexiglass” , inedito, 2005)
145
*
Start Noleggio
Gli
stessi
17 : 54
gesti richiudono DVD.
Lo stesso distacco rilascia resto.
La stessa ricevuta dispiegata in banda lunga di carta.
Transitanti
transanti ad ogni ora intorno.
Blockbuster prometti
ritorno continuato
fra tanti titoli disciolti dalla catena distributiva.
Ricevuta Fiscale XAA 03279317 legge 30/12/91 n.413/D:M. 30/3/92 art.12 comma 1
(Da “Blockbuster Tales”, audiotesto inedito per il video “Blockbuster Tapes”)
*
>MNT<
La mantella impermeabile
al centro della paninoteca
si apre ad onduli
e ripiega
grazie all’esposizione temporanea
dei soli astanti /agenti
e svanisce
nell’icona protetta della loro assenza
(Da “Non Luoghi a Procedere”, Scrittura Creativa Edizioni, 2003)
*
Fari
Accesi per la gran serata.
Nessun altro abbaglio.
146
Comunichiamo la nostra apparenza.
Abbagliante.
Intanto le luci di posizione
possono essere utili
per entrare
nel management dirigenziale della
Bosch.
Le convochiamo.
(Da “autobiografie” testo per performance eseguito nel Museo Bonfanti Vimar di Ezzelino Romano (Vi),
Dicembre 2005)
*
Interi faldoni di riviste di moda nella spazzatura.
L’immagine della bellezza della modella Armani trova ironico rifiuto.
Fotografo questa dissoluzione contemporanea della merce effimera.
All’interno delle pensiline la vernice ha composto segni rossi
con la struttura a cerchio dei sostegni.
Una deturpazione alla Mirò.
Al sollevarsi gracchiante dei corvi la terra rimane libera e fresca.
L’intelaiatura vuota del cartellone pubblicitario autoinquadra il distributore
ed è una offerta visiva già impostata all’obbiettivo.
L’aria intaglia bene la pubblicità attigua che si rivela in questo autospazio
dell’immagine.
Un punto perno fra corpo ed orizzonte il muretto sbrecciato.
Un diramatore naturale della prospettica.
Al centro fra la ghiaia ed il verde.
Le transenne sono dei filtri metallici stabili e provvisori
riescono a tagliare la strada e depositano uno spessore millimetrico.
Una pausa che aggiro intorno alla loro argentatura fredda.
(Da “Photoazioni”, testi ricostruiti dopo lo scatto fotografico, 2004 -2006)
Notizia.
Alberto Mori è nato a Crema (Cr) nel 1962, dove vive e risiede. Dal 1986 pubblica libri di poesia. Scrive
saggi di poesia e d’arte, racconti, prose. Effettua readings, installazioni,letture pubbliche, video e
performance. Collabora a progetti d’interazione della poesia con tutte le espressioni artistiche. È tra i
membri fondatori del Circolo Poetico Correnti che dal 1995 opera nella riflessione, incontro, divulgazione
della poesia (www.correnti.org). Tra le pubblicazioni più recenti: “Iperpoesie”(1997) “Percezione”
(2000), per Multimedia Edizioni; “Cellule”(2001), “Raccordanze” (2004) per Cierre Grafica; “Urbanità”
(2001), “Non Luoghi a Procedere” (2003); “Utópos” (2005), per Scrittura Creativa Edizioni; “Suonetti”,
Alla Pasticceria del Pesce (2006). Nel novembre del 2001 “Iperpoesie” per Save As Edicion e nel mese
di agosto 2006 “Utópos “ per Emboscall (Collana Peccata Minuta) sono stati tradotti in Spagna. È
presente nelle antologie di poesia: “Poesia in Azione” (49esima Biennale di Venezia - Milanocosa 2002),
“Ditelo con i fiori” (Zanetto Editore 2003), “Gates “ (Antologia on line - Fondazione d’Ars - Biennale di
Parigi 2003), “Diversi” (Dialogo Libri 2004), “L’Isola dei poeti” (Antologia on line – Repubblica.it –
51esima biennale di Venezia 2005), “Il segreto delle fragole” – poetico diario 2006 - ( LietoColle 2005),
“Il mare “ (Ferrari Editore 2006) E mail [email protected]; sito web www.albertomoripoeta.com.
147
Sotto il platano di Saban
cela bouge encore dans la chair
[…]
chair d’ombre tel un fruit ouvert
(Lorand Gaspar)
*
entrando più nel vivo
di un’ombra che fa da scalo
alle orecchie dei più pazienti
e avendo in custodia
un silenzio ospitato
di cinquecento anni
Saban è il personaggio
più omesso di Mandraki;
lui, un ometto quasi cieco
mentre spazza e riordina
il giardino dei suoi affetti
parlando di persona
a ogni direzione umana
*
Saban attende
il resoconto illuminato
dalla storia
almeno dal ‘45
del secolo scorso
e fuma di continuo
alla moschea
di Murad Reis
e al mausoleo
di cui è custode –
lui vive nella casa
di fronte al cimitero
degli ufficiali turchi
(tra i calcinacci sparsi
o ammassati per tutta l’area)
alla cui vista è compreso
un grande platano
di centinaia d’anni
al centro del giardino
di cui Saban si dice fiero
*
il ragazzo volante
non potevo che aspirare
a una copertura di silenti
messaggi da casa,
tutto era previsto affinché
l’enunciatore salvasse
le sue colpe… –
se dei cinque sono
il meno leggero
è per via della stanza
148
che mi ha tenuto a contatto
ai miei fratelli più grandi,
senza il minimo tratto
di sbocco solare,
senza una finestrella
sull’acqua dei morti
a scaricargli il respiro
e una parola di troppo
o una parola di meno
a ogni confronto
*
con un po’ di ristoro
nel cicaleccio assordante
e una valle colma di uliveti
e con un po’ di pace
al nostro meritato riposo
ora la vista marcia
alla larga dall’acqua nera,
dalla palude, dall’acquitrino,
per una legge di somiglianza;
cerca l’oasi limpida
di acqua da risveglio,
al posto dell’idea
di acqua illimpidita
cerca l’alternanza
in un frutto caduto
sul versante dell’ombra,
è ombra senza conquista
la sua lingua
*
come l’angelo malinconico
dell’incisore ripongo in custodia
la censura sul bene più grande –
lascio un attimo morire
quella sfilza di parole fluenti
dopo una settimana di mutismo
quando la bocca è piena d’acqua –
e avanzo a suturare nello spazio
della mia ombra le bende
del cieco di Urfa
traghettando voci dall’interno
fino al massimo di luce sopportabile
*
favola al caravanserraglio
dalla terra data alle mie spalle
lascio andare il cuore a perdersi
oltre quel confine disabitato,
come la nave dopo l’incendio;
di tanto in tanto arriva un cavaliere
armato al serraglio di uno stormo
di gente chiusa tra le mura
(corrono i più giovani ad aprirgli
lo spiraglio, quelli più desiderosi
di sapere dietro l’ombra del deserto
come va quell’altro mondo) –
e bivacca con la sua storia
e gli occhi brillano alla luna
e i presenti ascoltano impietriti
149
il racconto dell’uomo affamato.
Ma il cuore dei più svegli
cade a fare centro nel braciere
passata l’ora della mezzanotte
e non tiene il passo di chi recupera
il riposo. Qui la voce si disperde
nel lampo assoggettato
di chi perde la parola,
nel cigolìo dello sbarramento
notturno delle guardie
*
dalle teorie di un gesuita
ha ragione il gesuita
a criticare il gusto
di una vittoria seducente,
la scrittura di una lente
personale e sotto il nome
temporale di senso
della storia.
La storia non ha senso
di apertura così vero
e collaudato
per un’anima morente
nel visibile (non presta fede
a questa compassione);
un’anima semplice pensa
a raccogliere i frutti
di una vita germinata
all’insaputa di tutto
e resta dentro imprigionata
all’amore più grande
(pensa alla casa,
a un tetto per la pioggia,
ai soli istinti che conosce,
non a fuggire il male!
timidamente si affaccia
sull’abisso di una lingua
fatta di roveti, serpi,
scempio e distruzione:
sa che il mondo
così immatura
non la vuole
né viva né morta)
*
Patmos
dicono che sia qui
la Pasqua un panegirico
in cui ogni santo si smuove
dal calendario ortodosso –
e ogni uomo pieno
di buon esempio
e persino il più cocciuto
dei miscredenti
(e che i posti letto
vadano a ruba
e che sia inutile
ogni prenotazione) –
e che durante l’evento
150
le spiagge siano deserte
e le coste inascoltate
come se il mare bagnasse
le labbra di un muto
*
Maestro di contorsioni.
Tal è Giorgio Caproni?
(Giorgio Caproni)
come in una natura
eternamente incorruttibile
(e peccando di infinita modestia)
il maestro pensò di essere
nell’oltre, in cui la grazia si misura
all’ombra di un faggio,
a tu per tu con Dio.
E lasciò, giustamente, da parte
il muro contro muro del sapiente
per continuare dentro
nella voce dell’umano
anche dopo morto.
E ai suoi fruitori, morendo,
ricordò
come la rosa perfetta
e impronunciabile
fosse soltanto quella
dei suoi cari.
*
Epitaffio dell’uno (in forma di testamento)
a osare tanto,
a esserne davvero capaci,
lascio il vocativo vuoto
ai miei compagni di viaggio
incontrati ad Atene
(all’architetto greco,
all’inglese di nome Dixie,
al canadese dell’Ontario
e all’italo-americano),
il tono azzerato dalla bocca
e la lingua piallata in mezzo
alla segatura di un taglialegna –
lascio il bosco della riserva
ai suoi animali (alla faina,
al lupo, alle lucciole, al cinghiale),
lascio il torrente fluire al suo corso
e mi fisso nel regno dei confini
come qualcuno a cui sia detto
«rimani a fissare chi splende»
Notizia.
Luciano Neri è nato nel 1970 a Genova, dove vive e lavora. Si è laureato in Lettere Moderne con una tesi
sulla drammaturgia di Luigi Squarzina.
Ha pubblicato Dal cuore di Daguerre (Firenze, 2001), opera d’esordio, con prefazione di Mariella Bettarini.
Suoi testi poetici sono apparsi su riviste quali «La Clessidra», «La Mosca di Milano», «Re:», «Nuovi
Argomenti» e «Ciminiera», di cui è uno dei redattori. Collabora con «La Mosca di Milano».
Si occupa, inoltre, di organizzazione e promozione culturale e nel 2004 ha curato la rassegna Succursale
Mare, sul tema dell’immagine nelle arti, con l’intervento di filosofi, critici e poeti italiani.
151
3.
Nel corso delle azioni del cipresso
(il parapiglia delle sospensioni…)
sovrapposti cielo e terra
i parametri di nessun sacro
sono da indossare:
eremitaggio ennesimo il senza volto
quando di guardia il calice notturno
(raucedine di sale)
neppure lindissimo l’infante
spauracchio della preghiera
arenata in un manipolo di chiodi.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
18.
La luce dell’ottobre sulla porta
dell’appartamento breve del breve
e breve con molte mandate l’antico
chiavistello la provvidenza senza
decoro il coro delle polveri
di essere stati tristi di verissimi
comandi di bulbo il buontempone
nascere. E scenda la dacia del
poeta in corda lungo le mosse
di ballerini di gioia, le dì gioiose
stanze.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
37.
Le luci avariate dell’ancora rito
babele a zampe all’aria
rupe del rantolo
scalea del liso leso principe.
Il cordiglio del sale
fratello del cartoccio
gemello del cencio
così stremata perdita
ciocca a ciocca d’amen
arpa del plettro d’unghie
gli addii di nodi di dita.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
48.
E’ passata la cialda del cristallo
quando dal corpo prometteva amore
la fola del credo dato allo sguardo.
La novità del chiosco non scommette
di darti un sorriso dalla vitalità
del tetro alla maniglia metropolitana,
una libellula di notizia
lustro all’asola che sfilaccia
tutto il cappotto preso per cilecca
di pane. Sola rendita una cosa
fioca fioca senza accessori
152
nei pesi di guerre in fondo all’apice
di tasche, schemi di lapidi.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
51.
Sorprese del pane nero
sorprese del fuoco fatuo
indici interni calici al gerundio
di un solo turno
le divisioni del muschio.
Romba la fune ancora la bellezza
del tira e molla le radici strenue
nulle del basto nello stordimento
in tale bruma di sovrana teca.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
52.
Il presidio dell’anno è farsi coccio
cenerentola del seme mai giammai
pacifico fiume coro di oche
chete di felicità.
Gl’intrecci delle palafitte
le latitanze miserande quando si crede
di tagliare i dispacci del boia
per le caviglie marine delle viti
rosse aureole di trasparenti
abbracci.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
82.
Esploso su una mina per gioco
nemmeno il convettore del gelo
nessuna nessuna risposta.
Il basto dell’ecumene spense la tua
cenere nell’aria satura. Rise ancora
ride oltre il più che blasfemo motto
del mondo. Tua madre è di nuovo
incinta perché è solo una donna
nata per farsi cingere
gerla di lavagna senza petulanza
da maestra né statura d’impronta.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
90.
Apparenze di nomi
da casati di abbandoni
fosti solo, solo resina d’artifizi
sulle punte secche di rami
di abeti natalizi lenti alla
condanna, silvano al vano
beffa di brezza. Se i bambini vivono
ti fanno girotondo e tu in panne
sembri arrossire… Sire di lucore
153
al bosco che ti sconfisse.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
91.
Tarlo di vento il tuo ventaglio
(in pompa magna le esistenze d’altri).
Le preghiere, le preghiere
faccenduole che non riguardano
né il duolo né la foce.
Comunque gendarme lo sguardo,
l’origine sobbalza nel mallo
da mangiare nel natale della fine.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
94.
Arsione dello stento
la cornucopia del crepacuore.
In pace con le conserve = serve delle muffe
così il parrucchiere
robusto alla parola senza storia.
Il mulino d’ieri perno alla barzelletta
d’oggi per il pane vieto.
A tutto stato l’orrido disappunto
degli appunti che gemmano risacche
scheletri d’alunni sfatti filosofi.
L’andirivieni delle stimmate
nessun proletariato d’angelo né santo.
°°°°°
°°°°°
°°°°°
[Marina Pizzi, da Sorprese del pane nero, inedito]
Notizia.
Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55. Ha pubblicato i libri di poesia: Il giornale dell'esule
(Crocetti 1986), Gli angioli patrioti (ivi 1988), Acquerugiole (ivi 1990), Darsene il respiro (Fondazione
Corrente 1993), La devozione di stare (Anterem 1994), Le arsure (LietoColle 2004). Raccolte inedite in
carta rintracciabili sul Web: La passione della fine, Intimità delle lontananze, Dissesti per il tramonto, Una
camera di conforto, Sconforti di consorte, Brindisi e cipressi, Sorprese del pane nero, Il poemetto L'alba
del penitenziario. Il penitenziario dell'alba; le plaquette L'impresario reo (Tam Tam 1985) e Un cartone
per la notte (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); Le giostre del delta (foglio fuori
commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste,
antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri, Pier
Vincenzo Mengaldo, Luca Canali, Giuliano Gramigna. Nel 2004 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124
– Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno. Marina Pizzi fa parte del comitato di redazione della rivista
"Poesia".
154
SETTE POESIE
È una nuvola la tartaruga volante
che gratta la pancia sulle cime di pietra
e dietro di esse affonda andando alla deriva
poi si disfa nel vuoto del cielo
come un nastro attirato dal sole
che tramontando lascia sopra di sé
un’aura metallica
affondata nell’atmosfera
che benda senza suono tutta l’umanità,
i miei occhi ricordano quella cecità
della sofferenza più nera
davanti a tutto ciò che non è umano,
i miei occhi non possono più vedere,
ora, però, ascoltano. I miei occhi
come richiami di uccelli muti
lasciano questa terra,
e senza respiro
chiedono all’universo
quella luce di fotoni
che non potranno mai restituire.
*
Com’è possibile, ch’io pensi ora
al torrido e lento amore di primavera,
spettro più forte dello spettro stesso.
E le fioriture contro la roccia nera
si schiacciano prive di quel pensiero.
Sento paralizzarsi ogni fiore,
è la primavera della mente,
una scossa muta in un sonno eterno.
*
I
Qui
mentre la stelle colpiscono l’occhio come spari di santità
l’occhio è assente:
Quanti anni sono nascosti in quanti anni?
In questo libro la sabbia di quel deserto.
Ho letto quel libro quante volte?
E adesso sta lì,
la mia prima anima è lì,
e la mia anima sopravvive.
II
Anche le stelle sospinge
l’onda dell’universo
portata sul mio volto
e brucia il deserto della ferita.
Quel giorno è ormai puro
e indecifrabile.
Sotto la mia mano distesa
puoi dire il nome di quel pianeta
dove l’acqua metallica
155
è bianca e invulnerabile?
III
Come se fossi morto
il sangue riposa al buio
sulla mia lingua.
Intorno a me
la vastità si sposa come una grande macina.
Sarà spogliato come una luce divina
questo amore
sulla pietra.
Del mio volto porterò via con me il riflesso
dal vuoto dell’universo
inventando tutto di me.
*
Del mio mondo io salvo soltanto
i colori diafani di una pianta dimenticata
e la precisione là dove ogni volto è preciso.
Questo è il mondo, è il tempo
che vede per primo la natura fredda del cosmo,
e le stelle tagliano la mia mente
là dove esso appare. Perso è per sempre
quel mondo, ascolto però in silenzio
il divenire che genera così l’universo.
*
Non altro
che vicino a lui fino a oggi,
ma quando, mentre muore,
per forza d’infinito
con la morte ha fine l’eternità,
ho sentito il sangue cercare
come fuoco
la parola.
Vedo senza tristezza bruciare
l’identità portata
da me senza fatica
con l’anima dura d’universo, qui,
in un fuoco ignoto che la separa.
La morte distrutta nel mondo,
si ferma,
e tutto di me si ferma
per il tempo della vita,
prima di questo universo
e di questo testo
che lo compone
senza mondo,
e io migro in questa scrittura.
Calmo, nel vuoto dell’universo,
nel vuoto del sole,
il poeta lascia
la poesia
nello spazio di quella luce.
156
*
Ora, tu sei la
pietra nella tua
gola, amore,
nell’universo,
se così ha inizio.
Puoi essere tu
lacrima infine
che parli per me
che leggi per me
versi di canto.
L’universo è
duro sulla tua
lingua mentre
chiude i suoi occhi
per sempre, qui.
Fermo, io sono
il suono che esplora
nella tua bocca
il sangue muto
che lì rimane.
*
Ancora è senza peso su di me la neve se
si avvicinano al mio orecchio le stelle
e lo strazio dell’oro davanti a me
se così bevi il sole con ciò che è scritto
ai confini del sospiro più violento
e segui ciò che fugge dalle mie mani
se io ti seguo davanti all’universo.
Il tuo corpo si annoda come un animale
e i tuoi occhi sono onde che si afferrano a tutto
foglie verdi esplose nel vuoto
vibrazione del sole,
mi abbatto come un albero dentro la tua bocca,
la luce è ferma, riposa, allora
guarda, da ora guardo ogni mio cambiamento se
tutto questo accade.
Notizia.
Jacopo Ricciardi è nato a Roma nel 1976. È ideatore e curatore del progetto culturale PlayOn per gli
Aeroporti di Roma (ADR). Dirige la collana PlayOn presso la Libri Scheiwiller. Ha pubblicato un romanzo:
Will (Capanotto, 1997), e sei libri di poesia: Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000),
Scultura (Exit Edizioni, 2002), Poesie della non morte (Libri Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem
Edizioni, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006).
Ha vinto il premio Under 25 San Vito al Tagliamento nel 2000, il premio Lorenzo Montano per l’inedito nel
2004 e ha ricevuto il premio speciale della giuria al Lerici Pea nel 2005.
157
Erano mattoni quelli che tramutati in pane davano
Vita alle allucinazioni operaie e dalle pattumiere metalliche
Del cielo avanzavano armate rosse
E si vedevano bene le cose passate
- strane forme di mattoni in serie Differenti stock di mattoni in luce
*
Allineati al secolo nostro non si sfregano piu’ né fanno muro
vedo il campo nel quale franarono e vedo la storta
Figura che feci al divieto di caricarli sulle spalle
Come insegnavano i santi di casa mia
- vedo il finale - e non so decifrare nessun segno di dissidenza
Sui muri
*
Anno ottanta
Bile, birra et oro barilla
flusso economico dei padri
che non si arresta nemmeno sotto
bombaday", neanche in " yesterday"
che non si traduce non è parola
*
Avviene che il futuro passi per errore
(che) le vittime se ne vadano innocenti
Verso altri agguati e le stragi si somiglino
Tutte e le riconosci dai rumori fatti una volta andate
E certo che in quegli anni di peste e smeraldo
Se ne andavano davvero le generazioni dai fonemi
lucenti
*
In altre città, non in questa, gli auricolari producono
Dolce insonnia, in altre città si ascoltano anche le prediche
- non danno alla testa la parola non resta fedele alla "parola data"
l’inconscio, in altre città, non in questa,
è olio e si passa ancora bene "un’ora d’amore"
in altre città, non in questa, le armi, deposte,
programmate per il disuso, sulle storte facce dei potenti
"non ci avranno mai"
In altre città non ci hanno mai avuti
*
Le donne nell’età del neon preparavano le prime fiale celesti
con apprensione e senso del dovere
splendenti, assolte dalle colpe delle madri
assorte nel corpo dei giovani padri
assortite nelle vendite dei rigeneratori e dei produttori di ruoli
belle, volpi nei giardini reali, quasi intatte all’alba.
La madre in anni neon scelse di non generare più
se non tra bestie addomesticate e schive e che
generò il multiplo dell’enigma
(fece il bambino direttamente con il suo destino)
(frammenti da "Anno ottanta, la terra del neon", inedito, 2006)
158
*
La terra di neon è tenera e insidiosa
Disastrosa per le menti colte da amore nuovo e disordinato
Al margine di ogni strada si trova una banca diroccata
Al centro della terra una casa con tante consuetudini e shopping
All’aperto, nessun bacio, scomparse le regole dell’incontro
Solo i vecchi amanti trasgrediscono e resistono
Al sole con i panni dello stereotipo stesi ad asciugare
Eppure d’un’inventiva senza precedenti si ragionava
(frammento da "La terra del neon o del perduto amor", inedito, 2006)
*
Resta fino a dissuaderci da morte l'anima nostra
Resta da sola senz' altro paesaggio al
Cioccolato/ resta/
Da sola infinitesimale progresso verso la luna resta
L'una o l'altra delle anime morte e se ne torna in
Vita e resta
Fino a dissuaderci da morte l'anima nostra resta
contraria al corpo
Per infinitesimale scarto per un voto lasciato nullo
resta
Al testo aderente.
*
Una società perfetta coppie a digiuno di massa
coppie perfette fedeli all'acero azzurro delle
cliniche new age moscerini perversi tanto platino per
gioielli su misura materia e antimateria e così si
procede.
*
Fatti fummo per essere al neon assuefatti occhio per occhio
Digitale celeste anno del dragone fatti fummo per
essere consumati
Eravamo i cigni del decennio Ottanta e fatti fummo di fumo
Per vivere di pillole e gas
quando demi moore nasceva
Il Neon arricchiva i potenti della terra e come le
mele stavamo e come i fumetti sottosopra e le bestie splendevano
placide
E nessuno superava il limite di velocità né su
autostrada
Né in guerra.
Cronenberg ci salvò dalla potatura dell'inconscio.
(frammenti da "Neon 80", inedito, 2006)
*
Per non rimanere indietro,
per fare presto, la donna concepiva
al Mac Donalds, alzando
tutti i suoi averi
al grado 0.
Dicevano i consumatori che assistevano al parto
è tutto consentito, lecito, permesso, e
parlavano mentre si dissolveva l’esperienza del fatto
in sé
che non li riguardava e aggiungevano
159
il fatto è di donnamoderna, la femmina è in piena,
morbida, contemporanea e regolare privacy,
e nella privacy si consumava tutto il fatto
Solo - raccomandavano alcuni
abitanti del quartiere accanto al M.D.
"qui si prega… non eccedete col neon".
