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MARCO CIPOLLINI
CARMI PROFANI
Postfazione di Sergio Spadaro
2 INDICE
Degli ultimi grandi eventi
4
Idillio di San Benedetto
15
La vita anteriore
21
Stigmate
36
Soggiorno all’isola delle capre
42
Paderdes rimmonim
63
Gli ultimi fatti di Ulisse
69
Meditazione su una morte innominata
84
La grande metamorfosi
95
Le stigmate formali di Cipollini (di Sergio Spadaro)
3 114
DEGLI ULTIMI GRANDI EVENTI
RIMASUGLI
Hic amor, haec patria est…
Eneide IV, 347
4 SFOLLAMENTO è il poema dell’infanzia,
dal quale, nostra sorte, fummo esclusi;
ma toccò l’ascoltarlo, a noi e non altri
dopo di noi: si spenge ogni leggenda,
con noi avrà fine questa... Che diremo?
Sempre di meno... finché non sarà,
la tribù con la tremula sua gloria,
che un vecchio accartocciato, cui nessuno
presta orecchio nei discorsi di cena...
Por, tra chi vive, del fiume di storie
non scorrerà più un rivolo di fiato.
Ma aleggiavano d’aglio i grandi fatti
che l'aedo di turno risbraciava
strusciando i piedi a veglia, ai giorni in cui
col languoroso flauto di sirena
dolceimpigliata ci immergeva in bionde
profuse voluttà di fumo e alcool
Rita Hayworth, la dea dei vincitori...
dalle ascelle, ombra odore di peccato,
candida la sua carne inattingibile
più adorata ondulava a ogni ventata
sugli schermi topposi... Coppi e Bartali
nostri eroi pane e cacio, lei la dea,
e il volto tutto sguardi e desiderio,
il meridiano mare delle chiome,
stillava miele sulle occhiute insonnie...
***
5 In fondo ai buii cunicoli del tempo
muovi le labbra, o Musa, se ti è caro
chi arrughito, vegliando qui a riudire
del fanciullo che fu, stenta a filarti
questo bandolo o un altro... “Angiolo anemico,
ripìgliati i geloni e il cuor di latte
di quei lupeschi e cheti inverni ch’era
la festa dei giganti sbaraccata,
ridotto il mondo a un torsolo di giorni...”
Troppo stanco è oramai... Quasi per caso
cada a lui dal tuo nido e rechi il fiato
qualche piumata parola, che un poco
dire “io” ancora possa, e soffregata
la polverosa mente, apparir quando
rigovernati i già lucidi piatti,
sulle seggiole tutti inchioccioliti
a sbucciare ballotte al buon vampore
di una zoppas – vent’anni dopo, l’ossea
sua carcassa in cantina, serrai gli occhi bruna quiete impastata ruminando,
“io vidi” rovesciava rospi e stelle
su di me a bocca aperta, ne grondavo
come un fauno muschioso di fontana...
Riparlami di quando il mondo c’era
ma noi non c’eravamo, non per noi
giorno ed oscurità veniva in terra...
Sia il tuo murmure un cerino che sfrigola
nel cavernoso oblio... larve fosforee
guizzino nella notte della mente
come da tombe pregne di sospiri,
da un sonno screpolato fiacchi gemiti
in quei capanni fradici o nei buchi
dei poggi che a una vita verminosa
6 Fa’ che le cose evaporate ormai,
se ancor le infiala qualche stenta sillaba,
riaffiorino in un fragile bagliore
di reliquia, fosse pure l’odore
doloroso del fieno che esalava
Io zodiaco dei grilli, la inchiodata
solidità lassù del grande nulla...
la Luna obesa e pallida... la pioggia
di zanzare che agheggiava sul viso
e il radente fruscìo dei topi alati…
o in attenta paura, nei canneti,
lo sciaguatto del luccio o della serpe
lumicosa, demoniaci riflessi
via ad un segno di croce repentino...
