parabola africana - W W W . T E L E S A . ORG

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parabola africana - W W W . T E L E S A . ORG
PARABOLA
AFRICANA
a cura di Agostino Faravelli
Racconto a più mani
del progetto Telepatologia in Zambia
dei Patologi Oltre Frontiera
PROJECTS AGAINST CANCER
Parabola Africana
© 2008 Associazione Patologi Oltre Frontiera
Associazione Patologi Oltre Frontiera
c/o Anatomia Patologica Ospedale Venezia
Campo SS. Giovanni e Paolo
30122 - Venezia
www.patologioltrefrontiera.it
tutti i diritti riservati
stampato in Italia
editing e impaginazione: b:k officina editoriale, Milano
Cover art: Bruno Kleinefeld
Stampa: Litografia Varo, Pisa
Foto di copertina: dr. Vincenzo Stracca Pansa
Foto interne: autori vari.
a Paolo ed Elisa
parabola africana
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Introduzione
Quando, ormai più di dieci anni fa, nacque l’idea di creare un gruppo di patologi dedicati
alla cooperazione sanitaria nei Paesi in via di sviluppo, gli scettici erano molti.
Anche tra gli addetti ai lavori sembrava un po’ folle proporre laboratori di citologia e
istologia in Africa, dove i bisogni primari in tema di salute sembrano essere ben altri.
In realtà l’anatomia patologica ha delle caratteristiche che la rendono particolarmente
adatta ai teatri del sud del mondo: costi bassi, in rapporto ad altre specialità diagnostiche,
e una enorme efficacia. Cosi si spiegano il palpabile successo della nostra ONG e le
continue richieste di interventi in vari Paesi del mondo.
Il progetto Zambia, di cui si tratta in questo libro, è perfetto per capire da dentro i primi
passi, l’avventura umana degli specialisti italiani ma anche dei tecnici e dei medici
locali coinvolti e per comprendere l’indissolubile connubio tra umanità e tecnologia.
Il diario ha delle discontinuità evidenti: a momenti intimisti si alternano segni del fare
quotidiano. Ma credo che sia giusto così: di retorica e vanagloria l’Africa non ha proprio
bisogno.
dottor Vincenzo Stracca Pansa
Presidente Patologi Oltre Frontiera
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Chirundu
13 febbraio 2008, ore 08.00
Appeso a un muro imbiancato da poco c’è un cartello bianco con una scritta in rosso.
CERVICAL CANCER PREVENTION CLINIC
Da qualche mese il mercoledì mattina è riservato all’ambulatorio ginecologico di
colposcopia. Ester, l’infermiera dell’ambulatorio, ha dato appuntamento per oggi a
dieci donne che nelle settimane precedenti hanno fatto un pap test risultato positivo.
Alle otto del mattino il caldo è già soffocante. Le donne sono sedute fuori sotto una
lunga tettoia. Alcune arrivano anche da molto lontano, alcune portano un bambino in
braccio o sulla schiena, tutte hanno tra le mani un quadernetto con la copertina nera
dove sono riportati a mano gli esami degli anni precedenti; a una pagina è attaccato il
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patologi oltre frontiera
report del recente pap test. La diagnosi, diversa da donna a donna, è scritta in inglese,
con il nome di chi l’ha ha formulata: Given Hampungani e Barbara Zingaro.
Siamo al Mtendere Mission Hospital di Chirundu in Zambia, il grande Paese africano
appena sotto l’equatore: dieci milioni di abitanti e, con la Tanzania, il Paese con la
massima concentrazione al mondo di uomini e donne sieropositivi per HIV.
Qui l’età media di sopravvivenza non supera i 40 anni e le donne muoiono come
mosche di cancro dell’utero perché arrivano in ospedale tardi, quando ormai non c’è
più niente da fare. Basterebbe un pap test ogni tanto e almeno questo problema si
ridurrebbe di molto. Ma in quasi tutta l’Africa sub-sahariana, se anche ci fossero le
risorse economiche, mancherebbero gli operatori in grado di effettuare il pap test, di
leggerlo e di formulare una diagnosi.
Ma non è più così a Chirundu dove, da almeno due anni, sono arrivati i Patologi Oltre
Frontiera che, d’accordo con i sanitari locali, hanno realizzato il Progetto Telepatologia
in Zambia
Ma torniamo in ambulatorio. Alle nove arriva Paolo Marelli, un medico italiano che da
trent’ anni vive in Africa e da quasi dieci è a Chirundu, nel piccolo ma efficientissimo
ospedale che è riuscito a realizzare. Saluta le donne, che rispondono chinando
leggermente il capo, come usa qui. Alcune avranno da aspettare fino a mezzogiorno
ma, come si dice, se gli europei hanno l’orologio, gli africani hanno il tempo...
La prima a entrare è una donna di circa 40 anni, ma non è facile attribuire l’età a queste
donne dal fisico consumato da troppe gravidanze. Qualcosa del referto del pap test non
è chiaro. Paolo prende il telefono e chiama Given Hampungani.
Given, 28 anni, è il tecnico del laboratorio di anatomia patologica; giardiniere fino a
due anni fa, oggi è in grado di leggere un pap test e di allestire dei vetrini di istologia.
Paolo si informa sulla diagnosi della biopsia. Given consulta il computer e risponde che
ha appena parlato via Skype con Fabio a Desio: positiva ma superficiale.
Cosa sta succedendo in questo remoto ospedale africano? Un medico bianco visita
una donna nera e chiede un esito a un tecnico africano il quale a sua volta chiede
informazioni via web a un medico italiano che sta a Desio, vicino a Milano, che si
appoggia a un altro medico italiano che sta a Perugia!
Il segreto è ben visibile sul tetto del laboratorio, nella parabola bianca costantemente
puntata su un satellite posizionato sopra l’Africa, attraverso il quale passano tutte le
immagini microscopiche inviate dall’Africa e tutte le informazioni di risposta dall’Italia.
E ora raccontiamo questa storia dall’inizio.
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I Patologi Oltre Frontiera: Chi sono?
Nel 1999, al Congresso nazionale di anatomia patologica a Roma, un piccolo gruppo
di anatomo-patologi provenienti da diverse parti d’Italia considerò per la prima volta
il problema della drammatica assenza di patologi e di laboratori di anatomia patologica
nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo.
Vincenzo Stracca Pansa e Francesco Callea, primario l’uno a Venezia e l’altro a Brescia,
proposero di continuare il progetto di un collega recentemente scomparso, Vittorio
Tison, che aveva dedicato gli ultimi anni della sua vita a ripristinare a Mwanza, in
Tanzania, un laboratorio costruito dagli inglesi durante il periodo coloniale nel
Bugando Medical Centre, uno dei più importanti ospedali dell’Africa centrale. Il
laboratorio sopravviveva grazie a Mr. Sangudi, un tecnico africano che aveva studiato
sotto gli inglesi. Lui, da solo, preparava i vetrini istologici e citologici per poi inviarli
per posta ad anatomo-patologi americani o inglesi che restituivano la diagnosi via posta
o telefono: questo giro durava in media 3-4 mesi. Troppo.
Mwanza, seconda città della Tanzania, è sulla riva sud del lago Vittoria. In Tanzania,
nel 1999, per 30 milioni di abitanti c’erano 5 anatomo-patologi, tutti nella capitale Dares-Salam (in Italia, sono 2500 per 60 milioni di abitanti).
I Patologi Oltre Frontiera hanno iniziato la loro attività nel settembre 1999 organizzando
una staffetta: ogni mese, a turno, uno di loro si è recato a Mwanza con l’obiettivo di
formulare diagnosi e di formare almeno due anatomo-patologi e due tecnici, tutti
africani.
Nel 1999, i primi Patologi Oltre Frontiera di ritorno da Mwanza, fecero queste tre
osservazioni:
• l’intera Tanzania ha circa 30 milioni di abitanti e la sua guida del telefono è meno
della metà di quella della sola città di Milano;
• nelle città e nei villaggi più grandi sono spesso presenti internet café collocati
quasi sempre in locali di fortuna;
• molti giovani africani hanno un indirizzo di posta elettronica e/o un cellulare.
Quando, nel mese di agosto del 2000, arrivò il mio turno, in valigia, oltre agli oggetti
personali, infilai un piccolo microscopio con uscita fotografica e una macchina fotografica
digitale. Con questa strumentazione ridotta volevo sperimentare la ”telepatologia”,
vale a dire la trasmissione via internet di immagini catturate al microscopio, allegate a
un messaggio di posta elettronica, esattamente nello stesso modo in cui inviamo una
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foto delle vacanze. Così, appena arrivato a Mwanza, scattai alcune foto di vetrini al
microscopio, le scaricai su un floppy e da un internet cafè le spedii in Italia a colleghi
amici che le guardarono e mi inviarono il loro parere.
Bastava insegnare come spedire le immagini e far superare ai patologi italiani la
riluttanza a sostituire il microscopio con il monitor di un computer.
Il 31 dicembre 2007 il progetto Mwanza è stato chiuso perché il laboratorio ha raggiunto
l’obiettivo. Mentre scrivo si fanno circa 5000 esami l’anno, con un incremento del 20%
l’anno.
Per consolidare il lavoro dei medici africani ci serviamo della telepatologia.
Mwanza è la premessa di Chirundu.
Oggi i Patologi Oltre Frontiera in Italia sono più di 200 tra medici, biologi e tecnici
e sono impegnati in numerosi progetti sparsi in tutto il mondo: dopo Mwanza hanno
iniziato nuovi progetti a Cuba, in Palestina, in Kosovo e finalmente in Zambia,
argomento di questo libro.
Nel 2006 l’associazione Patologi Oltre Frontiera è diventata una ONG riconosciuta
dal Ministero degli Affari Esteri. Questo ha significato un riconoscimento importante
della attività svolta ma anche un impegno maggiore di cui il consiglio direttivo – fino
all’ultimo dei soci – ha dovuto e dovrà farsi carico.
Prima di iniziare a raccontare questa storia voglio qui citare i loro nomi: il dottor
Vincenzo Stracca Pansa (presidente e primario a Venezia), il dottor Paolo Giovenali
(tesoriere e primario a Perugia), la dottoressa Laura Viberti (consigliere e primario a
Torino), il professor Francesco Callea (consigliere e primario a Roma), il dottor Rosario
Tumino (consigliere e dirigente medico a Ragusa) e infine Tiziano Zanin (consigliere
e tecnico coordinatore a Genova).
Infine ci sono io, Agostino Faravelli, primario di anatomia patologica all'Ospedale di
Desio (in provincia di Milano), che dei Patologi Oltre Frontiera sono vice-presidente,
e che mi sono preso l'incarico e il piacere di raccontare qui la nostra storia.
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L’incontro
Nel 2003, grazie a un finanziamento del Festival della Scienza di Genova, i Patologi
Oltre Frontiera realizzano un documentario sulla modesta attività di telepatologia
svolta a Mwanza.
Il documentario arriva a Chirundu, in Zambia, in un piccolo ospedale italiano, dove opera
Paolo Marelli che, nel settembre 2004, viene a Desio, nell’ospedale dove lavoro.
Da quasi 30 anni fa il medico in Africa. Ha lavorato in Burundi, in Tanzania e adesso è
in Zambia. L’ospedale che guida si chiama Mtendere, che nella lingua locale significa
pace.
Dispone di un laboratorio per gli esami del sangue, una radiologia, un ecografo, un
ambulatorio dentistico, una farmacia, una bella sala operatoria, quasi 150 letti di
degenza suddivisi in pediatria, ginecologia, chirurgia, medicina, e isolamento infettivi.
C’è persino una sala riunioni, dove si discutono i casi e si tengono corsi di aggiornamento
per i circa cento infermieri.
I medici sono tre: lui – che si occupa prevalentemente
Paolo Marelli (a destra)
di chirurgia –, Elisa, un’anestesista che viene da
dell’ospedale Mtendere,
Mondovì e che ricopre anche il ruolo di direttore
in Zambia, insieme ad
Agostino Faravelli.
sanitario dell’ospedale e suor Flavia, un medico indiano
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patologi oltre frontiera
internista. Sei suore si occupano di un’infinità di funzioni sanitarie e organizzative.
Mentre lo ascolto, la parola “Burundi” evoca in me il 1972, quando, studente di
medicina, ammaliato dalla figura di Albert Schweitzer, il medico musicista fondatore
dell’ospedale di Lambarenè nel Gabon, mi recai in Africa come volontario per costruire
una scuola alla periferia di Mushitzi, un villaggio al centro nord del Burundi. Ne tornai
con una splendida moglie italiana, volontaria come me, e un sentimento che qualcuno
chiama mal d’Africa.
Ma cosa vuole Paolo da me?
“Il problema più grosso di Chirundu è l’impossibilità di disporre di diagnosi istologiche
e citologiche. In Zambia c’è un solo anatomo-patologo a Lusaka, a 150 km da Chirundu.
Se faccio una biopsia e gli mando il materiale, nella migliore delle ipotesi la diagnosi mi
ritorna dopo 6 mesi. Perciò tratto il paziente sulla base del mio intuito clinico e con i
farmaci di cui dispongo: se guarisce avevo ragione, se muore probabilmente si trattava
di altro. In Africa la più importante causa di morte nelle donne, anche per l’alto numero
di pazienti HIV positive, è il cancro dell’utero. Una diagnosi precoce con pap test e un
eventuale piccolo intervento, permetterebbe loro di non morire e anche di continuare
ad avere figli. Tu, che ti occupi di telepatologia, che cosa puoi fare per noi?”.
Sento un tono quasi di sfida, del tipo: tu che sei qui a giocare con i tuoi computer, prova
un po’ ad affrontare questo problema!
Ma se nell’ospedale africano non c’è un anatomo-patologo con cui dialogare che posso
fare? Paolo si addolcisce, mi racconta storie di vita, confrontiamo la mia piccolissima
esperienza africana con la sua, immensa, e concludiamo consapevoli che c’è ben poco
da fare, ma occorre comunque provare a farlo.
Mi chiede cosa so delle connessioni satellitari: pressoché nulla. Lui ha sentito di una
ONLUS del Vaticano, la SIGNIS, che fornisce impianti satellitari a prezzi modici per
ospedali e associazioni umanitarie. Il giorno dopo è a Roma.
L’informatizzazione di Chirundu è tale da fare invidia a molti ospedali italiani, ma la
connessione internet viaggia sulla linea telefonica, e perciò è lentissima e instabile. E
topi e ippopotami tranciano di continuo i cavi telefonici!
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Chi sono Paolo ed Elisa?
Paolo Marelli, medico, specialista in chirurgia dell’apparato digerente ed endoscopia
digestiva, classe 1949, brianzolo D.O.C.
Nasce e compie tutti gli studi fino al liceo a Cantù, in provincia di Como.
Fin da piccolo frequenta attivamente la parrocchia e l’oratorio.
Ha sognato dapprima di intraprendere la carriera di centravanti del Milan e poi di
diventare un ingegnere meccanico per poter costruire nuove Ferrari da corsa.
A scuola non brillava, anzi… Sua madre ancora oggi afferma: “Il mio Paolo a scuola era
un somaro”.
All’ultimo anno del liceo scientifico inizia una progressiva maturazione interiore che
lo porta inaspettatamente per tutti a decidere di diventare medico. Il suo obiettivo è
categorico: andare in Africa e diventare un medico dei poveri.
Sempre la madre racconta: “Studiava come un matto, non sembrava nemmeno più lui,
con quell’idea fissa di andare a fare il medico in Africa”.
Si laurea a Milano nel 1974 e per due anni lavora in Italia ma con l’Africa in testa: ha
fretta di imparare perché vuole partire…
Nel 1976 parte per il Burundi per svolgere i due anni di servizio civile alternativo al
servizio militare. Ormai la sua strada è segnata: il Burundi sarà la sua casa per più di 20
anni, fino al 1996.
Dopo due anni di lavoro a Kiremba torna in Italia per un breve periodo. Scalpita perché
sente dentro di sé una forza che gli impone di ripartire. La madre gli chiede ingenuamente:
“Ma questo è mal d’Africa?”. Paolo risponde: “No, sono i mali dell’Africa”.
È così che, con il suo fedele amico d’infanzia, don Flavio Colombo, intraprende
l’avventura della costruzione di un nuovo ospedale e del “centro di sviluppo sociale di
Butezi”, nell’est del Burundi.
Il progetto prevede, oltre alla costruzione e alla gestione di un ospedale, anche il lancio,
l’organizzazione e la gestione di diverse cooperative di produzione con l’intento di
fornire educazione e di creare ricchezza, coinvolgendo e responsabilizzando centinaia
di giovani locali.
Nel 1996, nel corso di uno dei periodici massacri tra le due principali etnie del paese
– gli Hutu e i Tutzi – Paolo, insieme agli altri volontari italiani che lavorano con lui,
deve lasciare a malincuore il Burundi in attesa di tempi migliori per quel piccolo e
martoriato paese.
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Si reca perciò in Zambia, a Chirundu, e si butta a capofitto in questa nuova avventura.
Per prima cosa deve imparare almeno due delle 77 lingue locali, il Chinyanja e il
Chitonga, per poter comunicare con i malati.
Siamo nel 1997 e ormai il mondo, anche nelle aree più sperdute, non può ignorare
l’informatica. Parte così a Chirundu un programma di informatizzazione dell’ospedale
da far invidia a molti ospedali italiani.
La direzione dell’ospedale da parte di Paolo e, successivamente, di Elisa porta quello
che una volta era un modesto dispensario a diventare uno dei migliori ospedali dello
Zambia, dove addirittura personaggi importanti della capitale, Lusaka, si recano per
essere curati.
Elisa Facelli è un medico, specialista in anestesia e rianimazione: classe 1961,
piemontese D.O.C.
Nasce e compie tutti gli studi fino al liceo a Mondovì, bellissima cittadina in provincia di
Cuneo. Figlia del primario pediatra dell’ospedale di Mondovì, solo al termine del liceo
decide di buttarsi nell’avventura
medica.
Si laurea in medicina a Torino con
il massimo dei voti con menzione
dicendo al presidente della seduta di
laurea: “Ma io non me lo merito”.
Spirito tenacemente laico e
determinato, rifiuta di seguire la
comoda strada segnata dal padre
e preferisce la più “scomoda”
specializzazione in anestesia e
rianimazione, occupandosi anche di
terapia del dolore.
Inizia la sua carriera medica
all’ospedale di Savigliano, vicino a
Elisa Facelli
Mondovì. Ed è qui che di nascosto
direttore sanitario dell’ospedale
Mtendere, in Zambia
nasce e cresce in lei il desiderio di
abbandonare la “grassa e viziata”
Europa per immergersi totalmente nella povera ma attraente Africa.
“La vita vera è là” dice ai genitori nel 1991, al ritorno da un primo breve periodo
esplorativo passato in Burundi. Voleva capire se avrebbe potuto reggere a quel tipo di
vita.
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Dal 1991 al 1999 alterna la vita “tranquilla” del medico ospedaliero in Italia con periodi
più o meno lunghi in aree disastrate del mondo: Bangladesh, Calcutta, Rio de Janeiro
e Chirundu, solo per citare alcuni dei posti dove ha passato le “ferie” o più o meno
lunghi periodi di aspettativa.