*
Controllavo che non ci fossero
controindicazioni
quando mi hai baciata
per non dover interrompere la questione del rosa
straordinario.
Me lo ripetevi anche
Il rosa straordinario si ricava dalla polvere di un
tipo di muro
che nel Rinascimento veniva chiamato il mai scavalcato
e io aggiungevo che nel Medioevo con il rosa puro
s’indicava
il perdono.
Nel postmoderno abbiamo superato in senso antiorario
la questione del rosa strordinario.
In poche parole non mi hai baciata più
per "paura d’essere mangiato" o
perché queste cose si fanno al buio
oppure perché il rosa stinto sulle labbra
sfumando nelle parole eccessive
cancellò il bianco indispensabile
e tutte le memorie labiali.
(da "Rhum e acqua frizzante", Giulio Perrone Editore, 2005)
Notizia.
Lidia Riviello, nasce a Roma dove vive e lavora. Comincia nel 1995 ad occuparsi di scrittura giornalistica
collaborando con testate letterarie e di cultura come "Italian Poetry", rivista on line di poesia bilingue
italiano/inglese e il settimanale "Avvenimenti". Parallelamente alle collaborazioni con riviste e giornali,
inizia dal 1998 a collaborare come autrice testi per Radiorai; per Radiorai Tre per cui cura rubriche di
poesia nel palinsesto serale di "Radiotresuite", per Radiodue scrivendo editoriali all’interno di programmi
in fascia pomeridiana. La sua prima pubblicazione in volume risale al 1998 con "Aule di passaggio" poesie
in prosa ediz. Noubs, nel 2001 esce "La metropolitana" poesie, ediz. Signum, Bergamo 2001; nel 2002
"L’infinito del verbo andare" racconti, per Arlem editore, (nota introduttiva di Edith Bruck,) e nel 2005
pubblica "Rhum e acqua frizzante" ( poesie, G.Perrone editore, con nota di Carla Vasio. Sue poesie e
racconti sono tradotte in inglese, arabo, sloveno e giapponese. Interviste e recensioni sul suo lavoro sono
apparse, tra le altre, sulle testate: "l’Unità","Pagine", "Marie Claire", "Stilos", "Avvenimenti", "Il
Segnalibro", sulle riviste di letteratura multilingue "El Ghibli" e "Sagarana". Dall’ottobre del 2004 è
curatrice del Festival internazionale di poesia, arti visive e musica Romapoesia Festival che si svolge da
due anni all’Auditorium –Parco della Musica di Roma (www.romapoesia.it). Attualmente, cura e organizza
eventi e festival internazionali di poesia e letteratura per il Comune e la Provincia di Roma e continua la
collaborazione con Radiorai.
160
Acqua e sapone negli occhi
Uno si trova messo così, qui
a mezz’aria
appeso a un peso
nell’atto di levarsi
con una pinza uno sfizio,
vi scrivo dal fronte
spizio
*
Toccami
con una canna aguzza,
toccami con i guanti
di gomma per i piatti.
Toccami, che ti tocca,
non sono cacca, tocca.
Se prima non mi tocchi
non so più andare via,
tocca che non s’attacca
la mia, di malattia.
*
In attesa dell’onda anomala delle 15.30
Lei si legge l’oroscopo si scambia
messaggini carini, fa il sudoku
(a lei niente pertiene
di questa apocalisse
in un bicchiere d’acqua e nelle vene
a lei niente ne viene)
si controlla e si tocca
per vedere se c’è
ancora il suo sedere.
Abbi pietà di noi
nave superveloce per la Grecia
di noi che ti preghiamo
di passare d’urgenza in barba ai limiti
di chiuderci nel gorgo
(noi che non siamo a bordo) di strapparci
gli asciugamani a nodi marinari
via dalle mani.
Prima della liquefazione,
dello sgocciolamento del calippo,
prima che le mie membra
finiscano di spargersi di crema,
prima del compimento
dello smutandamento,
al largo, l’acqua in bocca,
portaci a un punto che non si tocca.
Venga l’acqua
alla gola
che si sloga e si sgola
161
che per ogni parola
che dice si allaga.
Annegherai i parei,
gli infradito di prada
e piangerà anche lei
ma l’acqua farà sì che non si veda.
Scrivo, con la pistola ad acqua,
a spari sul bagnato,
di profonde immersioni
nelle proprie ferite
fatte da uno che ha appena mangiato.
Nuova forma di nuoto
invoco
verso il fondo,
imploro la marea
che mi nasconda
e mi alzo mi abbasso faccio l’onda.
*
Silvan
Io vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
fatto di rame o di pietra o di legno,
che si conduca solo per maestria
Cavalcanti
Segato in due.
Ghigliottinato da lame affilatissime.
Sparito.
In un cerchio di fuoco, senza scarpe,
svelando al primo colpo le mie carte
storcevo un cucchiaino,
l’orologio schiacciato in un pestello,
con un buco vistoso nel calzino.
Ti ho amato da una sedia
in bilico, precario su uno zampo,
risvegliandomi al tre
io non in me.
Ti ho amato in trance:
un automa di coccio,
ciaccio,
che fa un’avance.
*
Cuore secco, di cretto,
aride creste esplose in spaccature
ramificate come in una storia
o in una geografia di snervature.
Lo spingi a fondo
come ferma terra
sperando che tenga,
ti sbagli si sfonda.
162
*
Di proprio pugno
Mi scrivo una tua lettera
finché dura la mano
finché mi regge il pugno, finché stringe,
finché so l’italiano.
Come consolazione o per rivalsa
mi scrivo una tua lettera
falsa.
Mi scrivo di mio pugno
(la grafia non è mia)
senza fare la brutta
copia, senza bisogno
di sprecare saliva
per chiudere o affrancare.
Mi scrivo una tua lettera.
Poi te la faccio firmare.
*
Verace
La verità va preparata bene
che può sempre servire
un pezzo un altro pezzo avanza un pezzo
sembra che tutto funzioni per ora.
Senti? Odoro di libri
nuovi, di figurine,
di tropical di puffo
di trota salmonata
di pancetta coppata.
Odori non amari
molto rari
odori quasi veri
quasi quasi.
Sono un piccione tossico
dall’intestino fragile
sporco, da centro storico,
acido grigio e gracile.
Vivi tu la mia vita
limane i bordi e i mali
a me, la rara bestia,
cui cresce il becco prima delle ali.
Prendi il mio ruolo e questo
posto da morto nato
rendilo vivo e vero
attore è l’anagramma di teatro.
Avrei voluto avere
lingua sottile per il dispiacere
un tantino ricurva
che mi serve per bere
lingua che la sa lunga
utile per tacere
e non che sappia solo
dare l’ombra ad un corpo
trarre niente da cose.
163
Margherita, poi Viola,
reciti ancora una parte da fiore.
Da petali secchi sai fare rose.
[Per Lucia: Margherita del Maestro e Margherita, Rosalinda in Pene d’amor perduto e quasi Viola della XII
notte.]
*
E’ arrivato l’inverno
dall’interno
con il suo vento sento
che soffia da dentro.
La tua mano che tocca da lontano
me che divento un lento vento strano
dal fiato corto
che soffia invano.
*
La lana in casa
sotto ai divani
segno che senza
calori umani
la polvere si annoda su se stessa.
Pieno che colma il vuoto
tappo che attappa un buco
lana nell’ombelico
foglia come di fico
e i grappoli di lana dei maglioni
frutto
d’attrito.
Srotolando gomitoli
si sperde ogni mio filo in doppi sensi
(dentro cuscini insonni
di lana a grumi densi).
*
Questa poesia non è
per te né per nessuno
non lascia alone
ha l’aut. min. ric.
non odora di chiuso
e poi
non si fa i fatti miei
ha tutte le carte in regola
è ochei.
Questa poesia è bielastica
può essere una esse
o volendo un’ixelle,
questa poesia si stende
come una parte del corpo,
una pelle.
Questa poesia non quadra
164
il cerchio casomai
si acumina in un rombo,
questa poesia non è
per te che sparirai
prima che tocchi il fondo.
*
Dallo spioncino
Mi lascio questi occhi che ho
per vedere le ombre all’orizzonte,
dietro una lente rimpiccolente,
di molta gente.
Da questo buco
ho visto i testimoni per esempio
di geova le donne delle scale
il messo iettatorio
dell’amministratore condominiale.
L’ex-tossico in realtà tutt’ora tossico
cui devo un set magnifico
di spugne per la casa
all’aroma di pesce
ho spiato pensando
- esce o non esce? -.
Da questo varco
nella porta ci passa una scintilla
nero pupilla.
Ma provate a pensare
a una schiena che trema familiare,
ombra tra gli zerbini
pericolante all’inizio delle scale,
che va via in una bolla di vetro
di quelle con dentro venezia o san pietro
densa di un’aria unta, senza attrito.
Appesa al corrimano
convessa, senza fretta,
noncurante della targhetta
con scritto il mio cognome che si stacca.
Souvenir deprivato
di neve e di memoria
a un palmo in linea d’aria
di distanza illusoria.
Dispersa nel viavai
per sempre come al solito
restando e un po’ viandando
senza lasciapassare senza i visti
al trotto a dirotto allo sbando
in ritardo sui tempi imprevisti.
Al riparo del chiuso
la guardo come non si deve
internato al sicuro
dalla parte dove si vede.
Ma provate a pensare
come si contrae la vista
di fronte a qualcosa che è troppo vicino
provate a pensare
alla condensa sullo spioncino.
165
*
Grasso
Allegria. Allegria.
Allè allè allè grrrrrrrrrrrrrrrrrrr-ia.
Riepilogando:
serve il fluido glaciale
(pazienza per i crampi) e le fialette
puzzolenti:
il massimo per spargere
le rogne senza grane
e il torciglion di merda
col sonaglio, le caramelle
mooolto ma molto buone
all’aglio:
succhiarle piano
senza masticare
per farsele durare
e la scheggia di lana
di vetro che si chiama
la starnutina
oppure il gratta-gratta,
il meglio sul mercato per prodursi
pruriti vari ai corpi.
Le finte cincingomme
le marlboro fasulle
munite di tagliola
che stacca una falange.
Chiodo di gomma che strapassa un dito.
uno che si rialza
che gli hanno dato un sacco
di botte con la clava
che ride e dice non
mi sono fatto niente
uno che si rialza
uno che dice non
uno che si riaggiusta
si pettina si dà
una spolveratina
si pizzica le guance
ritorna come prima
uno che
mi sono
uno che
uno che
Nel vario armamentario
del circo dello strazio il requisito
necessario è che spruzzi
o dia la scossa
ogni cosa.
dice non
fatto niente
dice non
dice niente
Carne professionale
166
siamo del carnevale
del finto farsi male la ferita
che maschera la piaga.
*
Chiaro che stiamo
parlando non di noi.
Forse nemmeno c’eri
visto che non esisti,
forse nemmeno c’ero
-io?
figurarsi.
Notizia
Luigi Socci, vive e lavora ad Ancona dove è nato nel 1966. Si è laureato in Lettere Moderne, ha
pubblicato versi su riviste quali "Verso Dove", "Ciminiera" e, con una presentazione di A. Cortellessa, su
"La scrittura". Una silloge di poesie di Socci, introdotta da Aldo Nove, è stata accolta in "Poesia
contemporanea, Ottavo quaderno italiano", a cura di Franco Buffoni (Milano, 2004).
167
I tradotti
168
1
felce contrista bacio
che perde su lei il nome
di fiore e la sua bara
è in acqua sulla barca
che porta molti morti
lenta per uno vivo
2
perché cercavo il cuore in pieno nero
gli occhi cristallo delle cose amate
si cingono di me senza vedermi
la loro oscurità è il vero amore
dove ogni onda che sposa la notte
nella mia vita si foggia un sorriso
e così per i segni che ora inseguo
la trasparenza abbia per impero
la mia persona introdotta in se stessa
3
così ogni stella vede e vede piena
la notte delle cime e a notte ali
crea e il rumore che verrà qualcuno
la Pietà stessa è il suo grande male
e la persona svanisce a sua volta
[da “La connaissance du soir”, 1945, traduzione di Massimo Sannelli]
Notizia.
Joë Bousquet nasce a Narbonne nel 1897. Dopo un'adolescenza difficile, segnata dalla droga, parte
volontario per la guerra. Sul fronte dell'Aisne, il 27 maggio 1918, un proiettile gli spezza la spina dorsale.
Paralizzato, vivrà coricato fino alla morte (1950). Nella camera di Carcassonne, dove si trasferisce nel
1924, apprende il paziente esercizio della scrittura. Attraverso la poesia, l'amore e l'amicizia trasforma la
propria ferita in un simbolo universale.
Tra i suoi scritti in prosa e versi sono: Tradotto dal silenzio (Traduit du silence, 1936), La conoscenza
della sera (La connaisance du soir, 1945), Il nocchiero di luna (Le meneur de lune, 1946), Le capitali (Les
capitales, 1955), e numerosi inediti.
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Da “COLLEZIONE DI PRIMAVERA”
Suhrkamp, 2002
UCCELLI
Gli uccelli, nel folto degli alberi,
ammattiti. Pressione troppo alta
nel corpicino animale,
troppo alti i toni. Al nostro orecchio piacciono
nel dormiveglia, senza destarci,
i loro vocaboli,
intraducibili eppure
argomento da sermone.
Ma amici, come me trovatelli,
non c’illudiamo:
intorno sparano.
Sulla porta di casa non ancora,
non ancora nei giardini di primavera,
la testa sotto il casco
dello stilista. D’altronde,
a considerare con un po’ di distacco,
ci attendono tempi duri,
ventosi. Le porte che non tengono
nelle baracche sociali,
nero di stampante
sul dito rotto.
Anche gli uccelli domani non gracchiano
più l’ultima nota
e volano via dal ramo
in relativo panico. Ma basta
col fare ipotesi. Chi vede nero
paga una multa. La ricetta,
afferriamola, la scrissero i ciechi.
*
NON C'E' TEMPO
Appena desto
già non ho più tempo.
La prima uscita dei cani
ha lasciato il segno per le scale,
e la casella postale è piena
fino all’orlo. Tutto
con avviso d’urgenza,
ricevuta di ritorno e data di scadenza.
La voce alla radio:
smorzata. Il paese
è in ribasso, a quanto pare.
Né calcio né tennis
che tiri, prospettive
nessuna.
Qualcuna raspa alla porta
e vuole che gli apra.
Non può essere che la morte
nelle vesti di un piazzista
con offerte scontate. Ruba
momenti e li vende
come orologi. Io mi fingo
demente e valuto
quanti anni rimangono
fino all’ultimo grande volo.
Il lampeggio
170
della segreteria
del mio apparecchio telefonico
conferma il ticket. Salvezza,
se per caso c’è,
viene dai falsi annunci.
*
DOMENICA TRANQUILLA
Tranne la lancetta dell’orologio
niente che si sposti.
Gli uccelli affaticati
sono rientrati già ieri
dal loro viaggio,
e anche la pagina del libro
da cui una volta volevano
volarsene via,
è rimasta prudentemente
aperta dov’era. Il cielo
non si può percorrere, dice qualcuno
e abbassa la testa
su una relazione tecnica.
Di domenica in domenica,
di partenza in partenza,
è sempre la stessa cosa.
Cambiamenti ci sono ancora solo
nelle foto a colori del giornale –
il rosso acceso dei rapanelli
rivolto al futuro,
il giallo vivo
d’una crema d’asparagi.
E lì accanto le pentole,
ancora sporche. Non una frase scritta
che sia andata avanti, non un amore
che continui a tessere
il filo
dei misteri.
Le auto sono parcheggiate
a V come vittoria,
s’inizia il censimento.
Il tuo abito blu alla finestra
dovrebbe bastare.
*
"IL BOSCO" TESTO DEL CATALOGO
E PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA
Il bosco, nel verde basso
del suo arredo interno e zitto
come un cacciatore prima di sparare,
per me è decisamente troppo premilitare.
Ovunque filo spinato nella veste rossa
di rose canine avvelenate. Il suolo,
minato dai funghi. Poi gli ordini
dei merli, duri, fischiati
da un agguato nella riserva: devi amarti
adesso! Ma questo lasciamolo perdere
e restiamo lucidamente abbottonati,
dalle scarpe da marcia al fazzoletto sulla faccia.
171
La natura è pur sempre una condizione molto
seria, non clean. Non paragonabile
col vezzoso topino
fra mousepad e mano in gioco
quando schizza al drive del CD
e avvia la vita degli animali di Brehm (1).
Qua fuori regna tempo reale,
mia diletta, fino alla zecca nel pelo,
tutto è in assetto da combattimento. D’altronde
in mezzo a questo territorio settico,
avvertiti per tempo e con istruzione superiore
andiamo a spasso senza sospetti.
Bisogna solo affrontarlo con un po’ più
di gentilezza, come Wilhelm Mueller (2).
Qui si parla esclusivamente
l’inglese economico. Anche le formiche-
soldato, ai ferri corti per una pozza
d’albume, ancora impigliate
nella loro confezione di gomma: niente
parole straniere, dal punto di vista politico
super in forma. Il legno sporco,
ancora tronco con la corteccia incisa,
da cui goccia sangue giallo nel vaso per la resina,
là già una serie di seggiolini per bimbi,
due letti a castello o scrivania.
Molto convincente questa vista
di futuri oggetti d’uso.
Alla fine tutto approda, che pizzichi
o punga, in un nuovo catalogo Ikea,
niente da fare, voi mostri piscianti,
vi facciamo evaporare. Per capir questo
una gita così è perciò ancora tempo libero.
La colonna in costume con coro popolare
a bere al banco si può mandarla
avanti dopo. Decisiva
è solo questa forte impressione iniziale
di come l’uomo incespica nel fango,
tira fuori la camera e agisce.
Il resto è il quotidiano. Progetto costruttivo,
misura e di tanto in tanto rampa di carico.
[traduzione di Anna Maria Carpi]
NOTE.
(1) Autore della famosa Vita degli animali (1864)
(2) Poeta romantico (1794-1827)
Notizia.
Kurt Drawert è nato nel 1956 e vive a Darmstadt. Premio Leonce-und-Lena, Premio Merano per la lirica,
Premio Bachmann, pemio Uwe Johnson, premio Lenau. Ha pubblicato fra prosa e poesia sette volumi. Di
prossima pubblicazione presso Scheiwiller la raccolta "Collezione di primavera", a cura di Anna Maria
Carpi.
172
L’Io e l’Io mio. Perché tradurre Girondo.
Non si finisce mai, soprattutto di tradurre. Continuiamo a farlo per vari motivi, da quelli strettamente
editoriali a quelli etici, per i quali serve una continua e costante curiosità delle letterature altre, delle
lingue altre, di altri autori. La capacità etica di un atto traduttivo sta nella volontà di voler conoscere
l’Altro ed inevitabilmente scoprire il Sé che lo desidera affrontare; volontà che, a dirla tutta, sarebbe
meglio lasciar dormire sotto il suolo delle nostre sicurezze, considerati i sacrifici e le scoperte negative
che ne conseguono. I vantaggi sono plurimi, il più importante dei quali è che se traduco mi riconosco.
Non in un autore di un altro tempo o di un’altra cultura, ma in conseguenza del fatto che a quell’autore
devo contrapporre obbligatoriamente un soggetto che conosco bene e a fondo. L’etica della traduzione,
teoria che va associata ad una pratica costante, insegna a considerare la traduzione come un processo
intellettuale che ha per scopo il disvelamento di uno spazio in cui due soggetti dialogano pariteticamente;
per questo motivo c’è bisogno di studiare pariteticamente la lingua, lo stile, la biografia e la cultura
dell’autore che si traduce e di quello che traduce. Il traduttore telelologico è fiscale e puntiglioso rispetto
al testo in lingua, ma lo è meno rispetto a sé, coscientemente sicuro di possedere una lingua, una
cultura, uno stile. Ad altri succede di aver voglia di tradurre quando si abbiano troppe certezze, quando ci
si senta sicuri, appalesati a se stessi, padroni della lingua italiana e del testo che si sta traducendo: con
una sicurezza del genere è facile creare capolavori. Dopo giorni di lavoro, evidentemente gratuiti, ci si
rende conto di quanto quella sicurezza sia fallace perché il risultato è denigrante, troppi ripensamenti e
dubbi, troppi falsi amici, la certezza che ci sia sempre un pezzo di testo (proprio o altrui) che va
sacrificato; un po’ di sé o dell’altro che muore, come diceva Bernard Simeone. Se tradurre è riscoprirsi,
però, significa che un lutto è accompagnato da una nuova nascita, quella dell’Io mio, cioè di quell’Io che
posseggo in quel momento: nuovo, pericoloso, immaturo e poco noto, ma è l’io che so di avere. Nel
leggere e tradurre Girondo, nato a Buenos Aires nel 1891 e scomparso nel 1967, colpisce l’insistenza
della prima persona alla ricerca del fondo più abissale del sé, dell’intradermico, del sotterraneo, del
suburbano. Lo dimostra il titolo dell’opera dalla quale estrapolo questa minima antologia, stupefacente
per il modo in cui il luogo perquisito attraverso la lingua, non sia il già intimo midollo, ma ciò che è
ancora più interno agli organi del corpo. Lo sforzo etimologico e creativo riguardo al dizionario girondiano
risulta tangibile tanto da approdare all’elemento materico della poesia per eccellenza, cioè il grumo
fonico. Non esiste, tuttavia, assenza di significato poiché l’io lirico dell’argentino (quello che cerca di
arrivare oltre l’interno dell’osso) non è volontariamente coeso, in modo tale da indicare al lettore la
direzione che porta ad una compiutezza di senso e ad una collaborazione fattiva tra interiezione e
scoperta. La ricerca, infatti, è dolorosa ma proficua tanto da portare alla luce l’elemento strutturante la
cultura personale: la mescola è un materiale vario e fluido che cementa i buchi vacui dell’esistenza e
lascia aderire le entità lontane. Fatta di dialogo, la mezcla tesse reti e rapporti tra culture, crea esistenze
che, come quella di Girondo, ne risulta attivata. Tanti sono infatti i rapporti che Girondo intrattiene con
intellettuali sudamericani ed europei (Alberti, Valéry, Darío, Vallejo, Borges) accogliendone le idee
sperimentali e moderniste immediatamente riadattate, ma utilizzando una lingua che risente fortemente
della radici autoctone dell’Argentina quechua e della pampa. Il vortice del traduttore che cerca il suo sé
leggendo un autore che cerca il suo sé, avrà certamente dato risultati dubbi, ma spero serva a rendere
omaggio a quei pezzi di testo e di poesia defunti e, nel contempo, a conoscere meglio un autore del quale
è uscita in Italia una sola opera tradotta nel 2001, Venti poesie da leggere in tranvai (Viennepierre).
Giampaolo Vincenzi
RADA ANÍMICA
Abra casa
de gris lava cefálica
y confluencias de cúmulos recuerdos y luzlatido cósmico
casa de alas de noche de rompiente de enlunados espasmos
e hipertensos tantanes de impresencia
casa cábala
cala
abracadabra
médium lívida en trance bajo el yeso de sus cuartos de huéspedes difuntos trasvestidos de soplo
metapsíquica casa multigrávida de neovoces y ubicuos ecosecos de circuitos ahogados
clave demonodea que conoce la muerte y sus compases
173
sus tambores afásicos de gasa
sus finales compuertas
y su asfalto
RADA SPIRITUALE
Cala casa
di grigia lava cefalica
e confluenze di cumuli ricordi e lucebattito cosmico
casa di ali di notte di rompente di illunati spasmi
e ipertesi gonghi d’impresenza
casa cabala
rada
abracadabra
medium pallida in trance sotto al gesso dei conti con gli osti defunti travestiti da soffio
metapsichica casa multigravida di neovoci e ubiqui equivacui di circuiti affocati
chiave demonedea che conosce la morte e i suoi compassi
i suoi tamburi afasici di garza
le sue finali saracinesche
e il suo bitume
LAS PUERTAS
Absorto tedio abierto
ante la fosanoche inululada
que en seca grieta abierta subsonríe su más agrís recato
abierto insisto insomne a tantas muertesones de inciensosón revuelo
hacia un destiempo inmóvil de tan ya amargas manos
abierto al eco cruento por costumbre de pulso no mal digo
pero mero nimio glóbulo abierto ante lo extraño
que en voraz queda herrumbre circunroe las parietales costas
abiertas al murmurio del masombra
mientras se abren las puertas
LE PORTE
Assorto tedio aperto
di fronte alla fossanotte inululata
che in secca crepa aperta sossorride la sua più grigia cautela
aperto insisto insonne a tante mortisuone di adulasuono subbuglio
verso un destempo immobile di già tante amare mani
aperto all’eco cruento da un’abitudine di polso non dico male
però mero insignificante globulo aperto davanti all’estraneo
che in vorace lascia ruggine circumrode le parietali coste
aperte al murmorì della plusombra
mentre s’aprono le porte
LA MEZCLA
No sólo
el fofo fondo
los ebrios lechos légamos telúricos entre fanales
senos
y sus líquenes
no sólo el solicroo
las prefugas
lo impar ido
174
el ahonde
el tacto incauto solo
los acrodes abismos de los órganos sacros del orgasmo
el gusto al riesgo en brote
al rito negro al alba con esperezo lleno de gorriones
ni tampoco el regosto
los supiritos sólo
ni el fortuito dial sino
o los autosondeos en pleno plexo trópico ni las exellas menos ni el endédalo
sino la viva mezcla
la total mezcla plena
la pura impura mezcla que me merma los machimbres
el almamasa tensa las tercas hembras tuercas
la mezcla
sí
la mezcla con que adherí mis puentes.