Quelle notti d’estate enormi e afose
sul Padule spossato, che il bengala
sagomava orizzonti a gobbe e inferni,
ed erano laggiù vaticinate
fioriture di fuoco dagli aerei,
da cannoni sperduti preludeva
madreperla di lampi a tuoni morbidi
in quel cielo che d’albìa nevistiosa
ferì il mio primo pianto, e un dì ricucia
questi cigli, io ne prego, a un’altra luce...
Così nel tempo avanti il nostro tempo,
cieca lentezza di tosse e pidocchi
notte e poi notte passava... l’esistere,
esausta a fior dell’erbe ala agitate,
vastamente passava ombra sul mondo,
sullo scompìglio di formiche umane...
Finché, sbadigliando il fango dei sogni,
un cielo di fessure stenebrava,
tra uno sbiadito intirizzire, il giorno...
7 Distinguo fra filamentose ombre
nonna Ecuba, nonno Priamo là al foco,
favoleggiando in cerchio la famiglia,
in una Troia maceriosa e viva,
“io vidi... e vidi...” Fu questo il cantare,
metronomo minestre risucchiate
a lume spento, un biascicare eterno,
la musica dei morti in mezzo a noi...
Ade? Eden? Era il loro crepuscolo
l’alba di me ove il cuore, nel fruscìo
de’ fiati, dubitoso andava... a quando
i Tedeschi dun! dun! passi chiodati,
i maschi rificcati in qualche buio,
“òmini Arbeit!” gli M.P.38
canneggiavano cavi occhi di squalo:
frignavan mogli e madri “fame! fame!” ,
le figliole trecciute, moccolose,
come senza violini, in un provino,
sguaiate annemagnani. Anima mia
tra poco in uno di quei grembi urlanti
per noi si aprì il cencioso paradiso.
***
E un giorno si scoprì dal vecchio Beppe,
quindici anni il nipote sotto il letto,
il comodino siepe di boccette,
che a tre suoni sbianchivano i Tedeschi,
e fu di bocca in bocca abracadabra:
“Ti Bi Ci! Ti Bi Ci” A una fiatata
rotolavan le scale! Non la farsa
mescevi al tuo poema... Nel lettuccio,
8 tuo eremo acciaccato, occulte vigne
strizzavi con i cigli, finché si
spalancava assolata piana d’Ilio:
la risacca di ferri e d’ossa, dove,
accorsa sulle mura (sul terrazzo),
mamma Andromaca un dì le ventò in viso
passare oltre la polvere, cantando,
gli emblemi dei grandi barbari biondi...
***
E un giorno la polenta, a chicco a chicco
racimolata, dal paiolo a Ecuba
splasciò dorata in terra tra urli e pianti.
E diaccia, esagerata, fu raschiata
dal suggello di rosse mattonelle.
***
Fu in pochi giorni: come topi, tutti.
Qualche vecchio, in paese. Case cieche.
***
E cascò Fosca urlando, era in camicia
da notte, tra le bombe... E il resto? Appena
di lei resiste sull’oceano Niente
questa filigranata foglia secca...
***
Oh anni anni striminziti e immensi
che al cucciolo, annicchiato allo scaldino
fra la cispa degli occhi blu sgorgava
9 una fredda lucenza di fontane,
a nomi e nomi incantato, di quanti
errando Libie o Russie, o tra i canneti
di Padule o d’Arno, simili a nebbia
salivan senza alito da qualche
erebo in lui, con mormorii di tenebre
Vita li richiamava... e di sua vita
ansimavano avidi!... A esiliarli
a lui bastava suggere coi cigli
dai rami pomiciati un fioco oro
che aurorava di vergini orizzonti
l’ammaccata panòplia là sul muro...
Ma dei vecchi, a occhi spenti, eran le rughe
abissi che esalavano crepuscolo...
Eppur Benito, arma virumque, in petto
tatuato martellava: alte sui solchi
priamèi, oscillavano le grigie stoppie
a un rotto di sospiri... “Non la guerra
franata ci tolse l’onore, sappi,
ma solo un punto fu quel che ci vinse,
ché la rocca gelosa tutta aprimmo
a un cavallino a dondolo... The end,”
sgranava il patriarca rade zanne,
“non fu la guglia di maledizioni
tra scrosci di fiamme: ma una risata!”
