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Nella Baroncini Mi chiamo Nella Baroncini, sono nata a Bologna il 26 agosto 1925. Tutta la mia famiglia è stata arrestata direttamente dalle SS il 24 febbraio 1944. Prelevarono nostro padre dall’officina dove lavorava, poi vennero a casa nostra. Abitavamo a Bologna e ci trovarono tutti a casa. Eravamo tre sorelle e la mamma. Ci hanno arrestato per una spiata. Abitavamo in una casa popolare dove tenevamo una macchina da scrivere e un ciclostile per fare un lavoro a distanza. Stampavamo i manifestini per l’Unità, per la Lotta, che è un giornale locale bolognese, e per il Movimento di liberazione della donna, mi sembra si chiamasse così. Noi sorelle sapevamo scrivere a macchina tutte e tre e ci eravamo impegnate a fare questo perché lo ritenevamo utile per la resistenza. Non ci sembrava giusto non fare niente, anche se poi quando siamo state arrestate il movimento non era ancora così organizzato. Era il principio della resistenza. Cominciò l’odissea della mia famiglia, una tragedia nella tragedia della guerra. Ci portarono direttamente al comando della SS, che allora era in viale Risorgimento e ci hanno tenuto lì fino a sera. La sera ci hanno diviso. Hanno trattenuto al comando della SS mia sorella, che si era presa la responsabilità del lavoro che facevamo in casa, e mio padre. Noi, una sorella la mamma ed io, fummo portate al carcere di Bologna, San Giovanni in Monte. Mia sorella e mio padre sono stati torturati e interrogati per un mese, nel sotterraneo delle SS, hanno subito tutto quello che era possibile subire, e dopo un mese vennero portati anche loro a San Giovanni in Monte, dove siamo tutti rimasti fino ai primi di maggio. I primi di maggio siamo stati trasferiti nel campo di Fossoli. Siamo stati lì altri tre mesi, nel periodo che fucilarono i settanta di Fossoli. Tra di loro c’erano parecchi compagni che conoscevamo. A Fossoli ci hanno immatricolato, ma non ricordo il numero. In un primo tempo ci misero in una baracca insieme a tutti gli altri, poi ci hanno diviso nelle baracche delle donne, lungo la strada. Di quelle baracche rimane tuttora qualche pezzo. Sempre lungo la strada c’erano le baracche degli ebrei. Di là dalla strada c’era una casa di contadini, dove si fermavano i parenti che venivano a trovare i prigionieri. Noi facevamo il lavoro di staffette, ci facevamo dire chi cercavano e portavamo i parenti dal campo. A Fossoli tutto sommato non stavamo neanche male, anche perché ci eravamo riunite con mio padre. Credevamo di stare male, ma rispetto a quello che abbiamo passato dopo quello era niente. Verso la fine di luglio partì l’ultimo scaglione degli uomini, fra cui nostro padre. Noi siamo partite i primi di agosto, mi sembra fosse il 2 di agosto. Credevo fossimo state l’ultimo gruppo di donne a partire, invece in seguito ho imparato che dopo di noi erano partite un gruppetto di cinque o sei ammalate. Eravamo quarantacinque donne, in parte politiche e in parte ebree. Ci caricarono, ricordo abbiamo passato il Po col barcone, ci siamo fermati a Verona una notte, credo in una caserma, dove cominciarono a fare la separazione dagli ebrei, e il mattino dopo ci hanno messo su un carro bestiame in partenza da Verona. Il carro era proprio una cosa bestiale e noi eravamo peggio delle bestie, stretti, senza poter tossire, senza poterci sdraiare. Facevamo i turni per metterci a sedere. Una notte lessi il cartello della stazione di Bressanone e capii che eravamo al confine. Eravamo noi tre sorelle, la Iole, la Lina, io e la mamma, Teresa Benini. C’era il finestrino dei cavalli con le sbarre, da cui guardavamo un po’ fuori. Ricordo che è durato quattro giorni. Siamo arrivati a destinazione a Ravensbrück il giorno 6 di agosto. Ricordo che fuori c’erano foreste e capivamo