Il denominatore comune era sempre un duro lavoro al servizio di persone in difficoltà.
Il tutto vissuto con la naturalezza e la semplicità che contraddistingue in ogni momento
la sua personalità.
Alla fine del 1999 una nuova richiesta di aspettativa per recarsi in Zambia viene
rifiutata e da qui la decisione immediata di tagliare il cordone ombelicale con l’Europa
scegliendo la “full immersion” nell’Africa.
Nel 2000 firma il contratto con la Diocesi di Milano e inizia a lavorare con Paolo a
Chirundu.
In silenzio e senza strepiti ma con determinazione e testardaggine prende a svolgere il
suo prezioso compito prima di collaboratrice di Paolo, poi di direttore dell’ospedale.
L’attività è estremamente impegnativa ma Elisa riesce appieno a gestire il suo ruolo.
L’aspetto più difficile sembra essere il controllo dell’esuberanza di Paolo.
“Fortunatamente, accanto a me” dice Elisa “c’è una squadra di energiche suore: sono
silenziose, ma senza il loro lavoro quotidiano l’ospedale non andrebbe avanti. Solo loro
riescono a mettere in pratica le idee di Paolo... che non è cosa da poco”.
Spesso le senti borbottare: “Quel Paolo… di notte si sogna le cose da fare e di giorno
le fa”.
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L’idea
Il progetto comincia così a prendere forma: istruire due tecnici insegnando loro a
strisciare, colorare e leggere i pap test. E, in aggiunta, a scattare fotografie con un
microscopio e una fotocamera digitale, per spedire in Italia, grazie alla connessione
satellitare, le foto dei casi positivi o sospetti, per avere diagnosi verificate da
professionisti.
Ma chi formare?
“Given!” dice Paolo. “ Il nostro giardiniere, diventato abile ottico in soli due mesi!”
E come fare per l’istologia? In un anno si può formare un tecnico, ma per un patologo
ce ne vogliono undici.
Da pochi mesi è disponibile un nuovo strumento della NIKON, il COOLSCOPE,
una specie di microscopio digitale. Basta inserire un vetrino e connettersi via internet
dall’Italia, ed è possibile manovrare lo strumento a distanza, per vedere dei preparati
istologici, anche se in modo non ottimale! Costa 15.000 euro. Per installare un
laboratorio di anatomia patologica con il minimo indispensabile e due anni di fornitura
del materiale di consumo, ci rivolgiamo a una ditta specializzata, la Biooptica. Il titolare
è non solo un venditore ma anche un amico. Ci dà una mano con un prezzo di favore
ma in ogni caso ci vogliono altri fondi.
Se Paolo ha detto “Given!” io dico “Battista!” che, tra i Patologi Oltre Frontiera, sta
per Benefattore.
L’ho incontrato qualche anno fa, dopo uno spettacolo teatrale per bambini. Saputo che
il ricavato delle serate andava a iniziative come quelle dei Patologi Oltre Frontiera,
ci aveva invitato con lo spettacolo al suo paese, Fenegrò, Como. Serata fruttuosa. Da
allora ogni anno torniamo a Fenegrò.
Andiamo con Paolo da Battista. Gli racconto del progetto e apparentemente non
manifesta alcun interesse. Ad un certo punto mi interrompe e mi chiede seccamente:
“Quanto ti occorre?”. Mentre cerco balbettando di fargli capire che volevo motivare
la mia richiesta, lui mi risponde: ”Ma cosa vuoi che ne capisca di cellule e di tumori?
Io mi fido ciecamente di te. Il tuo ruolo è chiedere e fare, il mio è pagare e questa è la
realtà. Per cui facciamola breve e dimmi quanto ti serve”. Sempre con voce traballante
abbozzo una cifra e rispondo: “40.000 euro”. Lui mi guarda sorridendo e mi dice:
“Tutto qua? Credevo volessi molto di più. Domani ti faccio avere la somma”.
Paolo mi guarda con occhi quasi pieni di lacrime, con l’entusiasmo di un bambino
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della nostra generazione al quale hanno regalato un’automobilina a pedali di latta.
Ma tutto questo non basta ancora.
L’ospedale Mtendere è a tutti gli effetti zambiano ma, per oltre l’80%, vive grazie
ai contributi economici della Diocesi di Milano. Capo dell’Ufficio Missionario è don
Gianni Cesena, “datore di lavoro” di Paolo. Parliamo con lui prima che Paolo torni in
Zambia: la diocesi si farà carico dei viaggi dei docenti.
Comincio a pensare che forse la Provvidenza esiste, laica magari, ma esiste. In poco
tempo abbiamo avuto un’idea e abbiamo trovato i soldi per realizzarla.
Paolo riparte per lo Zambia. Io comincio a cercare i volontari, e mi rivolgo a una collega
di Torino già stata in Tanzania, Laura Viberti, e, su consiglio di Carlo Sbona, a Rita
Baroni, tecnica di anatomia patologica di Bologna. Entrambi aderiscono al progetto
con entusiasmo.
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patologi oltre frontiera
La valutazione di fattibilità
Partiamo per lo Zambia il 27 dicembre 2004. Il viaggio è finalizzato alla valutazione di
fattibilità del Progetto-Zambia.
Con me ci sono Renata, mia moglie, e mio figlio Jacopo.
Paolo ci viene a prendere all’aeroporto e, fatte le spese a Lusaka, partiamo per Chirundu
lungo la camionabile che va da Dar Es Salam a Città del Capo.
È dicembre, il periodo più caldo dell’anno. Lungo la strada incontriamo camion
enormi, stracarichi. Nel periodo delle piogge la strada, in alcuni tratti, si trasforma in
un torrente e i camion restano bloccati per giorni e giorni.
Arriviamo che è sera. Il villaggio è collocato sulla riva sinistra del fiume Zambesi.
La riva opposta è Zimbabwe (ex-Rhodesia del sud). Un ponte di ferro consente di
raggiungere il Sudafrica.
Chirundu è uno snodo fondamentale lungo il percorso nord-sud ed è luogo di confine;
qui sostano decine di camion nell'attesa delle procedure di controllo.
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Il nostro alloggio è un’accogliente casetta con cucina, salotto, quattro camere con bagno e due letti con zanzariera e acqua calda. Dalla finestra principale si vedono il fiume, il ponte e lo Zimbabwe.
C’è Amos che si occupa della casa. Fa le pulizie, lava, stira e cucina: pollo con patate,
patate con pollo, pollo con banane e banane con pollo. Ogni tanto fa anche la pizza.
Siamo tutti a cena a casa di Paolo: c’è anche Elisa, l’altro medico, e un oculista, Carlo
Capoferri, di Milano, venuto a operare un po’ di cataratte.
La mattina dopo siamo tutti in ospedale. Entriamo in un ampio cortile ben tenuto
circondato da porticati dove si affacciano i reparti di ricovero.
Visitiamo gli spazi del nuovo laboratorio in costruzione. Dopo avere identificato dove
mettere le apparecchiature per la citologia e l’istologia, apriamo il pacco con la strumentazione per la connessione satellitare. Si capisce poco, ma ci sono le istruzioni.
Paolo prende la scala, sale sul tetto, dove aveva provveduto a far saldare un supporto
adeguato, e monta la parabola. Istruzioni alla mano e con un computer portatile, comincia il puntamento verso il satellite.
Comincia così un procedimento di puntamento più o meno manuale che si conclude
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con un urlo di gioia collettiva, quando compare un segnale adeguato: finalmente abbiamo una connessione
satellitare che ci servirà per dialogare
con Skype via pc e per cominciare a
fare le prime prove di scambio di immagini!
Nei giorni successivi organizziamo il
corso e individuiamo il secondo ragazzo da istruire come tecnico: sarà
Wilbroad, che attualmente lavora
come impiegato.
Intanto Carlo, l’oculista, soffre in silenzio per la perdita di Given, il suo
“ottico-giardiniere” di fiducia.
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La preparazione del corso
L’avvio del corso è previsto per l’aprile del 2005.
Contatto anche i due operatori che ci avevano già aiutato con il documentario in Tanzania: Giovanni Pitscheider e Alberto Osella. Troveremo come pagarli.
Intanto Laura Viberti e Barbara Zingaro a Torino, insieme a Rita Baroni a Bologna
continuano a cercare volontari disposti ad andare in Zambia a insegnare la citologia
vaginale (primo corso), e il mestiere di tecnici di laboratorio di Anatomia Patologica
(secondo corso).
Ci manca però ancora il microscopio a tre teste per svolgere l’attività didattica: un apparecchio che costa circa 7000 euro, scontato.
Mi ricordo che in dicembre a Chirundu c’era Marco Goglio, presidente di una ONLUS
con uno strano nome: “L’avete fatto a me”.
MARCO GOGLIO RACCONTA
Sono il presidente di quella strana Associazione che Tino non capisce cosa mai voglia
dire… (o finge). “L’avete fatto a me” si ispira alla frase di Gesù (Mt 25,40) con la quale dice ai discepoli che quello che viene fatto agli ultimi nella scala sociale è fatto direttamente a lui. L’Associazione nasce nel 2004 ed è legata alla Diocesi Ambrosiana.
Il nostro obiettivo è quello di rispondere a richieste e bisogni di formazione che ci
sono posti da ospedali, dispensari e presidii sanitari nel Sud del Mondo.
Siamo circa 80-90 soci tra medici, infermieri professionali, educatori e personale
amministrativo disposti ad andare in loco per insegnare quello che sappiamo.
Per noi, l’importante è lasciare un sapere locale: insegnare come leggere un vetrino
o come eseguire l’intervento di cataratta serve più del soggiorno episodico dello
specialista che poi rientra in Europa.
È un concetto semplice ma non sempre condiviso tra noi specialisti!
Ho conosciuto Tino nel viaggio del 2004, quando con Luisella, mia moglie, sono arrivato in Zambia per portare un apparecchio per la misurazione dell’ECG che, collegato alla rete telefonica, trasmette il tracciato a un server Italiano da dove un’équipe
di cardiologi può leggere gli esiti (dr. Parati, Auxologico di Milano).
L’Africa è sempre un’esperienza esclusiva dal portico della stanza vedi scorrere lento
lo Zambesi e, se sei fortunato, vedi gli ippopotami giocare nell’acqua. Se sei sfortunato li vedi girare sullo sterrato verso sera, ed è meglio scappare! Di notte senti
galli, asini e cani ma anche canti d’uccelli con suoni mai ascoltati e ancora tam,
tam, tam, tam…
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patologi oltre frontiera
Marco mi comunica che a Mozzate (in provincia di Varese) con un torneo di freccette
hanno raccolto ben 2500 euro per Chirundu. Decidiamo di uscire una sera a mangiare
una pizza con Don Cesena: dopo il limoncello il microscopio è sicuro, la diocesi metterà i 4.500 euro mancanti. Possiamo davvero incominciare.
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Inizia il corso
14 aprile 2005, ripartiamo per Chirundu, in sei, carichi come asini. Sono con me:
• Barbara, avvenente e pignola biologa torinese, esperta in citologia vaginale;
• Vanessa, sua sorella, detta Palestina per il suo splendido volto mediorientale, col
ruolo di turista accompagnatrice;
• Giovanni Pitscheider, cineoperatore e regista, vero “integralista” della ripresa;
• Alberto Osella, uomo sensibile e curioso. Un’ora con lui e si riempie un taccuino
di appunti: da una ricetta di cucina a un mega-progetto editoriale. Il suo ruolo è
quello di responsabile della produzione;
• Davide, figlio di Alberto, liceale che ci studia tutti dal suo mondo distante mille
miglia. Tutti torneranno con il mal d’Africa, lui con il sogno di rigustare una fortunosa millefoglie alla crema, da me cucinata in una serata africana.
Al gruppo vanno aggiunti, come fossero persone fisiche, viste le dimensioni, un Coolscope, montato su un carrellino con rotelle, più largo di un corridoio aereo, e la telecamera che Giovanni coccola come una amante.
In realtà un Coolscope era già a Chirundu ma si era impallato e la riparazione a distanza
era difficoltosa.
Il nuovo Coolscope è una scatola di metallo che contiene una specie di microscopio
che può essere mosso elettronicamente, con il mouse del computer; è collegabile a
internet e perciò, una volta in rete, si può vedere sul monitor di un computer quello
che il Coolscope sta inquadrando. In pratica, chi dall’Italia o da qualsiasi altra parte del
mondo si connette potrà muovere a distanza questo microscopio e vedere ciò che si
sta vedendo a Chirundu. La qualità dell’immagine è discreta e consente di formulare
diagnosi, anche se un po’ grossolanamente.
Il microscopio per la didattica è invece già partito e lo recupereremo a Lusaka.
Il viaggio come al solito è allucinante: lunghissimo e scomodissimo oltre che affollato.
E devo ogni volta spiegare per filo e per segno che cosa è il Coolscope e a cosa serve,
e ogni volta devo abbandonare qualche cosa, non ultimo il piccolo cacciavite annesso
allo strumento, possibile arma impropria!
Il viaggio Lusaka-Chirundu si svolge senza intoppi, arriviamo col buio.
In ospedale ci sono alcune importanti novità: il laboratorio è finito anche se non
ancora completamente allestito e l’organico dell’ospedale si è arricchito di un
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patologi oltre frontiera
nuovo medico, Roberto, otorino italiano che è qui con un contratto di un anno.
L’indomani, tutti al lavoro: io mi impegno nel montaggio del microscopio, mentre Giovanni comincia a fare riprese di qualsiasi cosa gli passi davanti e, come se non bastasse,
affida a Davide la macchina fotografica per riprendere quello che sfugge alla telecamera, oltre a se stesso in azione.
ALBERTO OSELLA RACCONTA...
Ritrovarsi nel recondito angolino di uno sperduto quanto affascinante paese africano, con personaggi come Tino Faravelli e Giovanni Pitscheider è un’esperienza
surreale. Per Giovanni, discendente da pittori quali Mosé Bianchi e Pompeo Mariani,
il gusto e la luce di un’inquadratura sono tutto.
L’intervista al neo-tecnico Wilbroad pare girata su un altopiano. Invece, con tutta l’Africa a disposizione, Giovanni ha deciso che la location ideale era sul tetto dell’ospedale, con copertura di lamiera, in discesa. Giovanni si è poi lamentato delle
risposte laconiche, ma il povero Wilbroad, che per l’occasione
indossava le sue scarpe buone con le suole di cuoio, era soGiovanni
prattutto impegnato a non scivolare di sotto, mentre Giovanni
Pitscheider,
regolava fuochi e diaframmi.
cineoperatore
A volte Giovanni ha delle intuizioni fulminanti per realizzare
e regista
scene di raro impatto simbolico. Allora, punta i piedi per ottenere quello che gli serve, fa i capricci e, incredibilmente, tutto l’ospedale si attiva
e lo asseconda. È così che è stata realizzata la scena finale del piccolo paziente che
apre la fontanella e l’acqua che scorre è ripresa dal basso grazie a una benedetta
lastra di vetro dalle dimensioni ben precise…
In laboratorio Barbara inizia ufficialmente il ciclo di lezioni, secondo i canoni classici:
prima la teoria, poi la pratica al microscopio. I due ragazzi mostrano interesse e dedizione inaspettati. La sera si portano a casa
gli appunti per ripassare e la mattina sono
puntualissimi, pur continuando a lavorare
a metà tempo, uno come giardiniere e l’altro come segretario.
Le giornate sono un concatenarsi di avvenimenti che hanno come denominatore
comune l’assillo di Giovanni a documentare tutto. Preceduto da Alberto e seguito
da Davide che trasporta il necessario per
ottimizzare la luce, Giovanni passa dalla
parabola africana
25
cima di un baobab all’ultimo gradino di una scala, dal farsi appendere a un ventilatore
al salire sulle ruote di un TIR. Il vero spettacolo è vederlo lavorare.
Nonostante questa distrazione, procediamo col nostro programma che prevede anche incontri con medici di alcuni ospedali vicini e con il direttore dell’anatomia patologica di Lusaka. Vogliamo mettere a disposizione di ospedali che hanno la corrente elettrica per solo 5-6 ore al giorno la possibilità di disporre di diagnosi certe.
Oltre a preparare i nostri due tecnici, dobbiamo lavorare anche sui medici, futuri fruitori delle nostre diagnosi.
Così organizziamo una lezione introduttiva per i rappresentanti di alcuni ospedali
vicini selezionati da Paolo con criteri di amicizia o di opportunità politica.
Verso le dieci del mattino di lunedì arrivano tutti, abbastanza puntuali nonostante
le difficoltà di trasferimento. Sono una corpulenta suora-medico polacca in azzurro e
quattro medici locali.
Cominciamo così con una lezione-ripasso sulla anatomia del collo dell’utero, su quello che può dirci un pap test ben fatto e sulle prospettive che si possono aprire alle
donne africane con questo tipo di indagine diagnostica. Poi affrontiamo il problema
della necessità di integrare il nostro lavoro con l’intervento di altri specialisti in grado
di insegnare linee terapeutiche qui mai applicate, non solo per problemi economici.
Infine non ci resta che incontrare l’unico patologo zambiano per impostare con lui un
possibile rilancio a livello nazionale della nostra disciplina.
Caricati tutti gli armamentari
di Giovanni nella 4x4 di Paolo, partiamo per l’University
Teaching Hospital di Lusaka dove lavora il dottor Victor Mudenda, una specie di
panda, unico rappresentante
in Zambia della nostra categoria.
L’ospedale nel complesso fa
la sua figura, ma l’istituto di
anatomia patologica è mal
messo, con attrezzature fatiscenti.
Victor Mudenda ha studiato
La diga di Kariba, sul fiume Zambesi, al confine
in Inghilterra. Lo invitiamo
tra Zambia e Zimbabwe. Costruita al termine degli
subito a Chirundu, in modo
anni ‘50, è tra le più grandi al mondo.
26
patologi oltre frontiera
che possa vedere e valutare di persona cosa stiamo facendo, con la promessa di coinvolgerlo nei programmi.
Non trascuriamo neppure turismo e convivialità.
Visitiamo la diga di Kariba, costruita dagli italiani negli anni ’50 e indirettamente
causa della nascita dell’ospedale, allora infermeria per gli operai italiani. Ci addentriamo poi nel bosco di baobab.
Al ritorno, la sera, con ancora negli occhi le maestose figure degli alberi centenari,
insieme ad Alberto improvvisiamo una cena all’altezza della giornata: lasagne al forno,
risotto alla milanese, spaghetti alla creola e millefoglie con crema pasticcera.
parabola africana
27
La staffetta dei docenti
Della formazione di Given e Wilbroad come tecnici di anatomia patologica si sono
occupati, da aprile 2005 a giugno 2006, due gruppi di docenti: il primo costituito da
medici, biologi e cito-tecnici esperti di citologia cervico-vaginale, il secondo da tecnici
di laboratorio. La prima squadra è stata assemblata da Laura Viberti, con l’aiuto di Barbara Zingaro, biologa. Della seconda si è fatta carico Rita Baroni.