LA MESCOLA
Non solo
il floffo fondo
gli ebbri letti melmi tellurici fra fanali
grembi
e suoi licheni
non solo il solicroo
le prefughe
l’impari ito
l’affondo
il tatto incauto solo
gli acrodi abissi degli organi sacri dell’orgasmo
il gusto al rischio in scoppio
al rito nero all’alba con espigrizio pieno di passeri
neanche il rigusto
i sospiretti solo
né il fortuito diale destino
o gli autocarotaggi in pieno plesso tropico
nemmeno le exquelle né l’endedalo
ma la viva mescola
la totale mescola piena
la pura impura mescola che mi menoma i maschimbri
la massanima tesa i duri dadi femmina
la mescola
sì
la mescola con la quale attaccai i miei ponti.
EL PURO NO
El no
El no inóvulo
El no nonato
El noo
El no poslodocosmos de impuros ceros noes que
noan noan noan
y nooan
y plurimono noan al morbo amorfo noo
no démono
no deo
sin son sin sexo ni órbita
el yerto inóseo noo en unisolo amódulo
sin poros ya sin nódulo
ni yo ni fosa ni hoyo
175
el macro no ni polvo
el no más nada todo
el puro no
sin no.
IL PURO NO
Il no
Il no inovulo
Il no nonnato
Il noo
Il no dopodeicosmi d’impuri zeri nonè che
noano noano noano
e noonhanno
e plurimono nonhanno al morbo amorfo noo
né dèmono
né deo
senza suon senza sesso né orbita
il rigido inoseo noo in unisolo amodulo
senza pori già senza nodulo
né io né fossa né buca
il macro no né polvere
il no più nulla tutto
il puro no
sinnò.
YOLLEO
Eh vos
tatacombo
soy yo
dí
no me oyes
tataconco
soy yo sin vos
sin voz
aquí yollando
con mi yo sólo solo que yolla y yolla y yolla
entre mis subyollitos tan nimios micropsíquicos
lo sé
lo sé y tanto
desde el yo mero mínimo al verme yo harto en todo fino
junto a mis ya muertos y revivos yoes siempre
siempre yollando y yoyollando siempre
por qué
si sos
por qué
eh vos
no me oyes tatatodo
por qué tanto yollar
responde
y hasta cuando.
IOLLO
Ehi voi
tatacombo
son io
dìca
176
non mi sente
tataconco
son io senza voi
senza voce
qui iollando
con me io solo solito che iolla e iolla e iolla
tra i miei subiolletti tanto minimi micropsichici
lo so
lo so e tanto
all’io mero minimo al verme io fatto in tutto
accanto ai miei ormai morti e rivivi ii sempre
sempre iollando e ioiollando sempre
perchè
s’esservi
dí perchè dìca
ehi lei
non mi sente
tatatutto
perchè tanto iollare
risponda
e fino a quando.
TOPATUMBA
Ay mi más mi mío
mi bisvidita te ando
sí toda
así
te tato y topo tumbo y te arpo
y libo y libo tu halo
ah la piel cal de luna de tu trascielo mío que me levitabisma
mi tan todita lumbre
cátame tú eva pulpo
sé sed sé sed
sé liana
anuda más
más nudo de musgo de entremuslos de seda que me ceden
tu muy corola mía
oh su rocío
qué limbo
ízala tú mi tumba
así
ya en ti mi tea
toda mi llama tuya
destiérrame letea
lava ya emana el alma
te hisopo
toda mía
ay
entremuero
vida
me cremas
te edenizo.
TOPATOMBA
Eh me più me mio
mia bisvitina ti mando
sì tutta
così
ti tato e topo tombo e ti arpo
177
e libo e libo il tuo falo
ah la pelle cal di luna di tu tracielo mio che mi levidabisso
mia tanto tuttina lumìa
catami tu eva polpo
sia sete sia sete
sia liana
anuda più
più nudo di muschio di tramuscoli di seta che mi cedono
tu molto mia corolla
oh suo roscio
che limbo
rizzala tu la mia tomba
così
già in te mi tea
tutta mi chiama tua
dissepolcrami letea
lava già emana l’anima
ti isopo
tutta mia
beh
mentremuoio
vita
cremami
ti edenizzo.
TRAZUMOS
Las vertientes las órbitas han perdido la tierra los espejos los brazos los muertos las amarras
el olvido su máscara de tapir no vidente
el gusto el gusto el cauce sus engendros el humo cada dedo
las fluctuantes paredes donde amanece el vino las raíces la frente todo canto rodado
su corola los muslos los tejidos los vasos el deseo los zumos que fermenta la espera
las campanas las costas los trasueños los huéspedes
sus panales lo núbil las praderas las crines la lluvia las pupilas
su fanal el destino
pero la luna intacta es un lago de senos que se bañan tomados de la mano
TRASUCCHI
Le fonti le orbite hanno perduto la terra gli specchi le braccia i morti gli ormeggi
il ricordo la sua maschera di tapiro non vedente
il gusto il gusto l’alveo i suoi embrioni il fumo cada dito
le fluttuanti pareti dove albeggia il vino le radici la fronte tutto canto fluente
la sua corolla le cosce i tessuti i vasi il desiderio i succhi che fermenta l’attesa
le campane le coste i trasogni gli ospiti
i loro vespai il nubile le praterie i crini la pioggia le pupille
suo fanale il destino
ma la luna intatta è un lago di seni che si bagnano presi dalla mano
EL PENTATOTAL A QUÉ
Lo no moroso al toque
el consonar a qué la sexta nota
los hubieron posesos
los sofocos del bis a bis acoplo de sorbentes subósculos
los erosismos dérmicos
los espiribuceos
el ir a qué con meta
los refrotes fortuitos del gravitar a qué con cuanta larva en tedio languilate en los cubos del miasma
178
los tantos otros otros
la sed a qué
las equis
las instancias del vértigo
el gusto a qué denudo
los tententedio tercos del infierneo en famiglia
las idóneas exnúbiles
el darse a dar a qué
el re la mi sin fin
los complejos velados
el decomiso aseto
los tejidos tejidos en el diario presidio de la sangre.
los necrococopiensos con ancestros de polvo
el “to be” a qué
o el “not to be” a qué
la suma lenta merma
la recontra
los avernitos íntimos
el ascopez paqué
cualquier a qué cualquiera
el pluriaqué
a qué
el pentatotal a qué
a qué
a qué
a qué
y sin embargo
IL PENTOTOTALE PERCHÉ
Il non moroso al tocco
il consonare perché la sesta nota
li ebbero invasati
i soffochi del vis à bis accoppio di sorbenti subosculi
gli erosismi dermici
gli spiritimmersione
l’andare perché con meta
i ristrofinamenti fortuiti del gravitar a che con quanta lava in tedio languilatte nei cubi del miasma
i tanti altri altri
la sete perchè
la ìcs
le istanze della vertigine
il gusto perché nudo
i tientientedio
le idonee exnubili
il darsi a dare perchè
il re la mia senza fine
i complessi velati
il sequestro assiepe
i tessuti tessuti nel giornale presidio del sangue
i necrococcomangimi con avi di polvere
il “to be” perché
e il “not to be” perchè
la somma lenta ridotta
ricontra
gli avernetti intimi
lo schifopece paquè
qualsiasi qualcuno perché
il pluriperché
perchè
il pentototale perché
perché
perché
179
perché
e comunque.
HASTA MORIRLA
Lo palpable lo mórbido
el conco fondo ardido los tanturbios
las tensas sondas hondas los reflujos las ondas de la carne
y sus pistilos núbiles contráctiles
y sus anexos nidos
los languiformes férvidos subsobornos innúmeros del tacto
su mosto azul denudo
cada veta
cada vena del sueño del eco de la sangre
las somnilocuas noches del alto croar celeste que nos animabisman el soliloquio vértigo
cuanto adhiere sin costas al fluir el pulso al rojo cosmogozo
y sus vaciados rostros
y sus cauces
hasta morder la tierra
lo ignoto noto combo el ver del ser lo ososo los impactos del pasmo de más cuerda
cualquier estar en llaga
los dones dados donde se internieblan las órbitas los sorbos de la euforia
cualquier velar velado con atento esqueleto que se piensa
la estéril lela estela
el microazar del germen del móvil del encuentro
los entonces ya prófugos
la busca en sí gratuita
los mititos
hasta ingerir la tierra
todo modo poroso
el pozo lato solo del foso inmerso adentro
la sed de sed sectaria los finitos abrazos
toda boca
lo tanto
el amor terco a todo
el amormor pleamante en colmo brote totem de amor de amor
la lacra
amor gorgóneo médium olavecabracobra deliquio erecto entero
que ulululululula y arpeialibaraña el ego soplo centro
hasta exhalar la tierra
con sus astroides trinos sus especies y multillamas lenguas y excrecreencias
sus buzos lazo lares de complejos incestos entre huesos corrientes sin desagües
sus convecinos muertos de memoria
su luz de mies desnuda
sus axilas de siesta
y su giro hondo lodo no menos menos que otros afines cogirantes
hasta el destete enteco
hasta el destente neutro
hasta morirle.
FINO A FINIRLA
Il palpabile il morbido
il conco fondo ardito i tantorbidi
le tense sonde fionde i reflussi le onde della carne
e suoi pistilli nubili contrattili
e suoi annessi nidi
le languiformi fervide sottocorruzioni
suo mosto azzurro nudo
ogni venatura
180
ogni vena del sogno dell’eco del sangue
le sonniloquaci notti dell’alto gracchiare celeste che ci animabissano il soliloquio vertigine
quanto aderisce al fluire il polso al rosso cosmogodimento
e le sue svuotate facce
e le sue procedure
fino a mordere la terra
l’ignoto noto curvo il vedere dell’essere l’ossoso gl’impatti dello spasmo
qualunque stare in piaga
i doni dati dove si internebbiano le orbite i sorsi dell’euforia
qualunque velare velato con gentile scheletro che si pensa
la sterile scialba stella
il microcaso del germe dell’instabile dell’incontro
gli allora ormai profughi
la ricerca in sé gratuita
i mitucci
fino a ingerir la terra
in modo molto poroso
il pozzo lato solo del fosso immerso dentro
la sete di sete settaria i finiti abbracci
tutta bocca
il tanto
l’amore duro a tutto
l’amormore altomaroso in colmo scoppio totem di amore di amore
la piaga
amore gorgoneo medium ondavecapracobra deliquio eretto intero
che ulululululula e arpigiasucchiaragna l’ego soffio centro
fino a exalare la terra
coi suoi asteroidi trini le sue specie e multifiamme lingue ed escrecredenze
i suoi palombari laccio lari di complessi incesti tra ossi correnti senza scoli
i suoi convicini morti di memoria
la sua luce di messe nuda
le sue ascelle di riposo
e il suo giro fondo fango non meno meno que altri affini cogiranti
fino alla distetta debole
fino al distente neutro
fino a finirla.
A MÍ
Los más oscuros estremecimientos a mí
entre las extremidades de la noche
los abandonos que crepitan
cuanto vino a mí acompañado
por los espejismos del deseo
lo enteramente terso en la penumbra
las crecidas menores ya con luna
aunque el ensueño ulule entre mandíbulas transitorias
las teclas que nos tocan hasta el hueso del grito
los caminos perdidos que se encuentran
bajo el follaje del llanto de la tierra
la esperanza que espera los trámites del trance
por mucho que se apoye en las coyunturas de lo fortuito
a mí a mí la plena íntegra bella a mí hórrida vida
A ME
Le più oscure commozioni a me
tra le estremità della notte
gli abbandoni che crepitano
quanto vino a me accompagnato
per i miraggi del desiderio
181
quello interamente terso nella penombra
le piene minori anche con la luna
quantunque il sogno ululi tra mandibole transitorie
i tasti che ci toccano fino all’osso del grido
i cammini perduti che si trovano
sotto al fogliame del pianto della terra
la speranza che spera i tramiti del trance
per quanto si fondi nelle congiunture del fortuito
a me a me la piena integra bellamì orrida vita.
MASPLEONASMO
Más zafio tranco diario
llagánima
masturbio
sino orate
más seca sed de móviles carnívoros
y mago rapto enlabio de alba albatros
más sacra carne carmen de hipermelosas púberes vibrátiles de sexotumba góndola
en las fauces del cauce fuera de fértil madre del diosemen
aunque el postedio tienda sus cangrejales lechos ante el eunuco olvido
más lacios salmos mudos
manos radas lunares
copas de alas
más ciega busca perra tras la verdad volátil plusramera ineterna
más jaguares deseos
nimios saldos terráqueos en colapso y panentrega extrema desde las ramas óseas hasta la córnea
pánica
a todo huésped sueño del prenoser menguante
a toda pétrea espera
lato amor gayo nato
deliquio tenso encuentro sobre tibias con espasmos adláteres
ya que hasta el unto enllaga las mamas secas másculas
y el mismo pis vertido es un preverso feto si se cogita en fuga
más santo hartazgo grávido de papa rica rima de tanto lorosimio implume vaterripios
sino hiperhoras truncas dubiengendros acéfalos no piensos e impactos del tan asco
aunque el cotedio azuce sus jaurías sorbentes ventosas de bostezos
OLTREPLEONASMO
Più rozza falcata quotidiana
ulceranima
mastorbido
ma fato demente
più secca sete di mobili carnivori
e mago raptus in labbro di alba albatros
più sacra carne carme di ipermelose pubere vibratili di sessotomba gondola
nelle fauci del corso fuori da fertile madre del dioseme
sebbene il postedio tenda i suoi granchiali letti davanti l’eunuco oblio
i più flosci salmi muti
mani rade lunari
coppe d’ali
la più cieca ricerca cagna dietro la verità volatile plustroia ineterna
i più giaguari desideri
insignificanti saldi terracquei in collasso e pandevozione estrema dai rami ossei fino alla cornea
panica
a tutto l’ospite sogno del prenonessere mancante
a tutta la sassosa attesa
lato amore gaio nato
deliquio teso incontro sopra tibie con spasmi subalterni
giacchè fino all’unto impiaga le mamme secche maschule
182
e lo stesso piscio tradotto è un perverso feto se si pensa in fuga
la più santa scorpacciata gravida di patata ricca rima di tanto pappagalloscimmio implume vaterriempitivi
ma iperore tronche dubbiaborti acefali non mangimi e impatti del tanto schifo
sebbene il cotedio inzuccheri le sue mute sorbenti ventose di sbadigli.
MENOS
Menos rodante dado
deliquio sumo psíquico que mana del gozondo
sed viva
encelo ebrio
chupón
chupalma ogro de mil fauces que dragan
pero ese sí más llaga
por no decir llagón
de rojo vivo cráter y lava en ascua viva
pocón
sopoco íntegro
menos en merma
a pique
sin hábitos de corcho
hacia el estar no estando
MENO
Meno rotante dado
deliquio sommo psichico che sgorga dal godondo
sete viva
gelosia ebra
succhiotto
succhianima orco dalle mille fauci che dragano
ma questo si più piaga
per non dire piagone
di rosso vivo cratere e lava in brace viva
pocone
sopoco integro
meno in ammanco
a picco
senz’abiti di sughero
fino allo stare non stando.
MITO
Mito
mito mío
acorde de luna sin piyamas
aunque me hundas tus psíquicas espinas
mujer pescada poco antes de la muerte
aspirosorbo hasta el delirio tus magnolias calefaccionadas
cuanto decoro tu lujosísimo esqueleto
todos los accidentes de tu topografía
mientras declino en cualquier tempo
tus titilaciones más secretas
al precipitarte
entre relámpagos
en los tubos de ensayo de mis venas.
183
MITO
Mito
mito mio
accordo di luna senza pigiami
sebbene m’affondi le tue psichiche spine
donna pescata poco prima della morte
aspirassorbo fino al delirio le tue magnolie riscaldate
quanto decoro il tuo lussuosissimo scheletro
tutti gli accidenti della tua topografia
mentre declino in ogni tempo
le tue titillazioni più segrete
al precipitarti
tra i fulmini
Nei tubi di prova delle mie vene.
NOCHE TÓTEM
Son los trasfondos otros de la in extremis médium
que es la noche al entreabrir los huesos
las mitoformas otras
aliardidas presencias semimorfas
sotopausas sosoplos
de la enllagada líbido posesa
que es la noche sin vendas
son las grislumbres otras tras esmeriles párpados videntes
los atónitos yesos de lo inmóvil ante el refluido herido interrogante
que es la noche ya lívida
son las cribadas voces
las suburbanas sangres de la ausencia de remansos omóplatos
las agrinsomnes dragas hambrientas del ahora con su limo de nada
los idos pasos otros de la incorpórea ubicua también otra escarbando lo incierto
que puede ser la muerte con su demente célibe muleta
y es la noche
y deserta
NOTTE TOTEM
Sono gli oltrefondi altri della medium in extremis
che è la notte all’entraprire le ossa
le mitoforme altre
alleardite presenze semimorfe
boscopause sossoffi
della impiagata libido posseduta
che è la notte senza bende
sono grigiochiarori altri dietro smerigli palpebre vedenti
gli attoniti gessi dell’immobile prima del rifluito ferito interrogante
che è la notte ormai livida
sono le crivellate voci
i sangui suburbani dell’assenza di ristagnate omoplate
le agrinsonni draghe affamate dell’allora con il loro limo di nulla
i passati passi altri dell’incorporea ubicua altra che raspa anche l’incerto
che può essere la morte con la sua demente celibe stampella
ed è la notte
e deserta.
[Da “En la masmédula”, Nell’inoltremidollo; traduzioni di Giampaolo Vincenzi]
184
Notizia.
Oliverio Girondo è nato a Buenos Aires nel 1891da una agiata famiglia di origine basca che gli ha
procurato una scrupolosa ed attenta educazione in alcuni importanti istituti europei. Studiò legge e molto
presto, essendo in contatto con molti dei più importanti esponenti delle avanguardie europee, si dedicò
alla poesia e al giornalismo partecipando a riviste come Proa, Prisma e Martin Fierro (nelle quali scrisse
anche Borges). Pubblica nel 1956 “Nell’inoltremidolla” opera che costituisce la sua ricerca più audace nel
campo della poesia. All’inizio degli anni cinquanta, guidato dal suo interesse per le arti plastiche, si avviò
alla pittura con una marcata tendenza surrealista grazie anche alla sua profonda conoscenza della pittura
francese. Nel 1961 ebbe un grave incidente che lo privò delle sue forze fisiche. Nel 1965 viaggiò per
l’ultima volta in Europa e, al suo ritorno a Buenos Aires, morì nel 1967.
Alcune opere:
Veinte poemas para ser leídos en el tranvía, Argenteuil, Impr. Colouma H. Barthéley, 1922.
Calcomanías, Madrid, Calpe, 1925.
Espantapájaros (al alcance de todos), Buenos Aires, Proa, 1932.
Interlunio, Buenos Aires, Sur, 1937.
Persuasión de los días, Buenos Aires, Losada, 1942.
Campo nuestro, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 1946.
En la masmédula, Buenos Aires, Losada, 1956.
Topatumba, Buenos Aires, prensas de Miguel Binolo, 1958.
Obras completas, Buenos Aires, Losada, 1968.
Obra completa (ed. crítica), Madrid, Galaxia Gutenberg, 1999.
Alcuni saggi e articoli critici:
Alberti, Rafael, «Poemas escénicos...», in Boletín de la Sociedad Argentina de Escritores, Buenos Aires, 1961-1963, p.
26
Asturias, Miguel Ángel, «En la masmédula», El Nacional, Buenos Aires, gennaio 1955, p. 4.
Borges, Jorge Luis, «Oliverio Girondo: Calcomanías», Martín Fierro, 2ª época, Buenos Aires, núm. 18, 26 giugno 1925.
De Nóbile, Beatriz, El acto esperimental. Oliverio Girondo y las tensiones del lenguaje, Buenos Aires, Losada, 1972.
Gómez de la Serna, Ramón, «Veinte poemas para ser leídos en el tranvía, por Oliverio Girondo», El Sol, Madrid, 4
maggio 1923
Marechal, Leopoldo, «Interlunio, por O. Girondo», Sur, Buenos Aires, núm. 48, settembre 1938, pp. 51-53.
Mariátegui, José Carlos, «Oliverio Girondo», Variedades, Lima, 15 agosto 1925.
Martínez Cuitiño, Luis, «Girondo y sus estrategias de vanguardia», Filología, núm. 23.1, 1988, pp. 151-176.
Masiello, Francine, «Oliverio Girondo: el carnaval del lenguaje», Hispamérica, anno VI, núm. 16, 1977, pp. 3-17.
Méndez, Evar, «Oliverio Girondo», Martín Fierro, 2ª época, núm. 2, Buenos Aires, 20 marzo 1923.
Mendiola, Pedro, «Oliverio Girondo. La ciudad Animada», en José Carlos Rovira (ed.), Escrituras de la ciudad, Madrid,
Palas-Atenea, 1999.
Miomandre, Francis de, «Oliverio Girondo», La Nación, Buenos Aires, 20 gennaio 1924.
Molina, Enrique, «Hacia el fuego central o la poesía de Oliverio Girondo», en Oliverio Girondo, Obras completas,
Buenos Aires, Losada, 1968.
Molina, Enrique, «Oliverio Girondo en la noche de los presagios», Amaru, Lima, núm. 2, aprile 1967, pág. 76.
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Orozco, Olga, «En la masmédula», Macedonio, Buenos Aires, núm. 3, inverno 1969, pp. 69-73.
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1978, pp. 226-250.
Pellegrini, Aldo, «Mi visión personal de Girondo», «Breve biografía» y «La poesía de Girondo», en Oliverio Girondo,
Buenos Aires, Ed. Culturales Argentinas, 1964.
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Piñero, Sergio, «Calcomanías, por Oliverio Girondo», La Razón, Buenos Aires, 21 giugno 1925.
Pinto, Juan, «La generación literaria del 22; Oliverio Girondo, poeta surrealista», Clarín, Buenos Aires, 27 luglio 1947.
Prieto, Adolfo, «El martinfierrismo», Revista de Literatura Argentina e Iberoamericana, Mendoza, Universidad Nacional
de Cuyo, núm. 1, 1959, pp. 9-31.
Rojas Paz, Pablo, «Oliverio Girondo: Campo nuestro», Sur, Buenos Aires, núm. 151, maggio 1947, pp. 103-108.
Ruffinelli, Jorge, «Girondo: final de juego», Marcha, Montevideo, núm. 1245, 15 novembre 1968.
Sarlo, Beatriz, «Vanguardia y criollismo. La aventura de Martín Fierro», Revista de Crítica Literaria Latinoamericana,
Lima, núm. 15, 1982.
Schwartz, Jorge, «Vanguardias enfrentadas: Oliverio Girondo y la poesía concreta», Maldoror, Montevideo, núm. 16,
novembre 1981, pp. 22-35.