che andavamo verso il nord della Germania, anche se non è che fossimo molto pratiche dell’estero perché non avevamo mai viaggiato molto. QQQQualche volta ci fermavano un po’ alla sera, non mi ricordo se ci facevano scendere, però so che era un macello, quattro giorni in questo carro bestiame, puoi immaginare, non ricordo neanche quanti eravamo. Ave vamo qualcosa da mangiare che ci avevano dato a Fossoli, ma non c’era da bere e la cosa più bestiale erano i bisogni. Poi ci saremmo abituate a tutto. Mia sorella ha avuto la disgrazia di avere il ciclo mestruale nell’andare in là. Dopo quindici giorni sono venute a tutto il gruppo, poi non sono più venute a nessuno. Ci hanno fatto scendere, a spintoni, a calci, ci hanno fatto mettere per cinque, abbiamo attraversato un boschetto, era un boschetto bellissimo, c’erano belle villette coi gerani alle finestre. In un primo tempo ci si è un po’ allargato il cuore, perché abbiamo detto ‘se è così non è neanche male del tutto’. Poi allora avevo diciotto, diciannove anni, quindi c’era una gran fiducia, una gran voglia di credere, a quell’età non si vuol pensare troppo male. Quando invece siamo arrivati all’entrata del campo lo scenario è cambiato completamente e abbiamo cominciato a vedere che cosa voleva dire un campo. Come siamo entrate ci hanno messo dentro le docce, che erano a destra dell’entrata. Lì con noi c’erano delle ebree, che noi pensavamo fossero delle esaltate perché ci dissero ‘non aprite l’acqua, non aprite il rubinetto che viene fuori il gas’. Noi naturalmente ci siamo messe a ridere, non ci pensavamo neanche lontanamente che potesse esistere qualcosa del genere. Finché dopo qualcuno ha provato ad aprire, ma quella volta venne fuori l’acqua sul serio. Siamo stati lì tutta una notte e il giorno dopo. Il giorno dopo ricordo ci portarono una specie di zuppa di cavoli, tutta impastata con dell’orzo, con qualche cosa. Una zuppa che dopo sarebbe diventata una cosa buona, ma quella volta ci siamo rifiutati di mangiare, perché avevamo ancora qualche cosa dal campo di Fossoli. Quello che ci ha spaventato fu vedere quel poco che riuscivamo a vedere del campo, gente che sembrava alienata, che andava a rimescolare dentro i rifiuti per esempio. E a tentoni, perché lì era un rischio grandissimo, riusciva a venire vicino alla baracca e ci diceva di dare tutto quello che avevamo perché tanto ci avrebbero preso tutto. Noi sempre in buona fede non ci credevamo, però questa gente sembrava di un altro mondo, pensavamo che si fosse lasciata andare, non pensavamo che dopo poco ci saremmo ridotte così anche noi. Ci ha fatto effetto, ma non riuscivamo ancora a renderci conto di quello che poteva essere il campo. Poi, alla fine del giorno dopo, abbiamo fatto la nostra doccia e tutto quanto, ‘los, los, schnell’ e ci hanno fatto spogliare tutti quanti nudi. Naturalmente dopo ci abbiamo fatto l’abitudine, ma le prime volte, specialmente pensare alla mamma, che allora pensavo avesse una certa età - aveva cinquant’anni, non era così vecchia - però in quell’epoca noi nostra madre non l’avevamo mai vista neanche in sottabito, quindi pensare di doversi spogliare nuda di fronte a tutti per lei, oltre all’umiliazione nostra… Noi ci potevamo anche rassegnare, ma ci stavamo male a pensare a lei, a vedere la mamma. Ci hanno spogliato tutte, ci hanno fatto tutte le visite del caso, alcune le hanno rasate a zero, quelle che avevano i capelli migliori, poi ci hanno dato due stracci, un paio di mutande - mi ricordo che erano grandi - una specie di sottabito e un vestito. Eravamo in agosto ed era un vestito che aveva le maniche corte, con due croci di stoffe diverse che praticamente erano il segnale del campo. Ricevere la divisa a righe era un lusso che non ci toccò e rimanemmo per dieci mesi sempre con quel