Il corso di citologia è stato così composto:
• una biologa canadese di passaggio a Chirundu: febbraio-marzo 2005;
• Barbara Zingaro, biologa (Savigliano, CN): aprile 2005 e gennaio 2006;
• Stefano Guzzetti, medico (Milano): maggio 2005;
• Daniela Fenocchio, medico (Perugia): luglio 2005;
• Roberto Monaco, medico (Napoli): agosto 2005;
• Roberto Macchi, medico (Milano): settembre 2005;
• Laura Viberti, medico (Torino): ottobre 2005;
• Sergio Arnaud, biologo (Torino): dicembre 2005.
Nell’ottobre 2005 Given e Wilbroad sono passati a tempo pieno in laboratorio e hanno
suddiviso la loro giornata tra l’attività di apprendimento e quella di tecnici di anatomia
patologica. Intanto l’efficiente squadra di tecnici si rimboccava le maniche per allestire
il laboratorio. La squadra del corso di istologia era così composta:
• Rita Baroni (Bologna), ottobre 2005;
• Stefano Simonazzi (Bologna), novembre 2005;
• Morena Cavazzini (Torino), dicembre 2005;
• Paola Ferrara (Roma), gennaio 2006;
• Milena Pariali (Bologna), maggio 2006 e settembre 2007.
Conosciamoli un po’ più da vicino.
Barbara Zingaro
È stata la prima che, con me e Laura, si è buttata a capofitto nel progetto: biologa,
torinese di origine pugliese, riesce a far convivere la pignoleria piemontese con il fascino della donna mediterranea. Con Laura ha steso il programma anche per gli altri. È
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patologi oltre frontiera
l’attuale coordinatrice dei volontari che lavorano con noi in Italia. Ha sempre resistito a
mettere per iscritto le sue sensazioni africane. Non ci era mai stata. So che ne è tornata
trasformata.
Stefano Guzzetti
Anatomo patologo lombardo, recentemente trasferitosi a Torino, dove lavora come collaboratore di Laura. È stato Patologo Oltre Frontiera in Tanzania e in Palestina, oltre
che in Zambia. Ecco Stefano “poeta”nel suo primo viaggio da Lusaka a Chirundu.
STEFANO GUZZETTI RACCONTA...
Cominciamo a percorrere la strada al tramonto, ci lasciamo dietro le ultime case
finché non resta che l’asfalto e l’Africa ai bordi, e davanti a noi circa duecento chilometri: per me nuovi di zecca, per chi sta guidando vecchi e logori, ma sicuramente
ancora affascinanti, visto che, nel corso della sua vita, avrebbe potuto scegliere
percorsi senza dubbio più tradizionali.
La strada va da Lusaka a Chirundu e ci vuole una buona carta geografica per scoprire
dove mai sono questi due posti: la nazione si chiama Zambia, un nome nuovo per
questa fetta di continente che gli uomini bianchi venuti dall’Inghilterra avevano
chiamato Rhodesia.
Lusaka è la capitale dello Zambia e questo già lo sanno in pochi; Chirundu, invece,
luogo al di là delle conoscenze medie dell’uomo che ci piace chiamare acculturato,
si trova circa duecento chilometri più a sud, lungo questa strada, proprio dove la
fetta d’Africa chiamata Zambia finisce e inizia un’altra fetta chiamata Zimbabwe: in
mezzo scorre il fiume, e questo fiume si chiama Zambesi e ti chiedi perché da queste
parti tanti nomi comincino per z. Forse perché è pieno di zanzare.
Tra Lusaka e Chirundu c’è una strada che merita di essere raccontata. Nasce lontano,
più a sud, nel prospero Sudafrica, e porta qualche briciola anche in queste terre
dove, forse non a caso, i nomi dei posti cominciano con l’ultima lettera dell’alfabeto.
La strada parte dritta e asfaltata. Ai lati c’è savana, arida, in parte bruciata, ma
anche quella non bruciata ha comunque i colori caldi del fuoco, un po’ perché il
sole sta tramontando e carica tutte le sfumature, un po’ perché quest’anno non è
piovuto molto da queste parti e quindi gli alberi hanno rinunciato al verde. Hanno
vinto il giallo, il rosso, il marrone, colori che qui non dicono molto di buono: dicono
che quest’anno si avrà sete.
Ai lati della strada c’è gente, c’è sempre gente. C’è gente anche quando abbiamo
percorso ormai quasi una cinquantina di chilometri e attorno a noi sembra esserci
sempre e solo savana. I più camminano lentamente, qualcuno ha una valigia, un
parabola africana
29
sacco, qualcosa da portare, qualcun altro inforca o spinge una bicicletta. Da quelli
che camminano, ogni tanto si alza un braccio, a volte per salutare, spesso per
chiedere un passaggio. Lo fanno in un modo strano: se camminano nella tua stessa
direzione, non voltano la testa a guardarti, muovono solo la mano e non si fermano.
Forse camminando hanno preso il giusto ritmo e non lo vogliono perdere, forse fanno questo gesto automaticamente, ogni volta che sentono un motore avvicinarsi,
con scarsa convinzione, con l’idea che un’auto che si ferma è come un dono dal
cielo, da queste parti, e che – in quanto tale – non capita certo tutti i giorni.
Fra un po’ la notte li inghiottirà tutti, pelle nera contro cielo e terra neri, diventeranno invisibili: a noi uomini bianchi dagli occhi impigriti dalle luci della civiltà
resterà forse da vedere solo il loro sorriso, per noi quegli uomini diventeranno
allegri fantasmi svolazzanti nel buio.
Vanno a casa, gli allegri fantasmi, in case che esistono davvero, anche se io non
sono capace di vederle perché ormai non c’è più luce, perché il sole se n’è andato
prima a svegliare i pesci sopra l’Atlantico, poi a intrufolarsi in altre case dall’altra
parte del mondo, quella dove ci sono le case che si vedono anche di notte e che
forse anche per questo chiamiamo America.
30 patologi oltre frontiera
Troppo facile, adesso che il mio compagno di viaggio me l’ha spiegato, intuire fra
la vegetazione ai bordi della strada innumerevoli, piccoli villaggi dove manca tutto,
dove la vita ha un sapore che neanche lo immaginiamo, dove non arriva niente e
ogni cosa va presa da lontano e portata lì, e piantiamola di chiederci come farà mai
questa gente a campare. È una domanda inutile, che gira su se stessa: campare è il
loro mestiere, la loro professione. Lì si vive per vivere, se va male per sopravvivere,
e va male spesso... Portare acqua a casa è il loro mestiere, come portare cibo e
portare luce, che qui vuol dire fuoco.
È strano, se sposti appena lo sguardo dai lati al centro della strada, sei investito
da immagini e sensazioni completamente diverse: il buio allontana, fa dimenticare
in fretta le cose, e quello che si vede sulla strada sembra lontano anni e chilometri
da quei villaggi nascosti.
Sulla strada, tanto per cominciare, ci sono un sacco di camion: il mio compagno li
conosce bene, ci combatte spesso.
Giudica con occhio clinico la loro pericolosità in base al numero degli assi, insomma, conta quante ruote hanno: più ne hanno, più sono potenziali divoratori di
automobili e, quando mancano le automobili, si sbranano fra loro.
Ho visto camion ipertrofici, impensabili, dalle nostre parti, con un paio di rimorchi
(da noi li chiamerebbero treni merci), con vecchi motori che scaricano nell’aria certi
nuvoloni neri che di notte non si vedono, ma si annusano, e quell’ odore a volte
si mischia ad altri effluvi, di bosco, di paglia, e ti dice che anche qui, arrancando,
l’Uomo sta cercando di lasciare la propria firma.
E di nuovo guardo ai lati della strada, verso quei posti lontani anni e chilometri, e
penso che a tutte le donne e gli uomini che vivono lì di tutto ciò che accade lungo
questa strada probabilmente resterà solo l’odore.
Il mio compagno tratta questa strada come noi tratteremmo quella che ci porta
al lavoro tutte le mattine: ne conosce i punti deboli e i punti forti, sfrutta questi
ultimi per lasciare alle spalle questi minacciosi bestioni, con un’abilità che è consentita solo agli storici pendolari della Lusaka-Chirundu.
Anche se puoi lasciartene qualcuno alle spalle, sono comunque i bestioni che decidono le sorti di tutti i viaggiatori: ne basta uno che viaggia male, sbanda e si mette
di traverso ed ecco che il flusso di cose e persone è presto interrotto, e gli effetti
di questa ostruzione si propagano veloci, come un’onda gigantesca che fa cambiare decisioni, oppure regala il tempo di ritornare su decisioni prese prima, magari
sbagliate, o anche, se per caso stai rientrando a Lusaka per prendere un aereo, ti
omaggia di qualche giorno in più in questa difficile terra.
A volte i lati della strada accolgono gli esiti di questi intoppi: giganteschi automezzi rovesciati e abbandonati in pose assurde anche per le loro articolazioni meccaniche, lasciati lì a ricordarti che il destino gioca qui un ruolo sempre più importante
parabola africana
31
di quanto non lo giochi dalle nostre parti, e che questa è una cosa che non devi
dimenticare mai, se vuoi accettare e capire tutto ciò che capita quaggiù.
Ma adesso cominciano le colline, le curve, è sempre più difficile avere la meglio sui
bestioni che rallentano, affaticati.
Ai lati della strada, quasi irreali, cominciano i fuochi.
Lingue di bosco in fiamme abbastanza grandi da permetterci di percepire un altro
odore, non meno acre dei sospiri dei camion, e la luce, questa strana luce giallognola e irregolare che accompagna il fumo degli incendi: questa strada è capace di
offrirti anche questo spettacolo che, insieme alle curve e alla notte, ti suggerisce
definitivamente di abbandonare ogni termine di paragone con il mondo che conosci bene, quel mondo sonnecchiante e controllato dove scorre la tua vita di tutti i
giorni.
Si brucia il bosco per avere l’erba, perché il suolo offeso sia stimolato a ricominciare, alimentato da quanto di buono resta fra le ceneri di un incendio... Presto
lì ci sarà erba verde, colore raro da queste parti, e quell’erba permetterà, tutto
sommato, un magro pascolo a quegli animali addomesticati dagli uomini che poi
finiranno per permettere a quegli stessi uomini di sopravvivere: si brucia il bosco
per mangiare, e forse a questa natura imponente i fuocherelli dei poveri uomini non
danno neanche tanto fastidio, pare non accorgersene nemmeno.
Dietro l’ennesima curva, compare il Villaggio degli Uomini, come annuncia il mio
compagno, intesi come esseri umani di sesso maschile, che in questo villaggio sono
la stragrande maggioranza. Dove c’è una strada così importante, ci sono camion.
Dove ci sono camion ci sono camionisti e dove ci sono camionisti ci sono altri
uomini e donne ai lati della strada che campano mettendo a disposizione dei primi
quel che serve a rendere il viaggio il più piacevole possibile.
Fino a non molto tempo fa, il Villaggio degli Uomini era famoso tra i viaggiatori per
le splendide ragazze dedite al mestiere più antico del mondo. Nel giro di poco tempo, le donne sono state spazzate via dal nuovo virus a cui quel mestiere ha offerto
irripetibili possibilità di proliferare, con particolare efficacia proprio quaggiù, dove
non c’è abbastanza denaro per combatterlo.
Sono rimasti gli uomini, quelli di sesso maschile che oggi vedono passare i camion
dal loro villaggio e non hanno più molto da offrire. Le ultime curve ci regalano la
discesa verso il fiume, altri villaggi, magari con storie meno tragiche, gruppi di case
sempre più fitte, una specie di “banlieu”, poi, alla fine, la meta. Ce l’abbiamo fatta,
siamo un po’ più ricchi di quando siamo partiti da Lusaka.
Sono a Chirundu da un paio di settimane, ogni giorno passa in fretta: fare qualunque cosa qui è diverso dal farla lassù, nel primo mondo, richiede più attenzione, più
consapevolezza. Ma a sera, quando rientro a casa, il tempo scorre più lentamente.
32
patologi oltre frontiera
Stare qui, lontano da grandi città e da ogni urbanizzazione, dà l’impressione di
avere viaggiato nel tempo, oltre che nello spazio.
Chirundu è l’Africa, solo un gradino più su di come l’aveva vista Livingstone che
visse e morì da queste parti con il chiodo fisso di scoprire le sorgenti del Nilo. Ma
qui, su questo gradino, ci stanno camion, camionisti, polizia di frontiera, meccanici
e puttane: se solo la gente non avesse la pelle così nera, e non ci fosse nell’aria la
puzza di vecchi motori diesel, si potrebbe pensare di essere finiti in piena epopea
del far west!
C’è povertà ma non miseria, a Chirundu, nel senso che c’è ancora dignità, che è
quella che fa la differenza, che è quella che la miseria ti porta via. Qui la gente
sorride e ti saluta con quel gesto straordinario, la mano destra aperta sul petto, che
sa di antico e di gentile. E questa è ricchezza.
C’è l’ospedale, poi, a Chirundu, un vero fiore nel deserto, e ci sono mille malattie,
ma è la malaria che la fa da padrona: poco più di un’influenza per l’occidentale, il
più delle volte mortale per i locali denutriti che capitano ogni giorno nello stanzone delle “casualty”, come chiamano qui il pronto soccorso.
C’è buio, fuori, il nero sta bussando anche alla mia finestra, ormai gli occhi non mi
saranno più utili per sapere cosa accade. Un po’ ne ho paura, un po’ mi incuriosisce:
penso a quel geniale aviatore francese che inventò il Piccolo Principe, personaggio
ingenuo e disarmante che a un certo punto capì che “l’essenziale è invisibile agli
occhi”.
Daniela Fenocchio
Daniela, anche lei medico specialista in anatomia patologica, lavora all’ospedale di Perugia. In casa sua sono tutti Patologi Oltre Frontiera e suo marito è il tesoriere della associazione. Ha partecipato al progetto Tanzania ed è responsabile del progetto Cuba e del
neonato progetto Madagascar. Daniela è una fantastica compagna di viaggio, sa ascoltare,
è un’ottima cuoca, e una fumatrice accanita (tanto che dove scrive: “con qualche pausasigaretta”, bisognerebbe leggere: “con qualche pausa senza sigaretta…”).
DANIELA FENOCCHIO RACCONTA...
Ancora oggi non lo so. Perché io a Chirundu? Forse perché non so dire di no, per
costituzione, e perché prendo ogni proposta come una sfida con me stessa.
Arrivo all’aeroporto di Lusaka dopo un viaggio interminabile. Trovo ad aspettarmi il
“mitico” dottor Paolo Marelli. Comincia il viaggio, splendido, indimenticabile quanto inquietante, verso Chirundu, percorrendo la carrabile che attraversa il Sudafrica
parabola africana 33
con ai bordi villaggi e giganteschi baobab: una strada dove transitano camion,
assimilabili nella mia mente al mostro di
Duel di Spielberg.
E poi ecco Chirundu, ecco la casa sulle rive
dello Zambesi in una notte di luna piena.
Uno spettacolo che solo la provvidenza,
seppure laica, può avemi riservato.
La cena della sera dell’arrivo è, per tradizione, comunitaria. E così conosco i miei
compagni di avventura: Roberto, otorino,
e Daniele e Monica, marito e moglie, anestesista e infermiera. Conosco i miei due
studenti, Given e Wilbroad, un po’ ansiosi ma pieni di interesse e ben motivati.
Passo le mattine a preparare le lezioni, con qualche pausa-sigaretta sulle rive dello
Zambesi, e il pomeriggio a fare lezione, con gli intermezzi di Amos, che mi chiede
ricette di cucina.
In un primo momento il dottor Marelli mi inquieta, mi sento continuamente sotto
esame. Tengo a bada la mia naturale insicurezza, sfoderando efficienza e disponibilità. Poi arrivano mia sorella e Raffaella: passiamo le giornate, chi immerso
nel lavoro (io), chi in contemplazione (loro). Mentre le serate scorrono in lunghe
chiacchierate (tutti insieme).
Materia del mio insegnamento sono le lesioni preneoplastiche nella cancerogenesi
cervicale; mi rendo conto giorno per giorno con quanta facilità questi due ragazzi,
che non hanno conoscenze scientifiche specifiche, apprendano!
Quando è arrivato il momento della partenza sono stata felice di sentirmi dire da
Paolo: ”Spero di rivederti l’anno prossimo”.
E in effetti sono tornata, per preparare Given e Wilbroad all’esame europeo di competenza nella lettura dei pap test.
Vivo questa seconda esperienza sentendomi molto più a mio agio, ormai fra amici.
La partenza è molto più triste perché il progetto ormai volge al termine.
Tornerò ancora una volta, ma solo per tre giorni.
In questa serata che passo a scrivere questo minimo racconto di viaggio sono a
Perugia, nella mia casa con Paolo, mio marito, Michele, mio figlio e con Given, che
ormai è qui da oltre un mese per imparare la tecnica dell’immunoistochimica, ormai
indispensabile nel laboratorio di Chirundu. Quello che continua a stupirmi è la sua
volontà di apprendere. Considera una gran fortuna l’essere stato inserito in questo
progetto, che gli ha cambiato la vita. Ma lui non sa quanto mi senta fortunata io
per averlo potuto conoscere e apprezzare, per potermi considerare sua amica e per
sentirmi quasi di casa a Chirundu.
34
Patologi Oltre Frontiera
Roberto Monaco
Medico, anatomo-patologo. Lavora all’ospedale Cardarelli di Napoli. È un Pulcinella
con il “mal d’Africa” .
ROBERTO MONACO RACCONTA...
Agosto 2005. Sono diretto in Africa, precisamente in Zambia, in un piccolo villaggio, Chirundu, di cui non so quasi niente se non che è sulla riva del fiume Zambesi.
A Lusaka trovo ad attendermi due allegri personaggi con un minibus bianco/azzurro che mi caricano e andiamo a fare un po’ di spesa. Poi i miei accompagnatori
decidono di stazionare davanti al market allo scopo di prendere a bordo qualche
viaggiatore con destinazione compatibile, così da trasformare il viaggio in un buon
affare. Comincia ad oscurare, il viaggio traballante prosegue, su strade frequentate
da ogni possibile forma di vita, tra salite e discese tortuose, in scenari da savana
alternati a verdeggianti colline, con l’incredibile luce del crepuscolo africano che
bisogna davvero provare per credere. Arriviamo a Chirundu nel buio totale, dopo
circa 8 ore dall’arrivo a Lusaka.
Sono già stato a Mwanza, in Tanzania, al Bugando Medical Center, ma
qui la situazione è diversa. Siamo
lontani dalla dimensione cittadina di Mwanza e dall’impostazione
quasi universitaria del Bugando.
Qui la sensazione immediata è di
essere molto piccoli e anche indifesi di fronte a una natura predominante e selvaggia. La casa che
ci ospita è sulla riva dello Zambesi:
il fiume è onnipresente, nel senso
che domina su tutte le cose e su
chi vive nei suoi paraggi, uomo o
animale che sia. Il suo scorrere,
insieme alla consapevolezza del
luogo in cui ci si trova, induce alla
interiorità e alla riflessione. Penso
che sono nel posto giusto per trovare la soluzione a qualche problema esistenziale, chissà.
