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www.gliamicidellamusica.net Pubblicato il 03 Ottobre 2012 Libri con musica, una cronaca di Nikolai Lieskov I preti di Stàrgorod Sergio Stancanelli Acquistato tramite mia moglie Maraki nella libreria Cappelli in corso Italia a Trieste l’8 settembre 1962, letto dalla mamma dei miei figli veronesi Angela nel 1972, è soggiaciuto alla lettura da parte di chi scrive, terminata oggi 8 settembre 2012, a partire dal 21 maggio scorso, questo libro di 352 pagine edito da Rizzoli l’agosto 1962 nella sua Biblioteca universale. Autore Nikolai Semiònovich Lieskov, nato nel governatorato Oriòl nel febbraio 1831 e morto in Sankt- Peterburg nel febbraio di sessantaquattro anni dopo, scrittore di numerosi romanzi e racconti, oggi dimenticato e ignorato (non ne ho trovato il nome su alcuna enciclopedia letteraria, incluso il “Dizionario degli autori” Bompiani), questo romanzo, sottotitolato esplicativamente “Cronaca”, descrive realisticamente la strana vita di esponenti del clero nella provincia russa. Personaggi stravaganti, quanto di meno convenzionale si riesca ad immaginare, misti di eroismo e di comicità in un ambiente grigio e consuetudinario, fanno della narrazione una vicenda bizzarra: originale però sino ad un certo punto, perché che i personaggi degli scrittori russi siano bizzarri è denominatore assai comune, basti citare Dostojevskij, Gogol, Gonciariov, Lermontov, Turgheniev. Lieskov ne rappresenta l’aspetto donchisciottesco. In effetti, dopo la lettura delle prime pagine, ero stato sul punto di abbandonarne la lettura, straniato da preti che collezionano ossa di morti, fanno a pugni col demonio nel cimitero, vogliono riformare il mondo ma muoiono per un raffreddore: e particolarmente per le semplicistiche argomentazioni a contestazione delle Scritture nella quarantaduesima pagina del racconto, seguite nella stessa pagina da considerazioni che ricordano la lettera di Romain Rolland a Lev Tolstoi dopo la lettura di “La Sonata a Kreutzer” ma confondono la cultura con l’intelligenza. Ho finito poi invece col proseguire, preso dalla tendenza dell’autore a rilevare gli accadimenti straordinari e fuori del comune più che i fatti importanti (era giornalista), dal suo spirito di osservazione, dal suo modo brillante e finemente umoristico di raccontare. Alcuni passi testimoniano la comunanza di proverbi, consuetudini e miti fra la Russia e l’occidente. «Il 1° d’aprile comincio a credere che sia davvero (altro refuso: devvero) un giorno subdolo». Il testo è tradotto, e introdotto con una “Nota” colta e preziosa, da Sergio Molinari: il quale però scrive Sole minuscolo - e poi minuscoli Terra e Luna (due volte) e Sole (tredici volte, fra l’altro quale divinità mitologica) nel corso del romanzo, dove tuttavia rarissimi sono i nomi comuni e gli aggettivi indebitamente scritti con l’iniziale maiuscola - , e impiega una preposizione inesistente, de; per contro scrive correttamente succub o, e s’affaccia alla musica ricordando gli antichi canti popolari russi “byline” celebranti gli eroi ingenui paladini della fede. Abbondante, nel lungo racconto, la musica. Già nella terza pagina abbiamo: «Il maestro del coro vescovile, di cui il diàcono era entrato a far parte, gli diceva: - Tu hai una voce di basso, una voce bella, sembra che spari il cannone - . La sua voce era molto apprezzata nel coro, per la sua capacità di arrivare alle note più alte e di scendere alla più bassa ottava. Aveva tendenza però ai rapimenti : durante i vespri non poteva limitarsi a cantare tre volte “Santo è il signore Dio nostro”, e lo cantava, da solo, una quarta volta, abbandonandosi all’èstasi. Soprattutto, non finiva mai a tempo il canto nelle preghiere di lunga vita. Ma in tutti questi casi, noti e prevedibili, contro i suoi rapimenti estatici venivano prese sagge precauzioni atte a proteggere da ogni infortunio non solo il diacono ma anche le sue autorità vocali: a qualcuno dei