c_In605_R_88_93_racconto design - design antenna by laura traldi

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si afferma il desiderio da parte
di aziende e designer di narrare
il progetto. L’obiettivo è ridare fiducia
al pubblico, farlo diventare
partecipe del processo, fornirgli
gli strumenti per capire in cosa
consiste il vero valore di un oggetto.
di Laura Traldi
Il design
La sedia Autoprodotta di Enzo Mari per Artek
e alcuni frames del video mostrato alla Triennale
di Milano in occasione del lancio del prodotto
lo scorso aprile.
U
n signore di 78 anni è chino su
dei pezzi di legno, intento ad armeggiare con viti e
martello. In pochi minuti, costruisce una sedia su cui
si accomoda, soddisfatto. Ha certo di che sorridere
Enzo Mari, che nel 1973 concepì un’icona del design
democratico, la sedia Autoprogettata, da produrre in
pezzi e far assemblare a chi la compra. La finlandese
Artek ha infatti deciso di metterla in produzione,
presentandola al FuoriSalone lo scorso aprile in
Triennale con un filmato-performance interpretato
da Mari stesso. È innegabile che la proposta di Mari
(che in origine prevedeva indicazioni per realizzare
un’intera serie di arredi utilizzando solo legno
grezzo, viti e galletti, di fatto promuovendo il
concetto “dal designer al consumatore”), dopo la
diffusione globale del concetto di flat-pack a opera di
Ikea in primis, abbia una valenza meno
rivoluzionaria di quanto l’avesse un tempo. Eppure
la scelta di Artek colpisce, poiché è carica di
significati. L’azienda ha deciso infatti di mettersi
dalla parte del consumatore, di spiegare la nascita e
lo sviluppo di un prodotto, e di farlo utilizzando
un’icona del design come Enzo Mari. È questo un
segnale forte, da leggere come una meta tendenza (in
opposto a tanti trend estetici che lasciano il tempo
che trovano) che può potenzialmente trasformarsi in
si fa racconto
spartiacque tra tanta recente cultura del progetto e
l’immediato futuro. Quello di Artek non è infatti un
caso isolato. Da qualche tempo si respira nell’aria un
crescente desiderio da parte delle aziende e dei
designer di spiegare i propri progetti: non i soliti bla
bla su folgoranti fonti di ispirazione ma veri e propri
racconti del design in cui i personaggi principali si
sporcano le mani e si lambiccano il cervello per
risolvere i problemi reali della produzione.
Comunicare l’expertise che sta dietro un prodotto e il
knowhow che ha contribuito a realizzarlo, è
un’iniezione di realismo contro il potere mediatico
del design glitterato e stagionale, una risposta che dà
fiducia al pubblico, cui finalmente si forniscono gli
strumenti per giudicare il valore di un oggetto. È un
modo per combattere (pur senza dirlo apertamente)
l’annoso problema delle copie e della manifattura
low cost e di ribadire, con i fatti e non con le parole, il
primato della qualità.
Ci sono aziende che, per necessità, lo fanno da
sempre, come la svedese Hästens. Spiegare che per
realizzare il letto Vividus sono stati necessari due
anni di test sulle varie combinazioni di crine, cotone,
lino e lana; che le tecniche di falegnameria impiegate
sono quelle tradizionali svedesi riprese paro paro
dal 1850; e che ogni prodotto è realizzato in
La creazione della seduta NETwork 3D di Werner
Aisslinger, realizzata live durante la mostra Open
Process al FuoriSalone di Made in Berlin. È fatta
in tessuto ed è priva di struttura. Il designer
tedesco l’ha creata impregnando di resina
una rete progettata a computer e trasformata
in 3D da una particolare macchina da cucire.
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140-160 ore: tutto questo serve a Hästens per
dimostrare perché Vividus è un letto di lusso, con un
prezzo di conseguenza.
Ma oggi lo stesso approccio è seguito anche da
altri brand più alla portata di tutti. Come Borella
Design, un marchio che nasce nel cuore del distretto
automotive a Torino, e che fa della competenza
tecnica nella lavorazione di materiali come l’acciaio,
l’alluminio o il carbonio il proprio cavallo di
battaglia. Al Salone si è presentato con una
collezione realizzata da un team di designer (tra cui
Xavier Lust) capitanati dal direttore artistico Luisa
Bocchietto. È lei stessa a raccontare come, per
realizzare il suo contenitore Il Mago di Oz che funge
da porta-vasi per esterni o da braciere, siano stati
necessari due stampi in ghisa di oltre 100 quintali
per formare le lastre di alluminio poi rifinite a mano.
Come dire che il valore dell’oggetto sta in quello che
si vede ma anche nella qualità della tecnologia che
gli ha permesso di esistere. Stesso approccio per
Riflessivo, il nuovo marchio di Arte Veneziana, la
storica azienda che dal 1970 propone riproduzioni di
specchi veneziani del ’600 e ’700. Per lanciarlo, la
casa madre ha arruolato il giovanissimo Leo De
Carlo, reduce da un’esperienza con Philippe Starck,
che ha progettato una serie di mobili dal look
neo-rétro, realizzati facendo leva sull’expertise dei
maestri vetrai di Arte Veneziana. E sono loro i veri
‘eroi’ delle collezioni Age of Gold, GoodMood e Wise:
non a caso le immagini delle loro mani all’opera sui
pezzi (durante i processi di argentatura o
carteggiatura su bolo) fanno parte del patrimonio
comunicativo di Riflessivo.