vestito. Quando ce lo lavavano, dovevamo girare col vestito in mano finché non si era asciugato. Non si poteva appoggiare nulla, qualunque cosa spariva immediatamente. Dopo la spoliazione, ci dettero il triangolo rosso e il numero di matricola. Il mio numero di matricola era 49.553 e quelli delle mie sorelle e di mia madre erano numeri successivi. Abbiamo fatto per venti giorni la quarantena, così chiamata perché non si andava a lavorare, si andava solo fuori all’appello alla mattina e abbiamo cominciato a capire un po’ l’andamento del campo. Alle quattro della mattina c’era la sveglia, a urli e spintoni bisognava andar fuori, si stava fuori fino alle sette e mezza, cioè due o tre ore in piedi, e in principio eravamo in agosto perciò andava ancora bene. Poi nel periodo di quarantena c’erano le visite. Finito l’appello ci mettevano davanti al Revier, a questa specie di ambulatorio dove dovevamo fare le visite, nude naturalmente, dovevamo stare tutta la mattina nude. Una volta ricordo la mamma, poverina, sempre a tenere le mutande. Passò un tedesco e le diede due sberle perché aveva le mutande. E lì alla fine ci fecero varie visite, compresa una visita ginecologica che fu una cosa tragica quasi. Io avevo solamente diciannove anni, allora poi eravamo anche delle ingenue. Magari ci tenevano lì tutta la mattina e poi alla fine ci guardavano in bocca, forse volevano vedere se qualcuno aveva dei denti d’oro. Questi furono i primi venti giorni di quarantena ed eravamo ancora tutte assieme, noi Italiane. Dopo la quarantena, una mattina dopo l’appello ci misero in fila per andare a lavorare e ci dettero un badile. Era il 26 agosto, il giorno del mio compleanno. Il badile fu il mio regalo. Ricordo che con noi c’erano delle intellettuali di Milano, che naturalmente non sapevano tenere un badile in mano. Ci mandarono a caricare sabbia su dei carrelli, dovevamo caricarli, trasportarli e vuotarli da un’altra parte. Penso che non fosse un lavoro molto utile ma dovevamo farlo e lo facemmo per qualche giorno. Mia madre, che era anziana, riuscimmo a farla stare in baracca. Doveva fare un lavoro a maglia con un’altra signora. Stavano sedute in due su un panchetto, una davanti e una di dietro. Naturalmente abbiamo cominciato a sentire la fame. Il primo giorno avevamo rifiutato di mangiare i cavoli, ora erano rape, ancora più tristi dei cavoli, e poi il pane che il primo giorno non ci piaceva ora era diventato l’unica cosa mangiabile, un pane nero, credo fosse fatto appositamente per i deportati, non so cosa ci fosse dentro. Ad ogni modo era l’unica cosa che si mangiava. Le rape, anche se si aveva fame, si faceva proprio fatica a mangiarle, erano dure e legnose. Finita la quarantena, ci cambiarono anche di baracca. Noi quattro, con una signora di Savona ancor più anziana della mamma, andammo in una baracca, dove ci sentivamo sperdute. Le altre Italiane in un’altra. La prima notte, quando stavo per andare a letto, suonò l’allarme e dovemmo andare fuori per un appello. Quando tornammo le luci erano già spente e dal mio castello mi cacciarono a pugni e a calci. Mi misi insieme alla mamma in un pagliericcio per terra sotto la finestra. La capo blocco si accorse che non avevo il posto da dormire e prendendomi per un braccio mi portò in un posto dove erano già in quattro. Io ero proprio di troppo, per fortuna erano Italiane e non ebbero il coraggio di prendermi a pugni per mandarmi via. Dovetti stare con loro per un pezzo. Cosa si può dire della vita del campo? Non so come descriverla, perché per quanto si descriva una cosa brutta non si può arrivare a capire quello. Intanto, la cosa che ti colpiva di più era la gente che vedevi attorno. Praticamente ti trovavi vicino a cadaveri, insomma vedevi cadaveri con la pelle, vedevi solo la pelle della gente