cantori adulti veniva dato incarico di tirarlo per le falde della veste o di spingerlo per le spalle al momento opportuno. Un giorno tuttavia fu dimostrato che non v’è salvezza per chi porta in se stesso il nemico. Cadeva una delle dodici maggiori festività dell’anno, e Achilla Desnìtzin – così si chiamava il diacono – doveva eseguire un inno eucaristico che conteneva un a solo complicatissimo sulle parole … e dal duolo ferito. L’importanza che il maestro e tutti i coristi attribuivano a questo a solo, destava in lui molta preoccupazione: agitatissimo, studiava accanitamente il modo di non far brutta figura e anzi di distinguersi di fronte a sua eccellenza, amante del canto, e a tutta l’aristocrazia della provincia, che si sarebbe riunita in chiesa. Aveva imparato il suo a solo in maniera superba. Non solamente di giorno ma anche di notte camminava qua e là per la stanza o dovunque si trovasse, cantando senza posa in toni diversi Ferito, ferito, ferito: e dopo questi esercizi continui, giunse alfine il giorno della sua gloria, in cui doveva cantare di fronte a tutta la gente che affollava la cattedrale. Eretto, con la partitura in mano, nessuna penna potrebbe descriverlo: lo si sarebbe dovuto ritrarre. Ecco, sono già passati gli abbellimenti affidati al coro, si avvicina il momento dell’a solo di basso. Achilla scosta col gomito il suo vicino, batte in silenzio per conto proprio il tempo, già vede la mano del direttore sollevarsi col diapason… ferito… ormai ha dimenticato se stesso e tutto il mondo, e in modo meraviglioso, come tromba angelica, ora rapidamente ora prolungando il suono, declama: … e dal duolo ferito, ferito, fe-ri-to, fe-ri-to, ferito! A viva forza gli si impedisce di fare repliche fuori programma, e il concerto termina. Ma non è terminato nella testa estatica del cantore solista: ed ecco che, mentre ogni esponente dell’aristocrazia porge il proprio omaggio a monsignor vescovo, come suono di tromba dal cielo dall’alto della cantorìa piomba sulla folla un ulteriore ferito,fe-ri-to, fe-rito! Ormai assente dalla realtà nel proprio rapimento, il diacono canta. Gli tirano la veste, e lui canta; lo spingono giù, e lui continua a cantare; cercano di appartarlo dietro ai compagni, e lui non smette - ferito! - ; lo portano infine di peso fuori dalla chiesa, mentre continua a cantare: fe-ri-to! Cosa ti ha preso? gli chiedono. Ferito, risponde cantando. Finché un soffio d’aria fresca lo libererà dalla sua esaltazione». Nella pagina successiva: «Era tutto un pullulare di bambini, ogni cosa parlava di loro, da lo zirlìo dei grilli alla ninna nanna della madre: Ditemi, miei piccini, / dove vi poserò, / dove vi metterò, / cari b amb ini? ». «Davanti al giaciglio cosacco del diacono Achilla si trovava appesa alla parete una chitarra senza corde». Ancora: «Il carro postale è passato su le assi del ponte scampanellando come su una tastiera». «Sul tavolo collocarono un campanello». «Si sente cantare su l’altura. E’ il diacono Achilla, lo si riconosce dalla voce simpatica. Scende dal monte Batavin e canta: Già del notturno velo / s’è ricoperto il cielo, / tutto, d’intorno tace, / tutto riposa in pace. Arrivato giù, imbocca il ponte e prosegue: Una notte b ussò / cupido inaspettato, / dal sono mi destò / appena incominciato. La signora l’ascolta volentieri perché la sua voce le è gradita. Il diacono è già sull’argine e si avvicina alla casa. Proprio sotto la sua finestra, lo sente cantare: Chi è là? chi osa? / allora domandai… Il diacono smise di cantare». «La gente accese delle candele e si sparse per le case cantando “Il faraone persecutore”». «Ecco strepitare gli uccelli neri e lustri vaganti fra i solchi (i corvi di Akira Kurosawa!, ndc.), chiocciare le galline, e il gallo cantare a squarciagola con un sonoro batter d’ali. Il vecchio Pizonski era felice e cantava ad alta voce (il testo dice «forte») Alleluia!. Alleluia, Signore cantai allora anch’io a bassa voce, e piansi di commozione». «Seduta davanti a me alla finestra, mia moglie si rammaricava di non saper cantare romanze». «8 aprile (1839). Sono stato nominato prevosto. Alla mia relazione nessuna risposta. Non so davvero come far suonare queste trombe. 