***
...Come una notte, uno stellio d’estate,
cannonate remote, i poggi pani
di pece ai lampi soffici, ed un uomo,
rimbalzò voce, e più da cresta a cresta
tra un abbaiar qua e là dei casolari,
“sono già a Pontedera!” urli piccini
10 - era un vecchio, sleprato in bicicletta,
fisarmonica d’asma - e che i Tedeschi
col fuggire fuggivan della luce...
E a ognuno udire, di là dal Padule
crostoso e vuoto, oltre i canneti secchi,
prima uno poi tutti, udire parve
come un non mai interrotto sgretolio,
martoriato da grilli e rospi, immane
parve, auscultando, strisciare il Destino,
la interminabile coda del drago
sferragliare nel buio alla sua tana...
E fu grido: da stalle, da cantine
“ a casa! a casa!”, da’ capanni, tutto
ribollir di carretti e biciclette,
di pentole, un frignare di coperte,
“ a casa! a casa!”, è un rotolare allegro
giù per i colli, va torna col vento
un presepe di suoni, di non sai
se lucciole o lumini adagio errare...
Ci si ritrova per le valli al piano...
di qua, di 1à, è un pigolio di passi,
di vocine vicine, e scintillare
di sguardi amici, e abbracci: “ a casa! a casa!”
Come una festa fioca e sconfinata,
fu una notte di ciechi echi, richiami
in una vastità di grilli e stelle,
e tramestio e sbadigli... E nella bruna
brezza degli orizzonti tremolanti,
nel cerchio di vapori ove distante
s’ingobbiva un fantasma di paese,
entrarono... Da un sonno lacrimoso
parevano, a guardarle, memorarsi
le cose intorno... Poi, verso Firenze,
un lagore di perla inestinguibile,
11 a poco a poco zaffìro freschissimo
farsi i deserti sulla testa, tutte
soffiate via le stelle, e un gran si spanse
ventaglio “oh!” d’arancio... E lì, in un mucchio,
le quinte di mattoni sgangherate
di un borgo del Valdarno, era l’estate
millennovecentoquarantaquattro,
un galleggiare, in exitu Israel,
di visi vivi e guasti, e umidi lampi
di ricordi là a tanta azzurrità
dove fu la persiana fu il balcone...
La vita, a pezzi, che n’è della vita?
Ma presto, presto a nozze il campanile
inonderà di bronzea gioia il cielo...
e ancora avrà gerani il davanzale,
la sposina in vestaglia per la rosea
chiarità delle stanze canterà
con voce più sbocciata la domenica,
fioriranno finestre spalancate!...
Così, volando per gli squarci i passeri,
tra case rotte tetti usci sfondati
tacite si aggiravano comparse...
E un incredulo tutte frustò facce
crocidare di cingoli... “Ritornano?!”
Nel grave di macerie gran silenzio
spuntò il cannone, di un giammai veduto
pachiderma e avanzava, sgretolando
le vecchie lastre della vecchia Europa...
***
“Io ti dirò come crollò il Ventennio,”
Priamo rizzava il suo artiglio di scricciolo,
d’aspra luce i suoi occhi più arrughivano,
12 “sappilo, bimbo, non fu con lo scempio
matto e bestiale a piazzale Loreto:
carcassa e menzogna in noi penzolante
già quell’ora di stridi e sole e rondini.
Svanì perché il carrista, di carbone,
s’eran visti così nel buio del cine,
dalla cintola in su sgusciò com’ernia
sudando pece, e nel girarsi attorno
con occhi infulminati e labbri gonfi,
alta su noi scoppiò la sua risata,
lampo d’avorio. Poi cavò dal mostro
una lattina, e pff ! pisciò gran birra
a noi ebeti sotto, steccoluti,
sgrondarci in capo, e se la tracannò.