e gli occhi aperti. Una volta, non so come mi trovavo seduta vicino alla baracca - si vede che era un giorno che non si lavorava - e mi trovai vicino come una di quelle fotografie che si vedono nelle mostre. Vidi una che aveva la bocca aperta, gli occhi aperti, però ancora adesso non so se era viva o se era morta. Vedevi solo gente di quel genere. Nel campo di Ravensbrück tra l’altro c’erano gli zingari, parecchi zingari, e anche dei bambini. La prima volta che vidi quei bambini mi sono venuti in mente i documentari che facevano a quell’epoca, documentari fascisti naturalmente, in cui facevano vedere i bambini della Russia, questi bambini che si vedono anche adesso purtroppo, con la testa e lo scheletro. E io come ho visto i bambini zingari subito l’ho messo in relazione coi documentari di quei bambini, ho pensato che venivano qui a girarli. A diciannove anni non pensi di dover finire in quel modo, hai sempre un po’ di speranza. Allora in principio abbiamo cominciato a parlare di ritorno e soprattutto di ricette. Ognuna diceva la sua. L’Enrichetta, che viveva in montagna, diceva “l’unica ricetta che io posso darvi è la polenta di fagioli” e noi prendevamo appunti, ero riuscita a trovare qualche matita e a fare le punte. C’è addirittura chi è riuscita a portare a casa queste ricette. Passò settembre, ed era passata l’uva, passò ottobre ed erano passate le castagne, arrivammo a Natale e abbiamo detto ‘qui non si torna più a casa’. Quando siamo arrivate a Natale abbiamo smesso di sperare, perché eravamo già messe piuttosto male. A quell’epoca eravamo riuscite a trovare due letti per dormire tutte e quattro insieme, ma non ci riuscivamo mai perché ce n’era sempre una in infermeria. Cominciò mia sorella Lina, che si prese il tifo e in infermeria trovò la gente morta sui castelli. Poi io, poi la Iole. Alla fine non ci lasciarono più tutti i posti sui castelli, tanto tutte e quattro non c’eravamo mai. Cercavamo di scegliere i lavori. Ravensbrück era un campo tutto sabbia e la pavimentazione era fatta con il carbone. Per un pezzo mi ricordo che ci misero a scaricare dei vagoni dietro il campo, non molto lontano, trasportavamo vagoni di carbone su carriole piene e li scaricavamo su questa sabbia per mandare ava nti il lavoro. Poi c’era chi faceva la pavimentazione, dovevamo passare con il rullo, il famoso rullo che c’era in quasi tutti i campi ed è rimasto simbolo anche di Ravensbrück. Era un lavoro abbastanza leggero, ma fare venire l’ora del rancio la sera era lungo. Dopo imparai che c’erano delle colonne che andavano a segare gli alberi alla foresta. Davano un piccolo supplemento di pane, una fettina trasparente, in confronto al lavoro che si faceva non è che fosse gran che, però era qualcosa. E poi davano la divisa, davano il vestito a righe, che era già un successo averlo. Quindi mi ricordo che andai là in fila, mi feci dare il vestito e mi diedero anche un paio di calze di lana. Eravamo già in ottobre novembre, cominciava a far freddo. Ricevetti anche un paio di zoccoli di tela sopra e col fondo di legno, numero quarantadue. La prima sera me le feci rubare subito, perché non sapevo che le scarpe dovevamo portarle sul castello e usarle come cuscino. Le avevo lasciate sotto, una cosa impensabile. La mattina andai dalla capo blocco e cercai di spiegarle che non avevo più le scarpe. Lei mi indicò un paio di zoccoli, ma come tentai di prendere quelli mi si avventò conto probabilmente la proprietaria. Finii per trovare un paio di scarpe da soldato, senza fondo, che facevo fatica a trascinarmi dietro. Partivamo la mattina con tutte le misure di seghe. Avevamo un bel posto su tre rimorchi con un macinino che andava e il camino che fumava, non so con che cosa andava. Una volta, eravamo già in inverno e c’era il ghiaccio nel paese, c’era