20 giugno 1840. Sono passato sopra le onde, salvo dalla perfidia, canterò le lodi del Signore finché vivrò. Che cosa ho dovuto patire! Autori di ballate, che cosa fate quando non trovate nella vita fili degni di comporre una favola?». «27 gennaio 1842. Ho comperato da un ebreo per sette rubli un organino e il gioco degli scacchi». «12 maggio. Ho acquistato un lucherino (lucarino, fringuello, ndc.) in gabbia e gli insegno a cantare con l’organetto». «9 dicembre 1848 (non 1849 come stampato). Oggi sono stato a merenda dal nuovo podestà. Dopo aver bevuto ha cantato “Ricordi, compagno di lotte gloriose? ”. Poi ha cantato il suo bimbo, in camicia nazionale russa: “Ah, nonno gelo, prode russo!”». «1 gennaio 1850. Ho celebrato le esequie della mia benefattrice Marfa Andrievna Piodomadova, che nella sua vita danzò alle feste con due imperatori». «Ho letto il giornale russo pubblicato all’estero “La campana”». «Che alla posta le lettere vengano aperte e lette, non è una novità, ma come mai non si tocca “La campana”?». «Che cosa significano le parole “chiesi la vita” che si cantano per le nozze al momento della benedizione?». «Non l’onestà ma l’arte fa il musicista (proverbio)». «… chiacchieravano in chiesa o cantavano “Lunga vita” sulla porta». «Il diacono Achilla non fa che canticchiare. E’ entrato in un coro polacco e canta da basso canzoni polacche». «Un gentiluomo pietroburghese s’è presentato al nostro Voltaire, per la qual cosa Tuganov l’ha elogiato durante il ballo di nobili». «Un essere avvolto in un sudario bianco avanzava lento e solenne ma inesorabile come la statua del Commendatore nel “Don Giovanni” ». «Il dottore, seduto su l’isolotto con le gambe nell’acqua, si girava di qua e di là zufolando allegramente. Poi fischiò forte. E seguitò a fischiare. Questo il quadretto di genere che riflette la semplicità della vita in Stàrgorod (meglio che di Stargorod, ndc.) così come il preludio di un’opera lirica ne riflette il contenuto. Ma il preludio non è ancora finito… ». «… pìgolano le nidiate di anatroccoli laggiù sotto la riva. Fra le canne s’era fermata una coppia di cigni e avevano gridato tutta la notte, annunciando una bella giornata». «L’arciprete Savieli mandò la ragazzina a far suonare il mattutino (meglio che a, ndc.). Mezz’ora dopo si udirono i rintocchi della campana del duomo… ». Alcuni errori d’espressione o di ortografia: «Esperance, ex cameriera di una casa di possidenti» (era cameriera di possidenti in una casa, non cameriera di una casa); «un’occhiata dentro all’ anima del padrone» (dentro l ’anima); «A volte si fermava sopra pensiero» (soprappensiero – io direi sovrappensiero, che però sui vocabolari non c’è); «I miei parrocchiani – o almeno una parte di essi, prima fra tutte (primo fra tutti) la Timònova…». «… un periodo così breve che la sua famiglia non farà in tempo a deperire»; «… a casa dell’ispravnik ho letto…» (in casa). «Paura» in luogo di dub b io (pagina 64). Refusi tipografici: «… mia moglie mi ha detto che si sente incita»; «… non l’avevo fatto per negligenza, ma perché gli scismatici si sentissero privati dell’onore della mia visita…» (non l’avevo fatto, non per negligenza, bensì affinché gli scismatici… ); «… nient’altro che gigli e violaciocche…» (violacciocche); «Tutte ubbie di cerveli vuoti». Espressioni inadeguate: «Ho letto le “Memorie sullo zar Pavel Petrovich” della Daskova: sono d’accordo in molte cose eccettuato Pietro di cui ho un’opinione diversa». Errori di grammatica: «Avendo ricevuta una nota di biasimo… » (avendo ricevuto); «Desiderando acquistare il libro “Il clero di campagna” ne ho ordinata una copia» (ordinato). «Mi ricordai che avevo lasciata aperta la mia stanza» (avevo lasciato). Anche la punteggiatura, per tutto il