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Schwartz, Jorge, Vanguarda e Cosmopolitismo na Década de 20. Oliverio Girondo e Oswald de Andrade, São Paulo,
185
Editora Perspectiva, 1983.
---------, Homenaje a Girondo, Buenos Aires, Corregidor, 1987.
Scrimaglio, Marta, Oliverio Girondo, Cuadernos del Instituto de Letras, Universidad Nacional del Litoral, 1964.
Solá, Graciela de, «Oliverio Girondo», en Proyecciones del surrealismo en la literatura argentina, Buenos Aires,
Ediciones Culturales Argentinas, 1967.
Sucre, Guillermo, «Adiciones adhesiones», La máscara, la transparencia, Caracas, Monte Ávila, 1975, pp. 273-285.
Supervielle, Jules, «Oliverio Girondo», La Revue de l'Amérique Latine, París, marzo 1924.
Torre, Guillermo de, «Oliverio Girondo», Alfa, Montevideo, aprile 1925.
Urondo, Francisco, «Girondo», Leoplán, Buenos Aires, núm. 675, 19 settembre 1962.
Videla de Rivero, Gloria, «El simultaneismo cubista-creacionista entre cosmopolitismo, autorreferencialidad y
trascendencia», La Torre: Revista de la Universidad de Puerto Rico, 3.12, ottobre-dicembre de 1989, pp. 565-586.
Villaurrutia, Xavier, «Oliverio Girondo», El Universal, México, 5 ottobre 1924.
Yurkievich, Saúl, «La pupila del cero», Fundadores de la nueva poesía latinoamericana, Barcelona, 1984, pp. 149-170.
186
“PRENDETE QUESTA SITUAZIONE D’ATTESA”
(in: “Nioques” n° 1.9/2.0, 2003)
“Questa totalità nera di segni è la realtà?”
Questo non è un libro comincia il libro come un mazzetto di fiori di garofano viene buttato nel buco.
Sentite tutti il rumore della ghiaia, delle pale. Sentite il rumore dei fiori cadere nel nero.
***
Lo strumento del solitario è una tavola.
La tavola a otto lati è provvista di trentasette buchi.
Tre sulla prima fila
cinque sulla seconda
sette sulla terza, quarta e quinta
cinque sulla sesta
tre sulla sette e ultima.
Nei buchi vengono piazzate trentasette pedine mobili.
Vi sono diverse procedure note,
il corsaro, per cui si toglie la pedina n°3, il giocatore si muove allora da tredici a tre e segue fino alla fine
la stessa procedura un po’ come quando si dice che i marinai vanno di bolina
il lettore in mezzo al proprio uditorio, per cui si toglie la pedina centrale n°19 ed è alla posizione di questo
numero che la pedina in movimento finisce per arrivare alla fine della partita, dopo aver tolto tutte le
pedine, tranne quelle che segnano il contorno dell’apparecchio.
Il solitario abita soprattutto alle isole Rodrigo.
Ha l’occhio nero e vivace, le ali corte, le piume mescolate di grigio e di bruno,
La femmina porta sopra il becco un mantello da vedova, le sue piume si rigonfiano ai lati del petto in due
ciuffi bianchi, e quelle sulle cosce si arrotondano sulla punta in forma di conchiglia.
***
Il libro comincia con l’evocazione dello zucchero nero. Sale e scende all’interno dell’albero del corpo,
annerisce ciascuno dei rami, quelli grandi e sui rami sugli altri rami fino al più piccolo, e così per le foglie
e per i polmoni di ciascuna foglia.
***
Perché è in quanto unica, incomprensibile, come una specie di follia, che questa esigenza deve entrare
nel libro per manifestare in esso la propria legge. Il libro comincia nell’istante di luce di latte. Si confonde
con quest’altro istante, quello delle labbra fredde, della mani fredde, del corpo irrigidito, l’istante in cui i
mazzetti di fiori di garofano vengono buttati nel buco.
***
Voi guardate quello che vedete, ma lo guardate assolutamente.
Io ci sono, « in modo durevole nel senso di infestare », per entrare nel suo proprio corpo, per aspettare il
cibo, e camminare contro vento.
Io ci sono, lo guardo assolutamente. Mi fanno male gli occhi. Le guance incavate e il freddo. Questa è la
posizione dell’attesa. Qualche cosa costringe qualcuno. Qui,
In modo durevole nel senso di infestare, per vedere. Qualcuno, qui, o che cosa. Con in testa l’immagine
di un corpo di legno o di pietra. La polvere incollata nera alla purea della terra.
187
Nella posizione dell’attesa c’è lo sgualcirsi della pelle, sotto il mento, verso i polsi, le cosce, le caviglie. La
polvere grigia e nera, il corpo divenuto legno, carbone. Sotto la siepe, sotto il terrazzo, sotto. Il buco
nero, sotto. Oppure è, era, come la luce bianca identica all’oscurità delle cantine, accecante. Il buco è lo
stesso, sempre lo stesso.
Questa materia di latte, gas, neon, bombardamento, spruzzo in pieno e di traverso, due grandi fari nel
buco degli occhi, nel buco delle cose.
– Sì, guardare ancora:
Per prima cosa non c’è oggetto. L’attesa è senza oggetto, senza oggetti. Nient’altro che i muri. La polvere
in sospensione in queste camere doppie. Una luce di latte a tratti, punture.
***
Ecco ora i dati nel quadro ( situazioni d’attesa da 1 a 6 ):
1. una ruota di camion, ruota ciclope dall’occhio rotondo e lo schermo tagliato una parte in ombra in alto,
un’altra nella luce verso il suolo in basso secondo una leggera obliqua, la ruota l’occhio che manca al
profilo da cavallo di fronte al cavallo della scacchiera l’alfiere la torre la ruota il cavallo, la fronte nuda e
rotonda del ciclope, la ruota nera e bianca, questo no non vedo niente troppa luce gira tutto velocemente
troppo velocemente
– muri tavolo dietro vetro porta vetrata porta profondità piani là c’è là c’è una porta, la porta, la porta
chiusa
– fili scoperti, montaggio serrato, esterno, con grande tubo verticale fragile provvisorio, o un anello come
un nodo che scorre di fronte ad apertura vegetale, foglie dispiegate in caduta, il cuore di tutto questo
vegetale al centro, come al centro il metallo dispositivo piastra su cui si incrociano e si distribuiscono i
quattro fili
– luce o terra cotta e la foglia il verde folto bucati listellati, dunque dietro il cielo, vale a dire la nuvola
bianca del cielo e il suolo, un tetto a terrazza, suolo abbandonato, piastra sottile di tolla, griglie di cui una
in forma di bandierina picca asta uno due tre disposti così a caso, vale a dire in modo che le due forme
semplici, rettangolo e quadrato, chiudano il trapezio striato sul cuore.
2. ora c’è un cerchio e il fiore si è ingrossato, il vaso un vaso un lungo vetro cilindrico e il fiore ora
spettrale con le sue foglie di buccia di banana svasate preso posato o rivelato all’interno del proprio
cerchio aureola che sfugge in spirale movimento, fiore inscritto nel cerchio o nel movimento circolare, allo
stesso modo al suolo la proiezione di un cerchio di luce, che delimita così il canto la preghiera
– sedia insetto con lo schienale trasparente, le gambe steli d’erba davanti al muro non portando nulla di
frontale tutto di sbieco in obliquo in diagonale verso l’alto a destra questo muro che giunge a termine o
pezzo di mobile con cavità rettangolo cavo bianco vuoto acquario o scaffale davanti a cui galleggiano i
due pesci nudi trasparenti di sorgente
– o che il baule è un altare buca delle lettere con qui la sua fenditura bocca sdentata in cui far cadere le
parole per celebrazione assenza davanti a testa con le orbite o testa buco
– qui la sedia migrante vuota innevata, la stessa vista di fronte lavata di schiuma, la stessa nel nero di
felce in cui pende la testa orbitata, sedia tenuta senza appoggi senza niente e davanti alla porta appena
una porta un buco sul punto del nodo e questo buco al centro, vale a dire un punto, oppure ben
disegnata sul muro rettangolo verticale tracciato con la matita sulla tavola bianca della paratia, dal bianco
neon a destra al nero eretto duro a sinistra a seconda di come sempre presa di sbieco obliqua che risale
questa volta a sinistra.
3. della croce, segue lettera con AR Rimbaud ricevuta ritorno e il tappeto di zucchero nero sempre il suolo
il suolo il rotolo chiaro lino papiro diagonale ruota tra due bordi due notti
– finestra bianca tele schermi sul tetto la brocca gigante quella della Natura morta e il ventre rotondo e il
collo da vespa e la curva pronta a salire a versare il latte il milk come la pioggia di una doccia su tetti
strade letti di catrame in piedi davanti allo stesso immobile-frigo aperto in attesa della gru oppure non da
più vicino la porta aperta su fondo d’armadio scaffali in mezzo ai calcinacci luce luce
– infine la barca giornale dal fondo di un naufragio o davanti alle onde o l’essere ondivago Hugo faccio
piegamenti davanti a cui ancora la porta ostruita ora la stessa vela di cartone riempita di vento porta
soffiata porta velo e la pattumiera per buscarsi.
188
4. lei a destra i tre bicchieri, le tazze, o come uno zoom qui davanti a destra c’è un paesaggio, la pianura
o l’oceano la distesa piatta piatta e l’edificio la sua massa e davanti alle sue rovine i pezzi di muro in
briciole di zucchero crollati e ora gli ossicini dei tre bicchieri i quattro o cinque ossicini di inchiostro a
destra dei tre bicchieri come repliche delle punte spezzate di zucchero e di mattone e di cemento battuto
– frontale la bottiglia o corpo di monaco o di vergine semplice sfondo di cappella oremus davanti gradi del
portico dove uno sull’altro asciugano tre tappeti da preghiera zerbini sporchi da preghiera oh tre volte
santa polvere
– nell’harem di cartoni spinto appoggiato contro la colonna lo specchio hudson in cui si incastrano si
ammassano come replica delle punte spezzate e di zucchero tutti gli equilibri cedimenti di fronte a volto
ancora su orbite denti listellati più grandi testa e cranio in cima alla picca ça ira
– e che ritorna cranio rotondo gli occhi le narici bucati neri ossa da latte vibrazioni musica di metallo che
scivola a destra e a sinistra sospesa nello spazio incombente e quel frammento di puzzle appeso gioconda
sotto il neon in angolo di stanza vuota.
5. no niente come carta stracciata scollata informe tetto come rovina e lepre morta appesa penzolante la
testa sgocciola ancora e la zampa anteriore sinistra al di sopra di un compasso grande scarto gambe
aperte sì sì ora le due conchiglie e l’angolo destro pettini di mare e l’apparizione nuda preghiera alla
vergine nuda la danzatrice preghiera e il suo filo di ferro tutta sopra al vuoto tra tutte le donne e frutto
del suo ventre e nel limbo compasso grande scarto gambe aperte per che cosa niente lo schermo ricurvo
convesso rimesso in piedi appoggiato piatto ormai piatto ridotto in piedi tavola e filo e linea debole letto
di niente piatto in piedi
– ancora nel forno o pietra da cuocere caduta come un frutto ai piedi dello schermo ma il forno o
quadrato nero senza fondo allo stesso tempo profondo e piatto, superficie quadrato nero inquadrato di
bianco linea bianca quasi invisibile inquadrata di grigio largo inquadrato di grigio più scuro nel nero del
nero al centro del centro niente nel grigio conficcato nel suolo del forno un triangolo ostruito di grigio
chiaro su cui riposa pesante e maturo il pezzo di pietra e là fine cristallo solitario e fragile il bicchiere a
calice posato su schermo tavolo confuso nero esattamente il quadrato del forno rovesciato depositato in
sospeso: shoes.
6. allora la capanna di legno addossata al muro un muro immenso infinito fin verso il cielo e senza fine a
destra e a sinistra il muro infinito diritto tenuto e tenendo senza uscita allora la capanna che si sta
disfacendo tenuta tutt’intorno da una stretta di corda tenuta tetto bianco per non crollare tenuta come e
il tavolo ancora pane e vino rosicchiato sistemati e spostati a loro volta o per il segno uguale uguale a
volume interno di vuoto tra le quattro gambe e di vuoto interno tra le quattro mura di tavole strette
disposte in cordate verificate
– Ora opaco dopo aver calpestato la terra dopo aver calpestato lo stelo e le foglie sfuggito verso il fondo
scalfitto davanti posato calpestato verso il fondo come in equilibrio sul bordo e davanti la tempesta stesso
rumore di tempesta stessa compostiera di vento-nuvola e di rumore di passaggio scalfitture rumorose di
cielo o come un infisso di cantina in gioco di cubi per fare macchine o città niente può evitarlo, il filo
metallico serve da rampa a cui la regola si oppone.
[traduzione di Michele Zaffarano]
Notizia.
Jean-Marie Gleize è nato a Parigi nel 1946, e vive attualmente nell’Haute-Provence. È professore di
letteratura francese contemporanea all’École Normale Supérieure di Fontenay-aux-Roses, dove dirige
anche il Centre d’Études Poétiques. Per la casa editrice Al Dante dirige la collana «Niok» e ha fondato
Nioques, rivista di riferimento imprescindibile per la comprensione e per la diffusione dell’area della
poesia contemporanea di sperimentazione. Ha pubblicato numerose opere di poesia: États de la main
mémoire (1979), Donnant lieu (Lettres de casse, 1982), Instances (Collodion, 1985), Game over (La
Main courante, 1986), Léman, (Seuil, 1990), Ils sortent (La main courante, 1994), Non (Al Dante, 1999),
Néon (Al Dante, 2004). È inoltre autore di importanti saggi e scritti vari, fra cui Poésie et Figuration
(Seuil, 1983), l’introduzione alla lettura di Francis Ponge (Seuil, 1988), A noir. Poésie et littéralité (Seuil,
1992), Le principe de nudité intégrale (Seuil, coll. «Fiction et Cie», 1995), Altitude zéro (Java, 1997), Les
chiens noirs de la prose (Seuil, coll. «Fiction et Cie», 1999)
189
SEI POESIE DA "LA VIA PROMISE
cura e traduzioni di Danni Antonello
Una carovana alla mercé del vento
In un’epoca in cui la poesia conta poco o nulla, la figura di Guy Goffette riporta a passati splendori, e
aiuta a immaginare una realtà (non letteraria) nella quale la parola del poeta non sia un semplice suono,
o peggio, un gioco per amanti dei cruciverba, siano questi nutrimento a una fame popolaresca di,
appunto, “belle parole”, o altrimenti motivo di seriosissime analisi formalistiche strutturali e strutturanti.
Il poeta è anzitutto una figura morale, nella sua magari totale immoralità, responsabile di ciò che dice al
mondo, al quale partecipa e come suo custode e come il peggiore tra i suoi “enfants terribles”, sempre
pronto a metterne in discussione le fondamenta.
“Sono qui”, chi abita altrove per propria inderogabile vocazione lo deve ammettere ogni qualvolta si trovi
nella situazione di essere “presente al presente”, in faccia al mondo, a guardare “gli uomini dritto negli
occhi”. Questo vuol dire che il momento della “prova”, e quindi l’essere gettati in balia del rischio, è
sempre attuale e improrogabile. Il poeta è nudo di fronte a tutto, ed ha come sola protezione la sua
stessa condanna: quei versi che a lui sono paradiso ed inferno, stigmate ed espiazione. In cambio darà
“gli occhi e il nome”, il prezioso avere che il proprio demone gli impone di bruciare per provare la sua
fedeltà. Quasi che quella vocazione vada scontata come una colpa, un’illusione di maggiore pienezza che
comporta il castigo, per averla anche soltanto sperata, l’illusione che una promessa d’altro sia stata
realmente fatta, ma soprattutto che potesse in un giorno per sempre futuro venire esaudita. Il poeta
elegiaco avrà allora un’intera esistenza per rincorrere la propria carovana impazzita, quella che dovrebbe
portarlo allo svelamento d’ogni distanza, in nome di superiori comunicazione e comunione con ciò che si
rifiuta non solo all’essere raggiunto, ma persino all’essere detto. Riuscire a intravederlo, tanto mistero, è
il merito, e la croce, del poeta orfico, sin dalla prima discesa agli inferi.
EX-LIBRIS
Tace talmente forte da farci fermare:
qualche granello di tabacco, il fiore
annerito d’un papavero, e tra i fondi di caffè,
delle lacrime. Dietro al vetro delle parole
un uomo s’è seduto, bruciati gl’occhi
e il nome, perduti tutti gli affetti
non ne può più. Poco gl’importa
che un fiume continui dentro ai margini
del libro, lui è più solo d’un fuscello
buttato sul ciglio alla mercé del vento
e vivere è ancora e ancora
morire, a tutto quello che rifiuta
l’esilio, la nudità, la notte.
EX-LIBRIS
Cela se tait si fort qu’on s’arrête :
quelques grains de tabac, la fleur noircie
d’un pavot et, parmi les cernes de café,
des larmes. Derrière la vitre des mots,
190
un homme s’est assis qui n’en peut plus,
ayant brûlé ses yeux, son nom, perdu
tous ses biens. Peu lui importe
qu’un fleuve continue entre les marges
du livre, s’il est plus seul qu’un fétu
rejeté sur le bord, à la merci du vent,
quand vivre, c’est encore et encore
mourir à tout ce qui refuse
l’exil, la nudité, la nuit.
*
I VECCHI TROIANI
Alle cinque, quando il mondo esplode
come un formicaio, restano
sulla panchina del parco, affezionati
al disegno della loro ombra. Il più taciturno
vede bene le sbarre della gabbia
e che qualsiasi parola è vana
se non apre il compasso del presente.
Così, rientrando nella sua camera deserta
può ancora montarlo sbrigliato
l’invincibile cavallo dell’orizzonte
e nella criniera in fiamme
a lungo lavarsi il cuore
dalla polvere e dal vento freddo.
LES VIEUX TROYENS
À cinq heures, quand le monde explose
comme une fourmilière, eux demeurent
sur le banc du parc, attachés
au crayon de leur ombre. Le plus taiseux
voit bien les barreaux de la cage
et que toute parole est vaine
qui n'entrouvre le compas du présent.
Aussi, rentrant dans sa chambre déserte,
peut-il encore monter à cru
l'invincible cheval de l'horizon
et longuement laver son coeur
de la poussière et du vent froid
dans la crinière qui flambe.
*
LETTERA AL POSTINO
LETTRE À MON FACTEUR
1
Estate o inverno, il cancello è aperto,
tranquillo in fondo il cane che abbaia
contro il vuoto orizzonte molto prima
ch’io ti veda, non ci sono più di venti
passi dalla strada alla soglia di casa,
né rovi nel viale né donna dura e
ingrigita, nessuno
191
che prepari i calici o veda
il calore dispiegare come una lettera
il tuo volto, e così come
si attraversa il deserto, bruciare
la distanza che una cassetta rossa
e vuota t’impedisce di varcare.
1
Éte comme hiver, la barrière est ouverte,
paisible au fond le chien qui aboie
contre l'horizon vide, bien avant
que je t'aperçoive, et il n'y a guère
plus de vingt pas de la route au seuil
de ma maison, ni ronces dans l'allée
ni femme dure et sombre, personne
pour sortir les verres à pied, voir
la chaleur déplier ton visage
comme une lettre et, comme le désert
se traverse, brûler cette distance
qu'une boîte rouge et vide
t'empêche de franchir.
2
Te lo chiedo al risveglio, di fronte allo specchio
quando tutto può ancora accadere: una puntura
di vespa, la caduta del tiranno,
la grandiosa esplosione del muro
alzato dal vicino sotto le mie finestre.
Te lo richiedo quando il sole
ritira la scala e la mia ombra si confonde
con l’ombra di quel metro tra noi due
il nero braccio del tiranno ancora in piedi
con il dardo preciso della vespa che verrà,
un giorno, mascherata e sicura
d’abbattermi; te lo chiedo:
che novità, qui, per noi due?
2
Je te le demande au lever, devant le miroir
quand tout peut encore advenir : une piqûre
de guêpe, le renversement du tyran,
l'explosion grandiose du mur
que le voisin a élevé sous mes fenêtres.
Je te le demande encore quand le soleil
retire son échelle et que mon ombre se confond
avec l'ombre de la toise mitoyenne,
le bras noir du tyran resté debout
avec le dard précis de la guêpe qui viendra
un jour, déguisée, mais si sûre
192
de m'abattre; je te le demande :
quoi de neuf, ici, pour nous deux ?
*
MARZO NELLA STALLA
Basta col buio e la tristezza, puzza
di rancido nel letto ed oblio, basta
col vento che soffia sotto la porta
come un serpente:
vogliamo vivere nel verde e mettere
il cielo sulle corna come un nastro
di festa. È amaro il latte della prigione
e risale in gola.
Come un fiume per troppo tempo
tenuto al guinzaglio, spingeremo davanti a noi
le colline testarde, e con l’ebbrezza alle tempie
avendo bevuto e gridato a tutti i venti
guarderemo gli uomini, dritto negli occhi.
MARS À L’ÉTABLE
Assez du sombre et du triste, de la litière
qui pue le rance et de l'oubli, assez
du vent qui siffle par-dessous la porte
comme un serpent :
nous voulons vivre dans le vert et mettre
le ciel à nos cornes comme un ruban
de fêtes. Le lait du cachot est amer
et nous remonte à la gorge.
Comme un fleuve trop longtemps tenu
en laisse, nous pousserons devant nous
les collines têtues et, l'ivresse aux tempes,
ayant bu, crié à tous vents,
nous regarderons les hommes, droit dans les yeux.
*
PARTITA NULLA
Manca sempre una sedia alla felicità
e la camera è troppo grande (oppure è la mano
improvvisamente avida a brancolare nella luce)
e non cambiano niente i nostri sotterfugi,
è come aggiungere una pianta nell’angolo morto,
un tovagliolo sotto il vaso – i fiori freschi
hanno tra le pieghe qualcosa di troppo vivo:
un’aria di rimprovero, di dolorosa sfida
a rendere finti i nostri minimi sforzi.
Anche fuori dobbiamo trottare più a lungo
l’uno all’altro saldati, perché s’attenui,
con le nostre ombre sull’asfalto,
il rumore dei pezzi persi per sempre.
193
PARTIE NULLE
Toujours une chaise manque au bonheur
et la chambre est trop vaste (ou c'est la main
soudainement avide qui tâtonne dans la lumière)
et tous nos subterfuges n'y changent rien,
comme d'ajouter une plante dans le coin mort,
un napperon sous le vase — les fleurs fraîches
ont dans leurs plis quelque chose de trop vif :
un air de reproche, de douloureux défi
qui fausse nos moindres élans. Dehors même,
il nous faut marcher l'amble plus longtemps,
soudés l'un à l'autre, pour que s'estompe,
avec nos ombres sur l'asphalte,
le bruit des pièces à jamais perdues.
(da La vie promise, Gallimard, Paris, 1990)
Notizia.
Guy Goffette è nato nel 1947 a Jamoigne, nella Lorena belga. L’infanzia di vagabondaggi tra le colline
ardennesi è seguita da lunghi anni di internamento in una istituzione religiosa, che stimolano il suo
bisogno di libertà. Nel 1969, si sposa, costruisce casa e famiglia, e comincia ad insegnare (Éloge pour une
cuisine de province). Nel 1980, fonda con alcuni amici, come lui trafficanti in nuvole, la rivista di poesia
Triangle, e tre anni dopo, i quaderni de L’apprentypographe, da lui realizzati e stampati a mano. Forse
troppo impegnativa, questa avventura lascia nel 1987 spazio a nuovi viaggi – Yugoslavia, Québec e
Romania tra gli altri – che nutriranno l’opera in corso. Con l’interrompersi dei primi legami, cresce la
malinconia di cui La vie promise rappresenta l’eco poetica. Già libraio d’occasione ha finito per smettere.
Lo si vede a volte a Saint-Omer, Limoges, Charleville. Sembra dalle ultime nuove che viva a Parigi,
traghettatore di libri in partenza.
Membro del comitato di lettura delle edizioni Gallimard, dirige la collezione “Enfance en poésie”.
Nel 2001 ha ottenuto il “Grand Prix de Poésie de l’Académie française” per l’insieme della sua opera.