una piccola salita e non andavamo avanti, dovemmo scendere per spingere, e lì addirittura i bambini del paese ci tirarono dietro i sassi. Non so se in paese sapevano cos’era un campo di sterminio, però il camino che fumava lo vedevano perché eravamo a pochi chilometri. All’ora del rancio ricevevamo la mestolata di rape dentro la gamella e immediatamente si gelava. Siamo arrivate anche a venti gradi sotto zero. Per un periodo eravamo in una foresta, facevamo la carbonella con la legna, mi ricordo che c’era una gran cisterna con il fuoco e noi di nascosto andavamo a rubare dei pezzettini di questa carbonella perché faceva bene per la dissenteria. La dissenteria è stata la nostra compagnia dal principio fino alla fine. La notte ci si dovevi alzare anche cinque volte, facendo attenzione a non pestare la faccia di quelle di sotto. Per questo continuo via vai, i posti in alto erano i più ambiti. Qualche altra prigioniera usciva per andare a lavorare alla Siemens, oppure alla sartoria, e non è che stessero molto meglio, però almeno andavano fuori dal campo e lavoravano al coperto, che era già una gran bella cosa. Però noi eravamo in quattro e non potevamo portare la mamma fin lì, quindi abbiamo sempre evitato per riuscire a stare tutte assieme. Riguardo alla solidarietà nel campo, noi Italiane eravamo poche ed eravamo abbastanza separate, per cui non potevamo fare tanto. Però ricordo che per esempio tra le Francesi, che erano un gruppo numeroso, c’era molto solidarietà. Alle volte, quando il sabato ci davano un po’ di burro, facevano delle specie di tartine e giravano a distribuirle. Regalare una piccolissima fettina di pane era veramente un gesto di solidarietà, perché voleva dire toglierselo di bocca. Anche tra le Polacche esisteva questo senso di solidarietà. A volte poi, la sera, quando si finiva di litigare e si spegnevano le luci, qualcuna cominciava a dire “buonanotte” in francese, seguita magari da una in polacco e così via in tutte le lingue. Questo ti dava una certa emozione, perché lì al buio si cominciava a pensare a casa. Era l’unica nota gentile che si viveva nel campo. La mamma cominciava già a stare piuttosto male, la Iole era già in infermeria e noi facevamo un po’ il turno. Io ho passato in infermeria il Natale. Nel mese di gennaio finalmente siamo riusciti a ricoverare la mamma, stava male, non stava più in piedi, era praticamente sfinita, solo che quando marcava visita se non aveva la febbre a trentanove non potevano ricoverarla. La mamma è stata una decina di giorni, poi si è consumata completamente. Siamo riusciti a vederla fino all’ultimo, a rischio però, l’abbiamo vista l’ultima sera e l’abbiamo vista la mattina nel letto che non l’avevano ancora portata nel mucchio dei cadaveri della morte. Facevano il mucchio nei wascheraum, nei lavandini. La mamma è finita così, verso il 21 di gennaio. Rimanemmo ancora in piedi mia sorella e io. Cominciavano a dire che gli Alleati avanzavano da una parte, al radiocampo si sentivano un po’ di notizie ma non è che si sapesse molto. I primi di febbraio ho cominciato a star poco bene io, avevo la tosse e la febbre, non volevo marcare visita perché avevo paura che ci separassimo anche io e mia sorella, quella rimasta in piedi. La Iole era già in infermeria da un pezzo, io ho tirato finché ho potuto poi alla fine ho dovuto marcar visita e sono andata in infermeria il 12 di febbraio. Era un lunedì. Giovedì 15 febbraio partirono tutte le Italiane che erano nel campo, in mezzo ci cascò anche mia sorella, l’unica rimasta in piedi. Quindi lì rimanemmo io alla baracca 7, che era un supplemento provvisorio dell’infermeria, e la Iole nella baracca 10 che era chiamata l’anticamera della morte. Mia sorella stava abbastanza benino, non stava così male, aveva una forma tubercolare che