L’ospedale è un piccolo gioiello,
che spicca e riluce in un contesto
Roberto Monaco insieme a Sister Agata
parabola africana
35
che non lo prevede: giardini ben curati, camici bianchi ben stirati, impressione di
ordine e rigore. Anche i malati sono molto dignitosi e rispettosi della sofferenza
altrui. Mi presentano i ragazzi che saranno i miei allievi, Given e Wilbroad, due tipi
svegli che si apprestano a svolgere un ruolo importante come tecnici di laboratorio
e cytoscreeners. Dal momento che devono comunque svolgere i ruoli per cui sono
pagati in ospedale (Given giardiniere e Wilbroad amministrativo), decidiamo di
concentrare i nostri incontri nel pomeriggio.
L’impostazione organizzativa del laboratorio creato dai POF, dei materiali e reagenti
in carico, è stata fatta seguendo le nostre direttive e i protocolli delle procedure
di colorazione sono ben attesi. Solo qualche piccolo problema nell’archiviazione
vetrini, ma prontamente risolto. I due ragazzi, che hanno acquisito una buona impostazione teorica sulle problematiche legate alla lettura dei pap test, sono pronti
a passare ad una fase intensiva di pratica, quindi di lettura continuata di strisci,
integrata all’apprendimento del sistema classificativo (Bethesda). Ho portato con
me diversi vetrini di strisci vaginali per farli esercitare, ma la sorpresa viene dai
pap test eseguiti in loco: nei 20 giorni di permanenza a Chirundu, gli strisci da
me refertati come negativi si contano sulle dita di una sola mano. Con un simile
carico di positivi, il lavoro di Given e Wilbroad diventa ancora più impegnativo e
fondamentale. I ragazzi, e anche i medici, sono inoltre interessati a una citologia
agoaspirativa che può, almeno in certe situazioni, accelerare e facilitare i percorsi
diagnostici e terapeutici possibili. La medicina in un ospedale missionario in piena
Africa pone un diverso tipo di problemi e obiettivi rispetto alle nostre latitudini:
sono diverse le priorità. E noi patologi impariamo una visione più pragmatica della
diagnosi che sarà utile anche nei nostri ospedali.
E intanto il fiume scorre. Dopo un paio di giorni a Chirundu ci si accorge che i ritmi
e i bioritmi cambiano. Quando cala la sera tutto si acquieta, tranne le rane che
gracidano, e si scivola nel sonno come gli ippopotami nell’acqua…
Roberto Macchi
Ovvero il “patologo col codino”. Lavora all’ospedale di Melegnano. Rende al meglio
nelle situazioni dove, oltre alla professionalità, è necessaria la fantasia.
È stato uno dei primi ad essere invitato a collaborare per la sua competenza in ambito
citologico; è stato l’unico ad aderire subito e senza incertezze. Con lui è partita anche
Susanna, la sua compagna, logopedista.
Roberto e Susanna partono a fine agosto 2005 con due zaini giganteschi pieni di medicine e di carta e pennarelli (strumenti di lavoro di Susanna).
36 Patologi Oltre Frontiera
All’inizio il lavoro con Given e Wilbroad è un po’ difficoltoso per la lingua ma, un po’
grazie all’aiuto di Susanna, un po’ perché il corso si basa in gran parte sulla memorizzazione di immagini, alla fine l’obiettivo è raggiunto. Roberto si rende conto che i due
hanno imparato tanto sulla citologia ma poco sull’organizzazione. Si dedica così anche
a fornire indicazioni su accettazione, corretta identificazione e trattamento del materiale, sulla comunicazione col paziente e sull’ordine, istituendo un registro di carico in
cui verranno annotate anche le diagnosi finali.
Smonta un microscopio e lo rimonta, poi chiede a Given e Wilbroad di fare altrettanto
perché imparino a cavarsela in ogni caso; poi li dota di pennarelli, uno rosso e l’altro
blu, per segnare sul vetrino i punti da discutere
Dopo qualche giorno li mette a lavorare su due microscopi separati per stimolare la
discussione tra loro e facilitare lo scambio di opinioni su campi microscopici; insegna a
fare il controllo di qualità e di adeguatezza del materiale inviato.
Appronta anche le prime statistiche sul lavoro svolto dal mese di aprile.
Laura Viberti
Primaria anatomo-patologa all’ospedale Valdese di Torino.
Come Tolomeo credeva che il sole girasse attorno alla terra, lei crede che il mondo
giri attorno a Torino. Nonostante questa visione un po’ arcaica del mondo, senza di
lei il progetto Zambia dei Patologi Oltre Frontiera non avrebbe potuto raggiungere i
risultati che ha raggiunto. La sua determinazione, i suoi ripensamenti, la sua umanità
hanno dato a tutti la spinta per andare avanti. E, con quell’aria da ragazza, è già nonna
due volte!
Da anni opera con i Patologi Oltre Frontiera ed è stata a Cuba e in Tanzania.
A Torino è riuscita a coinvolgere numerosi validi elementi che stanno fornendo
linfa vitale al progetto.
LAURA VIBERTI RACCONTA...
Chirundu non era la mia prima esperienza di lavoro in Africa, ma sicuramente questo ospedale mi ha coinvolto
in maniera diversa e mi ha cooptata in
un sogno collettivo, che mi vede, oggi,
a distanza di tre anni, attiva anche
dall’Italia… non c’è giorno in cui io non
pensi a Chirundu, a quelli che ci vivono e lavorano, ad Elisa e a Paolo. Ad Elisa mi
lega un sentimento di grande stima per la sua scelta di vita. È un’anestesista, più
parabola africana 37
giovane di me, di grande intelligenza e preparazione scientifica ed è in missione
solo per quello spirito di amore per l’uomo che non necessariamente si accompagna
a una fede religiosa.
Paolo è carismatico: un vulcano di idee pensate e realizzate, un’umanità sconfinata
e una capacità professionale e organizzativa che hanno portato a realizzare in quella specie di buco del mondo un ottimo ospedale. E non può non mandare in crisi
qualunque essere pensante e scettico; ha portato spesso anche me, atea incallita, a
dubitare che abbia ragione, quando sostiene che la Provvidenza esiste.
Riporto dei frammenti da alcune mie e-mail inviate da Chirundu.
La nostra giornata qui comincia presto perché il sole sorge alle 6 e cala alle 18.
Oggi abbiamo visitato l’orfanotrofio delle suore: accolgono solo femmine, perché
comunque sono le più discriminate, in bellissime casette-famiglia in cui stanno 8
bambine e una mother pagata dalle suore che vive con loro e gestisce 2 case (16
bambine). La mother lavora e vive con le bimbe e va a casa solo nelle vacanze. Le
bimbe vanno a scuola e poi stanno in orfanotrofio a giocare e studiare.
In ospedale ieri sono morti una bimba – Aids – e un lattante di 4 mesi – malaria.
I ricoverati sono di ogni tipo: un bimbo in trazione per lesione vertebrale perché
caduto da un albero; un bimbo totalmente ustionato perché la mamma, che adesso è
in manicomio, ha dato fuoco alla capanna.
Qui i medici fanno qualsiasi cosa, tutto quello che sanno fare. I pazienti più gravi
vengono trasferiti in capitale con l’ambulanza o con le auto delle suore.
La medicina funziona per grandi argomenti, ovviamente si blocca di fronte alla necessità di alta tecnologia o particolare specializzazione, ma i farmaci per le cose principali ci sono e sono usati. A molte cose non ci può essere rimedio: interventi troppo
complessi non si riescono a fare e a Lusaka la situazione non è migliore. Oggi i nostri
due ragazzi del laboratorio sono assenti, a Wilbroad è morta la sorella e Given ha la
febbre malarica. Non è facile trovare una collocazione utile per specialisti come noi:
bisognerebbe saper fare il medico e non solo l’anatomo-patologo.
Ho cominciato a cercare di interpretare il Coolscope. Domani provo a trasmettere le
immagini.
L’organizzazione è ancora da pensare: i ragazzi leggono i vetrini in laboratorio, il
Coolscope è lontano, in amministrazione. Nei prossimi giorni, quando avrò imparato
io, insegnerò loro a mandare i campi selezionati.
Ho ripreso l’archivio dei vetrini perché non va. Un sistema informatico di accettazione
sarà senz’altro utile. Non abbiamo un testo di anatomia patologica.
Qui mi sembra di riscattare tutta la felicità e la fortuna che noi possiamo avere.
38 Patologi Oltre Frontiera
A Elisa, dall’Italia:
Ogni tanto mi chiedo se Chirundu esiste o è stato un sogno, qui è tutto così lontano…
l’importante comunque è non dimenticare.
Per Given e Wilbroad: esiste in Europa un esame di competenza per la lettura dei pap
test vaginali. Se fosse riconosciuto in Zambia, si potrebbe tentare…
Elisa risponde:
Cara Laura,
scusa se non ti ho scritto subito.
L’esame europeo di pap test per i due ragazzi è un’ottima idea.
Ne abbiamo parlato con Paolo, suor Anna e l’amministratore.
Se è riconosciuto da un governo europeo, lo è anche qui.
Potremmo mandare i due ragazzi a dare l’esame in Italia, così sarebbe anche l’occasione per fargli fare un viaggio premio (sperando che passino l’esame...).
Saluti affettuosissimi da tutti
Elisa
Sergio Arnaud
Torinese, dotato di humour, biologo e citopatologo di esperienza ultratrentennale. Dal
2004 al 2007, oltre che nel progetto Zambia, ha svolto attività in Bosnia-Herzegovina.
Così tira le somme del corso, a lezioni concluse.
SERGIO ARNAUD RACCONTA...
1) “La zona microscopio” è stata riorganizzata, con un bancone lungo la parete di
separazione dal laboratorio, una grande scrivania e il tavolo per microscopio già
esistente; gli spazi sono razionali e ben utilizzabili. È stato sostituito il portatile
con un pc più potente in grado di supportare il programma di fotografia.
2) Abbiamo installato la camera per fotografia sul microscopio con relativo apparecchio e software. I ragazzi hanno già inviato immagini di pap di buona qualità.
Abbiamo comunque lasciato istruzioni scritte, in italiano e in inglese.
3) Per quanto riguarda i volumi e l’attività di laboratorio rimando ovviamente alla
relazione di Morena: vorrei però sottolineare gli eccellenti preparati e la brillante
parabola africana 39
colorazione di Papanicolaou prodotta. Sono arrivati dei pap oltre che da Katondwe
anche da Kafue (prelievi ottimali, adeguati).
4) È continuata l’attività di agoaspirazione, quasi sempre si è ottenuto materiale
sufficiente per il citoincluso. Sarà necessario nelle prossime riunioni discutere un
protocollo da lasciare a Given e Wilbroad circa le colorazioni.
5) Ringrazio la didattica di chi mi ha preceduto, che ha permesso di procedere
all’attività pratica di lettura sui vetrini.
Wilbroad e Given si alternavano ogni due tre giorni tra me
e Morena in laboratorio, salvo
momenti comuni per casi particolari o per particolari attività.
Il tempo medio di lettura di un
pap test è ridotto ora sino a
venti minuti (in media).
Ho ritenuto opportuno ribadire
con forza i criteri di adeguatezza del materiale.
Periodicamente si sono sottoposti agli spot Quiz (beginners) dello I.A.R.C. ottenendo entrambi sino a 8 risposte valide su 10 e mai meno di 6/10. Al termine sono
stati sottoposti al nostro test (30 quadri), con esito ampiamente soddisfacente. Se
dovranno affrontare il test di competenza occorrerà un impegno straordinario per
loro e per i Patologi Oltre Frontiera anche nel rielaborare i programmi di docenza,
ma un risultato positivo è a portata.
Rita Baroni
A lei è stato affidato il compito di programmare il corso di istologia per Given e Wilbroad.
Sua cura è stata la scelta delle apparecchiature, l’arruolamento e il coordinamento degli
altri docenti, nonché la stesura del programma.
Il 6 ottobre 2005 è in Zambia, con la figlia Giorgia, fisioterapista, e Laura Viberti. Rita
è il primo tecnico di istopatologia che arriva a Chirundu.
Quelli che seguono sono alcuni estratti di sue e-mail inviate da Chirundu.
40 Patologi Oltre Frontiera
RITA BARONI RACCONTA...
6/10/05
L’autista delle suore, molto bravo ma che “va a busso”, ci porta finalmente a Chirundu
per una strada che meriterebbe minor velocità…
Ci accompagnano in una bella casa sul fiume. Siamo accolti dalle scimmie e da tanti
gechi discreti, come le formiche e le zanzare.
Quando è buio è bene stare attenti a non andare in giro. Ma c’è Mapulanga fuori che ci
protegge. Non è una divinità, è il guardiano che arriva quando fa buio. Chiede una bottiglietta di acqua ghiacciata e un litro di the caldo. Con una sedia si sposta nella notte
intorno alla casa e ci protegge. Di notte gli ippopotami passeggiano nel giardino.
7/10/05
In laboratorio c’è l’aria condizionata. Finalmente conosciamo Given e Wilbroad e incominciamo a guardarci in giro. Il mio inglese fa schifo, ma da buona italiana mi faccio
capire con l’aiuto delle mani e con smorfie. Per fortuna Laura ne sa un po’ di più…
8/10/05
Continuiamo a cercare il materiale arrivato e a inventariarlo. Ci manca l’alcol che
arriverà lunedì. Sabato pomeriggio si va al mercato di Chirundu con Wilbroad. Compro
due mazzetti di cavolo e due di rape per una cifra inesistente ma voluminosa: 500
kwacha (leggi quacia, la moneta locale) pari a circa 10 centesimi di euro.
16/10/05
Appena si esce dalla città si percepisce la povertà, la vita di questa gente è una fatica
continua: andare a prendere l’acqua, coltivare il poco che può crescere con questo
clima, sopravvivere cercando giornalmente il cibo per la famiglia.
Le case hanno tetti di paglia e sono costruite con mattoni di terra che ciascuno fabbrica per sé, sono belle a vedersi, ma pensare di viverci stringe l’anima.
Nei villaggi i bambini giocano con le cose che riescono a trovare; un bimbo aveva
costruito uno strumento musicale con un barattolo di latta, un bastone e dei fili tesi:
la musica che ne veniva era bella.
E poi questo ospedale, una struttura davvero funzionante. Le porte dei reparti sono
aperte e la gestione è un po’ lontana, dal punto di vista igienico, da quella cui siamo
abituati. Ma non si potrebbe fare diversamente. La tragedia di questo paese è che si
vive con troppa fatica e si muore con tanta facilità…
29/10/2005
Ore 21.30. Siamo nel soggiorno della guest house.
Giorgia è sdraiata sul divano. Rita è alla tastiera (senza musica). Stefano Simonazzi
parabola africana
41
è alle prese con il lavello ed i piatti. Un geco di dimensioni interessanti è sul muro.
Gli scarafaggi hanno una riunione di condominio sotto il lavello. Le formiche stanno
cenando, usciranno più tardi.
Il nostro sabato: il primo per Stefano, l’ultimo per me e Giorgia. Ci siamo svegliati
con il sole alle sei. In ospedale abbiamo avuto la notizia che nella notte era bruciato
il mercato di Chirundu, fonte di sostentamento per molti. C’è tristezza e preoccupazione.
Abbiamo lavorato nel nostro laboratorio.
Organizziamo un pranzo per domani, domenica. Given verrà con la moglie e i 4 figli,
Wilbroad con un amico e poi ci saranno Elisa e Paolo.
Dopo pranzo io sono crollata in un profondo relax da Malarone (farmaco per la profilassi malarica), mentre Giorgia e Stefano hanno passato un’ora a spostare fagioli
in una tavoletta di legno. Nel pomeriggio, oltre alla visita al mercato, siamo stati
all’orfanotrofio. Stefano aveva portato i palloncini da gonfiare e Giorgia gli hula-hop.
Avevamo 100 palloncini, una pompa malfunzionante e 50 bambini. Uno ha chiesto
un serpente. Stefano ha fatto un fiore, è andato bene lo stesso.
42
Patologi Oltre Frontiera
Stefano Simonazzi
Stefano Simonazzi è un tecnico che lavora in simbiosi con Rita Baroni all’ospedale
S.Orsola-Malpighi di Bologna. Oltre a un’esperienza pluriennale in laboratorio di
anatomia patologica, ha anche una competenza informatica eccezionale.
Stefano coniuga la tradizionale cordialità bolognese con la più alta professionalità.
Indimenticabile la mortadella con la quale delizia le nostre riunioni. Ecco la sua
testimonianza
STEFANO SIMONAZZI RACCONTA...
Ero a Milano con la collega Rita e presentavo una relazione sul modello organizzativo
informatico che avevo ideato a Bologna. Sapendo che Rita desiderava partecipare a
progetti di volontariato in Africa, la presentai a Faravelli.
Pochi mesi più tardi Rita divenne responsabile del progetto in Zambia e mi propose
di partecipare. Nonostante avessi scarse risorse finanziarie e poche ferie che dovevo
dedicare anche alla mia famiglia, decisi di
lasciarmi coinvolgere.
Il mio bagaglio sarebbe stato: buone capacità in scienze informatiche e conoscenze
della mia professione nei suoi vari aspetti
ma scarsa proprietà della lingua inglese.
Non ho mai avuto grandi attitudini alle
relazioni formali ma è stato un vantaggio, perché là i rapporti sono trasparenti
e semplici.
Il laboratorio di Chirundu non ha nulla da invidiare ad alcuni laboratori italiani e
sono altrettanto convinto delle sue potenzialità. Grazie a Paolo e a Elisa per quello
che mi hanno insegnato e grazie alle persone che hanno dato assistenza al mio soggiorno, le suore, i tecnici del laboratorio chimico-clinico, Amos, Mapulanga, grazie a
Given e a Wilbroad e alla gente di Chirundu perché sono tornato con molto di più di
quello che ho lasciato. Il progetto dei Patologi Oltre Frontiera non ha voce ma parla
con i risultati e i fatti concreti.
In Italia ho trasferito in mille situazioni questa esperienza che ha mi ha portato in un
posto nuovo. Ho sperimentato l’organizzazione del laboratorio a Chirundu inserendola
in un contesto informatico, così come ho cercato di fare in Italia; nel 2006 la mia tesi
di laurea portava il titolo “Il web e il tecnico di laboratorio biomedico: da strumento
di sola comunicazione a componente strategico nell’organizzazione del laboratorio di
anatomia patologica”.
parabola africana
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Morena Cavazzini
Fa parte dello staff dei torinesi. È capotecnica nel laboratorio dell’ospedale Valdese di
Torino gestito da Laura Viberti. Attualmente è capo dello staff tecnico. È diventata la
“mamma” di Given e Wilbroad in Italia.
MORENA CAVAZZINI RACCONTA...