S’era vivi. Si prese a rider tutti
sbiaditi e vuoti, a pianger, batter mani,
e diluviò un evviva. Altre lattine,
chocolate buttava, lui, il centauro
metà gigante metà cingolato,
cento mani crestate ad arraffare,
lui buttava colori, la risata
raggiava dal muso di toro nero:
marciasurromaimpero e un morso d’anima
si sputò via, pentiti finalmente
libertà, libertà ci battezzò,
su noi amarognola una stummia d’oro...”
***
IL PRIMO APPUNTO
Ettore mai morì sotto le mura.
La rocca, bruciacchiata, restò in piedi:
arrivarono i nostri. E Troia risorse.
13 Poi le foto, i turisti… Morti i vecchi,
tutto ci si scordò. Nessun Omero.
14 IDILLIO DI SAN BENEDETTO
Prendi il tuo latte, anima mia…
C. E. Gadda
15 16 Quattro banchi, è mercato nel borgo,
la fontana, frullare piccioni
sulle vie del mattino deserte...
Nel vicolo in ombra - una striscia
di sole scivola in gronda s’ affaccia un’anziana in grembiule,
“bongiorno, “ al vicino sull’uscio,
“siamo for dell’inverno, sor Ezio?”
“Oh bongiorno sor’Anna, parrebbe.”
Passa Pietro il lattaio, ha le stagne,
bussa qui, di 1à passa e bussa:
da porta a porta alla cantilena
vanno e vengon d’incanto i pentolini...
Ma chi piange lassù dai gerani
su quel davanzale a bacìo?
È un nodo di voci bambine
che striga (sgridando, blandendo)
Marietta, sorella e un po’ mamma:
“smettetela, il latte è sul foco!
Silenzio!” Fa un gesto. In ciabatte
- sente aprire bottega - esce svelta,
lascia 1ì i fratellini, le scale
svelta scende nei vicolo vizzo,
ed a Gino, che ieri non venne,
fa roca: “va’, tanto ci ò un altro!”
“Sì, fanno la fila,” sbadiglia
lì che apre i battenti, di spalle.
Dai gerani già strillano tutti
- lui fischietta tra tavole e trucioli “ trabocca!” gridano, e lei
17 si volta, i begli occhi induriti,
e: “scuorato, potessi partire,”
le affonda la voce in singhiozzo
“un briciolo quel che patisco...”
D’un fiato risale, va al foco
che tutto è una bianca parrucca
e trema nel fare le parti,
trema e versa fra strilli, vorrebbe
- Paolino s’è messo a frignare vorrebbe piangere ecco...
Ma dalla finestra – l’accende
un raggio di sguìncio e arrubina vaporano lente e leggere,
tra colpi attente d’arnesi,
parole di quella romanza,
“signora, crudele non siate,
v’imploro, v’imploro perdon...”
Lei tutta un respiro si schiara,
“sbrigatevi, oggi è mercato,”
il groppo (sospira) è gorghéggio,
“se state buoni e la tazza
bevete d’un fiato, vi porto
tre fichi secchi a ciascuno!”
E già il grembiule si slaccia,
“voi quando apparite, signora,
s’illumina a festa la chiesa,”
ravvia lo scialletto, i capelli,
e un guizzo di canto le smuore
in gola che madida trema,
cangiante colomba, cantare
cantare vorrebbe e non può
per troppa dolcezza di cuore...
18 Sbrigatevi, occhioni sul latte,
sbrigatevi: il tempo per voi
sarà quel che è, primavera,
oggi e per sempre così
per voi racchiusi in parole...
Sbrigatevi... oh nulla perdete,
l’ora che fugge ritorna,
ritornerà fino a che
rifioriranno parole,
rifiorirà primavera!
E tu, mentre d’oro è la voce
da quella finestra di gronda,
férmati, o tempo, che limpida
sempre zampilli nel cuore...
Férmati là su quel tetto
topposo di muschi e licheni,
fin dove si vede la chiesa
scrostata e serena e la torre,
férmati, o tempo, anche là
fra le campane annerite,
fra i platani chiari del poggio,
al fonte di marmo corroso:
il getto stia lì qualche istante,
cristallo vivo in eterno,
e farsi di gemma il silenzio
degli incredibili abissi
oggi che arrivan le rondini!