avevamo un po’ tutti. Lì siamo rimaste per quindici giorni, ci siamo scambiate qualche biglietto, lei scriveva dei biglietti facendo coraggio a me, non le avevamo detto che era morta la mamma, abbiamo cercato di non dirglielo, e lei mi scriveva parlando della mamma, parlava di tutti noi, diceva che tornavamo a casa, che noi eravamo giovani e ci saremmo riprese presto, che la mamma e il papà non avrebbero dovuto più lavorare. L’ultimo bigliettino me l’ha scritto gli ultimi giorni di febbraio, primi di marzo. Il giorno 4 marzo partì un gran trasporto da tutte le infermerie del campo, ne chiamarono parecchie anche da dove ero io, e imparai che mia sorella era partita con quel trasporto in cui finirono tutti nei forni crematori dello Yugendlager. Non fecero la solita selezione per questo trasporto, le prelevarono dall’infermeria già destinate al forno crematorio. Per un po’ di tempo non lo volli credere, ma purtroppo quella era la fine che fecero. Ero rimasta sola, mi era trovata con una compagna jugoslava, la famosa Julka, che era stata arrestata qui in Italia dove lavorava per la Resistenza italiana. Era arrivata con un trasporto di settembre o ottobre da Bolzano, incinta di un compagno italiano, e aveva partorito nel campo verso Natale, assistita da dottoresse jugoslave, alcune delle quali bravissime, che erano riuscite a farle addirittura una trasfusione di sangue. Nacque una bambina e le fu dato un nome che voleva dire “Libera”. Morì dopo due mesi. Queste dottoresse slave ci salvarono la vita più di una volta, tirandoci fuori dalle liste dei trasporti per i forni crematori. Se ancor oggi sono qui, lo debbo a loro. Julka è stata per me come un’altra sorella, aveva l’età della Iole e parlava molto bene l’italiano. Stette insieme a me fino alla liberazione, purtroppo poi non ce la fece a tornare. Io non mi sono mai spostata da Ravensbrück, sono stata penso una delle poche ad aver fatto tutto il campo di Ravensbrück. Tutto il mese di aprile mi ricordo che avevamo scritto sopra il legno con qualche cosa, avevamo fatto una specie di calendario, io e Julka, perché non riuscivamo ad avere la cognizione del tempo e ci sbagliavamo coi giorni. Eravamo molto intontite e messe male. Il giorno della liberazione mi ricordo che stavo dormendo, come al solito sognavo che distribuivano invece che le rape dei porri bolliti, che erano un poco meglio delle rape. Sognavo qualche cosa del genere, sentivo del trambusto, poi mi sono svegliata e ho visto tutta questa gran confusione, ho visto che erano lì. Ormai alla liberazione eravamo rimaste soltanto noi dell’infermeria perché gli ultimi giorni avevano fatto partire tanti di quei trasporti, che non si poteva tenere aperta la finestra dalla puzza che veniva dal camino del forno crematorio. Le Cecoslovacche misero fuori degli stracci rossi, non so come avevano fatto a procurarseli. Ho capito che dicevano che c’erano i Russi alla porta, che era la liberazione. Il primo istinto naturalmente fu di venire giù dal letto, ho fatto due passi e sono caduta lunga distesa, perché proprio non ce la facevo più a stare in piedi. Passo la dottoressa che disse “non importa, ormai siamo salve”. Pensare che era finita, che eravamo arrivati a quel punto lì! Ricordo un’immagine che non mi so spiegare bene. Qualcuna andò alla porta, di quelle che riuscivano ancora a girare, andarono alla porta e trovarono un russo, mi ricordo che aveva due gran baffoni, e lo fecero girare per queste baracche. Io ricordo la faccia, con due lacrimoni che gli venivano giù, ci guardava in faccia e scuoteva la testa, perché eravamo ridotte, come dico, eravamo tutte lì quelle messe peggio e non dovevamo essere lì, dovevamo essere già tutte crepate. Poi in un momento ci siamo guardate in faccia e abbiamo detto ‘siamo state liberate!’