OPERE PRINCIPALI:
SOLO D’OMBRES, poesie, Ipomée, 1983;
ÉLOGE POUR UNE CUISINE DE PROVINCE, poesie, Champ Vallon, 1988. Premio Mallarmé (ristampato da Gallimard,
seguito da La vie promise);
LA VIE PROMISE, poesie, Gallimard, 1991;
LE PÊCHEUR D’EAU, poesie, Gallimard, 1995;
VERLAINE D’ARDOISE ET DE PLUIE, récit, Gallimard, 1996;
ELLE, PAR BONHEUR, ET TOUJOURS NUE, récit, Gallimard, 1996 (sul pittore Bonnard);
PARTANCE ET AUTRES LIEUX , récits, Gallimard, 2000. Premio Valery Larbaud;
TACATAM BLUES, poèmes en prose, Cadex Éd., 2000;
UN MANTEAU DE FORTUNE, poesie, Gallimard, 2001;
UN ÉTÉ AUTOUR DU COU, romanzo, Gallimard, 2001;
UNE ENFANCE LINGÈRE, romanzo, Gallimard, 2006.
(in italiano)
LA VITA PROMESSA, a cura di C. De Luca, Gedit, Bologna, 2005;
I CANTI DEL PESCATORE D’ACQUA, a cura di D. Antonello, con una nota di A. Ponso, Carte di Fumo, Macerata, 2006;
UN SOUFFLE OBSCUR À L’AUBE, con le incisioni di A. Bartolomeoli, a cura di D. Antonello, Edizioni de l’Officina,
Vicenza, 2006 (ed. fuori commercio);
TACATAM BLUES, con i disegni di M. Casagrande, a cura di D. Antonello, La spina editrice, Galliera Veneta (PD), 2006.
194
A PAUSE, A ROSE, SOMETHING ON PAPER
A moment yellow, just as four years later, when my father returned home from the war, the moment of
greeting him, as he stood at the bottom of the stairs, younger, thinner than when he had left, was purple
– though moments are no longer so colored. Somewhere, in the background, rooms share a pattern of
small roses. Pretty is as pretty does. In certain families, the meaning of necessity is at one with the
sentiment of pre-necessity. The better things were gathered in a pen. The windows were narrowed by
white gauze curtains which were never loosened. Here I refer to irrelevance, that rigidity which never
intrudes. Hence, repetitions, free from all ambition. The shadow of the redwood trees, she said, was
oppressive. The plush must be worn away. On her walks she stepped into people’s gardens to pinch off
cuttings from their geraniums and succulents. An occasional sunset is reflected on the windows. A little
puddle is overcast. If only you could touch, or, even, catch those gray great creatures. I was afraid of my
uncle with the wart on his nose, or of his jokes at our expense which were beyond me, and I was shy of
my aunt’s deafness who was his sister-in-law and who had years earlier fallen into the habit of nodding,
agreeably. Wool station. See lightning, wait for thunder. Quite mistakenly, as it happened. Long time
lines trail behind every idea, object, person, pet, vehicle, and event. The afternoon happens, crowded
and therefore endless. Thicker, she agreed. It was a tic, she had the habit, and now she bobbed like my
toy plastic bird on the edge of its glass, dipping into and recoiling from the water. But a word is a
bottomless pit. It became magically pregnant and one day split open, giving birth to a stone egg, about
as big as a football. In May when the lizards emerge from the stones, the stones turn gray, from green.
When daylight moves, we delight in distance. The waves rolled over our stomachs, like spring rain over
an orchard slope. Rubber bumpers on rubber cars. The resistance on sleeping to being asleep. In every
country is a word which attempts the sound of cats, to match an inisolable portrait in the clouds to a din
in the air. But the constant noise is not an omen of music to come. “Everything is a question of sleep,”
says Cocteau, but he forgets the shark, which does not. Anxiety is vigilant. Perhaps initially, even before
one can talk, restlessness is already conventional, establishing the incoherent border which will later
separate events from experience. Find a drawer that’s not filled up. That we sleep plunges our work into
the dark. The ball was lost in a bank of myrtle. I was in a room with the particulars of which a later
nostalgia might be formed, an indulged childhood. They are sitting in wicker chairs, the legs of which
have sunk unevenly into the ground, so that each is sitting slightly tilted and their postures make
adjustment for that. The cows warm their own barn. I look at them fast and it gives the illusion that
they’re moving. An “oral history” on paper. That morning this morning. I say it about psyche because it is
not optional. The overtones are a denser shadow in the room characterized by its habitual readiness, a
form of charged waiting, a perpetual attendance, of which I was thinking when I began the paragraph,
“So much of childhood is spent in manner of waiting.”
*
UNA PAUSA, UNA ROSA, QUALCOSA SU CARTA
Un momento giallo, proprio come quattro anni più tardi, quando mio padre ritornò a casa dalla guerra, il
momento di fargli le feste, mentre stava in fondo alle scale, più giovane, più asciutto di quando era
partito, era porpora – anche se i momenti non sono più così colorati. Da qualche parte, sullo sfondo, le
stanze condividono una fantasia a roselline. È carino quanto fa carino. In certe famiglie, il significato della
necessità è la stessa cosa con il sentimento di pre-necessità. Le cose migliori erano riunite in una penna.
Le finestre erano socchiuse da tendine di garza bianca che non venivano mai allentate. Qui mi riferisco
all’irrilevanza, quella rigidità che mai si intromette. Per cui, ripetizioni, libere da ogni ambizione. L’ombra
delle sequoie, lei diceva, era opprimente. Il peluche si deve essere consumato. Nelle sue passeggiate,
entrava nei giardini altrui per rubare un fiore dai gerani o dalle piante grasse. Un tramonto d’occasione è
riflesso sulle finestre. Una piccola pozzanghera è nuvolosa. Se solo si potessero toccarle, o, anche,
afferrarle quelle grandi creature grigie. Ero spaventata da mio zio con la verruca sul naso, o dei suoi
scherzi a nostre spese che erano al di là della mia portata, e mi vergognavo della sordità di mia zia che
era sua cognata e che anni prima aveva preso l’abitudine di accennare con il capo, simpaticamente.
Stazione di Wool. Vedo il lampo, aspetto il tuono. Del tutto erroneamente, come è già capitato. Lunghe
linee temporali si trascinano dietro ad ogni idea, oggetto, persona, cucciolo, veicolo, ed evento. Il
pomeriggio avviene, affollato e quindi senza fine. Più fitto, concesse lei, era un tic, aveva l’abitudine, e
ora andava su e giù come il mio gioco con l’uccellino di plastica sul bordo del suo bicchiere, che attinge
all’acqua e si fa indietro. Ma una parola è un pozzo senza fondo. Si ingravidò magicamente ed un giorno
si aprì in due, dando alla luce un uovo di pietra, grande quasi come un pallone da football. A maggio
quando le lucertole emergono dalle pietre, le pietre diventano grigie, da verdi. Quando la luce del giorno
si sposta, ci deliziamo nella distanza. Le onde si infrangevano sui nostri stomaci, come pioggia di
primavera sul pendio di un frutteto. Paraurti di gomma su macchine di gomma. La resistenza a dormire
195
per essere addormentato. In ogni paese c’è una parola che cerca il suono dei gatti, di fissare un ritratto
non isolabile nelle nuvole ad un fracasso nell’aria. Ma il rumore costante non è un segno della musica che
sta arrivando. “Tutto è una questione di sonno,” dice Cocteau, ma dimentica lo squalo, che non lo fa.
L’ansia è vigile. Forse all’inizio, anche prima che si possa parlare, l’inquietudine è già convenzionale,
stabilendo il confine incoerente che più avanti separerà gli eventi dall’esperienza. Trova un cassetto che
non sia strapieno. Che noi dormiamo sprofonda la nostra opera nell’oscurità. La palla si era persa in un
cespuglio di mirto. Ero in una stanza con i particolari della quale una nostalgia più tarda si sarebbe potuta
formare, un’infanzia viziata. Stanno seduti su sedie di vimini, le gambe delle quali sono affondate in
modo diseguale nel terreno, cosicché ognuno è seduto leggermente inclinato e le loro posture fanno da
aggiustamento a questo. Le mucche riscaldano le loro stesse stalle. Guardo veloce verso di loro e mi dà
l’illusione che si muovano. Una “storia orale” su carta. Quel mattino questo mattino. Lo dico della psiche
perché non è opzionale. Le sfumature sono un’ombra più densa nella stanza caratterizzata dalla sua
prontezza abituale, una forma di carica attesa, di assistenza perpetua, a cui stavo pensando quando ho
iniziato il paragrafo, “Così tanto dell’infanzia è speso in una maniera di attendere.”
[da “My Life”, Green Integer Books, Los Angeles, 1987; traduzione di Gherardo Bortolotti]
Notizia.
Lyn Hejinian, nata nel 1941 in California, è una delle autrici più importanti della Language Poetry. Ha
pubblicato libri di poesia e saggistica. Si possono ricordare: “Writing is an Aid to Memory”, del 1978; “My
Life”, nelle due edizioni del 1980 e del 1987; “The Language of Inquiry”, 2000; “Slowly”, 2002. Ha
tradotto il poeta russo Arkadii Dragomoshchenko. Insegna alla University of California. Notizie
biobibliografiche più complete, oltre a recensioni e a una selezione dei suoi brani, possono essere
e
recuperate
agli
indirizzi:
http://epc.buffalo.edu/authors/hejinian/
http://en.wikipedia.org/wiki/Lyn_Hejinian. Altri testi della Hejinian tradotti in italiano figurano
nell’antologia “Nuova poesia americana. San Francisco”, a cura di Luigi Ballerini e Paul Vangelisti
(Mondadori, 2006).
196
CANTO DEL VINO 1
Mare d’acqua,
nuvole d’acqua,
amore d’acqua.
Una voce, bagnata, va.
Una voce, bagnata, viene.
Sempre matti per l’invisibile,
seguivamo la bottiglia.
Toccando le carni della notte,
zuppi d’acqua, zuppi
seguivamo l’acqua.
O liquida fragranza,
che appicchi il fuoco allo sguardo e fai tremare,
o liquida fragranza, tu, nemica,
scorri appiccando il fuoco.
*
POETA
Tuttora ami e distruggi
cose come diari,
diari di studio o di speranze.
Non hai cuore, solo vento,
diffidenza verso la ricchezza, e un pizzico di follia.
Raccogli i tuoi innati pensieri,
raccogli la tua sensitività, tu, commerciante di
sogni.
Più di ogni altra cosa odi medici e medicine,
odi i tuoi lettori,
ti sorprendono a usare la croce come una
squadra,
t’imbarazza abboccare all’esca della morte,
urli se cadi in una disgustosa felicità,
sei prosciugato dall’oscura fine delle mille
creature.
Muori una, tante volte,
felice fino in fondo,
triste fino in fondo,
sei anche imprudente.
Vivi tutte le felicità,
vivi tutte le tristezze…
Per tutta la notte prosegui, morso dalla voce del tuo tempo.
*
SARÀ FORSE UNA STELLA?
-DEDICATO A UN POETA
Stelle numerose, come quelle del firmamento,
sabbia innumerevole, come quella in riva al
mare.
Luccicano le cose splendenti,
soffrono da sole quelle solitarie.
Lo splendore della sua stella penetra nella
carne.
Attendo
il momento in cui possa dire “Splendo”.
Acqua immensa, galleggia sul deserto, mentre
la sabbia diventa il suo corpo,
fino a quando non si trasforma in vento
197
che soffia tra i granelli di sabbia.
Si affanna ad amare le proprie bugie,
fino a quando non le vede più.
*
IL SOGNO DELLE COSE INANIMATE
IL SOGNO DELL’ALBERO
Bacia la luce del sole che scivola sulle sue
foglie,
e sogna la sua forza, l’albero.
Strofina la sua guancia contro la pioggia,
che scende sopra di lui, l’albero.
Con la vigorosa forza del vento che soffia tra i
rami,
ascolta la voce della sua vibrante esistenza,
l’albero.
*
IL SOGNO DELLE COSE INANIMATE
- IL SOGNO DELL’AMORE
L’amore arriva sempre tardi. L’amore arriva sempre dopo la vita.
Hai mai amato? Il tuo amore non è altro che nostalgia dell’amore. Se la felicità di un estraneo viene dopo
la tua, e la tristezza di un estraneo dopo la tua, allora l’amore viene sempre dopo la vita.
…E allora?
Allora la vita arriva sempre dopo l’amore.
*
IO, SIGNORE DELLE STELLE
Io, signore delle stelle.
Stelle, chiamatemi signore.
Stelle, sono il vostro signore.
Io, signore delle stelle.
Io, sposo del vento.
Vento, chiamami “mio signore”.
La tua anima e la mia s’incontrano.
Io, sposo del vento.
Io, figlio del silenzio.
Silenzio, madre.
Silenzio, dio della parola.
Nel duomo
mi inchino a te.
La mia vita è silenzio.
La mia morte, inizio della parola.
Guarda questo povero amore terreno.
Io, signore delle stelle,
io sposo del vento.
*
POESIA, INUTILE POESIA
Poesia, cosa mai potrai amare?
Poesia, per cosa mai potrai soffrire?
Cosa mai potrai ottenere, poesia?
198
Cosa potrai gettare,
cosa potrai costruire,
cosa potrai mai demolire?
Morendo non riesci ad amare la morte,
vivendo non ami la vita,
soffrendo non soffri del dolore.
Con la poesia non ami la poesia.
Con la poesia, cosa mai potrai amare?
Guarda, la neve cade a notte fonda.
Occhi umani non guardano.
Non v’è traccia di orme.
Solo io, tranquillo e sereno.
Solo io, nella mia bellezza.
(da “Festival del dolore”, 1974, traduzione di Vincenza D’Urso)
***
ESPLOSIONE SOLARE
Il corpo del sole è la sua luce.
Il sangue del sole il suo calore.
Quel corpo è l’origine del nostro corpo,
quel sangue la sorgente del nostro sangue.
Ultimamente
parte di quel corpo è esplosa
e parte di quel sangue fuoriuscito.
Che dire dell’incertezza del mio corpo
e dell’incertezza del mio sangue?
Persino i miei passi hanno stranamente vacillato.
Riduzione di luce e calore
le ho considerate causa del mio raffreddore,
mentre starnutivo.
Ma la luce della calda benedizione
del sole che splende come prima,
abbaglia mentre la guardi,
e anch’io sorrido, abbagliato.
*
L’ULTIMO CIELO NOTTURNO
In origine
eravamo una stella ed io,
due stelle e due io.
Ora
siamo un pane e un io,
due pani e due io.
Uccidiamo spirito e corpo,
e il nostro sangue diventa acqua sporca,
per un futuro glorioso.
Guarda l’ultimo cielo notturno.
Le stelle, con la loro luce,
avvolgono in fondo al cuore
le lacrime e la morte di coloro
che nessuno ricorda e di cui nessuno parla.
Verso coloro che non proferiscono parola,
la loro luce, come vuote parole, gettano le stelle.
199
*
COSE SOSPESE A MEZZ’ARIA - 1
- PIETRE
Le pietre volanti si sono arrestate a mezz’aria.
Fluttuano nel vuoto.
Un’altra versione le vorrebbe politicizzate.
Una tale storia crea confusione nell’era fossile.
Solo il non sorridente destino è certo.
Non facciamo che ingoiare, poco a poco,
propaganda di ferro, velenosa pozione.
*
COSE SOSPESE A MEZZ’ARIA - 2
- IO
E’ per paura,
che il mio corpo, mano a mano, si appesantisce.
Fuggo dalla mia ombra.
La lascio andare con mano tremante.
Per colpa di un’altra ombra.
Persa l’ombra, parla l’essenza fluttuante nello spazio.
Io non sono io.
Io non sono io.
*
SETTE OCCHI PER GUARDARE UNA SIGARETTA
L’ultimo segnale di mani assenti.
Promessa che si dilegua come fumo.
Disordine di enorme magnitudo.
Segnale segreto di richiesta d’aiuto.
Luce indiscreta durante un oscuramento.
Consuetudinaria sirena da nebbia.
Forse, fuoriuscita del mio respiro.
*
LA STRADA CHE PIANGE PER UN SOGNO
Gli uomini parlano.
Dalle loro bocche fuoriescono ragnatele.
Mondi
oscuri come occhi chiusi, ombre di molti
morti impigliati in quella ragnatela.
…Eppure
Riconosco il pianto degli uccelli.
Sogno la strada che piange per un sogno.
200
*
ISOLA
Tra gli uomini esiste un’isola.
Su quell’isola voglio andare.
(da “Io, signore delle stelle”, 1978, traduzione di Vincenza D’Urso)
Notizia.
Chǒng Hyǒnjong nasce a Seoul il 17 settembre 1939, terzo di quattro figli di Chǒng Chaedo e Pang Ullyǒn.
Fin dalla più tenera età impara la bellezza del contatto con la natura, e già in quegli anni riesce a stabilire
con essa un rapporto di estrema vicinanza e interdipendenza, quasi fosse una continuazione del contatto
con le proprie Origini, con la Madre primordiale, parte della ricerca che ogni essere umano prima o poi
finisce per intraprendere.
Nel 1965 consegue la laurea in Filosofia presso una delle più prestigiose università di Seoul, la Yonsei
University: questo studio rappresenterà le basi della sua poesia e spesso si ritroveranno nei suoi versi
riferimenti filosofici derivanti dai suoi studi giovanili.
Appena dopo la laurea Chǒng Hyǒnjong inizia subito a lavorare come giornalista, scrivendo nelle pagine
culturali di alcuni tra i principali quotidiani del paese. Nel 1974 giunge poi un’esperienza di vita e studio
all’estero, quando per circa un anno si trasferisce negli Stati Uniti, e precisamente nello Iowa, per un
corso internazionale di scrittura creativa. Ritornato in patria assume la docenza di Composizione letteraria
presso il Seoul College of Arts, dove resta fino a quando non arriva un incarico più prestigioso presso la
sua alma mater, dove insegna tuttora nel Dipartimento di Lingua e Letteratura coreana.
Il suo debutto sulla scena letteraria avviene nel 1965, quando pubblica due sue poesie sulla prestigiosa
rivista Hyǒndae Munhak (Letteratura contemporanea), cui segue immediatamente l’incarico presso il
periodico letterario Sagye (Quattro stagioni).
La sua stagione poetica viene generalmente divisa dai critici in due periodi ben distinti: il primo,
testimoniato dalle raccolte Sogni di oggetti inanimati (1972), Festival del dolore (Kot’ongǔi 1974) e Io,
signore delle stelle (1978), in cui il poeta affronta un discorso molto astratto e più dichiaratamente
filosofico sui grandi temi della vita e sull’essenza della vita stessa, in tutte le sue manifestazioni; il
secondo, che si avvia con la pubblicazione della raccolta poetica Come una palla che rimbalza quando
cade (1984), a poco più di dieci anni dalla pubblicazione del suo primo libro, e continua con Non c’è molto
tempo per amare (1989) e con Un singolo fiore (1992).
Nel suo secondo periodo Chǒng Hyǒnjong adotta un linguaggio più sciolto, di più facile comprensione, pur
sperimentando al tempo stesso nuove potenzialità della lingua e toccando nuove profondità di
espressione. Il lungo percorso di ricerca esistenziale delle sue prime raccolte poetiche sembra aver aperto
agli occhi del poeta nuove possibilità di soluzione nelle complesse dinamiche di rapporto tra l’essere
umano e il mondo delle cose, animate e inanimate, che lo circonda. Nei nuovi componimenti l’analisi delle
relazioni tra il Sé e il Mondo assume toni meno complessi e sofferti e il poeta si apre a nuove esplorazioni,
affrontate con toni meno pessimistici e decisamente più maturi.
Il percorso di maturazione filosofica proseguito nell’arco di venti anni porta Chǒng Hyǒnjong a credere in
una versione più organica dell’universo e di tutte le cose che lo compongono, all’interno del quale ogni
singola parte vive di vita propria e assume un proprio compito, individuale nel Tutto. Il poeta continua a
guardare con occhi sempre pieni di meraviglia al grande mistero della vita al quale assiste
quotidianamente, ma con lo spirito più serenamente curioso di chi avverte, nell’impeto vitale delle miriadi
di Cose intorno a noi, la spinta primordiale verso la Vita cui anelano tutti gli esseri viventi.
Il successo di critica e pubblico riscontrato dal poeta viene testimoniato anche dalla pubblicazione di
numerose raccolte di poesie scelte, tra cui possiamo annoverare Luna, luna, splendida luna, per la Chisik
Sanǒpsa nel 1984, Un dolore leggero in mezzo alla gente, per la Munhakkwa Chisǒngsa nel 1990, Isole
tra la gente per la Miraesa, nel 1991 e Tutte le poesie di Chǒng Hyǒngjong vol. 1 e 2 ancora per la
Munhakkwa Chisǒngsa, nel 1999.
La ricerca dell’essenzialità della vita e la sua riflessione sulla condizione umana proseguono nelle ultime
pubblicazioni del poeta, con le raccolte Sete e acqua di fonte (1999) e Non posso sopportarlo (2003), in
cui il poeta, come afferma eloquentemente nel titolo stesso, continua a dar voce alla sua stanchezza per
le contraddizioni del mondo contemporaneo, questa volta pervaso da una crescente vena di pessimismo e
amara ironia. Il poeta sembra aver perso ogni fiducia nelle capacità di recupero da parte degli esseri
umani, di condizioni di vita rispettose della dignità insita nell’essenza di tutte le creature, cui ha spesso
fatto riferimento nelle raccolte precedenti. Ora è come se l’Uomo fosse diventato nemico di se stesso e la
sua unica speranza è quella di “liberarsi da se stesso”, come afferma nei versi “Non esiste momento più
bello per l’essere umano/di quando ci si libera di se stessi” (Non posso sopportarlo, Siwa sihaksa, Seoul:
2003, p. 13).
201
Voce tra le più rappresentative di una generazione di poeti “ecologici” e “partecipativi” alla vita sociale e
politica del paese, Chǒng Hyǒnjong è stato insignito di numerosi premi, tra cui il Literature Prize for
Korean Writers nel 1978, lo Yonam Literary Award nel 1990 e lo Isan Literature Prize nel 1992.
BIBLIOGRAFIA DELL’AUTORE
Sogni di oggetti inanimati, Minǔmsa, Seoul: 1972.
Festival del dolore, Minǔmsa, Seoul: 1974.
Io, signore delle stelle, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1978.
Come una palla che rimbalza quando cade, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1984.
Luna, luna, splendida luna, Poesie scelte, Chisik Sanǒpsa, Seoul: 1984.
Non c’è molto tempo per amare, Segyesa, Seoul: 1989.
Un dolore leggero in mezzo alla gente, Poesie scelte, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1990.
Isole tra la gente, Poesie scelte, Miraesa, Seoul: 1991.
Un singolo fiore, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1992.
Gli alberi del mondo, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1995.
Sete e acqua di fonte, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1999.
Tutte le poesie di Chǒng Hyǒngjong vol. 1 e 2, Munhakkwa Chisǒngsa, Seoul: 1999.
Non posso sopportarlo, Siwa sihaksa, Seoul: 2003.
202
LE TAVOLETTE DI BOSSO DI APRONENIA AVITIA
I. Vita di Apronenia Avitia
Apronenia Avitia nacque nel 343. Costante governava l’impero. Visse settantun anni. Era potente,
patrizia, e la maggior parte dell’anno soggiornava nei suoi palazzi di Roma o nella ricca villa del monte
Gianicolo. Nelle lettere e nel diario che teneva - come Paolino e Rutilio Namaziano - non si trova una sola
osservazione che accenni alla fine dell’impero. Forse non si degnava di vedere. Oppure non vide. O chi sa
ebbe il pudore di non riferire nulla, o ancora il fermo proposito di farne uso come se di nulla si trattasse.