21 novembre 2005, Malpensa ore 15. Saliamo io e Sergio, il mio compagno di avventura-lavoro, su una carretta dei cieli alla volta di Londra e successivamente su un
mezzo più consono verso Lusaka, in Zambia.
Ci sono: il dire diventa il fare.
Dopo dieci ore di volo mi appare dal finestrino: è lì, è l’AFRICA, terra rossa e arida,
macchie verde scuro con la sensazione che il caldo sia davvero caldo, e cresce la voglia
di esserne parte.
Finalmente arriviamo al border di Chirundu e al confine con lo Zimbawe.
Una lunga fila di trucks alla dogana carichi all’inverosimile e poi eccoci alla guest
house, a casa… È bella, accogliente e ci si sta in tanti ma quando ti siedi sotto il
portico a guardare scorrere lo Zambesi – il “munga”, come lo chiamano lì – è come
se ci fossi solo tu e riesci ad ascoltare l’Africa.
I primi giorni al Mtendere Mission Hospital passano tutti a cercare di capirci, in senso
letterale. Uno dei compiti assegnati a me e Sergio è quello di installare la macchina
fotografica sul microscopio per poter trasmettere delle foto di campi segnati su un
vetrino, nell’attesa che il Coolscope funzioni e sia anche installato un server su cui
salvare immagini e dati (tutto questo avverrà molto dopo!).
Given e Wilbroad sono molto simpatici e hanno voglia di imparare, ma mi rendo conto
che spesso sono io quella che deve imparare e regolare i miei tempi sui loro: la mia
fretta qui non ha senso. In fin dei conti perché correre? E con questa filosofia passano i giorni, incontro nuovi personaggi, bambini sempre sorridenti che inseguono una
palla di stracci o tirano delle carriole di fil di ferro che a Maranello sezione prototipi
se li sognano.
In laboratorio mettiamo a punto la colorazione dei pap e il citoincluso, aggiorniamo
tutti i cambiamenti sul web site che ha creato Stefano ed impariamo a ordinare il
lavoro, i referti, l’archivio; intanto piove, piove ed a ogni temporale escono nuovi
insetti da fare invidia ai maestri del brivido!
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Patologi Oltre Frontiera
Paola Ferrara
Ho avuto solo l’occasione di parlarle per telefono e non l’ho mai incontrata. Lavora a
Roma all’Istituto Dermatologico ed è arrivata a noi attraverso Rita Baroni.
PAOLA FERRARA RACCONTA...
La strada sterrata, le capanne di terra rossa, i tetti di foglie, il caldo umido mi hanno
fatto subito sentire nel cuore dell’Africa ma non sono riusciti a cancellare le mie paure
e i dubbi iniziali: per qualche giorno infatti mi sono chiesta se avessi fatto la scelta
giusta a venire quaggiù.
Questa esperienza ha relativizzato il mio concetto di sofferenza o dolore.
Milena Pariali
Biologa ferrarese trapiantata a Bologna.
Convinta che il senso della vita si nasconda nelle pieghe più remote dell’universo,
parte da inquieta cooperante per Chirundu, dove trascorrerà tutto il mese di maggio
del 2006: insegnerà a Given e Wilbroad non solo i misteri delle più raffinate tecniche
di laboratorio, ma anche a ballare.
Dentro e fuori dall’ospedale, lascerà il segno per via del suo dinamismo inarrestabile e
per la quantità industriale di pizze grosse come dischi volanti prodotte per la gioia dei
palati locali. Ecco la cronaca del suo arrivo:
MILENA PARIALI RACCONTA...
…È la mia prima volta in Africa.
Arrivo alla guest house dei volontari dell’ospedale Mtendere Mission Hospital. Il giardino curatissimo. Scorgo più in là il fiume Zambezi. Ricorda il Po, solamente l’altra
riva è già Zimbabwe. Scendo dalla jeep, un babbuino scappa. Sono più spaventata io.
Scarico la valigia con l’aiuto di Phanuel, il driver delle sisters. Sister Anna mi accompagna dentro: cucina, saletta, camera, bagno, acqua per lavarmi e da bere. Chissà a
cosa pensavo durante il tragitto da Lusaka a Chirundu alla visione delle capanne di
fango… È imbarazzante la gentilezza di Anna e io non riesco nemmeno a mostrarle
gratitudine, sembro sotto l’effetto di qualche sedativo. Mi chiede se ho bisogno di
qualcosa: chi lo sa… tutto e niente, ma per il momento ho tutto, anche da mangiare.
Sono le 17:50 circa: è già il tramonto. Mi sembra di non dormire da due giorni ed è
così. Ci salutiamo. Entro in bagno accolta da giganti gechi e scarafaggi lucidi, che
dopo un po’ mi sembrano già più piccoli: sarà il Lariam che amplifica i sensi. Mi devo
abituare e non solo a questo: comincio subito.
parabola africana
Tre immagini del laboratorio di Chirundu,
dove si opera grazie alle apparecchiature
e ai reagenti forniti da BIO-OPTICA.
In alto, la stazione di lavoro completa di
microtomo e di strumenti per l’inclusione
e l’allestimento dei preparati istologici.
A destra, Wilbroad intento a congelare
il campione nell’unità raffreddante prima
del taglio al microtomo. Qui sopra, Given
intento a colorare i pap test per la lettura.
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46
Patologi Oltre Frontiera
I corsi sono finiti
Con il ritorno di Milena il programma ufficiale si è quasi concluso e la squadra dei docenti può prendersi un po’ di vacanza.
Poi si deve passare alla parte più complessa: il consolidamento, l’aggiornamento e la
verifica periodica, i tre aspetti più difficili da gestire a distanza.
L’elevato numero di casi positivi e sospetti di per sé favorisce il consolidamento di ciò
che Given e Wilbroad hanno imparato.
Quanto alla verifica periodica, la revisione dei casi positivi e sospetti realizzata dai
volontari a distanza, insieme alla semestrale revisione di tutti i vetrini, compresi i negativi, da parte di persone esperte, dovrebbe essere sufficiente a far sentire i due giovani
tecnici costantemente supportati e monitorati.
Per l’aggiornamento, appena possibile cominceremo con l’immunoistochimica, tecnica
speciale da aggiungere alla normale routine in istologia e in citologia per meglio tipizzare i tumori e quindi rendere più efficace la terapia, quando possibile.
Insomma con tutti questi elementi il progetto Zambia sta piano piano diventando un
progetto pilota di riferimento dei Patologi Oltre Frontiera.
Oltre a tutto questo c’è da affrontare la questione della partecipazione di Given e Wilbroad all’esame di competenza europea in citologia cervico-vaginale. Perché non provare a farlo sostenere ai nostri due neo-tecnici zambiani?
La cosa eccita un po’ tutti, anche se c’è chi sostiene che il non superamento dell’esame
li porterebbe ad uno stato di depressione difficilmente recuperabile; il superamento
darebbe però una marcia in più a loro e a noi. E che dire della non impossibile eventualità di un promosso e di un respinto?
Confortati dall’approvazione di Paolo e di Elisa, decidiamo di tentare l’esame.
A Chirundu, i due giovani si preparano al viaggio in Italia, previsto per novembre.
Chi si preoccupa della valigia (ma l’abbigliamento invernale tanto amorevolmente
procurato non raggiungerà mai l’aeroporto…), chi si impegna per farli studiare, chi
tranquillizza la loro famiglia.
In Italia cerchiamo un alloggio decente. E organizziamo anche un giro turistico.
parabola africana
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Dobbiamo trovare altri fondi
Per trovare altri fondi bisogna farsi conoscere. Per farsi conoscere, ci vuole tempo: tempo da recuperare dal lavoro, dal tempo libero e anche dal sonno.
Trovare altri soldi. Mi metto a tavolino per capire esattamente di quanto abbiamo ancora bisogno. Serve uno scanner per vetrini e bisogna ampliare la banda satellitare.
Lo scanner è un apparecchio sofisticato in grado di fotografare un vetrino istologico
o citologico a risoluzione elevatissima, così da poterlo poi vedere a computer esattamente come al microscopio. Il suo costo varia da 50.000 a 120.000 euro. Ma con uno
strumento del genere possiamo supplire alla mancanza in loco di medici ed effettuare
diagnosi con tempi paragonabili ai nostri.
Quanto alla connessione, che non può essere altro che satellitare, i prezzi sono proibitivi. L’abbonamento si aggira sui 2000-2500 euro mensili con possibilità di dividere la
cifra tra più ospedali. Ma per ora, tutto sarebbe a carico nostro.
Non possiamo fare altro che aspettare la famosa Provvidenza.
Tutti quelli che vengono a conoscenza di quello che stiamo facendo, si complimentano. Ma alla fine quasi nessuno sgancia un euro. E noi perdiamo ore e ore di tempo
prezioso. La seguente vicenda è dimostrativa.
Un amico primario, appena iscritto a un Rotary Club di Milano, mi invita a una loro
cena promettendomi possibili sostegni economici.
Società del Giardino, giacca e cravatta d’obbligo, ma io, poco uso a questo abbigliamento, non lo so. Così mi ritrovo lì in abbigliamento dignitoso, ma non da regolamento,
e vengo indirizzato al guardaroba dove due solerti addetti mi impongono l’unica giacca
disponibile e una cravatta nera.
Il risultato è che ora, con una giacca di due misure inferiore alla mia e una cravatta
stropicciata, appaio come un poveraccio costretto a riciclare la giacca della cresima del
figlio. Spero serva a stimolare commiserazione e favorire una più cospicua elargizione.
Al termine del pranzo, una donna avvenente ci intrattiene per 30 minuti sul tema:
“Come apparecchiare la tavola”. Dopo aver ascoltato come sistemare gli ospiti a tavola
ed essere stato edotto sugli obiettivi vantaggi di un porta grissini d’argento rispetto ad
uno di paglia perché il primo si adatta a tutti i servizi, tocca a me.
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Patologi Oltre Frontiera
La mia immagine di sfigato, finora limitata a cinque commensali, si impone a tutti
i convitati. Illustro il progetto, vogliono sapere come aiutarci. Mi stringono la mano.
Mi fanno i complimenti. Era il luglio del 2005. Aspetto ancora oggi, agosto 2008, una
risposta!
Per fortuna non tutti i tentativi sono andati così. Al momento opportuno, il grosso è
arrivato attraverso la Diocesi di Milano e infine dalla Regione Lombardia.
La provvidenza laica è intervenuta un’altra volta.
parabola africana
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La lettura on line dei pap test
Il primo problema, il reperimento di un nucleo di base di volontari disposti a lavorare
per noi, si risolve mettendo insieme i dieci docenti coinvolti nella gestione del corso.
Pian piano a loro si affianca qualche amico, conoscente e amico dell’amico. In questo
modo il numero dei volontari oggi è arrivato a circa 90. Ma non basta disporre di tante
persone: è indispensabile organizzare con efficacia il cosa e il quando del fare di ogni
volontario. Inventiamo la figura del ”responsabile del mese”. Ed ecco le modalità di
scambio nel sito Internet:
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•
•
•
ad ogni pap test sospetto o positivo, Given e Wilbroad scattano 4-5 foto al
microscopio delle aree sospette e le scaricano in una cartella del computer;
si connettono con il sito www.zambiaproject.it dove, inserendo la loro password,
sono riconosciuti come citotecnici che chiedono una consulenza;
entrati nel sito, inseriscono in uno spazio apposito i dati clinici ed anagrafici della
paziente e la loro ipotesi diagnostica. In altro spazio allegano le foto;
conclusa questa operazione, con un “ok” viene comunicato via mail a tutti i
volontari che è stato inserito nel sito un nuovo caso da verificare;
il volontario con la sua pw entra nel sito, vede le foto e l’ipotesi diagnostica di
Given e Wilbroad e in un altro spazio può inserire commenti e pareri;
i commenti inseriti sono visibili a tutti i volontari ma non a Given e Wilbroad;
tra i volontari viene nominato un “responsabile“ del mese che è l’unico autorizzato
a rispondere ai due citotecnici zambiani dopo avere letto il parere di almeno una
decina di volontari;
il responsabile del mese sposta il caso nella sezione dei casi chiusi e automaticamente
Given e Wilbroad ricevono per posta elettronica la sua diagnosi come la definitiva
da inserire nel referto, da stampare e da consegnare alla paziente e al medico che
in Zambia ha richiesto l’esame.
Alla fine dell’anno il programma consente di effettuare anche indagini statistiche
sull’efficienza dei due citotecnici e dei volontari, facendo una lista di quelli che
maggiormente hanno visitato il sito e che hanno inserito la loro diagnosi.
Per gestire tutto è necessario nominare un amministratore del sito, ruolo affidato a
Barbara, la prima docente, impegnata anche a reperire i responsabili del mese e a
50 Patologi Oltre Frontiera
inserire nuovi volontari, nonché a inviare a tutti le varie comunicazioni di servizio.
Non possiamo inoltre astenerci dall’effettuare su tutto il materiale un rigoroso controllo
di qualità, perciò almeno due volte all’anno tutti i vetrini dei casi, sia negativi che
positivi, sono inviati in Italia e una parte dei volontari è impegnata in questa attività
di revisione.
Qui sopra alcune schermate che mostrano il sistema on line di verifica dei pap test.
Nella finestra grande a sinistra, la lista dei casi inviati da Chirundu.
Nel dettaglio in alto a destra una vista in dettaglio di un’immagine microscopica.
Nella finestra in basso a destra i commenti dei vari esperti volontari.
parabola africana
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Andiamo a Superquark!
Nel mese di gennaio 2005, parlando con Mauro Truini, anatomo-patologo di Genova,
vengo a sapere che suo fratello lavora in RAI e ha lo studio a fianco di quello di Piero
Angela, il massimo divulgatore scientifico popolare italiano.
Con l’aiuto del fratello di Mauro riusciamo a infilare sotto la porta dell’ufficio di Angela
una lettera corredata dal dvd sul progetto Mwanza.
Dopo poche settimane giunge la comunicazione che Piero Angela vuole fare un servizio sui Patologi Oltre Frontiera a Superquark.
Quando vedono il materiale girato da Giovanni in Tanzania l’anno prima, decidono di
acquistarne degli spezzoni e di aspettare i nuovi dallo Zambia.
Non solo quindi ci manderanno in onda, ma ci arriverà anche un contributo economico.
E con questo abbiamo trovato come completare il pagamento dei cineasti.
L’11 agosto, quando tutti sono in vacanza, inizia SUPERQUARK.
Il nostro pezzo è preceduto da un interminabile servizio sui pinguini della Terra del
Fuoco e i pochi spettatori che non si sono addormentati, tra i quali un certo numero
di anatomo-patologi italiani – per la prima volta protagonisti di un evento televisivo –,
si godono una breve ma esaustiva segnalazione della nostra esistenza. Arrivano mail e
SMS di colleghi da tutta Italia. Anche in Zambia, dove hanno la connessione satellitare, hanno visto la trasmissione.
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Patologi Oltre Frontiera
Cerchiamo ginecologi
Fino a qualche anno fa bastava arrivare in Africa con chirurghi d’assalto e un po’ di
alimenti per mettere una pezza alle urgenze: medicare le ferite esterne, magari causate
da armi italiane, e limitare il più possibile la morte per fame.
Ma adesso, in molti paesi africani comincia a rendersi necessaria la presenza di
specialisti come ginecologi, urologi, oculisti, infettivologi, ematologi, anestesisti,
dermatologi… Ma come possono operare questi specialisti, se non c’è chi fornisce
le diagnosi, cioè senza laboratori di analisi in grado di fare correttamente esami del
sangue, laboratori radiologici in grado di fare RX, ecografia, TAC, risonanza magnetica
e tutto il resto, e infine senza laboratori di anatomia patologica in grado di formulare
diagnosi istologiche e citologiche?
A cosa serve andare in Africa a fare il pap test alle donne se poi non ci sono i ginecologi
che le curano? Oppure, a cosa serve mandare in Africa dei ginecologi se mancano i
patologi che forniscono loro delle diagnosi sulle quali lavorare?
Ma da qualche parte si deve pur cominciare!
E qui entra in gioco la necessità di comunicare e cooperare tra specialisti.
Così cerchiamo di coinvolgere altri specialisti che possano insegnare in loco, a medici
e infermieri, come effettuare gli interventi resi necessari dalle “nuove diagnosi” dei
POF.
Il tumore dell’utero è un esempio che può far capire il problema.
Questo tumore è quasi sempre asintomatico nelle fasi iniziali e quando diventa
sintomatico è spesso troppo tardi e l’unico trattamento diventa l’asportazione
dell’utero.
Fare il pap test significa selezionare donne con lesioni minime pre-tumorali; asportare
queste lesioni significa guarirle perfettamente. Bisogna che i sanitari africani siano in
grado di fare la colposcopia, la biopsia del collo dell’utero e il trattamento della lesione
con laser o con bisturi a radiofrequenza.
Abbiamo coinvolto l’Associazione Italiana di Colposcopia, nella persona del suo
vicepresidente, il dr. Maggiorino Barbero, ottimo e imprendibile.
L’associazione si è interessata al nostro progetto e ha deciso di regalare all’ospedale
zambiano un colposcopio e un bisturi a radiofrequenze, e di mettere a disposizione dei
ginecologi per istruire infermieri e medici locali.
parabola africana 53
Il viaggio della verifica
Fine ottobre 2006. Viaggio interlocutorio nell'attesa di qualche buona novità dalla
Regione Lombardia.
Alla partenza questa volta siamo in tre. Con me ci sono Daniele Perego, un ematologo
di Desio, e la moglie.
L’arrivo è un po’ turbolento: i bagagli non sono arrivati. Il caldo è torrido, i mesi di
ottobre e novembre dal punto di vista climatico sono i peggiori dell’anno in Zambia.
Appena accettabile la situazione a Lusaka, a 1000 metri di altitudine.
Arriviamo a Chirundu col buio: la temperatura è di 36-37 gradi (di giorno ci sono 40
gradi all’ombra e 46 al sole). L’umidità è tale che l’aria è da tagliare col coltello. C’è da
stare decisamente male.
Trovo un nuovo direttore tecnico, Dario, con la moglie Pasqualina, cuoca provetta,
arrivati qui da pensionati, dopo aver girato il mondo.
La mattina successiva, raggiungo il laboratorio per incontrare tutti e a vedere il lavoro
di Given e Wilbroad. Nel loro camice appena stirato, mi sembrano un po’ tesi. È vero
che sono quello col quale hanno avuto meno a che fare.
Sistemo con loro e Paolo alcuni prelievi istologici, vedo qualche caso risparmiato al
DHL, installo Photoshop sul pc. I due ragazzi si muovono con una lentezza inquietante,
sembra quasi che temano di perdere l’effetto stiratura del camice o che il camice sia
talmente inamidato da rendere difficoltosi i loro movimenti.
Rapidamente la giornata finisce e bisogna tornare a casa per preparare la cena e
accogliere Medard e Maziku che stanno per arrivare dalla Tanzania.