Lo so che allo stridere azzurro
Anna Pietro il sor Ezio Marietta,
per la via alla finestra nell’orto,
alzan tutti la testa all’istante:
di chi al cornicione quest’anno?
Férmati, e fa’ che i gerani
sian fiamma alla mensola amata:
19 fanciulli fummo e il buon latte
tutto godemmo d’un fiato,
tutto, e la tazza lustrava...
L’ora che fugge e fu bella
ritornerà a primavera
solo che udremo, passando,
da una finestra cantare...
Anche per noi china voce
com’ala dagli alti cieli,
“sbrigatevi, cari,” fu dolce,
“bevetelo e ben crescerete,”
sorriso dei limpidi giorni!...
Ché ben visse chi in cuore gli visse,
bisbìglio eterno, la voce
che il tempo né appanna o scalfisce,
che i passi poi guida nel lento
crepuscolo, passi dubbiosi,
piano e incrollabile dice:
“ alla sera che scende non credere,
è un soffio d’ombre, o immortale.”
***
E nel vicolo scese Marietta,
in cuore un azzurro di rondini,
la mimosa dal muro dell’orto
spandeva un sussurro dorato,
nel vento odoravano
gli ultimi fiori...
20 LE STIGMATE FORMALI DI CIPOLLINI
Postfazione di Sergio Spadaro
114
In questa raccolta di Carmi di Marco cipollini, la qualificazione
di profani sottintende una “sacertà” a contrario che va riferita ad altre
sue opere edite (come una cristologica Passione in 1911 endecasillabi, del 1991) ed inedite (come una “sacra rappresentazione” in
tetrametri, dal titolo La nascita eterna). Profani, dunque, perché argomento di essi sono - o dovrebbero essere - i fatti dell’esistenza
comune e quotidiana, come i ricordi d’infanzia dei primi due Carmi
o la conscientia mortis degli ultimi due (indotta però dai riferimenti
reali in Meditazione e dall’immaginazione in Metamorfosi); ma profani,
anche, perché tali fatti passano attraverso il filtro mitopoietico
della cultura “pagana, (come nei riferimenti degli episodi de La vita
anteriore) o perché di essa assumono direttamente gli “apologhi”
narrativi (come il ratto di Europa da parte di Zeus in Stigmate, o il
canovaccio memoriale dell’Odissea omerica ne Gli ultimi fatti di
Ulisse).
O dovrebbero essere, dicevamo: ché poi le cose si complicano e
interviene il filtro mitopoietico dell’area biblico-ebraica (come in
Pardes rimmonim, che è il giardino dei melograni, il paradisus voluptatis
del Cantico dei cantici, filtrato attraverso Ceronetti), talvolta persino
inaspettatamente (come in Stigmate, non soltanto per il titolo richiamante il “segno” della passione di Cristo caro all’esperienza
mistica dei santi e qui forse allusivo di quella poetica non meno
“marchiante a sangue”, ma anche per l’epigrafe biblica che subito
dopo segue e che, ricollegando allegoricamente all’autore gli stessi
ratto e possessione della vergine poi descritti nel testo, ci induce a
ritenere che per il poeta - flaubertianamente – il senso ultimo del
carme è in definitiva “Europe c’est moi”). Gli è in effetti che paganesimo e cattolicesimo in Cipollini sono infibrati tra loro. Eros e religione sono le due parti simmetriche di un’unica faccia: due occhi
ma un solo sguardo. Storicamente il nostro eros è pagano, la nostra
religione è cattolica: anche se a volte certe mescolanze possono far
stirare le labbra. Ma è dai contrasti che i rispettivi sapori si esaltano; e poi la poesia è uno smarrimento istantaneo della legge di
gravità della ragione.