Tale disprezzo, tale indifferenza le valsero il disprezzo, l’indifferenza degli storici. La morte di Magnenzio,
l’esecuzione di Gallo, l’ascesa di Giuliano al potere imperiale, Gioviano, Valentiniano, Valente, non uno di
questi nomi sfiorò le sue labbra. Vide Alarico in Roma: non si preoccupa di annotare altro se non la
densità granulosa e luccicante di una foschia che si leva, o qualche pescatore che in lontananza passa sul
Tevere. La battaglia di Mursa, la battaglia di Argentoratum, la battaglia di Marcianopoli e quella di
Adrianopoli, le penetrazioni consecutive dei Franchi, degli Alamanni e dei Sassoni in Gallia, le penetrazioni
consecutive dei Goti e degli Alani in Pannonia, dei Bastarni e degli Unni lungo il Danubio, dei Sassoni in
Bretagna, dei Vandali e degli Svevi in Spagna, fu come se quei gladi scontrandosi non emettessero alcun
suono, e come se il sangue delle loro vittime, versato sul selciato delle strade, sulle stoppie incendiate dei
campi, sul marmo dei palazzi espugnati o devastati, rimanesse invisibile. Era più giovane di Simmaco e
Ambrogio. Era più vecchia di Agostino e Girolamo. Tramite Decimus Avitius era legata a Vettius Agorius
Prætextatus e Aconia Fabia Paulina, a Virius Nicomachus Flavianus, a Rusticiana, a Lycoris, a Lampadius,
a Melania la Vecchia e agli Anicii. A dire il vero, l’intreccio di amicizie e parentele cui fu assoggettata
Apronenia Avitia è reso ancor più complicato in quanto il suo secondo matrimonio ha ingarbugliato
talvolta fino alla confusione i fili di una tela che già in origine era per molti versi inestricabile.
Nel 350 i Franchi salii si stabilivano in Toxandria. Apronenia Avitia aveva avuto per nutrice una
giovane originaria dei dintorni di Sezze; il suo nome era Latronia ed era nata al tempo dei Vicennalia di
Costantino; morì crudelmente tre anni dopo - l’anno della morte di Magnenzio - violentata e straziata
all’età di ventidue anni al termine di un banchetto da amici di D. Avitius, e senza dubbio dallo stesso D.
Avitius. Nel 357, quando Memmius Vitrasius Orfitus per la seconda volta era prefetto di Roma e Sextus
Claudius Petronius Probus proconsole d’Africa, Decimus Avitius diede in sposa Apronenia Avitia, la sua
figlia maggiore, ad Appius Lanarius. Lo stesso anno, in Numidia, a Tagaste, un piccolo africano gracile,
dalle membra debolucce, che sapeva a malapena camminare, e che rispondeva al nome di Augustinus,
giocava nell’ombra dei vicoli straordinariamente bianchi, inondati da una luce densa, lanciando
goffamente noci contro delle quaglie e un usignolo domestico. E’ il figlio di un decurione, Patricius. Sua
madre ha press’a poco l’età di Apronenia Avitia; è cristiana; ha una leggera inclinazione al bere; si
chiama Monica.
*
Nel 360 - quando Sextus Aurelius Victor terminava i Cæsares - Apronenia Avitia aveva già
partorito Flaviana e Vetustina. La giovane patrizia era legata da parte di padre alle più potenti famiglie
del partito pagano. A Roma, nei due palazzi di proprietà di Appius Lanarius, riceveva Rusticiana col
ragazzino di otto anni, Aconia Fabia Paulina, Melania la Vecchia e Anicia Proba. Insieme ad A. Lanarius
era ricevuta in casa di Sex. Claudius Petronius Probus e in quei circoli pagani che godevano del favore
imperiale. Nel 364 L. Aurelius Symmachus - il padre di Simmaco - era prefetto dell’Urbe. In un piccolo
appartamento affacciato sul ponte Sublicio Apronenia Avitia s’incontra con un certo Q. Alcimius, che
amerà per cinque anni (gli anni 365-370). Nel 369, a Treviri, Quintus Aurelius Symmachus consegnò al
Principe l’oro delle oblazioni. Fu proprio allora che Apronenia Avitia ruppe con Q. Alcimius. Ha riportato
quella scena, l’appuntamento fissato ai Rostri, in pieno giorno, i pochi insulti secchi, il dolore, Silig che
non arrivava, la visione per due o tre ore della bestia Gorgone, infine i singhiozzi. La gloria delle sue
amiche più strette cresceva, mentre lei restava nell’ombra, si seppelliva nell’ombra, aggiungendo
pezzettini di paglia, di crine, di muschio, di foglie e di fiori ai nidi ricchi e oscuri - o agli immensi termitai che edificava in cima ai colli dell’Urbe; nel 370 Memmius Vitrasius Orfitus dava in sposa sua figlia
Rusticiana a Q. Aurelius Symmachus; nel 371 Sextus Claudius Petronius Probus era collega
dell’imperatore. L’anno della proclamazione di Valentiniano II Apronenia Avitia aveva già dato alla luce
sette figli che superarono il secondo anno e che le sopravvissero tutti.
La prima lettera che sia stata conservata di Apronenia Avitia risale all’anno 379 - Flavius Afranius
Syagrius era allora proconsole d’Africa e Decimus Magnus Ausonius console. E’ l’anno che precede l’editto
di Teodosio. Due opere sono rimaste sotto il nome di Apronenia Avitia: le epistolæ e i buxi. Si definiscono
buxi quelle particolari tavolette, in legno di bosso, sulle quali gli Antichi annotavano debiti e crediti,
nascite, disastri e morti. Apronenia iniziò a tenere questa specie di agenda, di effemeride, di promemoria,
di appunti giornalieri l’anno della morte di Teodosio (395 d.C.). Era anche l’anno in cui morì suo padre, D.
Avitius, in seguito al suicidio di Virius Nicomachus Flavianus, e l’anno in cui si risposò con Sp. Possidius
Barca. A quel tempo ha cinquantuno o cinquantadue anni. Le note si interrompono l’anno del matrimonio
203
di Ataulfo con Galla Placidia (414 d.C.). Apronenia Avitia ha allora settantun anni. Si può pensare che la
fine del diario coincida con la sua morte.
La corrispondenza giuntaci sotto il nome di Apronenia Avitia ha inizio a partire dall’anno 379 ma
non consente una maggiore precisione. Non rimane alcuna lettera posteriore all’assassinio di Stilicone (22
agosto 408), nessuna lettera, comunque, scritta dopo l’ordine di martellamento delle iscrizioni del Foro
romano che lodavano la dedizione di Stilicone all’impero e che ne celebravano le vittorie (Quamvis litteras
meas…, folio 481 r°).
Esiste una sola edizione delle lettere e delle tavolette di bosso. Si trova nella riedizione parigina
del 1604 della raccolta di Fr. Juret: Quinti Aurelii Symmachi v. c. / Cons. ordinarii, et præfecti Urbi /
Epistolarum Lib. X. castigatissimi. / Cum auctuario. L. II. / Cum Miscellaneorum L. X. / Et Notis nunc
primum editis / a Fr. Jur. D. / Parisiis, Ex Typographia Orriana. Anno Christiano 1604. Cum privilegio
Regis. Quella riedizione venne ampliata con i manoscritti della collezione di Fr. Pithou ed è perciò molto
più ricca di testi della bassa latinità che non la precedente, che risale al 1580 e che ebbe larghissima
diffusione. J. Lect riprodusse soltanto il testo della prima edizione. Le Epistolæ di Apronenia Avitia sono ai
ff. 342-481 della riedizione parigina del 1604. Nelle tre lettere datate 380 che ci sono pervenute non vi è
un solo accenno allo stato dell’impero né al progredire del partito cristiano, all’editto di Teodosio, alla
distruzione dell’altare della Vittoria. Apronenia Avitia assistette alla penetrazione estremamente rapida di
quel partito religioso senza che la sua opera ne abbia nemmeno conservato la traccia del nome. Epoca
prodigiosa, tuttavia, ove la sola risonanza dei nomi propri trascritti a poco a poco nelle leggende
canoniche appare già terribile, fitta, coagulata, sorda, medievale, e come indissociabile dal tessuto stesso
di una lingua che non è ancora: Didimo, Bonoso, Damaso, Siricio, Ottato, Sidonio, Martino, Ilario,
Paolino, Macrobio - e ove anche uno sconosciuto si chiamava Ambrosiaster.
*
II. Le tavolette di bosso di Apronenia Avitia
I.
Cose da fare a. d. VI kalendas
Vado al tempio di Numa.
Cortine da lettiga.
II.
Cose che sono rare
Fra le cose che sono rare aggiungerò un libro che è ben emendato.
Un uomo che dimentica lo sguardo degli altri uomini.
Una pinzetta per depilare che depili.
Delle ante alle finestre che non lascino passare la luce del giorno.
III.
Passeggiata sull’isola
IV.
Cose da fare
Vidi passare sul Tevere delle barche piatte cariche d’avena, anfore, grano, frutta. La luce
rasentava l’acqua. I colori erano bellissimi, in particolare i verdi e gli azzurri. Dei bambini nudi
s’inzaccheravano sulle rive, nel silenzio. Eravamo troppo lontani per udirli e il vento veniva da sud. Poco
distante, sulla sponda di una pozza d’acqua, fra i giunchi, con i glutei rosa posati sui talloni, un bambino
di cinque anni, nero d’abbronzatura, pescava ranocchi. Con uno sguardo imperioso e portandosi la mano
sul sesso ci fece segno di allontanarci.
V.
Al tempio della Pace, alle spoglie di Tito.
La phiala attribuita a Mys.
Via Tiburtina.
Vino originario del colle di Sezze.
Parto di Lycoris
Lycoris ha partorito un bambino che è morto di lì a poche ore. Assistetti Lycoris nel parto,
accompagnata da Spatale e da Nigrina. Non mi piacciono le stanze da parto dove il bimbo è morto.
Lycoris fece servire del vino di Siria. Il vino non ebbe effetto. Ho provato una tristezza che è durata sino
al pranzo, in cui mangiai ostriche e porcini.
VI.
Cosa di cui bisogna ricordarsi
Il tavolo rotondo di cedro da Glaucos.
204
VII.
Differenti tipi di donne
Le donne che trovano tutto ammirevole, favoloso, inaudito sono insopportabili.
Le donne che trovano tutto da poco, mediocre, stupido, di nessun valore, privo di gusto sono
insopportabili.
VIII.
IX.
Cose da fare
Al colosso di Domiziano a cavallo.
L’ampio mantello agganciato sotto il collo.
Il lotto di lecci.
Peschi innestati su albicocchi.
Un mulo al prezzo di un giovane schiavo.
Q. Alcimius
Un tempo Quintus mi amava. Eravamo giovani. D. Avitius respirava ancora. Veniva furtivamente,
passando dalla porta di servizio; avevamo la notte intera. Ai primi albori fingeva di alzarsi a malincuore,
cercava la tunica, diceva che soffriva a lasciarmi. Non si affrettava ad allacciare i sandali. Veniva a
baciarmi sul viso e giù, sul pube. Mi destavo. Gli dicevo, preoccupata: «Sta per far giorno. Sbrigati.»
Sospirava. Quel sospiro mi sembrava fosse un’eco del fiume che attraversa l’Erebo. Allora si raddrizzava
e rimaneva seduto sul letto. Annodava un laccio. Si chinava di nuovo e mi sussurrava all’orecchio il
proposito di un desiderio, o forse inseguiva qualcosa che mi aveva raccontato durante la notte. Compiva
una breve libagione all’aurora e con l’acqua si puliva la bocca, il sesso, si stropicciava gli occhi. Scivolavo
dietro di lui. Restavamo un istante a guardarci davanti alla porta a due battenti. Mi diceva che non gli
piaceva avere dinanzi tutta una giornata da trascorrere lontano da me. Mormorava che soffriva per
questa separazione. Ripetevamo quattro o cinque volte l’appuntamento che avevamo combinato. Avevo
la mano sul suo braccio. Toccavo le sue labbra con le mie. Varcava la porta e se la svignava di colpo.
Nell’ombra ritornavo a letto. Mi sedevo. Ero riconoscente di aver vissuto la notte che avevo passato.
Invidiavo me stessa, avevo i gomiti sulle cosce, mi sentivo umida, olezzante, arruffata. Ero felice, ma fra
i rumori dei galli e dei secchi versai qualche lacrima. Amavo quella specie di fatica, quella spossatezza,
quegli odori mescolati e quella sorta di sconforto repleto che non sempre si distingue dalla nausea e che è
dovuto all’estremo appagamento.
(Da: “Les tablettes de buis d’Apronenia Avitia”, Paris, Gallimard, 1984. Presentiamo qui la traduzione delle pp. 11-16 e
39-43, che aprono rispettivamente la prima e la seconda parte dll’opera. Il presente testo è stato pubblicato per la
prima volta sulla rivista “Testo a Fronte” di Marcos y Marcos, n. 17/1997, pp. 41-51. La traduzione è di Giuseppe
Macor.)
Notizia.
Nato nel 1948 a Verneuil-sur-Avre, Pascal Quignard è musicologo, studioso di storia antica, soggettista
(per “Una pura formalità” di Giuseppe Tornatore, 1994), nonché uno dei più importanti romanzieri
francesi. Nel 2002 ha vinto il premio Goncourt. In Italia, Frassinelli ha pubblicato i seguenti titoli: “Il
salotto del Wurttemberg” (1988), “Le scale di Chambord” (1990), “Tutte le mattine del mondo” (1992),
“Il nome sulla punta della lingua” (1995), “Sogno di un nuovo mondo” (1996), “La vita segreta” (2001),
“L'incisore di Bruges” (2003).
205
Poesia dialettale
206
Il calabrone
C'è un'ansietà d'attesa nella stanza:
il calabrone è un acino di rabbia.
Ha descritto da parete a parete
spigoli d'aria. Ha cabrato e picchiato.
Sfiorato sul tavolo frontespizi
e costole, cime di suppellettili
le rime di me trascritte sui fogli.
Ho spalancato tutte le finestre,
abbandonati i fogli. Fuori il sole
è fiorito sui rami, sorridente
fra me che scrivo e la parola niente.
*
Elementare
E c'è che vorrei il cielo elementare
azzurro come i mari degli atlanti
la tersità di un indice che dica
questa è la terra, il blu che vedi è mare.
(Da “La misura dell’erba”, 1993-1998)
*
O ài daviert i miei vôi
tai vôi colôr trist timp
dal cîl; lassù Donzel
nus menarà tampieste
tampieste e po tampieste
sul trimulâ dai flôrs:
inte prime sgoriade
di vint sore dai verts
o ài nasât cu l'odôr
da lis jerbis di ploie
l'odôr penç da l'amôr
come che amôr mi fos
il pês intîr di un cîl
sore il tenar di un flôr.
(Ho aperto i miei occhi negli occhi color tempocattivo del cielo; lassù, Donzel, ci porterà tempesta,
tempesta e poi tempesta sul tremolio dei fiori: nella prima frustata di vento sopra i verdi, ho annusato
con l'odore delle erbe di pioggia l'odore denso d'amore, come se amore mi fosse il peso intero di un cielo
sulla tenerezza di un fiore.)
207
*
Tô la me bocje amôr sul to savôr
la mê vergogne di vivi cumò
ch'o ti tocji ch'o ti sflori e o ti cor
come inte gnot un gjat adôr dai mûrs;
jo o ti cor come un gjat adôr dai mûrs
siben ch'o sai che intai conts di amôr
doi mancul un mancul di zeri al fâs
e un plui un un al varès di fâ,
siben che e reste cumò che tu vâs
la mê cerce di te su la tô piel
su la mê il risinâ dai tiei cjavei
e je dentri te tô la mê pôre
di smenteâmi di me.
(Tua la mia bocca, amore, sul tuo sapore, la mia vergogna di vivere adesso che ti tocco che ti sfioro e ti
corro, come un gatto nella notte rade i muri; io ti corro come un gatto rade i muri, sebbene sappia che
nei calcoli d'amore due meno uno dia meno di zero e uno più uno dovrebbe dare uno, benché resti,
adesso che vai, il mio cercarti sulla tua pelle, sulla mia lo stillare dei tuoi capelli, è dentro la tua la mia
paura di smemorarmi di me.)
*
Mondimi me, che par volê florî
di flôr in flôr florint soi deventât
ramaç no in flôr nì niçulât da l’aiar:
libare tu, Domine mê, la mê
libertât, metimi dentri tai vôi
la lûs tenare e garbe de to piel di vencjâr:
l'amôr al è cuant che i miei deits
a tocjâti a deventin
la ponte dai tiei.
(Mondami, che per voler fiorire di fiore in fiore, fiorendo sono diventato un ramo senza fiore, né mosso
dal vento: libera tu, Domine, la mia libertà, mettimi dentro gli occhi la luce tenera e aspra della tua pelle
di vinco: 1’amore è quando le mie dita a toccarti diventano la punta delle tue.)
(Da Amôrs, 1992-1999)
*
Rondeau
Cun cheste lenghe nude e in nissun puest
nì mai viodût in lûs di nissun voli
se no dai miei cjalant i tiei celescj
jo mâr o clamarès chel to celest
tiscjel il lum dal to tasê forest
e primevere il solc lunc dal to pet;
cjalanti, inte buere di me ch'e cres
208
falchet sarès se no tasès cjalanti
in cheste lenghe nude e in nissun puest.
In nissun puest amôr ma nome in chest
l'amôr ti disarès ch'al è taront
l'insom e il sot ladrîs e zime in rime
e intal clarôr sul fîl da la tô schene
crît il clâr de lune dare compagne
bielece son li' mans strentis in trece
li' mês li' tôs e intor il braç de gnot
ch'a si davierç in lûs, nulinti, e in blanc
in nissun puest amôr ma nome in chest.
In nissun puest ma achì ti volarès
niçant adôr sul niçul des peraulis
peraulis come fraulis ti darès
che vite ator ator e je tampieste
jo e te mâr fer tal mieç da la tampieste
e messedant i tiei cui miei cjavei
amôr plui tô la muse tô e sarès
e non il to plui non, cun dut il rest forest
in cheste lenghe nude e in nissun puest.
(RONDEAU. Con questa lingua nuda e in nessun luogo, né visto mai in piena luce da nessun occhio, se
non dai miei guardando i tuoi celesti, io mare chiamerei quel tuo celeste, castello il lume del tuo tacere
straniero e primavera il solco lungo del tuo petto: guardandoti, nella bufera di me che cresce, sarei
falchetto se non tacessi guardandoti, in questa lingua nuda e in nessun luogo.
In nessun luogo, amore, ma soltanto in questo, l’amore ti direi che è come un cerchio, il sotto e il sopra,
gemma e radice in rima e nel chiarore sul filo della tua schiena, grido il chiaro della luna del medesimo
chiarore, bellezza sono le mani strette in una treccia, le mie, le tue, e attorno il braccio della notte che si
apre in luce, fiutandoti, e in bianco, in nessun luogo, amore, ma soltanto in questo.
In nessun luogo ma qui io ti vorrei, cullandoti nel su e giù delle parole, parole fresche come fragole ti
darei, che la vita attorno è una tempesta, io e te mare fermo in mezzo alla tempesta e mescolando i tuoi
con i miei capelli, più tuo, amore, il volto tuo sarebbe, più nome il nome tuo, con tutto il resto straniero,
in questa lingua nuda e in nessun luogo.)
*
In ospedale
A Mario e Donata
Dire con voce alta il bianco delle pareti,
i cappotti, i giacconi che trattengono l'aria d'inverno
di chi ti viene a trovare,
la paura sono i corridoi lunghi
con la gente che va sbandata in vestaglia
come staccata da sé, lungo i muri
mentre un vento fuori lucida le nuvole, le case
i rami di alberi che non conosco
e il vedere dei vecchi li vede da un occhio
da cui tutto il bello del mondo è andato via.
Grande meridiana del tempo, quando il tempo si è rotto
dentro qualcosa di grande, dentro.
209
Amo gli acrobati e li invidio
il pilota decorato e impietoso
dalla benda nera e il teschio sulla fusoliera
quando sperare è essere un corpo
con la carne tagliata per guarire
per un riconquistato assetto che ti faccia dire
voi venitemi a trovare quando esco
sembra di vivere quando saremo fuori.
Aprile 2002
*
Ritornare
I piedi hanno portato l’allegria delle impronte
i vostri piedini nella neve, bambini
nell’odore degli stivali di gomma
neri rossi celesti dove comincia la salita
dove finisce la discesa delle slitte
piegarsi nel ricordo, mi piego nel ricordo
a piedi uniti saltiamo nella neve
di quando guardare il cielo era una fantasia più grande
vera la verità delle cose toccate
sarò stato a quest’ora, sarò stato tante volte
lontano come a quest’ora, voce nella mia voce
occhio nel mio occhio rinnovato
mano mia nuova nel bianco della mia.
Maggio 2002
*
Assetto di volo
A Gino Lorio, in memoria
Con lui venivano una determinazione feroce
dalla camera alla palestra
i cento metri percorsi in cinque minuti,
con una tensione di motore imballato
tutta la forza del suo corpo spastico
ribellata alla forza di gravità.
Sant'Agostino diceva che perfezione
è la carne che si fa spirito, lo spirito che si fa carne
ma non è vero: ogni mattina i puntali delle stampelle
scivolano metro a metro per guadagnarne cento
ogni mattina lo spirito è tagliato via da quel corpo,
210
dalle suole strascicanti e dalle nocche strette,
bianche sulle impugnature,
ogni mattina dal dorso di lottatore
si stacca un collo di tendini tesi e redini allentate
un urlo chiuso nella sua profondità,
perfetto nella sua separazione.
E io vi vedo una bellezza di cimieri abbattuti
e dentro la parola andare la parola compimento
e sono sicuro che lui sogna baci pieni di vento
mentre la volontà conquista le giornate a morsi,
schiaffo dopo schiaffo perché venga la sera
schiaffo dopo schiaffo, chiglia in piena bufera.
Ci vuole un'estate piena e un padre calmo,
un dio non assiso in mezzo agli sconfitti
ma così in tutta bellezza lo posso immaginare
come un bambino alle prime pedalate,
reggilo, eccolo, tienilo così – adesso tiene
uniti la terra e il cielo dell'estate
non sbanda più, vince, è in equilibrio,
vola via.
Luglio 2003
(Da “Dittico, 1999-2003)
*
La luce toccata
A Chiusaforte Silvio intrecciava canestri
con mezzo cuore e il cuore dei bambini intorno
io dico ti ho visto nella mia veglia
nel respiro acceso dell'alba
tra il fischio e il silenzio
e le dita andavano di vinco in vinco
come un'acqua nervosa, una spiegazione raccolta
nel tempo dietro questo tempo a mezza veglia
siamo venuti, io con le pupille di bimbo
e allora trattieniti adesso che torno
dentro il tuo odore di povero
nei boschi dove andiamo si dice con lo sguardo
le labbra un profilo chiuso, il passo un passo radicato
qui, dove sono ora, nel battito del giorno alla finestra
nel sonno lasciato, nel millesimo di me
dove ogni debolezza è stata offerta
la pietra aperta, la luce toccata.
211
*
I vostri nomi
Ieri sono passato a trovarti, papà,
la luce in questi giorni non è tagliata dall'ombra
negli alberi senza vento c'è l'odore secco dell'aria
per come posso, ti ho portato il racconto dei temporali,
l'odore di inverno sulle tempie
a Chiusaforte è nevicato, nevica sempre
e le fontane sono ghiacciate
penso, per qualche momento, che tu sia ancora lassù
ad accatastare legna con cura
e non in luoghi come questi
la casa di riposo con la pista per le bocce
dove state raccolti come le foglie nel parco
uniti nell'attesa, lontani dalle città assediate.
Dicevate domani, dicevate questo è il figlio
e con il silenzio del fischio nella bufera
i vostri nomi sono andati via
voi che siete stati popolo e ombra
remissione e forza
il tuo nome, papà, e quello di Bruno, che non era un'antilope
e tirava sassate al pettirosso sul ramo più alto
o quello di Giordano, o quello di Cesare, o quello
di Alfredo, l'artigliere
o quello di quelli che, come te, sono stati bambini
che hanno detto domani.
(da “Poesie inedite”)
[Tutte le poesie sono tratte dalla raccolta: Assetto di volo.Poesie 1992-2005, Crocetti, Milano, 2006]
Notizia.
Pierluigi Cappello è nato a Gemona del Friuli (UD) nel 1967; vive a Tricesimo (UD). Ha diretto la collana
di poesia La barca di Babele, edita a Meduno e fondata da un gruppo di poeti friulani nel 1999. Ha
pubblicato i seguenti libri: Le nebbie (1994), La misura dell’erba (1998), Amôrs (1999), Dentro Gerico
(2002). Con Dittico (Liboà, Dogliani 2004) ha vinto il premio Montale Europa di poesia. Il suo ultimo libro,
Assetto di volo (Crocetti, Milano 2006), raccoglie la sua produzione poetica degli ultimi 10 anni.