. E adesso? ho pensato, eravamo partiti in cinque e io ero lì da sola. La mamma era morta, il babbo era già messo male a Fossoli, con tutti gli interrogatori che aveva subito, la Iole non volevo ancora credere che fosse morta e dell’altra non sapevo nulla. Ero lì da sola, a sperare. Dopo due o tre giorni ci hanno comunicato che ci avrebbero dato da mangiare tre volte al giorno. Era una gran notizia per noi e ci fu un po’ di confusione. Gli ultimi giorni arrivò la Croce Rossa Internazionale e ci distribuirono dei pacchi. Dentro c’erano crauti, wurstel di maiale e altra roba simile che fece morire diverse persone. Ci ritirarono i pacchi. Cominciarono a darci delle pappine dolci, mi ricordo che mi prendevo delle gonfiate perché andavo a raccogliere tutto. Julka poverina mangiava poco quindi mangiavo la mia e la sua. Poi se ne trovavo delle altre mangiavo anche quelle. In un primo tempo ci portarono a questo Yugendlager. L’avevano ripulito e si stava abbastanza bene. Un giorno venne una delegazione italiana a cercare se c’erano delle italiane, mi dissero che erano in caserme un po’ lontane dal campo, e mi dissero molti nomi di quelle che erano partite con mia sorella. Allora io provai di chiedere se c’era anche mia sorella ma non mi seppero dire. Da una parte mi dispiaceva perché dovevo lasciare la Julka, dovevo separarmi da lei, non poteva venire in Italia, anche se era stata arrestata in Italia lei doveva tornare in Jugoslavia. Mi dispiaceva anche perché stava abbastanza male, anche se non credevo che stesse così male. Mi dissero poi che era morta una decina di giorni dopo e mi rimase sempre un po’ di rimorso, perché da un lato avrei voluto rimanere con lei, dall’altro volevo anche trovare notizie delle mie sorelle. Ci hanno portato in questo campo italiano, e poi ho aspettato, ho aspettato sei mesi, perché sono stata rimpatriata in ottobre del 1945. Ho trovato parecchie del nostro gruppo partite assieme da Fossoli, c’era appunto l’Enrichetta, c’era la Giovanna, c’era la Maria Montuoro, c’erano parecchie del nostro gruppo di Fossoli. Ci hanno spostato due o tre volte, eravamo nel nord della Germania, e dovevamo aspettare che ricostruissero le ferrovie. Poi un bel giorno in ottobre ci hanno caricato sui carri, anche questa volta carri bestiame. Nel mio c’era la Croce Rossa sopra, perché ero una di quelle che stava peggio, era un poco più largo di quando siamo partiti però era sempre un carro bestiame. Anche quando siamo passati dalla parte americana non è che siamo stati molto meglio. Arrivati alla frontiera ci hanno accolto dicendo che in Italia comandavano i comunisti e i partigiani - era la Pontificia, mi dispiace dire questo, però è così - ci hanno un po’ spaventato dicendo che qui in Italia c’era del caos, della confusione. Non ho avuto il coraggio di venire fino a Bologna, tra l’altro io ero fra quelli più ammalati, mi hanno fermato a Merano e da lì ho provato a scrivere. Non sapevo chi ci poteva essere a casa, ero sola, non sapevo niente, e dopo un pezzo credo quindici giorni sono venuti a prendermi dall’officina dove lavorava nostro padre. Allora imparai che mia sorella, la Lina, era tornata a casa. Anche lei aveva avuto tutta le sue peripezie, era stata portata lontano dal campo, era stata liberata dagli Americani ed era tornata in settembre. Aveva sofferto molto, anche perché prima della partenza aveva subito tutti questi interrogatori. Il suo ritorno è stato ancor peggiore del mio perché lei non ha trovato nessuno. Io almeno ho trovato una sorella, lei non ha trovato nessuno e non sapeva chi sarebbe tornato. Il babbo ho imparato che era morto a Mauthausen. L’abbiamo imparato da Cerenini, un compagno che era stato con noi a Fossoli. Quindi della mia famiglia siamo tornate io e mia sorella, che eravamo le due più giovani.