Flessibilità e sicurezza - banca dati Italia Lavoro

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Flessibilità e sicurezza: Il nuovo modello
dell’Europa sociale
di Ulrich Runggaldier (Università di scienze economiche Vienna – Austria)
1. A partire degli anni novanta si è affermata, in Europa, la consapevolezza della
necessità di rendere più flessibile il lavoro, ossia di adattare in maniera più
efficiente il lavoro alle esigenze del mercato. Infatti, la concorrenza da parte delle
imprese dei Paesi con costi del lavoro molto bassi e la c.d. globalissazione hanno
imposto alle imprese degli Stati membri dell’UE: l’eliminazione dei “tempi morti”,
una maggiore elasticità dell’impiego dei lavoratori con possibilità di superare i
tradizionali limiti massimi dell’orario di lavoro; la riduzione di personale
eccedente, causata dall’introduzione di nuovi macchinari e nuove tecniche; lo
spostamento o trasferimento dei lavoratori ad altre unità produttive operanti in
altre zone e altri contesti ambientali (anche in connessione con processi di
outsourcing).
2. Tuttavia, l’esigenza di rendere più flessibile l’impiego dei lavoratori, appena
descritto, venne a cozzare contro le norme inderogabili di tutela del lavoratore a
livello nazionale, in particolare contro le norme limitatrici della conclusione di
contratti a tempo determinato, contro le norme limitatrici del lavoro temporaneo
(ossia della somministrazione di lavoro), contro le norme riguardanti i
licenziamenti e l’adibizione a mansioni diverse e/o “inferiori”. Ciò diede adito ad un
dibattito tra economisti, giuristi e politici sulla via da battere per superare tale
“impasse”.
3. La soluzione dell’”impasse” fu cercata nell’attuazione e realizzazione del
principio della c.d. “flexsecurity” (in francese: flexicurité), ossia nella
combinazione della flessibilità da una parte e della sicurezza dall’altra (cfr i
contributi di Gautié, Gli economisti contro le tutele del mercato del lavoro: dalla
deregolazione alla flexicurité, in Diritto delle relazioni industriali 2005, 5ss; e di
Hanau, Gutachten zum 63. Deutschen Juristentag 2000, 12-15).
4. A livello comunitario si iniziò a battere la stessa strada mediante il varo di una
serie di Direttive riguardanti i c.d. “lavori atipici” (in particolare il lavoro a tempo
parziale, il lavoro a tempo determinato e il lavoro interinale, quest’ultimo tuttavia
solo in ordine ad alcuni aspetti). Principio base di tali direttive è la “flexsecurity”:
da un lato, le varianti del lavoro citato vengono definite come necessarie per
garantire maggiore adattabilità delle imprese alle esigenze del mercato, dall’altro
si prevedono norme di tutela dei lavoratori coinvolti in tali forme di lavoro atipico. Ad
esempio, la direttiva sul lavoro a tempo determinato prevede che il legislatore
nazionale debba impedire, con apposite norme, l’abuso del ricorso a contratti di
lavoro a termine mediante assunzioni successive della stessa persona. Quindi: sì
al ricorso al lavoro a termine, ma entro certi limiti che garantiscano “sicurezza”.
Certo, si può discutere se la “sicurezza” sia stata sufficientemente presa in
considerazione. Tuttavia è chiaro che il modello europeo si discosta da forme di
Flessibilità e sicurezza
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liberalizzazione e flessibilità selvagge. La flessibilità è infatti considerata
accettabile, se ed in quanto sia (pure) “sociale”, ossia tale da garantire un minimo
di “sicurezza”. La “sicurezza” riguarda, in particolare, la stabilità del posto di lavoro
(la tutela dei lavoratori contro licenziamenti non giustificati resta un pilastro del
modello sociale europeo), la prevedibilità dei tempi e delle forme d’impiego (il
datore di lavoro potrà, in caso di clausole flessibili o elastiche, modificare la
collocazione temporale dell’orario di lavoro, tuttavia solo con relativo preavviso).
5. A livello degli Stati membri si è proceduto a modificare il diritto del lavoro sulla
base delle direttive comunitarie citate nonché sulla base di politiche nazionali nel
senso della flexsecurity. Ricordo la legge tedesca sul lavoro a tempo parziale e
sul lavoro a tempo determinato (Teilzeit- und Befristungsgesetz del 21.12.2000) e
il decreto legislativo n. 276/2003 italiano.
6. Per ciò che riguarda i nuovi membri dell’UE non può escludersi che vi sia una
tendenza a preferire la c.d. flexibility a scapito della security. Tuttavia,
l’accettazione dell’acguis communautaire da parte dei nuovi Stati membri
comporta l’obbligo di tali stati di implementare le direttive osservando le tutele
minime di “sicurezza”, di cui alle stesse direttive. Sarà compito sia della “vecchia”
Europa, sia della “nuova” Europa di sviluppare il modello della “flexsecurity”
impedendo agli attori di cedere alle lusinghe dei sostenitori della sola flessibilità
come unica via verso il progresso e il benessere dei popoli d’Europa.
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