212
Al s dà na petnèda a la mèj
as guèrda int al spèc’ cu i ò’c slargà
cómm un ch’an s védd mía.
Ai è tótt da sbrighèr
tótt chi quî da fèr
na fûria na più fâta ròba
via, ndémm, a so pronta alôra.
Prémm ai è la cîsa
i panchétt dûr i fiûr
al prêt ch’al bacâja
l’Alda inplicià cómm al sòlit
e dópp
dópp la tèra, al bûs
in dovv al métten dênter
na mâsa d’ân al bûr
nciûn ch’al dscorra cu teg
nciûn ch’al séppa in dovv t ê
al tênp ch’al s asluntèna
e chi èter ch’i rujjen fôrt
e po’
brîsa più gnînt
sulamênt un gran silênzi.
E i la ciâmen pès.
(Si dà una pettinata alla meglio/ si guarda nello specchio con gli occhi slargati/ come uno che non si vede
mica./ C’è tutto da sbrigare/ tutte quelle cose da fare/ una furia una più fatta roba/ via, andiamo, sono
pronta allora./ / Prima c’è la chiesa/ i panchetti duri i fiori/ il prete che parla/ l’Alda impellicciata come al
solito/ e dopo/ dopo la terra, il buco/ dove lo mettono dentro/ un mucchio d’anni al buio/ nessuno che
parli con te/ nessuno che sappia dove sei/ il tempo che si allontana/ e gli altri che piangono forte/ e
dopo/ più niente/ solamente un gran silenzio./ E la chiamano pace.)
*
Là nevghè n’ètra vólta.
al fradd am s atâca adòs
cómm un fiolên int al fiómm
ch’al vol zughèr.
Pâsa un òm
tótt cûrv rintanà
int la gabèna nêgra
e mé a l guèrd e mé e lù
a parêm int al mênter ch’al guèrd
pròpri al stéss quèl.
(Ha nevicato ancora./ il freddo mi si attacca addosso/ come un bambino nel fiume/ che vuole giocare./
Passa un uomo/ tutto curvo rintanato/ nel giaccone nero/ e io lo guardo e io e lui/ sembriamo mentre lo
guardo/ proprio la stessa cosa.)
*
Żug
Nuéter a żughên cómm i żûghen
quê ch’ i żûghen a sold:
zacâja zacâja i én sênper povrétt.
(Gioco// noialtri giochiamo come giocano/ quelli che giocano a soldi: // litiga litiga son sempre poveretti)
213
*
Gnîva pièn pièn su par al stradèl
cómm’un cl’âbia tótt al tênp ch’ai vôl
par stèr al mónnd, par respirèr l’âria fêna
dla matènna, quènd tâca a fèer lòmm
o la sîra, apêna bûr, l’ôltma chèrta
dal mâz, un fènt ed brésscla, un âs.
(Veniva piano piano du per lo stradino/ come uno che ha tutto il tempo che ci vuole/ per stare al mondo,
per respirare l’aria sottile/ della mattina, quando inizia a far luce/ o la sera, appena buio, l’ultima carta/
dal mazzo, un fante di briscola, un asso.)
*
Secondo pomeriggio
Sotto il pieno delle nuvole, a bordo campo,
ci sono quelli che guardano i ragazzini calciare,
oppure un altro, un’altra cosa piccola,
il silenzio prima di prendere una carta
dal mazzo scuro e unto del bar, una volta,
quando per i vecchi c’era ancora il fumo
l’odore di MS, di Nazionali
dentiere scoperte e dita arancioni e
bòja d na vâca am vlîva un âss
e la Carla che passa lo straccio sul banco
toglie i fondi, i cerchi rossi,
con le dita grosse di chi lava troppo
e con su lo smalto gli anelli d’oro
Carla sêgna - Nino l’a vint un’ètra zoclêda
e anche io me le ricordo le mie
i cimeli raccolti nel mobilino in alto a destra
e la nonna che si stimava del nonno
e’ più brèv a brîscla ed tùtt e dopolavôr
anche se lo sgridava perché usciva sempre
ma poi prima di uscire lo pettinava
e me li ricordo così, sulla porta,
lui già in giacca e cappello
lei dietro col pettinino alzato
nella cornice del cielo prima di sera,
con la luce che cambia.
*
Giardino delle rose
Ad Andrea
Tun m é mâi portà un fiôr
ma tótt un żardên
brîsa na canzôn dl’orchèstra
ma la musica intîra.
Mé, ai ò sôl sti dó parôl
214
rótt e scalcagnà.
La vida l’è bèla, al sèt?
(non mi hai mai portato un fiore/ ma tutto un giardino/ non una canzone da orchestra/ ma la musica
intera./ Io, ho solo queste due parole/ rotte e malmesse./ / La vita è bella, lo sai?)
*
Al gréll
L è trî dé ch’ai è
un gréll serà in cà
apêna al tâca a fèr bûr
lú al tâca a ciamèr
e cêma chi eter grill
e cêma al stell
i chénp
i gât
i bòsc
e meé am créd ch’ad fòra
al sìa tótt un mónnd
parfèt
cómm un mistêr
(Sono tre giorni che c’è/ un grillo chiuso in casa/ appena comincia a fare buio/ lui comincia a chiamare/ e
chiama gli altri grilli/ e chiama le stelle/ i campi/ i gatti/ i boschi/ e a me sembra che di fuori/ ci sia tutto
un mondo/ perfetto/ come un mistero.)
Notizia.
Azzurra D’Agostino è nata nel 1977 a Porretta T. (Bo). Nel 2001 si è laureata in filosofia. Ha pubblicato le
prime poesie su varie riviste e antologie, tra cui “Voci di poesia” (Pendragon, 1998). Nel 2003 è uscita la
prima raccolta per i tipi de “I Quaderni del battello ebbro”, una silloge di poesie italiane e dialettali dal
titolo “D’in nci’un là” (finalista Premio Diego Valeri). Scrive per il teatro (attualmente è in scena un
monologo interpretato da Gabriella Rusticali dal titolo “Mattinastra” e uno dal gruppo modenese del
Teatro dei Venti, regia di Stefano Tè, oltre che uno spettacolo per bambini in allestimento dal gruppo
Teatro dell’Argine di Bologna) ed è redattrice della rivista “daemon-libri e culture artistiche”; collabora
inoltre con alcuni giornali e riviste come articolista. Nella primavera del 2005 è uscita la seconda raccolta,
“Con ordine”, pubblicata dalla casa editrice “LietoColle” (finalista premio Cetona Verde Poesia). Una lunga
intervista sulla sua poetica è stata pubblicata nel volume a cura di M. Casagrande “In un gorgo di fedeltàinterviste a venti poeti italiani”, edizioni Il Ponte del Sale.
215
Me vole vedé morte a ggende
vole ca nun respire cchiù
pecché u respire mije
daje fastidje o sole
a quiru sole ca tutte chiamene attane
e nessciune ha maje viste
Morte, sette parme sotte a terre
accussì nun rombe re šcatele
a quande aggia credute amice
e a mane sott’o core hanna mise
p'acchiappà re llàcreme
ca sembe vaje strecchianne
Ma ije nun more
pecché só mmale fierre
tenghe tutte arrezzute
a panze, u suanghe, u core
quiru core muorte accise
scazzate sott’o muaglje di juorne
e arredutte cume pedde de ciucce
Si è ciucce
u destine ha vvelute accussì,
nda corse cu a vite è rumuaste ndrete
e u sole nun ha vviste u chiuande suje
ca l’è arrevate acquasande
nda quiru ciele ca nun crede e fesse.
Chiange e ccume chiange u ciucce!
pure ca nge só re mmaregarite
e crésscene u mese d’a Signore
u mese de re rrose,
só sembe fiure de ciucce...
Perciò nessciune sape u delore suje
quanne se sonne a morte
e a vede bbelle cume a na stelle,
cume a na cumete
ma a paure u fotte
e ffacesse aviette juorne dice
pe rresperà angore
e ddà fastidje o sole
(Vuole vedermi morta la gente / vuole che non respiri più / perché il mio respiro / dà fastidio al sole / a
quel sole che tutti chiamano padre / e nessuno ha visto mai // Morta, sette palmi sottoterra / così non
rompo le scatole / a quanti ho creduto amici / e la mano hanno messo sotto il cuore / per raccogliere le
lacrime / che sempre va spargendo // Ma io non muoio / perché sono ribelle / ho tutto arrugginito / la
pancia, il sangue, il cuore / quel cuore morto ucciso / schiacciato sotto il maglio dei giorni / e ridotto
come pelle di ciuccio // Se è ciuccio / il destino ha voluto così / nella corsa con la vita è rimasto indietro /
e il sole non ha visto il suo pianto / che gli è arrivato acquasanta / in quel cielo che non crede ai fessi. //
Piange e come piange il ciuccio! / anche se ci son le margherite / e sbocciano il mese della Signora / il
mese delle rose / sono sempre fiori di ciuccio… // Perciò nessuno conosce il suo dolore / quando sogna la
morte / e la vede bella come una stella / come una cometa / ma la paura lo fiacca / e facesse presto
giorno dice / per respirare ancora / e dar fastidio al sole)
Puozze Arrabbià La Vallisa 1999
È l’arje ca spezzanne re jurnuate
dice o core respire e vvatte chiane
senze c’aspiette o mbuoste quacchedune
ca t’ha rarate u féchete perbene
È l’arje ca se ngenócchje a tutte quande
pegliànnese u respire vocche a vocche
nessciune a paghe e chi ne téne assaje
216
cambe cundende senza penzà cchiù a gguaje
È sembe édde ca mbrijache r’auciedde
cume cambane a ffeste nda uandiere
e de sole allegre e lune zumbaredde
te énghje a vite, nun te respire sere
(È l’aria che spezzando le giornate / dice al cuore respira e batti piano / senza che aspetti al varco
qualcuno / che t’ha raschiato il fegato perbene // È l’aria che s’inginocchia a tutti quanti / prendendosi il
respiro bocca a bocca / nessuno la paga e chi ne tiene assai / vive contento senza pensare ai guai // È
sempre lei che ubriaca gli uccelli / come campane a festa nella guantiera / di soli allegri e lune saltellanti
/ ti colma la vita, non ti respira sera)
Rescidde, Zone Editrice 2001
Sònene re ccambane stamatine
pe na mésse ca nessciune vaje a ssende
povere a quire muorte mò allabbiende
manghe na tuwaglje s’ha guadagnate
povere a quire muorte senza speranze
de se truwà ucine a Trenetate
manghe na letanije ha rrecetate
e de gastéme ha ffatte chiene a panze
Sònene re ccambane stamatine
cume strevédde de funduane abbàgnene
pure u cuardille nghiuse ind’a caggiole
ca s’è appecate cu r’asscédde soje
(Suonano le campane stamattina / per una messa che nessuno ascolta / povero quel morto che ora è in
pace / neanche una tovaglia ha guadagnato // povero quel morto senza speranza / di trovarsi al cospetto
della Trinità / neanche una litania ha recitato / e di bestemmie ha riempito la pancia. // Suonano le
campane stamattina / bagnano come spruzzi di fontana / anche il cardillo chiuso nella gabbia / che si è
impiccato con le sue ali)
Rescidde, Zone Editrice 2001
Nde porte cchiù sta cape ije nun suacce
e scrive mbiette e mure ca te voglje
ma tu palomma janghe te ne squaglje
cume a neve de marze mbacialute
de Gengis Can tu sì cchiù crudele
nun m’ammuzze a cape ind’a Mongolje
appiénne cazze cazze a re magnolje
accussì dd’ape fanne terannije
e n’uocchje o surche e une o quannìte
abbàstene a ttené mane a situazione
ma l’àneme ca vóle spiegazione
gastéme ammende strenge pezze mmócche
(Dove porto la testa più non so / e scrivo sopra i muri che ti voglio / ma tu palomba bianca te la squagli /
come la neve di un marzo impazzito // di Gengis Kan tu sei più crudele / non mi recidi la testa in
Mongolia / l’appendi difilato alle magnolie / così le api vi fanno da tiranne // e un’occhiata al solco una al
217
canneto / bastano a controllare la situazione / ma l’anima che vuole spiegazioni / bestemmia mentre
stringe pezze in bocca)
Solije, Zone editrice 2003
fenesta vassce e patrone crudele
pecché me daje tutte stu turmiende
quanne putisse cume foglje o viende
fàreme vuluà ind’e vosche u ciele
Nu furne tenghe mbiette e ssenza pane
ng’è cénere e rramelle angóre nfiamme
e ttu me sfusce cume a quera mamme
ca u figlje abbandone pe l’avvendure
ogni matine spezze u vóle o tiembe
ind’a specchiere guarde l’atu ije
e ogni notte sacce ca sta malatije
pe ssembe adda duruà, pe criste ngroce!
(fenesta vassce e patrone crudele / perché mi dai questo gran tormento / quando potresti come foglia al
vento / farmi volare nei boschi del cielo // Un forno ho nel petto e senza pane / con cenere e rametti
ancora in fiamme / e tu mi sfuggi come quella mamma / che il figlio abbandona per l’avventura // ogni
mattina spezzo il volo al tempo / nella specchiera guardo l’altro io / e so ogni notte che la malattia / per
sempre durerà, per cristo in croce!)
Solije, Zone Editrice 2003
A ssere ca s’appìccene i lambiune
a bbiondine face u puasse e llasse
cu a bbursette de raffia spertusuate
e re scarpe cu tuacche ciendevinde
U spuaccunciedde frene u fuoristrade
e ccérche quande coste na chiandedde
édde u guarde, tire nu quàvece o luambione
quande a fesse de màmmete vale ije!
Chiude a vócche ca mamma mije è sande
a paste de case face p’a famiglje
cande sturnelle ammende fatihe a mmaglje
e scioche a scala quarande cu re ccumbuagne
Se màmmete è na sande…ije só a madonne
venghe da l’Est nde ng’è meseria scure
e i panne spase trèmene p’a paure
sapenne ca u ggele r’attaradde a notte
e re pòddele quanne mene u viende
se ngòllene a rèsene d’i pine
chi re cchiange? Só figlje de nessciune
e aspettene a fine pennuluanne
218
(A sera che si accendono i lampioni / passeggia la biondina avanti e indietro / con la borsetta in rafia
traforata / e le scarpe con il tacco centoventi // Lo spacconcello frena il fuoristrada / e chiede quanto
costa una scopata / lei lo guarda, tira un calcio al lampione / quanto la fessa di tua madre valgo io! //
Chiudi la bocca che mia madre è santa / la pasta in casa fa per la famiglia / canta stornelli mentre lavora
a maglia / e gioca a scala quaranta con le amiche // Se tua madre è santa…io la madonna sono / vengo
dall’Est dove la miseria è scura / e i panni stesi tremano per la paura / sapendo che il gelo li stecchirà la
notte // e le farfalle quando tira il vento / s’incollano alla resina dei pini / chi le piange? Sono figlie di
nessuno / e aspettano la fine penzolando)
Scurije, LietoColle 2005
M’è vuluate da mende quiru puaìse
cu rrose névere nde giardine a ssicche
e ffunduane cu cuaneliedde afflitte
e cchiande de castagne a mmanghe a ssole
addavére ddà teraje sembe viende
e a cambane ndennaje a mmuorte
e nda re ccandine chiene de vapure
se gastumuaje Criste cu a Madonne
Fatalmende a lune šcattegliose
se facije nvelettà da re nnéglie
quanne i cane usumuanne terramote
s’accuwanne inde o cuambesande
… e ng’erene re mmózzecapaternoste,
u buannetóre ca strellaje a vvija nfóre
cume a piche ca trove ind’o puagliare
n’ache cu a cudédde arrezzenute
e de viérne quanne menaje puluwine
se nfelaje pure ind’o cuataratte
nde ng’ere a zénghera Giuditte
ca m’aiutuaje a piglià re llevene
cu ttutte ca ng’ere sta mala meserje
u beccheruzze nun muangaje maje
e quanne i despiacere erene assaje
ndó ciele se speraje ca scennésse
(M’è volato dalla mente quel paese / con rose nere nei giardini a secco / e fontane col gocciolio afflitto / e
piante di castagni esposte a nord / là davvero tirava sempre vento / e la campana a morto rintoccava / e
nelle cantine piene di vapori / si bestemmiava Cristo e la Madonna / Fatalmente la luna dispettosa / si
faceva velare dalle nubi / quando i cani fiutando terremoti / si rifugiavano nel camposanto // …e c’erano
le mozzica pater nostro, / il banditore che strillava per strada / come la gazza che trova nel pagliaio / un
ago con la cruna arrugginita // e d’inverno le tormente di neve / s’infiltravano anche nella botola / dove
c’era la zingara Giuditta / che mi aiutava a prendere la legna // nonostante ci fosse malmiseria / la
bicchierata non mancava mai / e quando i dispiaceri erano assai / si sperava che scendesse il cielo)
Scurije LietoColle 2005
Notizia
Assunta Finiguerra di San Fele (PZ) ha pubblicato Se avrò il coraggio del sole (Basiliskos 1995); Puozze
Arrabbià (La Vallisa 1999); Rescidde (Zone Editrice 2001); Solije (Zone Editrice 2003); Scurije (LietoColle
219
2005). Ha vinto numerosi premi tra cui il “Giuseppe Jovine” il “Premio Pascoli” e finalista al “DeltaPoesia”.
Suoi testi poetici sono apparsi su Pagine, Periferie, Poesia, Lo Specchio, L’Area di Broca, Capoverso,
Ciemme, Gazzetta Ufficiale Dialetti e in diverse antologie fra le quali: Nuovi Poeti Italiani a cura di Franco
Loi, Einaudi Editore; Trent’anni di Novecento a cura di Alberto Bertoni, Book Editore. È stata recensita in
Il sole 24 ore, Nuova Antologia, La Vallisa, Nuova Tribuna Letteraria, Incroci, Vernice, Il Segnale, Il
Cristallo, Capoverso, Atelier, Poiesis, Lunarionuovo, Gradiva, Polimnia, l’Altrareggio, Bari Sera, Sìlarus,
L’Immaginazione, Forum Italicum... Il 6 dicembre 2006, all’Università la “Sapienza” di Roma, Alessia
Santamaria ha discusso una tesi sulla sua poesia, relatore Ugo Vignuzzi.
220
Le cose famigliari succedono
e gli uomini non se ne preoccupano.
Richiede una mente davvero insolita
intraprendere l’analisi dell’ovvio.
(A.N.Whitehead)
La mia prima poesia in dialetto è nata per caso – o, meglio, spontaneamente – un giorno di gennaio
che mi sono ritrovato a descrivere un cielo invernale e un cuore infreddolito. Eppure avrei dovuto capirlo
prima che, nel mio caso, solo il dialetto avrebbe potuto essere lo strumento più adatto per tentare quanto
suggerito da Whitehead: una spiegazione dell’ovvio, una visione del quotidiano.
Una vita come la mia infatti, che scorre abitualmente all’interno dell’alveo scavato dal dialetto e da cui
nasce una poesia dove natura, oggetti, e uomini còlti nelle azioni più comuni, sono sempre in primo
piano, non può che trarre vantaggio da una tale scelta linguistica.
Soprattutto nelle poesie che mi riguardano più da vicino e in quelle più legate alla dimensione del ricordo,
avverto una profondità descrittiva maggiore e sfumature più intense rispetto ai versi scritti in italiano. Il
dialetto infatti è spesso considerato portavoce privilegiato di un mondo estinto, del mondo dell’infanzia,
che appare migliore, più puro rispetto al presente. Ciò è vero anche per me, ma ad un certo punto ho
capito che questa sua “predisposizione naturale” avrebbe potuto, a lungo andare, spegnere, piuttosto che
alimentare, la sua potenzialità espressiva. Da un po’ di tempo quindi sto cercando di essere meno
nostalgico, anche perché a poco a poco mi convinco che il passato non è da preferire e che nell’infanzia
gioca un ruolo importante l’inconsapevolezza.
Dal punto di vista lessicale sono alla ricerca di una parola elementare, una parola denotativa e
nient’altro. Il dialetto, in questo caso, consente di introdurre variazioni e duttilità in un dettato che
potrebbe risultare troppo asciutto. Il veneziano delle mie poesie lascia ampio spazio all’italiano, al punto
da sembrare volutamente edulcorato, ma in realtà è solo il dialetto parlato dalla mia generazione. Per i
ragazzi più giovani la contaminazione è ancora più grande. I ventenni, quando addirittura non parlino
solo italiano, non conoscono il significato di parole usate da un quarantenne, come d’altronde un
quarantenne ignora certe espressioni di un ottantenne.
Ora però la scrittura ha la possibilità di essere non solo testimone di una situazione di fatto, ma di
permettere anche la riscoperta di parole disusate, a volte arcaiche, delle quali non si è più abituati a
sentire il suono, e magari di accostarle deliberatamente a termini italiani o – perché no? – inglesi, in
modo da conferire a ciascun termine uno spicco particolare, una luce diversa.
Anche per quanto riguarda la grafìa, una certa semplificazione, che dipende in primo luogo da una scelta
dall’autore, ha lo scopo di agevolare la lettura anche a chi veneziano non è e di rendere la pagina più
“pulita”.
Oggi, dal giorno non tanto lontano di quella prima poesia in dialetto, pochissimi versi reclamano l’uso
dell’italiano, come se i pensieri avessero trovato finalmente la loro dimensione naturale: «Adesso i lo dise
tuti / che la mia meio vose xe questa / la vose de la vecia che va par botéghe / col tacuìn in man, la vose
de l’omo / che spenze el caro cantando, de la man / che sul ponte caressa el muso nero del gato, / la
vose de mi putélo / su quela foto in Cadore / co i zenòci segnai.»
Lore me dise:
«To marìo xe poeta
ma i schei a casa
chi xe che li porta?
Ti! Netando scale».
Sì, xe vero
ma savessi che belo
co le parole ghe vien
e lu le buta zo –
lezerle dopo
de sera
sentada su la carega picola
de la cusina!
221
(Le altre mi dicono: / «Tuo marito è poeta / ma i soldi a casa / chi li porta? / Tu! Pulendo scale». // Sì, è
vero / ma sapeste che bello / quando gli vengono le parole / e lui subito le scrive – / leggerle dopo / di
sera / seduta sulla sedia piccola / della cucina!)
*
Sighéto
Ancùo
no go dito na parola
co nissun
go tegnuo la boca serada
e adesso che so in leto
drio a destuar la luce
go quasi paura
che me sia
sparìa la vose –
cussì me vien da provar
a dir qualcossa
anca solo un sighéto
na cantadina
par sentir
se ancora ghe so.
(Strillo. Oggi / non ho detto una parola / con nessuno / ho tenuto la bocca chiusa / e adesso che sono a
letto / e sto per spegnere la luce / ho quasi paura / che mi sia / sparita la voce – / così mi vien voglia di
provare / a dire qualcosa / anche solo a fare uno strillo / a cantare un motivetto / per sentire / se ancora
ci sono.)
*
When blood sees blood of its own
it sings to see itself again it sings
to hear the voice it’s known
it sings to recognize the face.
(Suzanne Vega; Blood sings)
I ricordi.
So drio viver de ricordi.
Par i ricordi resto tacàda
a sta vita co le ongie.
Se me mostré le foto
de quando gero giovane,
‘pena sposa, riconosso tuti e tuto
anca se desso me desmentego
quelo che go magnà diese minuti fa.
Riconosso i fradei, che no ghe xe più,
i vestiti, i capèi,
le calze che gavevo comprà
co la piova a Milàn,
le stanze de case dove al sabo se balàva,
e che desso i ga fato botéghe,
i to oci, le to man, le camise bianche e stréte
che ti portavi de doménega,
quele braghe curte cussì ridicole
– vardite qua! – che ti te metevi de istà
par andar al Lido, o a pescàr.