Nel 1999, in The Experience Economy, Joseph
Pine e James Gilmore hanno spiegato al mondo che il
successo, nel futuro, non si sarebbe più costruito
solo sui beni primari, né sui prodotti o sui servizi,
ma sulle esperienze create dai brand per i
consumatori. Quello che sta accadendo nel mondo
del progetto, però, sembra indicare l’esatto opposto,
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Gli artigiani veneziani durante la lavorazione
degli arredi in vetro e legno progettati da Leo
De Carlo per il nuovo brand Riflessivo. Nell’ultima
immagine, il tavolo The Age of Gold, in legno d’acero
con inserti in specchio bronzo inciso a mano.
Nella pagina accanto, in alto, Il processo che porta
alla creazione degli Original Stool degli austriaci
Breaded Escalope: lo sgabello in acciaio viene
inserito in una palla sigillata in cui viene iniettato
il colore. Quando la palla viene manovrata (tramite
performance pubbliche) nell’acqua o sul terreno,
la vernice decora la superficie della seduta
in modo assolutamente casuale.
Nella pagina accanto, a lato, I designer
FormaFantasma all’opera nella creazione
delle loro ciotole Moulding Tradition. i due italiani
hanno fatto del processo creativo inteso
nella sua totalità e dell’artigianalità il marchio
di fabbrica delle loro produzioni.
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Dettagli della lavorazione de ‘Il Mago di Oz’ di Luisa
Bocchietto per Borella: gli stampi della produzione
e, qui sopra, il prodotto finito ancora in fabbrica.
Per realizzare questi porta-vasi per esterni
(anche fruibili come bracieri) sono stati necessari
due stampi in ghisa di oltre 100 quintali per formare
le lastre di alluminio poi rifinite a mano.
ossia un ritorno ai valori tradizionali del design
industriale e non, che si trasformano in una base su
cui costruire marchi che non promettono esperienze
glamour ma prodotti solidi, di qualità, nati per
durare. Sono tanti i casi di realtà industriale che per
decenni hanno prodotto per conto terzi e che oggi,
facendo leva su questo nuovo sentire, scendono in
campo. Succede ad esempio nel distretto di Udine,
dove Mattiazzi, che in 30 anni da ghost-producer si è
costruito una reputazione DOC nella lavorazione del
legno, dall’anno scorso ha deciso di fare anche da sé.
E di farlo con l’intelligenza di chi è tanto esperto in
un settore da capire di non esserlo in un altro: cioè
reclutando talenti esterni per la direzione creativa
(Florian Lambl) e per il design (Studio Nitzan Cohen
e il duo Sam Hecht/Kim Colin di Industrial Facility).
Potrebbe essere la nascita di un nuovo
paradigma della cultura del progetto: mentre
tramonta (anche per mancanza di iniezione di
‘sangue giovane’) la realtà del piccolo artigianato
locale che funge da supporto alle aziende
permettendo loro la produzione di piccole serie
altamente diversificate, ne nasce in parallelo
un’altra. Ne parla Marco Bettiol, ricercatore
all’Università di Padova e alla Venice International
University, in occasione del lancio dell’iniziativa
AAA Cercasi Nuovo Artigiano, iniziata con un
workshop lo scorso luglio (a cui hanno preso parte
vari artigiani del vicentino e designer capitanati da
Martino Gamper) e culminata l’11 e il 12 settembre
scorsi in una mostra al Festival dell’Artigianato di
Vicenza: “abbiamo bisogno di un nuovo artigiano,
che non si sostituisca più all’industria nell’attività di
produzione, ma che diventi parte attiva nelle fasi di
creazione e di innovazione del prodotto, capace di
dialogare con il mondo della creatività e con le
richieste e della produzione industriale”. L’auspicio è
dunque quello del ritorno in azienda della capacità
del fare, in contrapposizione al fenomeno della
globalizzazione che molto spesso attribuisce il ruolo
di protagonista a chi ha solamente appiccicato un
logo su un prodotto già finito da un altro.
Nella pagina accanto: Un dettaglio e alcune fasi
della realizzazione della sedia Branca di Sam Hecht
e Kim Colin di Industrial Facility per Mattiazzi.
Una struttura apparentemente semplice in cui
è la gamba posteriore (realizzata in un singolo
pezzo di legno prodotto da un robot) a sostenere
i giunti di seduta, schienale e bracciolo.
La lavorazione del letto Vividus di Hästens:
dopo due anni di test sulle varie combinazioni
di crine, cotone, lino e lana, gli artigiani
dell’azienda svedese hanno finalmente
realizzato il prodotto, utilizzando tecniche
di falegnameria tradizionali pre-industriali
e impiegando, per ogni letto, un periodo
di lavoro compreso tra le 140 e le 160 ore.