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Torneremo su questa compresenza degli opposti e sul poetico
smarrimento, che da istantaneo può correre il rischio di diventare
permanente e perdere così di poeticità. Intanto giova precisare che
l’ordinamento dei poemetti, nella raccolta, segue un ordine, per
così dire, biografico: dall’infanzia alla maturità e alla morte, almeno
quest’ultima nel senso di immaginaria anticipazione quale cosmico
processo di molecolare metamorfosi dell’ultimo poemetto (relativamente al quale confessa l’autore: “Il primo getto nacque da una
esperienza curiosa: mentre dal barbiere venivo via via preso da
quella semipnosi dovuta alla stagione e alla postura, e ascoltando
alla radio un arrangiamento, mi parve di colpo che le braccia si allungassero come binari in fuga e i peli ne diventassero erba al vento. Il segreto morale della poesia è il saper covare un lampo per anni
e anni”).
I nove Carmi della raccolta (sei dei quali sono apparsi sulla rivista “Erba d’Arno”, tra il 1980 e il 1991) tendono infatti al paradigma, cioè a una circolarità, più che narrativa, mitico-rappresentativa. Sono insomma le metope della Vita (non gli episodi di una vita),
a partire dalla sua esistenza prenatale (i fatti bellici degli Ultimi
grandi eventi, narratigli poi nella prima infanzia) fino alla non-conclusione (La grande metamorfosi). Si passa così dall’età “eroica” del
primo poemetto (ma senza rispecchiamento epico: nessun Omero) al
cerchio di mattoni e di facce dell’Idillio, dove la memoria fanciullesca del paese natale - in verità, felix - si contrappone a quella straziata di C.E.Gadda, richiamato attraverso la citazione di Dalle specchiere dei laghi apposta in epigrafe. Con La vita anteriore (titolo ripreso
da Baudelaire, al pari - ci sembra – della stessa ispirazione di
fondo: C’est là que j’ai vécu dans les voluptés calmes / [...] et dont l’unique
soin était d’approfondir / le secret douloureux qui me faisait languir...; sicché
l’epigrafe della Dickinson resta a nostro avviso di secondaria importanza) si passa dall’età eroica a quella erotica, attraverso una reale iniziazione. Non c’è più l’adesione immediata al mondo mitico
greco (come negli Eventi), ma esso è vissuto piuttosto come citazione. Dunque più mitologia che mito: il giovanissimo protagonista è già in fase letteraria...
Della “possessione” di Stigmate abbiamo detto prima: sotto l’aspetto paradigmatico vale aggiungere che si è nella fase d’incontro
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con la Musa: la prima giovinezza, vicino al mezzodì della giornata
terrena. Il Soggiorno all’isola delle capre (nella specie la mediterranea
Elba) ripercorre attraverso una giornata estiva, lo stesso arco del
libro: la lunga giornata esistenziale, in cui il mare luminoso è come tutti i veri simboli - bagliore ora di vita ora di morte. Non
amore e morte, bensì amore anche dopo la morte nel Pardes rimmonim (così almeno, press’a poco, le epigrafi; la forma imita quella
concertante di lento-allegro-adagio e i “tempi” relativi - come si
desumeva dalla pubblicazione in rivista - potrebbero intitolarsi: I.
Domus tui cordis; II. Ricordo del vecchio vicolo degli studenti; III. Al futuro a
noi ignoto), in cui si preannuncia il declino; anche qui le varie “stazioni” prefigurano quelle esistenziali: il periodo giovanile, la pienezza matrimoniale, il ricongiungimento nell’aldilà.
Il verso lungo, dal ritmo ricorrente e ondoso, contrassegna Gli
ultimi fatti di Ulisse e, nella sua rivisitazione memoriale dell’Odissea
(come abbiamo detto prima), sottolinea quanto c’è di ruvido e di
arcaico, congruente allo spirito della vicenda. Infine, se nella Meditazione l’aspetto autobiografico e “reale” è maggiormente evidente,
ché la morte è vista dal fuori, vi si assiste, ne La grande metamorfosi
essa è partecipata dal di dentro: come se il film della vita scorresse
velocissimo, però con improvvise dilatazioni e riflussi memoriali.