(I ricordi. / Sto vivendo di ricordi. / Per i ricordi rimango aggrappata / a questa vita con le unghie. / Se
mi mostrate le foto / di quando ero giovane, / appena sposata, riconosco tutti e tutto / anche se adesso
dimentico / cosa ho mangiato dieci minuti fa. / Riconosco i fratelli, che non ci sono più, / i vestiti, i
cappelli, / le calze che avevo comprato / con la pioggia a Milano, / le stanze di case dove al sabato si
222
ballava, / e che adesso sono negozi, / i tuoi occhi, le tue mani, le camicie bianche e strette / che portavi
di domenica, / quei pantaloni corti così ridicoli / – guàrdati qua! – che mettevi d’estate / per andare al
Lido, o a pescare.)
*
Co ti saludi in ritardo
un amigo par strada
te risponde co slancio
un omo mai visto e che sta
do metri più in là.
(Quando saluti in ritardo / un amico per strada / ti risponde con slancio / un uomo mai visto e che sta /
due metri più in là.)
*
Proprio come i vèci
co i magioni nòvi a Nadal
proprio come i vèci d’inverno
le baréte precise a quele de i putèli
proprio come i vèci co le man su i zenòci
co i se ferma a parlar co i cani
proprio come i vèci sì
proprio cussì.
(Proprio come i vecchi / con i maglioni nuovi a Natale / proprio come i vecchi d’inverno / i berretti uguali
a quelli dei bambini / proprio come i vecchi con le mani alle ginocchia / quando si fermano a parlare con i
cani / proprio come i vecchi sì / proprio così.)
*
ai putèli e ale putèle
par na volta distanti
da playstation e danza jazz.
Ti li ga mai visti ti
sigàr cussì, deventar mati come desso
par un granziéto pescà
un granziéto da meterse a córer
– mòvite che ‘l mor! –
ti li ga mai visti ti
sigàr cussì, rossi su le ganasse
suài sul colo,
ti li ga mai visti ti
vivi cussì?
(Li hai mai visti tu / gridare così, ammattire come adesso / per un granchietto pescato / un granchietto
da mettersi a correre / – svelto che muore! – / li hai mai visti tu / gridare così, rossi sulle guance / sudati
sul collo, / li hai mai visti tu / vivi così?)
*
De sabo matina su la strada
a traverso del parco
ghe xe un cagnéto vècio
che se ghe vede tuto el bianco
223
de i oci e putèli che scrive i nomi
par tèra co i gessi
e mi che passo là
par l’eternità.
(Di sabato mattina sulla strada / attraverso il parco / c’è un cagnolino vecchio / che gli si vede tutto il
bianco / degli occhi e bambini che scrivono i nomi / per terra con i gessi / e io che passo là / per
l’eternità.)
*
E mi che no lo savevo
e che lo go lèto in una
poesia de Giuseppe Conte
che basarse fa
«spuntare foruncoli» ed eco alora
che no xe sta el magnar
ma tuti sti giorni
l’averte basà
a farme far da novo i conti
– come a sedese ani e oltre –
co i brufoli su la fronte.
(E io che non lo sapevo / e che l’ho letto in una / poesia di Giuseppe Conte / che baciarsi fa / «spuntare
foruncoli» ed ecco allora / che non è stato il mangiare / ma tutti questi giorni / l’averti baciato / a farmi
fare di nuovo i conti / – come a sedici anni ed oltre – / con i foruncoli sulla fronte.)
*
Cossa i farà de quela casa vècia
al piano tèra? I la metarà a novo
i la tirarà a lustro. Mi la ricordarò
come la gera prima
quando tra i scuri mèzi vèrti
i ghe incastrava pachéti vòdi
de sigarete.
(Cosa faranno di quella casa vecchia / al piano terra? La restaureranno / la tireranno a lucido. Io la
ricorderò / com’era prima / quando tra gli scuri mezzi aperti / incastravano pacchetti vuoti / di sigarette.)
Notizia.
Andrea Longega nasce a Venezia il 14 agosto 1967 e vive a Murano. Ha pubblicato le seguenti raccolte di
poesie: "Ponte de mezo" (Campanotto, 2002) e "Fiori nòvi" (Lietocolle, 2004). Sue poesie sono apparse
nell'antologia "Clandestini" (Lietocolle) e nel diario poetico "Il segreto delle fragole" (Lietocolle, 2004).
Suoi versi accompagneranno il libro fotografico, di imminente pubblicazione, di Claudio Corrivetti e
Leonard Freed dedicato a Venezia.
224
Scrivere in dialetto significa, per me, adoperare una lingua rifiutata, un rifiuto proprio inteso come
"avanzo", "residuo", "oggetto abbandonato".
Non c'è, nei miei dialetti, alcun sublime o rimpianto passatista (e neppure precisione filologica) ma il
sentimento di una perdita inevitabile.
Le poesie che presento qui sono scritte in voltrese e molarese. Voltri è l'estremo avamposto ponentino di
quella "grande" Genova che volle il Duce. I Priano sono voltresi da sempre, da secoli e secoli, ma il
dialetto voltrese di queste poesie è solo in piccolissima parte quello dei miei nonni. Un voltrese debole,
dunque, di frontiera anche nel tempo, non più di Città (Voltri prima del 1928 era Città) ma di periferia.
Sporco e inquinato proprio come il mare qua davanti.
Le poesie molaresi fanno parte di un'area, quella piemontese dell'Alto Monferrato, che va da Ovada ad
Acqui. Molare si trova lì, a 18 Km da Acqui e a dieci minuti di bicicletta da Ovada. E Ovada dista a 38 km
da Genova. Nella piana ovadese si coltivano capannoni che, finché non diventeranno "archeologici", sono
brutti e basta.
Da Molare alla casa che fu dei nonni, a Borgo Peruzzi, si spalanca "la campagna". .Noccioleti, campi
incolti, campi di girasoli, il camposanto dove dormono il trisnonno Chinèn e i suoi fratelli, qualche vigna
raminga. Non è detto che duri, anzi. Queste son terre buone per ipermercati e superstrade. Ed è strano
che nessuno se ne sia ancora accorto.
Il dialetto molarese presenta asperità che non esistono nel cantilenante voltrese. Se a Voltri uno scemo
rimane "nesciu" a Molare diventa, impietosamente,"urùc".
Chi non sente a Voltri è "surdu", a Molare "uèc". Mio nonno paterno falciava con la "messuìa", quello
materno con l' "anzuriòn".
Sul vino c'è l'accordo: vèn per gli uni e vin per gli altri.
Se avvicino la mia bocca a quella dei due dialetti non è per operare una respirazione utile a rianimarli. Il
bacio è molte volte segno del tradimento. Molte volte, non sempre. Questo mio sì.
Ma u biavu ninte
du to numme, a pua
du mè finiàn, sun zà
in ta luntanansa nua
de là di Crovi e a Cova
e u rosmanìn, na rosa
innestà in sc'u celestìn
c'a s'arve in tu amurtase
meraviggiou
di sti umbrelluìn.
(Ma l'azzurro niente/ del tuo nome, la polvere/del mio finiranno/ sono già/nella lontananza nuda/ oltre i
Crovi a la Cova/ e il rosmarino, una rosa/ innestata sul celestino/che si apre nello spegnersi/meravigliato/
di questi ombrelloni.)
*
Tutti muivan
ti arestavi tì
ingogeitu in tu gambu
de na rosa bordò
(Tutti morivano/rimanevi tu/ impigliato nel gambo/ di una rosa bordò.)
*
Oua e figge
te se fan in giu
a ciù duse a te mette
in man
na pria du Carsu
cun scritu insimma
"d'ardere giuriamo
per la vita". Urtima
lesiùn, sonna a campanna
225
a figgia, lenta, a se ne va
de schen-na
(Ora le ragazze/ ti si fanno attorno/ la più dolce ti mette/ in mano/ una pietra del Carso/ con scritto in
cima/ "d'ardere giuriamo/ per la vita". Ultima/ lezione, suona la campana/ la ragazza, lenta, se ne va/ di
schiena.)
*
Tremma a me cà de notte
i luvi sciroccali
l'addentan, i mè freli
orieivan daghe fogu.
Ai me picculi freli
mi ghe sputieiva addossu
i me picculi freli
mi me i piggieiva in brassu.
(Trema la mia casa di notte/ i lupi sciroccali/ l'addentano, i miei fratelli/ vorrebbero darle fuoco./Ai miei
piccoli fratelli/ io sputerei addosso/ i miei piccoli fratelli/ io me li prenderei in braccio.)
*
A foz nu cuerte
cauzatte. Cun i fer
a fobbric angiurèn.
In fer, in angiurèn.
R'è d'accordi anca
ir frò. Andè maresciòl
bel a zerchè quai c'tiran
fora fioi, c'gniràn sì
grommi mè l'oi. Mè
mì, mè vui. Diaulèri,
nutoi.
(Non faccio coperte/ calzette. Con i ferri/ fabbrico angioletti./Un ferro, un angioletto./E' d'accordo anche/
il frate. Andate maresciallo/ bello a cercare quelli che tirano/ fuori bambini, che cresceranno/ cattivi come
l'aglio. Come/ me, come voi. Diavoli,/notai.)
*
Scauza ma nainta
a benedì prere, fiure
puvr tanta quanta a in'è
ant r'Urba, sì da ra Rera
ant ra tesc-ta di pueti fol.
I me pè, culuroi lacca-lacca
ai pueti fan tasgiai ra bucca
allegr me ir toscig ant'er sciacchè
in dedè.
(Scalza ma non/ per benedire pietre, fiori/polvere tanta quanta ce n'è/ nell'Orba, su dalla Rera/ nella
testa dei poeti matti/. I miei piedi, colorati lecca lecca/ ai poeti fanno tacere la bocca/ allegri come il
veleno mentre schiacciano/ una coccinella.)
[NdA. Le poesie in voltrese nascono a Grado, nel luglio 2006. Intorno alla casa di Biagio Marin. Non so perchè siano
venute fuori in voltrese. Così come ignoro quanto l'io-violento e femminile- dei versi molaresi abbia davvero a che fare
con la persona realmente vissuta, tra il secolo scorso e l'altro ancora prima, a cui si riferisce o rappresenti qualcosa di
pre-esistemte perfino nell'urgenza di porlo -quest'io- accanto o di fronte a me.]
Notizia.
Gianni Priano vive a Genova dove, nel 1962, è nato. Ha pubblicato su riviste di filosofia (“Discorsi”,
“Bibliographie de la Philosophie”) e letterarie (“Il Babau”, “Atelier”, “Resine”, “Versodove”, “Maltese”,
226
“Tratti”). Ha pubblicato saggi sulla canzone d'autore, sulla poesia dialettale, racconti e quattro libri di
poesia: L'ombra di un imbarco, Genesi, Torino 1991; Città delle carle infelici, Primalpe, Cuneo 1995; Nel
raggio della catena, Atelier, Borgomanero, 2001; La turbie, Il ponte del sale, Rovigo 2004. Suoi testi si
trovano sulla rivista on-line www.ilportoritrovato.net, di cui è redattore.
227
Non fingo di essere ignorante
sono davvero ignorante
e par cavarme sta ignoransa de dosso
go bisogno de parlar
co’ a pansa e col cuor
in diaèto ciaro - più che in inglese
e se la gente mi dà tregua
è perché una lingua ce l’abbiamo tutti
che aspra e provocante ci apre
gli occhi - come balconi sull’aia
quella che io spazzo ad Ottava Presa
tra il cascinale e l’argine
l’arxene forte che abbracciando
me desgròpa - tuti i campi
streti in góa
(3-6. e per levarmi questa ignoranza di dosso, ho bisogno di parlare con la pancia e con il cuore, in
dialetto chiaro; 13. l’argine; 14-15. mi scioglie tutti i campi stretti in gola)
*
Sempre qua a vardar el mar
come a sercar qualcossa che non vién
se non da l’aqua che se move
dae sborassàe - che te spetina i cavéi
dai marassi - che i se tol
tuto el coór del ciel
par butàrtio dosso e farte novo
(Sempre qui a guardare il mare, come a cercare qualcosa che non viene se non dall’acqua che si muove,
dai colpi di bora che ti spettinano i capelli, dalle mareggiate che si prendono tutto il colore del cielo, per
gettartelo addosso e farti nuovo)
*
E se non semo bóni
de darse paxe
tra fradèi pieni de pianto
dove el rider
vien ogni tanto e quel che ciapa
i cuori come fiori
i cavéi come erba
no xe el vento o l’aqua
ciuciài de fadiga e amor
se finisse a morir compagni
soto el ciel che ne schinsa
soto na luce puaréta
che no’ a varda in facia nesuno
A Judith Malina
(E se non siamo capaci di darci pace tra fratelli pieni di pianto
dove il riso viene ogni tanto e ciò che prende i cuori come fiori
i capelli come erba non è il vento o l’acqua succhiati di fatica
e amore... si finisce a morire compagni sotto il cielo che ci schiaccia
sotto una luce povera che non guarda in faccia nessuno)
228
*
Có se anèga a luna
nel suo alone di fumo
savemo tuti che vien a piòver
su i campi de Otava Presa
sulle fatiche nostre e dell’inverno
E per le sorti della terra e del fieno
si può anche non dormire - la notte
par portar dentro i rimorchi
par sperar - che se sughi l’aguasso
che vegna su altro vento dal mar
o spetar - l’alba coa forca
(Quando la luna annega nel suo alone di fumo, sappiamo tutti che pioverà sopra i campi di Ottava presa,
sulle fatiche nostre e dell’inverno. E per le sorti della terra e del fieno si può anche non dormire la notte,
per portare dentro i rimorchi, per sperare che si asciughi l’umidità, che salga altro vento dal mare, o
aspettare l’alba con la forca)
*
Drio el punèr ghe xe ancora
el seghèr vecio
el ga el tronco ormai consumà
e i dixe de tajarlo
tagliatelo - dicono
perché non sanno
quanto miele c’era dentro
có jero un putèl
e no’ gavevo corajo
de ’ndar vissìn
dove le api lasciavano
il cuore dolce dei fiori
i fiori de l’àrxene
E vederlo cussì - ch’el trema
al minimo sofio de vento
ch’el se ostina a far foje sensa paura
me vergogno
de a so voja de crésser
fin ch’el ciel lo pol baxar
e con grazia amorosa lo bacia
grassia che ghe piaxe tanto
(Dietro al pollaio c’è ancora il vecchio salice, ha il tronco ormai consumato e dicono di tagliarlo, tagliatelo,
dicono, perché non sanno quanto miele c’era dentro, quando ero un bambino e non avevo il coraggio di
andare vicino, dove le api lasciavano il cuore dolce dei fiori, i fiori dell’argine. E a vederlo così, che trema
al minimo soffio di vento, che si ostina a fare foglie senza paura, mi vergogno della sua voglia di crescere
finché il cielo lo può baciare, e con grazia amorosa lo bacia, grazia che gli piace tanto)
[da Mamagnese me mama]
229
*
L’omo cokàl
Xe un pescador
quel che rema ne l’aqua
o un omo perso
che non trova a so riva
Ga bisogno l’omo
de un toco de tera
de un angolo duro
dove riussìr a dormir
Co’ i pensieri forti
ch’el ga da spacàr
l’aqua invesse lo lava
e lo torna a cular
Pescar un pesse - do pessi
par rubargli la vita
Meglio remare
e non far cativerie
Ghe ne xe tante
fin trope
in giro pal mondo
de vite che se strossa
par non riussìr de restar
in pie - in piedi
su uno zoccolo duro
Lascia l’acqua
l’incontinenza che sborda
e impara a seguire
la terra che sale
È vertigine
che osigena el sangue
xe fadiga
che juta a capìr
E se capisse el ben
in un abbraccio de carne
e pelle calda
che odora di nido
Coperte
prendi coperte
e rametti
che tengono insieme
e lenzuola
come fossero paglia
e piume
staccate
sottratte in silenzio
ai voli - ai giochi nell’acqua
E resti - accarezzi
sei tu che accarezzi
e senti che cresce
un caldo
di sotto le ali
E rompe - ti spacca
la testa in frantumi
di gusci - di becchi
che sbucano fuori
E nutri - ora puoi
le tue pagine chiare
con tuffi in picchiata
nel profondo del mare
230
*
Ogni bestia ga el teritorio
el suo - che ghe speta
ogni bestia conosse
i sapori che incontra
e vorìa anca mi
far più diferense
sentirle restar - e crésser
in maniera diversa
Ma siamo poveri
di naso e di cuore
chiusi in un canto
di poche vocali
E non è libero
l’omo che parla
o solo all’acqua
o solo al cielo
o solo all’erba del prato
*
Hai preso la pelle con i baci
e l’hai stesa al sole
con le lenzuola
larga e c’era caldo
da sollevarla in alto
Il vento più bello
viene da dentro
dalle ossa leggere
E cantano come può cantare
un cokàl che ciama
el pesse in riva al mar
Torna anca domàn
a farme sentir
a carne in subujo
Ho lacrime in fiore
che accolgono bene
e rendono piena
la mano che passa
e piovono - e sgionfano
de miel a to boca
come l’unica corsa
che ghe resta da far
*
Vedi fìo mio
no' xe co' i sassi
che se fa e bataje
Le battaglie si fanno
camminando
dritti per strada
formando un canto
o un siensio insieme
Impara a forsa
de chi a paura
non la mette da parte
E to paure xe tante
che par assarle da drìo
te devi traversarle
tute
caminando drito
drito intea strada
E to paure xe tante
231
che a tegnerle insieme
se fa un muro de sassi
gli stessi che vorresti
tirare per strada
chiamandoti eroe
Attraversa quel muro
di sassi in cemento
come edera attenta
a trovare le crepe
Insisti co' a radixa
che spacca el blocco
ed entra 'ntei sassi
invesse che tirarli
'ntel mucio dea guera
entra 'ntei sassi
e conóssete e man
conosciti le mani
nei sassi spaccati
conosci te stesso
di dentro la roccia
Parché no' se porta amor
faxendo finta de esser
ciari de dentro
e no' se trova paxe
tirando lontan
el nostro tormento
[da L’omo cokàl (l’uomo gabbiano)]
*
In Tèra
Ora che sei secco e ti fai terra nella terra
ora che ti perdi le pellicine dalle ossa
anch’io mi perdo fio mio anca mi vorìa
pèrderme con ti e mescolarmi alla terra
al mondo che si è preso il mio bene
E si prenda anche me - se ciapi anca mi fio mio el mondo
che non sei più intero
e non posso esserlo io - intera
Non voglio interezza in ’sto doór
E sono una perché sola
Non chiedo alla solitudine di abbracciarmi
e chiamo gli amici a farsi compagni
della mia vita che si va rompendo
Ma non si rompe - ancora non si rompe
E devo stare e avere coraggio
ma così no - non vojo aver el corano de star intera
Vorìa spaccarme e star con ti
in tera - nea tera
Lo smembramento è parola lunga
ma è così veloce nella vita
quando non è più vita
E io con la mia lentezza mi adeguo
ci provo - no per fortuna non riesco
per fortuna non mi adeguo
E il dolore si porta dentro
è come un amore fatto di pezzetti
è come un parto all’incontrario
e più passa il tempo
più si stringe e si fa piccolo
e si fa osso attorno all’osso
a Iris
232
ma non fortifica - toglie leggerezza
È così che va il mondo
ti spacca gli amori e ti lascia intera
Sensa sbreghi sensa segni - con tanta dignità
E mi ritrovo bella e dignitosa
in ’sto pèrderte fio mio
me trovo bella e dignitosa
ma non son mi - non sono io
Non ho bellezza per il lutto
voglio esserne indegna e non meritarlo
Nessun merito nessun conforto
Se il silenzio è preghiera io urlerò
Di fronte alla tua morte urlerò indegnamente
Per avere almeno la decenza della rabbia
Piccolo bene fio mio mio figlio mio bene
piccolo in tenera fragile spoglia piccolezza
Nudo ’ntea tera non posso vestirti
’ntea tera non posso più vestirti
Ora le tue pellicine tutte
stanno decomposte nella terra
Ora le tue ossa anche
stanno tutte nella terra
Ricomposte - e lo dico io
io che le ho composte
[da Pelle]
*
Siderea
Mi con l’arte incapace
de esprimere le altesse
piango de l’aqua che intride
la compatezza squadrata dié (1) case
piango de l’umidor che ciama (2)
el corpo al movimento
a la rotondità terrestre
e a la vision de i astri
come imperturbabile assioma
e certessa verticale
a la rotassion
e rivolussion che smove
i cardini del pensiero
in mia analogica sensassion
de le cose e de la vita
pongo la metamorfosi de l’ascolto
verso l’alto emisfero del creato
che sul me capo ruota
e lo porta a compimento
(1) delle
(2) chiama
*
Mia anema che respiri
tredici volte il ciclo delle lune
mia anema che versi
il mestruo a lo stridore
fecondo e a la tera
233
fammi lenta di lento respiro
che sia uguale al tempo
da non sentirlo
e stare ad arte
sopra l’indicativo
in ogni sua forma
e declinare la coscienza
seguendo de le stelle
la colta luminessensa
*
Che sento di non meritarlo
così presente così
incontrantemi
che sbasso i oci
e dopo li riverso
ampi e sventrabili
di corpo
consumabile
de corporatura ’ttenta
a la pietà
e al compatimento
E ntel compatir sento
che xe tanto l’amor
e costante s’irradia
dal vostro presente passato
che siete ora qui
parché ne prenda nutrimento
e non lo merito
mi che ora vardo e poi non più
che posso non mirar par lungo tempo
la perseverante vostra esplosion
al me giovamento
*
Ma non se merita l’amor
de le stelle
e de l’humana xente (3)
non se merita l’amor
de la madre adorante
e non se merita l’amor
del canto assordante
del padre
non se merita l’amor
né del figlio che ti porta a dormire
né dell’amato che rimane a sentire
(3) gente
*
Che non lo merito
l’amore e la cura
mi è cosa necessaria
mi è accaduto
che viene a ricadere
come a legarmi addosso
un filo
un desiderio
234
*
Mio stringimento del cuore
mia anema nuda
e stropicciata
e ciancicata
e tristemente avvolta
a un fardello
di poche cose
sempre le stesse
che non posso nominare
E torno a fare le mosse
de l’omo comune
ch’el vive comunque
lu el dixe de sì
e mi fatigo a creder cussì
ch’el cuor
sia manco largo de mi (4)
(4) E torno a fare le mosse / dell’uomo comune /
che vive comunque / dice di sì / e fatico a credere così /
che il cuore / sia meno largo di me.
[Da Sideralia (Le voci della luna, 2006)]
Notizia
Elio Talon è nato a Caorle (VE) nel 1970, vive a Bologna dove si è diplomato in Scultura all'Accademia di
Belle Arti. Segnalato ad “Iceberg ’96”, vincitore di “Iceberg ’98” per la sezione poesia, partecipa alla
Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo – Roma ’99. Sue poesie sono apparse su riviste
quali “Fernandel” (n. 22), “Il Vascello di Carta” (n. 2), “Le Voci della Luna” (n. 22 e n. 26/27), “Private”
(n. 8 e n. 22), “Versodove” (n. 3 e n. 6/7). Nel ’98 pubblica, insieme ad Andrea Trombini, la raccolta Atto
d’amore, curata da Marco Ribani per le edizioni La Volpe e l’Uva; seguono alcuni contributi a pubblicazioni
collettive; numerose le letture in pubblico. Del 2002 è la pubblicazione in Nodo sottile 3, antologia under
35 edita da Crocetti. Nel 2004 è presente in Opere d’Inchiostro, antologia edita da Rubbettino, per il
Comune di Torino, nonché in Il Cielo in uno Schermo, antologia edita da Fernandel per il concorso “Coop
for Words-2004”. Sempre nel 2004 è tra i fondatori di “Exzema – Associazione di Cinema e Cultura” con
cui ha realizzato il documentario Lame. La porta della Memoria (Bologna, 2004) in occasione del 60°
Anniversario della Battaglia di Porta Lame, per la regia di Danilo Caracciolo. Si occupa di didattica
dell’arte per bambini e collabora come cultore della materia con la Cattedra di Teoria della Percezione e
Psicologia della Forma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Alla ricerca poetica accompagna un’intensa
attività nelle arti plastiche, col nome d’arte Modegàl. Nel 2006 vince il Premio “R. Giorgi 2006” con la
raccolta Sideralia che sarà pubblicata dalle edizioni de Le voci della luna.
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