Medard è una ”mascotte” per i Patologi Oltre Frontiera: è il ragazzo di Mwanza che con
noi è diventato tecnico di laboratorio. Tutti i volontari si sono letteralmente innamorati
di lui. È intelligente e simpatico ed è in grado istintivamente di giungere al cuore delle
persone. Non vedendomi arrivare a Mwanza, perché impegnato in Zambia, ha deciso
di venirmi a trovare, approfittando del fatto che doveva vedere quello che abbiamo
fatto a Chirundu e che dovremo ripetere in Tanzania. La sua “effervescenza” contrasta
con la staticità e un certo formalismo di Maziku, ingegnere informatico dell’ospedale
di Mwanza, il Bugando, anche lui coinvolto nel futuro progetto di telepatologia da
avviare in Tanzania.
Arriva un’automobile e appena il motore si spegne il silenzio è rotto dalla inconfondibile
risata di Medard che apre il cuore.
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Patologi Oltre Frontiera
La notte passa in un bagno di sudore.
Al mattino Amos ci prepara la colazione e tutti siamo pronti per iniziare una bella
bollente giornata. Prima di andare in laboratorio faccio una lunga chiacchierata con
Medard e con Maziku per spiegare quello che abbiamo fatto e quello che pensiamo di
fare a Chirundu, nonché quello che vorremmo fare a Mwanza.
La mattinata in laboratorio è difficile. Ho degli appunti da fare ai ragazzi:
• non hanno chiara l’importanza della qualità delle fotografie e neppure che le foto
devono essere dimostrative di quello che pensano;
• chiedono biopsie non perché servono alla paziente ma perché servono a loro per
confermare la loro diagnosi citologica e i verificatori italiani assecondano spesso la
loro richiesta;
• bisogna regolare il sistema fotografico NIKON per migliorare la qualità delle foto.
Il progetto può davvero diventare un progetto pilota da esportare in altre sedi.
Non abbiamo ancora concluso il progetto Telepatologia ”numero 1”, che Paolo e io
già abbiamo in mente il progetto “numero 2”. Si tratta di ampliare a macchia d’olio
quanto abbiamo fatto formando altri tecnici e sistemando il laboratorio dell’University
Teaching Center. Lunedì avremo un incontro a Lusaka per parlare del possibile
coinvolgimento di altri ospedali.
Ma prima di tutto è domenica. E alle 10 arriva un motoscafo che ci carica tutti, Medard
e Maziku compresi, per un lungo giro sul fiume. Non è tanto la vista degli animali
che mi colpisce, quanto i momenti in cui la barca si ferma, a motore spento, con tutti
noi immersi in un silenzio interrotto solo dalle voci del vento, del fiume e dal verso di
qualche animale lontano. È un’emozione unica.
parabola africana
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56 Patologi Oltre Frontiera
Il lunedì ci rechiamo a Lusaka per incontrare il nuovo ambasciatore italiano arrivato
in città da pochi giorni: Giovanni Ceruti. Sembra una brava persona e mostra interesse
per il nostro progetto. Subito dopo ci trasferiamo alla sede del CELIM dove è
prevista la riunione con i rappresentanti di alcuni ospedali chiamati da Paolo. Ne ha
invitati 8, ne arrivano 4: Claudia, una ginecologa italiana che lavora a Chikuni, una
pediatra inglese che viene da Katete, una suora polacca dell’ospedale di Katondwe
e un medico zambiano dell’ospedale di Kafue. Sembrano tutti piuttosto interessati
alla presentazione del progetto, soprattutto Claudia e la pediatra. Ci promettono di
parlarne il giorno dopo all’assemblea degli ospedali cristiani che si terrà a Lusaka.
Poi via, verso Chirundu passando per Kafue da Charles, il boss delle giraffe.
Una delle poche attività che impegnano i ragazzi zambiani è la scultura in legno di
animali di tutti i tipi. Lungo la strada tra Lusaka e Chirundu ci sono capanni pieni
di sculture e nella savana circostante ci sono decine di ragazzi che, con attrezzi
improvvisati, trasformano pezzi di legno in lucidi e neri animali africani. Il modello
giraffa è il più richiesto: va dai 5 cm ai 3 metri di altezza. Alla fine sono tinte con il
lucido da scarpe. Il risultato è eccellente.
Proseguiamo il viaggio in auto con Paolo. Mi racconta dei suoi 20 anni in Burundi.
Scopriamo di avere entrambi un desiderio irrealizzato: andare in Mongolia.
Cena di gruppo a casa di Dario e Pasqualina a base di pasta, ma con la variante del
ragù di ippopotamo: una leccornia, sembra cinghiale. Qui l’usanza è che quando un
ippopotamo si avvicina troppo alla casa deve essere cacciato via con le buone. Se
ritorna lo si caccia con le cattive. Se ritorna ancora, la polizia è autorizzata a farlo fuori.
A questo punto è festa generale, perché il villaggio, in questo caso l’ospedale, ha carne
da mangiare gratuitamente per tre giorni.
La giornata successiva è dedicata a dare a Given e Wilbroad qualche dritta sulle
modalità per fare foto decenti e su come sistemarle con Photoshop.
Intanto Daniele, l’ematologo, sta mostrando a Paolo, Elisa e Flavia alcune procedure
per fare le agobiopsie di linfonodi e di masse profonde. Fanno un’agobiopsia di una
massa linfonodale in un paziente HIV+, impostano la terapia di un bambino con
diagnosi di linfoma di Hodgkin, programmano un intervento di ovariectomia per
una cisti dermoide (diagnosi fatta su un’agobiopsia del giorno prima). Il nostro lavoro
comincia a entrare negli ingranaggi della diagnostica corrente.
Ecco un commento di Daniele.
parabola africana 57
DANIELE PEREGO RACCONTA...
Mio primo viaggio nell’Africa equatoriale. Invito di Tino per conoscere una diversa (e
quanto diversa!) realtà sanitaria e verificare se possa essere in qualche modo utile
l’esperienza di un ematologo. Non so nulla circa l’incidenza della patologia ematologica in Africa, immagino la massiccia presenza di malattie infettive (immunodeficienza in particolare) ma ignoro se questo si traduca di fatto in un incremento di
eventi oncoematologici.
Porto con me alcuni attrezzi che ordinariamente uso per le procedure diagnostiche
che non siano chirurgiche (aghi da biopsia ossea, trancianti, ecc.): l’intento è di
provarli sul campo e, soprattutto, di insegnarne l’utilizzo.
La mia permanenza è troppo breve per avere le occasioni necessarie. Si riesce a fare
qualche prelievo linfonodale, ma non c’è tempo per il riscontro istologico.
Si tenta di approntare la cura di un linfoma di Hodgkin in un bimbo di 5 anni.
Trascina un’adenomegalia al collo da mesi, cosa che alle nostre latitudini innesca
un’urgenza diagnostica e terapeutica assoluta. Appare e scompare, a seconda degli
spostamenti della madre. La diagnosi definitiva è solo dopo un laborioso va e vieni di
vetrini e di consulti. Mancano tuttavia i farmaci necessari.
Tornati in Italia si provvede al recapito delle medicine opportune, con vari contatti
e corrieri. Ma Gilbert (si chiama così) non si trova più, e quando riappare è solo per
una breve permanenza e per negarsi, per volontà della madre, alle cure oncologiche.
Credo non sia più tornato.
Paolo Marelli è una persona con un carisma buono, che ti fa sentire lo spessore di una vita
vissuta in modo non convenzionale, in una “missione” che, confrontata con la mia attività di tutti i giorni alla quale ho dedicato tutta la vita, me la fa apparire quasi banale.
Ho conosciuto, brevemente, i suoi amici e collaboratori. Portano avanti un compito
difficile tutti insieme, certo con impegni diversi, ma insieme.
Gita emozionante sullo Zambesi, a esplorare un’infinitesima parte di spazio di cui non
riesco nemmeno immaginarne la vastità e i confini. Traversata nel bush in fuoristrada,
per recuperare banane “non di prima scelta” da destinare al consumo dell’ospedale,
in una farm gestita da bianchi (fenotipo: ben nutrito e muscoloso, completo cachi,
cappello a tesa larga e anfibi) e lavorata da gente di colore (non così in forma); il
saluto al padrone è da media distanza, piedi uniti e breve inchino del capo; non capisco le parole, ma il tono e più che deferente. Immagini, sensazioni che richiamano
alla memoria una apartheid lontana, spero.
Sulla strada villaggi di povere capanne – paglia, mattoni e fango – gente sorridente,
a gruppi, apparentemente seduti a fare niente. Bambini sommariamente o per nulla
vestiti, visi sereni e lineamenti molto belli.
Acqua solo se hai la fortuna di una pompa nel villaggio, altrimenti, chilometri con la
tanica in testa. Chissà che buio di notte! Di sicuro vedranno le stelle più vicine.
58 Patologi Oltre Frontiera
Alle 11 arriva Victor Mudenda dall’University Teaching Center di Lusaka, il
patologo zambiano. Facciamo il punto del nuovo progetto. Lui ovviamente punta
sul potenziamento degli ospedali pubblici dello Zambia, ma illustra una situazione
disastrosa: ospedali di 500-600 letti senza istologia. L’unico citotecnico zambiano
lavorava con lui ed è morto tre settimane fa, di vecchiaia dice: aveva 54 anni. Mudenda
vuole il programma seguito per la preparazione di Given e Wilbroad, e ci preparerà
una dettagliata mappa degli ospedali zambiani con numero di
posti letto e caratteristiche che consentano di stabilire dove è
meglio mettere un laboratorio di anatomia patologica.
Venerdì 3 novembre si parte per Lusaka con due auto.
L’evento è storico: con noi ci sono Given e Wilbroad, con
tanto di valigetta a mano e trolley, per venire in Italia. Siamo
in 10 più una grande giraffa di legno.
Mi ero messo in mente di portarmi a casa una giraffa di legno.
Ne avevo adocchiata una fantastica: alta due metri, di legno
rossiccio e bianco, il muso metà bianco, metà rosso. Con una
rapida contrattazione l’avevo acquistata durante una delle
trasferte Chirundu–Lusaka. Spero di farla passare senza
problemi al check-in. Non so come , ma ci proverò.
All’aeroporto di Lusaka la giraffa passa senza che nessuno
batta ciglio. A Linate, i finanzieri della dogana la bloccano. Le
fanno una radiografia e scoprono che ha una cavità all’interno
dell’addome. Conterrà droga, pensano loro. Procedono prima
a svuotare tutti i nostri bagagli poi, non avendo trovato
nulla, decidono di bucare la pancia della mia giraffa, con un
succhiello del 1800. La droga non c’è. Il buco resta.
Appena ritornato a casa, Medard ci manda una mail che dice:
”Ho capito perché i Patologi Oltre Frontiera preferiscono
Chirundu a Mwanza. A Chirundu apri la finestra e vedi
gli ippopotami e gli elefanti, a Mwanza per vederli devi
pagare…”.
parabola africana 59
Given e Wilbroad volano a Torino
Per due giorni Given e Wilbroad stanno a Milano. Given sembra più curioso e stupito
di Wilbroad da quello che vede. Il suo stupore è massimo di fronte al museo degli
strumenti musicali, al Castello Sforzesco. È affascinato dai liuti e dalle trombe. Resta
di stucco quando vede esposti i tamburi africani.
La domenica sera sono a Torino dove resteranno per un mese. Sono costretto pertanto
ad affidare a Stefano Guzzetti la cronaca del periodo.
STEFANO GUZZETTI RACCONTA...
Li guardavamo, contenti ma nello stesso tempo preoccupati per tutto quello che avremmo dovuto fare insieme e per come loro avrebbero reagito a una situazione assolutamente non paragonabile a ogni loro passata esperienza. L’unico paragone forse un po’
calzante che poteva venirci in mente era il viaggio nel tempo: ad aumentare la sensazione di smarrimento dei nostri due eroi (perché solo gli eroi sanno affrontare i viaggi
nel tempo) c’era il fatto che avevano finora vissuto in un piccolo villaggio africano e che
oggi si ritrovavano improvvisamente in un rumoroso appartamento milanese.
60 Patologi Oltre Frontiera
A Torino, sono stati sottoposti per tre settimane a un ripasso finale intensivo in vista
dell’esame, difficile, selettivo e (diciamolo) anche un po’ sadico.
L’Ospedale Evangelico Valdese, dove lavoriamo io e Laura, sta nel cuore del quartiere
più multietnico della città, San Salvario. Al centro del quartiere c’è la chiesa: Don Piero Gallo, il parroco carismatico e con l’anima grossa come un container, li ha ospitati
accogliendoli con quello sguardo malinconico di chi nella vita ne ha viste troppe (è
stato per anni missionario in Kenia).
Laura e Morena, la nostra capotecnica, hanno sfoderato il loro senso pratico organizzando la giornata dei due zambiani, per il lavoro e per il tempo libero.
Sette persone la settimana, sempre le stesse, si occupavano di loro a giorni fissi. Tutti, tranne uno (il sottoscritto) sapevano cucinare: insieme, abbiamo allora provato i
più interessanti ristoranti della città nel raggio di un chilometro.
Il fine settimana, per i pasti, stavano perlopiù da Laura. Poi, c’era sempre qualcuno
disposto a passare con loro il pomeriggio e la serata.
La mattina, colazione in laboratorio con le quattro tecniche e le segretarie e poi a
studiare: mattina e pomeriggio al microscopio o a ripassare la teoria; Annamaria, la
nostra biologa esperta di pap test, li ha seguiti con calore e pazienza rari.
Walter, il capocuoco che si è messo in testa di voler gestire la prima mensa ospedaliera d’Italia citata sulla guida Michelin, ha regalato i buoni mensa.
Forse qualche volta Given e Wilbroad non sono stati felici per un trattamento così intensivo, ma quell’esame gestito da due enti europei dall’acronimo minaccioso (EFCSQUATE: European Federation of Cytology Societies - Committee on Quality Assurance,
Training and Education) non era certo una passeggiata.
Incrociavamo le dita ed immaginavamo scenari: il migliore (entrambi passano), il
non buono (entrambi respinti), il peggiore (ne passa solo uno).
Si è verificato il peggiore.
Promosso Wilbroad. Respinto Given: non ha visto una cellula di cancro, una sola.
Tornato al laboratorio, Given è rimasto di pietra per un’ora circa. Poi ha cominciato a
piangere come una fontana.
Abbiamo festeggiato, quella sera: Wilbroad era il primo africano della storia che
passava l’EFCS-QUATE. Gli davamo pacche sulle spalle quando Given non ci vedeva,
minimizzavamo a Given il traguardo eccezionale del collega quando Wilbroad non ci
sentiva.
Poi, passando per Bologna, da amici che avevano contribuito al progetto, sono andati
a Perugia, da Paolo e Daniela nella loro stupenda casa in mezzo alle colline, tappa
obbligata per tutti i POF con necessità di ricaricarsi.
E lì, tra vino e chitarre, anche Given ha ritrovato un po’ del suo largo sorriso e il coraggio di affrontare di nuovo il lungo viaggio verso casa ed un anno di lavoro in attesa
di poter ritornare in Italia per riprovarci.
parabola africana
61
Arriva lo scanner
A settembre 2006 come al solito, Paolo torna in Italia per il suo mese di vacanza e di
raccolta fondi per l’ospedale.
Nel frattempo ho organizzato l’incontro in Regione Lombardia con il dr. Carlo Alberto
Tersalvi, responsabile dell’Ufficio Cooperazione sanitaria, dove avevamo inoltrato la
richiesta di gemellaggio Desio-Chirundu.
Abbiamo deciso di percorrere questa strada, apparentemente la più agevole per
raggiungere l’obiettivo.
Con questa procedura la Regione mette nelle casse di un suo Ospedale (in questo
caso l’ospedale di Desio dove lavoro da oltre 10 anni) dei fondi (circa 200.000 euro) da
spendere in due anni per sostenere un gemellaggio con un altro ospedale lontano in
difficoltà.
Il progetto interessa. Di tutto è garante il mio direttore generale, il dottor Giuseppe
Spata, che all’inizio era scettico poi pian piano si è reso conto anche lui dell’importanza
dell’iniziativa e da semplice garante si è trasformato in dichiarato sostenitore.
Verso le 9 del mattino di uno dei primi giorni del gennaio 2007 squilla il cellulare. È
Tersalvi: il gemellaggio è stato accordato e la cifra assegnata è di 190.000 euro.
Possiamo ordinare lo scanner e fare l’abbonamento satellitare. Scelta complicata, senza
la possibilità di effettuare prove con lo scanner in loco, cioè in Zambia.
Ma in giugno, a Peja, in
Kosovo, dove mi trovo in
missione esplorativa per
i POF, per la prima volta
con il mio portatile riesco
a scaricare, attraverso il
satellite, un immagine di
un vetrino virtuale il cui file
risiede in un pc collocato in
una server farm a Milano:
la qualità dell’immagine
è ottima, la velocità non
supersonica ma decente.
Possiamo ripartire.
62
Patologi Oltre Frontiera
L’installazione
La notizia dell’assegnazione del finanziamento da parte della Regione Lombardia
mette tutti in uno stato di eccitazione, vuoi perché siamo finalmente nelle condizioni
di completare il progetto, vuoi per il riconoscimento istituzionale del nostro lavoro.
Lo scanner deve essere accompagnato in Zambia da un medico che sappia utilizzarlo
e da un informatico.
Il medico è Fabio Pagni, specializzando dell’università Milano Bicocca con sede a
Monza, che da tempo lavora attorno ad altri progetti sul modello di scanner AperioNikon, lo stesso acquistato per Chirundu. Con lui parte anche Eleonora, sua fidanzata,
quasi medico ma ancora indecisa sulla scelta della specializzazione.
L’esperto informatico è Marco Gherardi, fisico teorico e autodidatta come informatico.
Si occuperà dell’installazione della macchina e della sua connessione con l’ambiente
locale.
Prima di procedere dobbiamo però decidere cosa fare per la connessione satellitare.
Abbandonata l’ipotesi SIGNIS ci affidiamo a un’altra agenzia: la Milano Teleport.
La banda necessaria a questo punto è molto elevata (ed estremamente costosa). In
febbraio Paolo era venuto a Milano per pochi giorni e ne approfittiamo per andare a
Lacchiarella dove, in una specie di landa desolata, si ergono decine di mega-parabole
puntate su satelliti che a loro volta puntano sull’Africa.
In questo strano luogo
di cui non avremmo
mai immaginato prima
l’esistenza passano le
giornate giovani e meno
giovani ingegneri che
tengono sotto controllo
tramite i loro terminali,
24 ore su 24, satelliti e
connessioni.
Ecco qui, di seguito,
una nota dell’ingegner
Alessandro Striuli.
parabola africana 63
ALESSANDRO STRIULI RACCONTA...
Oggi, almeno a grandi linee, so qualcosa sui Patologi Oltre Frontiera e ho inquadrato il
dottor Faravelli. Ho visto il suo studio un po’ semi-etnico all’ospedale di Desio, la sua
casa “intensa” di Milano, ho visto e sentito come si rapporta con i suoi collaboratori,
insomma mi sono fatto un’idea di come si relaziona con la società e di quale sia la sua
visione del mondo. So quali sono le sue idee politiche, non ne fa mistero, e so anche che
non perde occasione per dichiararsi non credente, immagino che sia una provocazione,
ma non credo che in molti vi si appassionino. È possibile che io non abbia capito nulla,
però poco importa, tant’è che oggi, quando ci sentiamo o ci incontriamo, non sono più
così perplesso come quella volta, ormai due anni fa, quando ci incontrammo al nostro
teleporto di Lacchiarella.