libro, molto carente. Qualche distrazione: «… si mise tranquilla, spense la candela e si appartò alla finestra… » (la candela non era stata accesa). Taluna frase che non capisco: «Al tempo stesso ognuno portava il peso degli altri due »: sta parlando di due soli personaggi. Qualche parola sconosciuta: «… col miglio si fa la cascia», o inusitata: «era occupato a scozzonare i suoi cavalli», ammaestrare. L’avverbio «affatto» è usato tre volte come se significasse per niente, mentre significa del tutto. Pleonasmi: «mia moglie Natalia Nikolaevna…» (ne ha più di una?). Ripetizioni pleonastiche: «Primo, io non sono tenuto a portare il bastone. E una. Secondo, questo bastone (qui) lo porto perché mi è stato regalato. E due ». «… Savieli entrò . Natalia si alzò, accese due candele e diede uno sguardo al marito che entrava». Considerazioni e commenti pleonastici offensivi per il lettore considerato uno stùpido («Come se coloro ecc. », pag.64). Aggettivazioni e affermazioni iperboliche: «Non era passato un mese dal giorno in cui i famosi bastoni…»; «Nel cucinino non c’era nemmeno (quasi, ndc.) lo spazio per muoversi». Assenza del soggetto: «La signora tende l’orecchio. E’ il diacono, lo riconosce. Scende dal monte… » (la signora? no, il diacono). Nomi comuni e aggettivi scritti con l’iniziale maiuscola: «santo» (numerose volte). Costruzioni fraseologiche equivoche: «… ho ricevuto in dono questo libro per il mio profitto…» (in riconoscimento del mio profitto, ho ricevuto in dono questo libro), o improprie, se pur tradizionali («il villaggio di Biagodùchovo»: il villaggio Biagoduchovo; «… la Biziukina ha delle aderenze al capoluogo»: nel capoluogo). Errori di terminologia: «il cantante tiene in mano la partitura» (lo spartito: «la partitura» pertiene al direttore). Accenni a circostanze interessanti o curiose ma incognite al cronista: «Mosca bruciò per via d’una candela da un soldo». «… la gioia che provò Israele di fronte al piccolo Beniamino». Citati «ottimi vini: hò (Haut) Sauterne e Haut Margaux», «il poeta Byron» e «lo scrittore Tatiscev» incognito al cronista e a tutte le enciclopedie letterarie consultate. Proverbi russi ed altri non so se russi ma cogniti anche da noi (Quando il gatto non c’è, i topi ballano). Considerazioni non banali, come «ora mi abbandono alle carezze di mia moglie, ora il mio amor proprio mi fa sognare: e intanto il tempo passa e la morte si avvicina», o troppo lunghe per venir qui riportate, vedi lo spassoso aneddoto in pagina 42 e la bellissima preghiera in pagina 47. In pagina 69, le date 1 aprile e 10 agosto senza indicazione di anno, sono relative al 1838. Curiosità: «Mi piace fare le paz ienz e con le carte e per la noia mi sono messo a fumare, sarebbe opportuno smettere… ». Constatazioni: «Ho notato quanto sia mutato col trascorrere degli anni il mio modo di vedere». L’autore non irride mai all’ingenuità e all’ignoranza, ma è inflessibile con la credulità superstiziosa e fideistica: «… ci prosternammo davanti a l’immagine del Salvatore e gli implorammo a lungo e con tutto il cuore la gioia d’Israele. Più tardi Natasha mi rivelò che un angelo le aveva fatto una promessa, e sebbene mi rendessi conto che si trattava di una sua fantasia, me ne rallegrai come se vi credessi. Osserverò che per fervore di fantasia, Natasha non aveva in me l’eguale». «Se è pur vero che non impiccano più, possono però chiuderti la bocca: sono stato convocato a giustificarmi d’una predica improvvisata, tenuto trentasei giorni a pane e acqua, e diffidato d’ora in avanti di sottoporre a censura preventiva tutto ciò che mi proporrò di dire. Nessuno ha fretta di fare il bene, e tanto meno le autorità ecclesiastiche». «Sono passati, per la Chiesa, i tempi di Moghila (Pëtr Simeonovič, archimandrita e poi metropolita di Kiev, vissuto nel secolo XVII e autore del “Grande catechismo” e del “Piccolo catechismo”, ndc.) e di Dimitri da Rostov: oggi gli sciocchi sono maestri ai saggi». «Già, par quasi