Se il paradigma dell’esistenza umana ci dà la chiave di lettura della
raccolta, dobbiamo ricorrere ad altri parametri per qualificare
l’orizzonte scrittorio in cui Cipollini si colloca. Come abbiamo visto, sia gli apporti del mito greco sia di quello ebraico-cristiano
sono compresenti ed anzi volutamente accostati affinché, dal contrasto, scaturiscano ossimoriche scintille poetiche: infatti, quello
che conta, è richiamare l’intera tradizione letteraria che ci sta alle
spalle, per poterla inverare e innovare - nella trattazione in re - attraverso il concreto atto linguistico ed espressivo, il concreto ductus
formale che contrassegna - come un marchio o, appunto, delle
stigmate - la nostra scrittura e la nostra personalità. È quest’eterno
spirito di “variazione sul tema” che ci consente anzi di affermare
noi stessi varietur ut sit. Qualunque apporto contenutistico, qualunque suggerimento letterario, possono così essere accolti dalla vorace ricettività di un temperamento come quello di Cipollini, che di
sé afferma: “Preferisco sbagliare per eccesso che per difetto. Mi re-
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golo nella forma, non nei contenuti: ove sono senza ritegno”.
Dunque è la forma alla fin fine a contare: quanto più è connotata
espressivamente, tanto più essa ci appartiene come nostra e ci
contrassegna individualmente. In questa direzione bisogna allora
ripudiare ogni facile denotazione comunicativa, del modo per così
dire immediatamente “naturale” (un verso dice proprio: “non
par1o come i tempi, mi si accetti”); non ha importanza che il lettore possa a volte restare interdetto, dato che non è il livello popolare e “volgare” della scrittura a contare (odi profanum vulgus, diceva già Orazio); dev’essere anzi egli a “collaborare” con l’autore,sottoponendosi innanzi tutto alla fatica che a volte la lettura può
comportare. A parte poi che l’atteggiamento di fondo resta quello
di deprivare di ogni sostanza “naturalistica” i fatti della vita di
relazione; abolendo il piano storico, vale solo la “quintessenza” dei
fatti che residua sul piano della fabula. Questo atteggiamento
mitopoietico resta, così, affine al sogno, i cui fili si inseguono
all’infinito nella rappresentazione che si va a costruire. Né conta la
verosimiglianza o la rispondenza con gli elementi della “realtà”
oggettiva e naturale: quello che importa è lo statuto d’interno trasognamento che, se sfugge alle leggi di gravità della ragione e si
avvicina a volte a un vero e proprio stato di trance, è in se stesso”
reale” e “oggettivo” quanto una pietra.
Come altra volta abbiamo avuto occasione di dire, per la scrittura di Cipollini si può ricorrere alla nozione di Manierismo (nel
senso già indicato da E.R.Curtius), in cui ha prevalenza l’ornatus.
Non è questa la sede per un riscontro testuale della “forma” dei
Carmi. Tra i vari accorgimenti retorico-formali adoperati, ci limitiamo a indicare i più ricorrenti e caratteristici: 1) costruzione paratattica delle frasi, collegate tra loro attraverso i puntini sospensivi;
2) enàllage (scambio funzionale) dai modi finiti per uno dei modi
indefiniti del verbo: in particolare a favore dell’infinito storico; 3)
impiego esuberante dell’iperbato e della perifrasi; 4) impiego costante di allitterazioni, paronomàsie, rime interne, ripetizioni di uno
o più membri in tutti i modi e le varianti possibili: al fine di esaltare
- al pari dell’iperbato - la musicalità dei versi; 5 ) scelte lessicali rare
e difficili, o formanti inusitate parole composte (a volte anche a
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mezzo di trattino, secondo l’uso dei futuristi storici) o quasi-neologismi.
E poiché la caratterizzazione in senso manieristico di un’opera è
un fenomeno che affonda nella notte dei tempi e vale perciò per
tutto un filone ricorrente nella tradizione letteraria europea, si può
concludere affermando che l’“Europe c’est moi” di Cipollini non è
poi soltanto una battuta.
Marzo 1993
Sergio Spadaro
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