(Il teleporto, per chi non lo sapesse, è il luogo da cui forniamo il servizio di connettività
satellitare; la parabola installata a Chirundu, e che compare sulla copertina di questo
libro, è collegata direttamente al teleporto.)
In quella lontana circostanza, al teleporto, vennero il dottor Faravelli ed il dottor Marelli. Io non sapevo nulla di loro: solo che erano clienti di uno dei nostri più importanti
rivenditori. La questione era commercialmente delicata, perché dobbiamo sempre essere
molto attenti a non scavalcare i nostri partner (è una banale regola di etica commerciale), e tuttavia questi dottori non erano soddisfatti del servizio che stavano ricevendo.
Mi era stato riferito che dovevano fare dei test e che io dovevo cercare di seguirli.
Queste erano le scarse indicazioni che avevo ricevuto prima dell’incontro. La situazione
mi appariva più che altro come una “rogna” che era stata scaricata su di me. Normalmente i clienti che si lamentano dei servizi di comunicazione satellitare, lo fanno perché
pretendono di spendere poco e di conseguenza non possono usufruire delle prestazioni
che realmente servono loro: e siccome in genere non sono disposti a spendere quel che
serve, si entra in un circolo vizioso di test e contro-test che non portano mai da nessuna
parte. Da queste considerazioni introduttive, si può capire lo stato d’animo con cui mi
accinsi a incontrare la coppia di dottori che veniva al teleporto.
E invece, una volta tanto, le cose non sono andate come mi aspettavo. I due erano
consapevoli di quello di cui necessitavano e, sebbene le telecomunicazioni satellitari
non fossero una competenza a loro ascrivibile, la discussione fu costruttiva, tanto che
alla fine mettemmo abbastanza rapidamente in piedi un servizio adeguato all’applicazione richiesta.
Ricordo che in quel primo incontro il dott. Marelli mi illustrò sinteticamente quello che
avevano realizzato a Chirundu, ovviamente molto più sinteticamente di quanto non si
faccia in questo libro, mi disse davvero pochissime cose: una di queste fu che si definì
64
Patologi Oltre Frontiera
una specie di prete... Ma più di ogni spiegazione, mi disse, è utile vedere con i propri
occhi. In pratica mi rivolse una specie di invito ad andare a Chirundu, per vedere il loro
ospedale e lo Zambia. Mi colpì, in quella circostanza, la capacità di comunicare l’orgoglio per il suo lavoro senza minimamente scadere nel vanto.
Io sono pigro, credo che mia moglie ve lo possa confermare, e non mi piace viaggiare,
perché quando viaggio mi pare sempre di non capire nulla, di fare fatica e spendere
soldi per niente, per cui è significativo che un viaggio a Chirundu, dopo quella conversazione, mi attiri. Anche se non credo che andrò mai laggiù, nemmeno però escludo di
farlo un giorno. Del dottor Marelli ho capito davvero poco: è uno che gira con una grossa
motocicletta quando è in Italia, mentre, quando gli si telefona in Zambia, probabilmente non lo si trova perché è in sala operatoria. Un po’ poco per inquadrarlo, sufficiente
però per nutrire una sincera simpatia per quello che fa.
Oggi mi pare di poter dire che il “progetto Chirundu” abbia fatto scuola e si pensa di
replicarlo in Madagascar e in altri posti. La connettività satellitare, che è la parte che
dovremmo fornire noi anche in futuro, diventa un po’ più complicata, ma al tempo
stesso si possono fare un po’ di economie di scala per gravare di meno sul bilancio dei
singoli progetti e i due dottori ci contano molto.
L’iniziativa ha le caratteristiche per funzionare anche espandendosi: verranno coinvolti
altri dottori, forse altre associazioni parteciperanno, non solo i patologi ma anche altri
specialisti; la speranza è che si conservi lo spirito costruttivo anche in presenza di un
numero crescente di protagonisti. Questa è la speranza ed anche il mio augurio.
Concluso il contratto per l’abbonamento satellitare con Milano Teleport, in aprile 2007,
i nostri tre, accompagnati da un amico, partono per Lusaka.
La loro missione è: assemblaggio dello strumento e istruzioni per l’uso a Given e
Wilbroad. E poi prove di scansione di preparati virtuali, prove di invii/ricezione e prove
di lettura in Italia.
parabola africana
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FABIO PAGNI RACCONTA...
La malaria non l’ho presa. Colera e rotavirus mi hanno risparmiato.
La fame non l’ho patita. Il coccodrillo non è entrato nella Guest House durante le mie
due settimane di soggiorno. Lo scanner per l’istologia è stato l’espediente, ma dietro
allo scanner c’è stata una “possibilità” umana ancora più interessante.
Parti per l’Africa temendo di soffrire la fame, di non avere l’acqua per lavarti e invece
stupisce immediatamente, arrivando a Chirundu, l’assoluto
comfort della Guest House.
E che dire delle prelibatezze
preparate dalla vicina di casa,
“turista per caso”, trapiantata in Zambia, la “veneta”
Pasqualina? Ma ecco i ritratti
dei due indimenticabili leaders
di Chirundu, Paolo Marelli ed
Elisa Facelli, fatti con l’amico
e collega Davide Sala, neurologo, compagno di viaggio oltre
che di scherzi.
- Paolo: il medico amato da tutta Chirundu come “the best doctor in Zambia” (parole
di Wilbroad, birra in mano sulla strada del mercato), l’organizzatore severo e puntuale
di tutta l’attività burocratica dell’ospedale, il ginecologo che a mani nude salva un neonato podalico in madre HIV+, ma anche il cultore della buona cucina, amante esigente
di cinema (che si arrabbia se la parabola non prende Sky), che si scatena sparando dal
portico sassi con la fionda ai turisti inglesi che fanno scorribande con il motoscafo sullo
Zambesi, che una sera che si prepara una cenetta prelibata dimentica la “meditazione
spirituale”… andando via gli ho detto: “Pensare che se fossi rimasto in Italia saresti
diventato un Professore” (ha riso….).
- Elisa: la guardi in faccia e come prima cosa “visto che l’abito non fa il monaco” giureresti che sia la più devota; e invece è dichiaratamente laica. La penseresti riservata e
quasi dimessa e invece è capace di sarcastiche battute (destinatario Paolo). Capace di
dedicarsi allo stremo alla “vocazione laica” del medico con turni estenuanti, con corse
sotto la pioggia per iniettare della ciprofloxacina in una bimba con meningite, passa le
ore del riposo in una “celletta” più disadorna di un monastero di clausura e al ristorante
sudafricano è capace di ordinare come pietanza principale “del pane”.
Paolo ed Elisa sono davvero il “cuore” qui. Chirundu è permeata del loro lavoro, della
loro presenza forse fin troppo ubiquitaria, non può permettersi di stare senza di loro, e
forse questo potrebbe essere un limite da sanare per il futuro.(…)
66 Patologi Oltre Frontiera
MARCO GHERARDI RACCONTA...
Qui tutti parlano un inglese strano, che faccio fatica a capire; è la loro lingua ufficiale,
ma la ibridano molto, e poi la pronuncia è misteriosa. In tutto lo Zambia si parlano 72
lingue, una per ogni tribù, e solo qui a Chirundu ne senti parlare correntemente almeno
tre (nyanja, tonga e bemba). C’è dunque chi parla tre lingue o più e vive in una casa di
20 metri quadri con moglie e quattro figli.
Il posto dove stiamo noi è molto bello, forse troppo: alle volte mi sento un po’ colonialista. La guest house è una casetta normalissima: a parte le formiche (enormi e
nere, oppure rosse e minuscole) che sono ovunque. Le case dove vivono gli abitanti di
Chirundu invece vanno dalla casetta in muratura per i più ricchi – ma sono pochi – alla
casupola di mattoni semidistrutta, alla capanna di paglia e fango. Il villaggio a tratti
è molto degradato. Non c’è traccia di un sistema di smaltimento dei rifiuti, così tutti
buttano tutto in giro e le strade si stanno riempiendo di plastica. Chirundu poi soffre
molto dell’essere un posto di frontiera. I camion sono ovunque sulla strada principale,
sterrata e piena di buche, che con la pioggia diventano larghe pozze di fango. I grossi
pachidermi motorizzati sostano per giorni interi, aspettando visti e permessi per passare
il grande ponte sul fiume ed entrare in Zimbabwe. Il continuo passaggio di merci e di
persone non ha arricchito Chirundu, ma ha contribuito alla diffusione di detriti, immondizia e HIV. La strada con i camion sparsi disordinatamente – con l’aria satura di polvere
e di gasolio e con i bambini che giocano tra pneumatici e cartelli “stop aids” – è uno
spettacolo desolante. Ma questa è davvero la faccia peggiore di Chirundu, che invece
mostra anche lati gentili, come nelle zone più immerse nella foresta, in cui le case e le
persone sembrano vivere di una simbiosi spontanea e indisturbata con l’ambiente.
parabola africana 67
La diagnosi istologica on line
Tutto il necessario è installato e finalmente possiamo partire.
Se per la citologia vaginale si poteva contare su Given e Wilbroad, in grado di fare
da primo filtro dei casi, adesso tutto il materiale deve essere sottoposto ai patologi
volontari italiani.
Pensa e ripensa, risolviamo inserendo anche qui una specie di filtro, due giovani
medici specializzandi ma in Italia: Fabio, che era andato a Chirundu a installare
lo scanner, e Francesca, sua coetanea specializzanda, rimasta a casa per paura dei
serpenti.
E come funziona il meccanismo?
A Chirundu, Given e Wilbroad hanno imparato ad allestire i preparati istologici per
fare la diagnosi; poi li mettono dentro questa macchina in grado di fotografare il vetrino
ad altissimo ingrandimento, facendone delle immagini digitali ad alta risoluzione
pesantissime (un vetrino alla fine diventa un’immagine digitale di 5-6 Giga). Poi,
la procedura che finora dà i migliori risultati è quella di scaricare l’immagine in un
server locale (in Africa), connettersi dall’Italia e visualizzarla.
Il responsabile del mese può avvalersi di queste immagini o andare con password
direttamente sul vetrino virtuale e vedere anche i pareri inseriti dai numerosi
La schermata della
pagina di accesso
del software
sviluppato dalla
O.S & I. di Roma.
68 Patologi Oltre Frontiera
volontari che hanno visto le immagini fisse. Procedura recente e già in evoluzione.
Un aspetto molto interessante è il tentativo in atto di coinvolgere come volontari non
soltanto singoli anatomo-patologi ma anche le scuole di specializzazione. La prima
ad aderire è stata quella di Milano Bicocca, seguita da Padova, Napoli, Brescia. Una
volta fatta, la diagnosi viene inviata per posta elettronica a Chirundu (per ora).
Intanto due informatici di Roma dell’agenzia O.S & I. – Elio di Paolo e Giovanni
Scioti – nel silenzio, stanno realizzando un avveniristico programma di gestione on
line. Questo consentirà ai Patologi Oltre Frontiera di gestire l’inserimento delle
diagnosi e di firmarle digitalmente in qualunque postazione sparsa per il mondo
purché connessa a internet.
Questa soluzione, oltre ad agevolare la gestione delle diagnosi, permetterà di
potenziare le fila del piccolo esercito di patologi oltre frontiera con l’arruolamento di
colleghi di altri paesi europei (prima) e del resto del mondo (poi).
ELIO DI PAOLO RACCONTA...
Possiamo ben dire che la O.S.& I. è nata con i Patologi Oltre Frontiera.
Nell’ottobre 2007 abbiamo deciso di approfondire l’idea, a lungo coltivata, di costituire una realtà che si interessasse di informatica e, in particolare, di informatica in
sanità. Tra le realizzazioni già in nostro possesso c’era un sistema per la gestione dei
laboratori di anatomia patologica e abbiamo pensato di trasporlo in ambiente web
per presentarci sul mercato con un prodotto adeguato alle odierne esigenze.
Curiosando in internet sull’argomento telepatologia, ci siamo imbattuti per caso nel
sito dell’Associazione POF. Lette le prime informazioni sugli obiettivi e sull’attività
dell’associazione, siamo stati subito conquistati dall’idea di contribuire al progetto.
Ci ha probabilmente preso il mal d’Africa, e non sappiamo se ad altri sia mai successo
ciò pur non essendo mai stati in Africa.
Una telefonata alla segreteria e ci hanno consigliato di parlarne col dott. Faravelli.
Detto fatto. Abbiamo offerto all’associazione la nostra collaborazione ed abbiamo
iniziato subito a lavorare al progetto. O.S.&I. è nata tre mesi dopo.
In questi mesi abbiamo apprezzato la dedizione del dott. Stracca, del dott. Faravelli e
dei loro colleghi, che abbiamo avuto il piacere di vedere riuniti in assemblea accomunati dalla stessa passione. Abbiamo altresì apprezzato la “microscopica” precisione
del dott. Faravelli nel formulare le richieste e le osservazioni che ci hanno consentito
di re-ingegnerizzare il sistema.
Contiamo, nel futuro, di sviluppare la nostra attività in tante altre direzioni, ma per
noi come persone rimarrà fondamentale l’esperienza che stiamo vivendo con l’associazione.
parabola africana 69
Lo spot di Bruno Bozzetto
Da tempo mi ero messo in mente di provare a contattare Bruno Bozzetto, per creare
qualcosa di incisivo che ci facesse conoscere.
Entro in Google, scrivo Bruno Bozzetto, clicco “cerca” e arrivo nel sito della Bozzetto
Film. Scrivo una mail, dove segnalo il nostro sito internet. Il pomeriggio stesso ricevo
la risposta.
Egr. Dott. Faravelli,
la ringrazio della sua lettera e della considerazione. Ne possiamo
sicuramente parlare, ma, per evitare di farle perdere tempo, desidero
prima informarla che il costo di un’animazione resta comunque molto
alto. Al di sotto di 4000 euro non avrebbe senso iniziare nulla, anche
immaginando un film della durata di solo di 10 o 15 secondi (…)
Detto doverosamente questo, se le cifre sono per voi abbordabili,
possiamo incontrarci e parlarne. Di solito la soluzione si trova sempre...
L’importante è avere le idee chiare e volerlo.
Bruno Bozzetto
Mi dà il numero del suo cellulare e mi rimanda ai primi di agosto. Puntuale lo chiamo,
mi promette un incontro. Viene lui a Desio, alle 11 di giovedì 10 agosto.
Dalle prime parole mi rendo conto che ha letto tutto il sito dei Patologi Oltre Frontiera.
Mi manifesta una certa difficoltà all’idea di realizzare uno spot di 30 secondi sulla nostra
ONG visto che quasi nessuno sa, compreso lui, cosa fanno e chi sono gli anatomopatologi e nessuno ha la più pallida idea di cosa sia la telepatologia. Dopo tre giorni
ricevo una mail che, in sintesi, dice:
mi trovo “scoperto” sulla conclusione dello spot. Può aiutarmi? Dopo
avere esaminato sul computer il materiale che vi viene inviato, ed
aver fatta la diagnosi, quale è la conclusione della storia? Come posso
rappresentare visivamente ciò che voi inviate in Zambia, a referto
concluso? Un foglio con le diagnosi? Dei medicinali? Dei medici? In
70 Patologi Oltre Frontiera
pratica, come potrei rappresentare, visivamente e in modo graficamente
semplice, il vostro aiuto finale alla gente dello Zambia?
Grazie. A presto,
Bruno Bozzetto
Rispondo:
In concreto noi inseriamo in uno spazio virtuale, gestito in comune con
gli africani, un’informazione scritta, che è poi la diagnosi. Quando una
donna si sottopone al pap test nell’ospedale africano, i suoi dati sono
inseriti in un data base dai tecnici africani, con il loro parere sul caso. Se
viene sottoposto alla nostra valutazione, anche noi possiamo entrare nel
data base e intervenire nella diagnosi. Il medico responsabile del mese
verifica il parere di tutti e inserisce la diagnosi finale, che arriva stampata
sulla scrivania del chirurgo in Africa. Non le ho dato nessuna idea ma le
ho descritto nel dettaglio il percorso. Nella mia mente banale non mi
viene in mente altro che l’immagine di due cartelle di computer con un
foglio che esce da una e vola nell’altra.
Bozzetto replica:
L’idea delle due cartelle e del foglio che esce è carina ma potrebbe
risultare piuttosto ermetica ad un profano. Il problema è capire se questo
spot va soprattutto a persone specializzate o anche a incompetenti.
Gli invio il link per andare a vedere in internet uno spot fatto da AMREF in cui si
vede un ragazzo africano che mettendosi un braccio dietro la testa e togliendosi una
scarpa, che si trasforma nel Madagascar, si trafsorma anche lui e prende le sembianze
dell'Africa. Mi risponde subito:
Però la chiave sta nel commento parlato, che spiega tutto. Senza quello,
lo spot sarebbe incomprensibile... La cosa difficile consiste infatti nel
realizzare il film “senza” dialogo. Così diventa internazionale e può
essere mostrato a chiunque. Continuerò a lavorarci… non credo tanto
nella genialità (mille grazie) ma nella perseveranza… Mal che vada, se
non trovo una soluzione adatta, inseriremo un commento parlato.
parabola africana
71
Dopo soli tre giorni ricevo via mail 38 secondi di spot semplice e chiaro.
Ancora una volta ha centrato il problema: Bozzetto è un genio. E se lui dice di essere
solo perseverante, io dico che è un genio perseverante. Poche modifiche grazie a un
fitto scambio di mail tra Canelli e le Dolomiti, e il gioco è fatto.
Alla musica penserà mio figlio Attila.
Il 5 ottobre 2007, al congresso di Anatomia Patologica a Milano, presentiamo i progetti
POF e lo spot di Bozzetto. Lo invito alla presentazione, prevista per le 18 e 30: verrà.
Passano i minuti e di Bozzetto nemmeno l’ombra. Suona il cellulare. Mi dice di essere
già seduto in sala. Non mi ero nemmeno accorto che era entrato. Lo chiamo per
ringraziarlo ufficialmente. Tutti apprezzano lo spot.
Nel 2008 passerà in televisione!
PS: Dimenticavo: lo spot ce lo ha regalato.
72
Patologi Oltre Frontiera
Un intervento chirurgico
attraverso il satellite
Desio, ore 9 del mattino.
Sto sistemando dei documenti per una riunione in direzione sanitaria.
Squilla il computer. È Paolo che mi chiama con Skype da Chirundu. Strano, ormai
siamo abituati a sentirci la sera dopo cena o il sabato mattina.
Oggi poi è venerdì, il giorno in cui è in sala operatoria.
Infatti da lì mi chiama, con il microfono fortunosamente vicino al tavolo operatorio.