che non dare alla chiesa (nel senso di parrocchia, ndc.) tutto quel che si possiede, sia come rubare». «Ad ogni buon conto mi sono fatto delle aspersioni di acqua benedetta». «Il diacono Lukian è stato punito con un anno di eremo. La sua famiglia non avrà da mangiare. Sarà più vicina a Dio, così pensano quelli del concistoro». «Per contro, monsignor vescovo ha tutta la mia approvazione» (ed anche la mia, ndc.) «quando interrompe la funzione e, rivolto al governatore che con alterigia e maleducazione conversa a voce alta con il comandante dei gendarmi, dice forte (ad alta voce, ndc.): “Bene, eccellenza, ora io taccio e riprenderò il sermone quando voi la smetterete di parlare”». «Varnavska, il figlio della fabbricante d’ostie, ha compiuto gli studi al seminario (nel seminario, ndc.) ma non ha voluto farsi prete. Quando gli ho chiesto perché, ha risposto seccamente che non intendeva essere un impostore». «Il profeta Isaia non poteva finire nel ventre della balena perché quell’animale enorme ha una gola troppo stretta». «Era la pioggia, la grazia che aveva implorato il giorno prima durante la funzione religiosa: segno che le sue preghiere non erano state vane»… «Un allievo, Aliòscia, il figlio del droghiere risponde: “Ammetto Dio creatore ma non lo riconosco provvidenza. In natura ci sono troppe ingiustizie, in primo luogo la morte, inflitta a tutti gli uomini in sèguito al peccato di uno solo». Un personaggio secondario ma peculiare è costituito dalla boiarda Màrfa Andrièvna Plodomàsova, che in un film andrebbe impersonata da una caratterista. L’imperatrice Caterina la conosceva, e l’imperatore Alessandro parlava con lei. Ma soprattutto era nota fra il popolo per aver tenuto testa a Pugacëv, e per i suoi incontri con governatori e alti funzionari che venivano a farle visita, e financo con prigionieri francesi del 1812. Un suo servo della gleba è citato come Nikolài Afanàsevic, probabilmente refuso per Nikolaj Afanas’ev Afanas’evich. Il narratore ne paragona lo spirito alle trovate di La Fontane e di Ivan Krilov. Egli conduce a far visita alla boiarda il narratore, che attraverso un succedersi di sale dallo sfarzo inimmaginabile, perviene alla sala dove si trova una vecchietta la quale è sorella del servo, di lui alquanto più «grande» (più vecchia? più alta? ndc.), e che in piedi è intenta a girare la manovella di un grand’organo. Smette di suonare e con un’agilità (altro refuso: agilitià) animalesca scompare nella stanza attigua, da dove ricompare - menzionata dall’autore come Maria Afanàsevna - accompagnando la grande - non di statura - ancor bella e dallo sguardo severo Marfa Plodomasova. Dalla lunga conversazione - in cui la battuta «Non so che cosa vi sia di tanto glorioso in questa storia con i polacchi» è di lei e non del visitatore - estraiamo la frase significativa pronunciata dalla boiarda «Il peccato degli sciocchi scismatici è di aver letto troppi libri». Un’altra citazione citab ile è costituita dalle ultime parole di Charlotte Corday prima di salire sul patibolo: «Pochi sono oggi i patrioti che credano nel sacrificio di se stessi per la patria. Dappertutto egoismo… », che ben si collegano ad altro mio intervento di questi giorni, a proposito dei partigiani italiani che mettevano bombe nei cassonetti per assassinare altri italiani e poi lasciavano che dieci volte tante d’innocenti ostaggi venissero giustiziati. L’inizio del capitolo 9° della parte 1ª ricorda “Clochemerle”, il paesino del Beaujolais dove Gabriel Chevallier ha ambientato il suo celebre romanzo: «Le vie deserte delle nostre città di provincia hanno un aspetto greve, uggioso e deprimente in ogni stagione; ma nei caldi meriggi estivi vi regna una desolazione mortale» (cfr. «I muri della provincia trasudano rancore», citatomi dal professore Salvatore Chiolo di Roma del quale non ho notizia da anni, - dopo il concorso cinematografico “Il fotogramma d’oro” a Cattolica nel 1964 dove egli era giurato ed io concorrente).