Mi chiede se c’è qualche possibilità di parlare con Marco, il mio collega primario urologo. Sta operando una giovane donna con una massa nel bacino. L’aveva isolata per
bene per capire cosa fosse. Si trattava di un rene ectopico e aveva erroneamente tagliato un vaso.
Fortunatamente Marco è nel suo studio. Nel giro di 5 minuti è seduto davanti al computer e parla con Paolo che, nel frattempo, si è procurato la piccola web camera che
usa per farmi vedere la sua faccia mentre parliamo con Skype. In pochi minuti la web
camera è montata sulla lampada scialitica e fa vedere il campo operatorio. L’immagine non è certo l’ideale ma unita alla descrizione di Paolo, consente a Marco di avere
un’idea precisa della situazione.
Dopo 40-50 minuti di scambio di informazioni con Marco che guida la mano di Paolo,
entrambi si rendono conto che l’intervento si è concluso per il meglio.
Il rene della ragazza è salvo.
Un’altra tappa del nostro fare telemedicina.
parabola africana 73
Arrivano anche i ginecologi
Nel frattempo Maggiorino Barbero, il ginecologo inafferrabile, vola in Zambia e ritorna con la stessa disinvoltura con cui il mio vicino di casa fa un fine settimana sul lago
Maggiore.
Va a fare qualche colposcopia per mostrare a Paolo la tecnica.
Non è che Paolo sia così entusiasta di questa impostazione “mordi e fuggi” ma i vantaggi non sono pochi per cui si adatta, anche se con un certo disagio
Del resto il suo progetto di screening del carcinoma della cervice sulla popolazione
del distretto dove è collocata Chirundu sta andando molto bene e questo anche grazie
all’aiuto dei ginecologi al seguito di Barbero.
Quando sono passato a Chirundu, in novembre 2007, Paolo mi aveva mostrato gli spazi
creati per la prevenzione del cancro cervicale.
Mi aveva anche presentato Esther, l’ostetrica deputata alla gestione e all’organizzazione dell’ambulatorio.
Volevo fare qualche foto per documentare il lavoro fatto ma mi sarebbe piaciuto
ci fosse almeno una paziente. Chiediamo
così a una donna seduta fuori, parente di
un malato ricoverato, di prestarsi come
finta partecipante alla campagna di prevenzione.
Esther le spiega cosa deve fare e la donna
risponde: “Ma perché devo recitare? Fatemelo veramente il pap test!”. E così la
fiction si trasforma in realtà.
La donna ascolta con attenzione Esther
che le spiega il significato di quello che
sta facendo. Poi prende il pieghevole illustrato che Paolo ha realizzato in più
Da sinistra, Esther, l’ostetrica che gestisce lingue con le notizie essenziali sulla campagna di screening e si sdraia sul lettino
l’ambulatorio, Maggiorino Barbato, Paolo
ginecologico per il prelievo.
Marelli e un altro addetto di Chirundu.
74
Patologi Oltre Frontiera
Ed ecco la testimonianza di Maggiorino Barbero.
MAGGIORINO BARBERO RACCONTA...
Il mio nome è Maggiorino Barbero, Rino per gli amici… l’imprendibile. Invece sono
stato “PRESO” e come! Una mia cara amica, ginecologa colposcopista di Savigliano, un
bel giorno mi dice: ”Caro Rino perché non vai in Africa a portare un po’ della tua esperienza nel trattamento ambulatoriale delle lesioni pretumorali del collo dell’utero?...
tu che hai contribuito con i tuoi corsi a diffondere in tutta Italia la tecnica dell’Ansa a
Radiofrequenza, oggi riconosciuta in tutto il mondo come il gold standard”.
Detto fatto... conosco i Patologi Oltre Frontiera, sento Paolo Marelli, che si preoccupa
quando non rispondo subito alla sua posta, scelgo un fine settimana (30 aprile 2007)
e... faccio un salto a Chirundu.
Il viaggio è lungo, lo scetticismo non è da meno… Attivare in Africa un ambulatorio per
il trattamento elettrochirurgico delle neoplasie intraepiteliali mi sembrava non fattibile
o perlomeno molto difficoltoso, ma sicuramente molto stimolante: evitare trattamenti
parabola africana 75
demolitivi in giovani donne è sempre un’impresa affascinante oltre che doverosa per
un medico.
Le mie perplessità si sono subito dissipate quando sono arrivato al “Mtendere Mission
Hospital”, quando ho visto il posto, le persone, l’organizzazione, la strumentazione.
Professionisti come Paolo, Elisa e molti altri di cui non ricordo il nome, non conoscono
ostacoli tali da impedire la realizzazione di un progetto così importante.
Il resto è storia recente:
• invio della strumentazione offerta dalla Società Italiana di Colposcopia e Patologia
Cervico Vaginale (SICPCV);
• il mio ritorno in Africa nel novembre 2007;
• l’emozione dei primi interventi;
• la terza puntata a Chirundu (marzo 2008);
• primi controlli delle pazienti operate a novembre.
La documentazione delle prime guarigioni, poi la rapidità “spaventosa” che ha dimostrato Paolo nell’imparare la tecnica hanno fatto tutto il resto.
Altri colleghi sono stati a Chirundu, altri andranno, Esther è venuta da noi ad Asti:
esperienza fantastica. In pochissimo tempo si sono effettuati oltre 250 interventi (un
numero incredibile anche per i maggiori centri italiani).
Questo miracolo, non ho altri termini per definirlo, è avvenuto grazie ai Patologi Oltre
Frontiera, ma soprattutto grazie a Paolo….
Sono onorato di averlo conosciuto e per questo lo ringrazio… come ringrazio tutti coloro che mi hanno consentito questa esperienza.
76 Patologi Oltre Frontiera
Le storie di Wilbroad e di Given
Fino a questo punto abbiamo osservato tutto dal nostro punto di vista. Proviamo per
un momento a cambiare prospettiva di valutazione. Proviamo a entrare nel cervello di
Given e Wilbroad e cercare di capire da dove vengono e come era la loro vita prima. Il
loro ritratto è stato affidato direttamente alla loro penna.
Il racconto di Wilbroad
Sono nato il 2 febbraio 1980 in una famiglia di cinque figli; ho due sorelle e due fratelli
ed io sono il secondo in famiglia. Sono nato a Choma e Choma è la mia casa.
Ho iniziato la scuola nel 1987 a Mazabuka alla scuola elementare Kaonga. Sino ad allora la mia vita era normale e tutto andava bene.
Nel 1988 mio padre si è suicidato e nessuno ne sa la ragione. Essendo piccolo la vita
per me era la stessa con o senza mio padre. La morte non aveva significato poiché ero
ancora un bambino.
Da allora sono stato allevato da mio cugino che si è offerto per aiutare mia madre. Ho
dovuto lasciare Mazabuka e iniziare un’altra vita, lontano da mia madre. Ho iniziato ad
andare a scuola: facevo la seconda, e stavo con mio cugino e con mia cognata; vivevamo
in un’area molto remota dove la vita non era facile.
Nel 1989 mio cugino, che è un insegnante del Ministero dell’Educazione, è stato trasferito in un’area vicino a Siavonga, una città nell’area di Lusitu. Io ho proseguito lì la
mia educazione.
Nel 1993 ho passato gli esami del settimo anno e sono passato all’ottavo grado. Dopo
due anni ho superato un altro esame e sono passato al decimo grado. A questo punto ho
dovuto cambiare scuola poiché la scuola dove stavo offriva solo l’educazione elementare:
sono tornato a Mazabuka alla scuola superiore St. Edmunds. Sono tornato a vivere con
mia madre e ogni giorno ho dovuto percorrere 7 km a piedi per andare a scuola.
Nel 1996, nel mese di ottobre, è morta mia sorella maggiore: ho sofferto molto perché la
amavo tanto, inoltre, essendo la più anziana tra i miei fratelli, era quella che mi dava consigli sia per i miei studi che per la mia vita. A quel punto la mia vita si è complicata. Non
sempre andavo a scuola. Vedevo mia madre lottare per farci crescere. Trovare i soldi per
mandarmi a scuola non era facile per lei. Il cuore mi faceva male ed era pieno di dolore.
parabola africana 77
Così decisi di tornare a vivere con mio cugino, spiegandogli quanto era difficile la vita per
noi. La vita è dinamica ed è ciò che ognuno decide che sia nel suo futuro.
Hanno dovuto cercare un’altra scuola per me e per fortuna hanno trovato un posto alla
scuola superiore di Siavonga. Io ero molto felice di avere quest’altra possibilità. È in
questa scuola che mi sono diplomato a pieni voti.
Mentre ero in questa scuola mio cugino è stato trasferito di nuovo alla scuola di Chirundu e io ho seguito lì la sua famiglia nel 1998. Sono rimasto a casa senza far nulla per
un anno, nel 1999, mentre aspettavo i risultati scolastici. Nel 2000, per conto di mia
cognata, ho cominciato ad andare in Zimbabwe a comprare pesciolini essiccati di lago
da rivendere nei villaggi.
L’anno successivo ho fatto domanda di lavoro al Mtendere Mission Hospital come impiegato del registro, ma non ho avuto il lavoro. Non mi sono dato per vinto ed ho fatto
un’altra domanda, questa volta sono stato chiamato per un’intervista e poi mi è stato
offerto un lavoro come impiegato. Ho cominciato a lavorare intorno ad aprile nel 2001.
Il lavoro consisteva nel registrare i pazienti, controllare la loro temperatura e fare tutto
ciò che concerneva i pazienti. Qui ho conosciuto Given e siamo diventati amici anche
se non lavoravamo nello stesso reparto.
Successivamente il dottor Paolo mi ha detto che l’amministrazione aveva deciso di
cambiarmi il lavoro: sono stato spostato all’accettazione e mi sono occupato dei pazienti interni. Dovevo registrare ogni paziente ammesso all’ospedale, tenere l’archivio in
ordine e inoltre registravo anche i risultati delle biopsie che provenivano dall’UTH.
Ho lavorato in questa posizione per alcuni anni.
A un certo punto, vedendo che i risultati provenienti dall’UTH erano spesso in ritardo,
il Dottor Paolo è venuto da me e mi ha parlato della telemedicina e del programma
che aveva in mente per l’ospedale. Ha parlato separatamente anche con Given e tutti
e due abbiamo accettato.
Io non ho mai pensato che sarebbe stato semplice perché ciò che coinvolge tessuti e
cellule non è mai semplice da trattare.
Nell’aprile del 2006, con l’aiuto di molti patologi, biologi e tecnici italiani, abbiamo
cominciato a seguire delle lezioni. Come ho detto, sapevo che non sarebbe stato facile
per me, ma dove c’è volontà c’è una via e credo che se uno si convince che vuole fare
una cosa, non c’è nulla di difficile. Così mi sono convinto che quello che occorreva era
concentrazione e sapere cosa fare.
Sono stati Tino Faravelli, Laura Viberti, Stefano Guzzetti, Barbara Zingaro, Milena Pariali, Rita Baroni, Stefano Simonazzi e Morena Cavazzini, solo per menzionarne alcuni,
che si sono offerti di insegnarci, lasciando le loro famiglie.
Al termine delle lezioni ci hanno dato la possibilità di sostenere un esame in Italia.
78 Patologi Oltre Frontiera
Il 3 Novembre 2006 siamo partiti per l’Italia: per me è stata un’esperienza molto bella,
perché non avrei mai pensato di volare in vita mia .
Il 29 Novembre 2006, il giorno fissato per l’esame, siamo andati nell’aula, abbiamo
fatto l’esame e siamo andati tutti bene. Dopo l’esame siamo stati per qualche giorno in
Italia godendoci la bellezza del paese. Poi siamo tornati in Zambia.
Dopo alcuni mesi, mi sono reso conto che non ero fatto per stare da solo: mi sono sposato con Angela, una ragazza che conoscevo da tanti anni. Ora sono felicemente sposato
e ho un bellissimo figlio, Choolwe. A me piace giocare a calcio, guardare film d’azione,
ritrovarmi con gli amici, leggere romanzi e ovviamente andare in Chiesa.
Il racconto di Given
Mi chiamo Given (che vuol dire “donato”) Hampungani e sono nato nel 1980 a Choma in Zambia, quella che una volta era la Rhodesia del nord, sotto l’equatore. Sono il
quarto di nove figli: 4 maschi e cinque femmine.
Sono sposato da otto anni e ho 4 figli. Mio padre si chiama Leo e mia madre Elizabeth
Hambulo. Sono cresciuto a Mazabuka in una famiglia cattolica.
parabola africana 79
Mio padre lavorava in parrocchia, era un catechista. Ogni domenica andavo alla Messa
con tutta la mia famiglia. Ero talmente ammirato nel vedere il coro che cantava, che a
sette anni sono entrato a farne parte.
La mia non era una famiglia ricca ma la paga di mio padre consentiva a me e ai miei
fratelli di vivere e di andare a scuola
Infatti ho fatto le scuole a Namulonga e successivamente ho iniziato la high school
all’istituto St. Edmunds a Mazabuka.
Nel 1992, quando avevo dodici anni, mio padre andò in pensione e fu un disastro.
Il denaro non bastava per mantenere tutta la famiglia e mandarci tutti a scuola.
Venne in nostro aiuto il vescovo Paul Lungu che decise di sostenere le spese scolastiche mie e del mio fratellino più piccolo.
Ma un giorno disgraziatamente il vescovo morì in un incidente d’auto. E io fui cacciato
dalla scuola perchè non potevo pagare la retta.
Così, per mantenere me stesso e per aiutare la mia famiglia, mi improvvisai cacciatore
di uccelli e di conigli. Ero diventato un bravo cacciatore, ma questo non mi consolava:
ero molto preoccupato perché non riuscivo a vedere un futuro.
Quando la mattina uscivo con i cani e con le trappole stabilivo un numero minimo di
uccelli e conigli e finché non avevo raggiunto l’obiettivo non tornavo a casa.
Un giorno ci siamo imbattuti in un maiale selvatico. È un animale pericoloso e ha iniziato a correrci dietro. Abbiamo dovuto correre più veloci di lui per salvarci la vita ma ci
siamo talmente spaventati che quello è stato l’ultimo giorno di caccia.
La mia vita era sempre più senza futuro.
Nessuno era disposto ad aiutarmi per farmi continuare gli studi. Così, per guadagnarmi
da vivere, ho iniziato a lavorare da schiavo. Ho trovato un posto in un’impresa di costruzioni in città. Ho conosciuto molte persone con diverso carattere e ho avuto molti capi:
uno di questi, Mr. Sakala, non era molto amichevole nei miei confronti. Mi assegnava
un sacco di lavoro minacciandomi che se non fossi riuscito a terminarlo mi avrebbe
licenziato. Quell’uomo ha reso il mio cuore duro come una roccia. Diventavo più forte
e resistente ogni giorno che passava. Non avevo nemmeno il tempo di preoccuparmi
del mio futuro. Terminato questo breve contratto, cominciai a pensare a come trovare il
denaro per proseguire gli studi. Un giorno, mentre aiutavo mia madre nel campo, passarono alcuni miei amici. Mi raccontarono che vendevano la ghiaia che producevano
spaccando le pietre col martello in una cava. Mi sono detto: ” Lo farò anch’io!”.
Così sono andato a lavorare in una cava. C’era una specie di collina e alcuni stavano sul pendio e con le mani e con la zappa scavavano nella terra. Quando trovavano una grossa pietra la facevano rotolare giù in basso, dove mio trovavo io con altri
compagni. Spaccavamo pietre tutto il giorno senza mangiare, bevendo solo un po’ di
80 Patologi Oltre Frontiera
acqua. Poi bisognava cercare clienti che comprassero le pietre, a un prezzo irrisorio.
Con i primi soldi, pagai la scuola privata per le lezioni pomeridiane. La mattina spaccavo le pietre e il pomeriggio andavo a scuola. Ma dopo un po’ la scuola aumentò la retta
e nuovamente dovetti abbandonarla.
Però io non volevo vivere continuando a spaccare pietre, perciò decisi di andare a Chirundu dove ormai da un po’ di tempo vivevano i miei amici “di catechismo” James e
Prisca.
All’inizio vivevo con loro e lavoravo come barman in un motel: 15-16 ore al giorno per
tutta la settimana. Non facevo altro che lavorare. Poi i miei amici mi suggerirono di
provare a fare domanda all’ospedale Mtendere.
Mi venne offerto un lavoro per un anno, con un contratto rinnovato ogni tre mesi,
nell’impresa per la costruzione dell’ospedale. Nel 2000 conobbi Miriam Kodzerai
Gunduza e mi sposai. Poco dopo, il contratto con l’impresa finì.
Nella missione arrivò un nuovo prete, che mi chiese se volevo tornare a scuola.
Ora avevo una donna di cui prendermi cura e che inoltre aspettava un bambino.
Il prete era disposto ad aiutarmi. Mi trovò posto in una delle classi del pomeriggio e
pagò la retta. Così alla mattina andavo a spaccare pietre per comprare i vestiti al bambino e nel pomeriggio andavo a scuola.
Intanto la costruzione dell’ospedale era completata; chiesi all’amministratore se avevano bisogno di qualcuno per la rimozione del materiale edile. Mi propose un lavoro
come guardia notturna, dalle 6 di sera alle sei di mattina. Accettai.
Dopo un po’ l’amministratore mi chiamò nel suo ufficio. Ero terrorizzato: “era forse
mancato qualcosa?”. In ufficio, trovai l’amministratore con altre persone. Grondavo sudore lungo tutto il corpo per la paura; loro mi invitarono a stare tranquillo, avevano solo
un altro lavoro da propormi: volevano che imparassi a montare occhiali. Avrei lavorato
di giorno, non più di notte, e, nei giorni in cui non dovevo montare occhiali, mi sarei
occupato del giardino. Ovviamente accettai.
Da Lusaka venne un tecnico, Mr. Njobve, per insegnarmi questo nuovo lavoro. Dopo
2 settimane avevo imparato ed ero in grado di continuare da solo.
Così oltre a lavorare nel laboratorio ottico, iniziai a prendermi cura delle piante e dei
fiori dell’ospedale: mi piaceva moltissimo, e quando gli ispettori del Ministero vennero
a Chirundu, trovarono il giardino più bello di tutto lo Zambia.
Un giorno nel 2004 stavo lavorando sotto il caldo sole di ottobre (40 – 45 gradi) quando il dottor Paolo Marelli mi chiamò e mi disse: “Ho qualcosa da proporti”. “Chissà che c’è di nuovo...” pensai tra me e me. “È un progetto che inizierà presto e devi pensarci dopo aver sentito anche i tuoi amici e parenti”. A
queste parole di nuovo la paura mi assalì. “Riguarda la patologia” ha continua-
parabola africana
81
to il dottore. Si tratta di imparare a fare delle cose qui a Chirundu in laboratorio e poi consultare dei dottori in Italia via internet per avere delle risposte”.
Dopo aver ascoltato le sue parole era come se avessi preso una droga fortissima: avevo
sempre sperato di poter lavorare in ospedale. Poi iniziai a pensare alla mia famiglia, ai
miei figli e a mia moglie, al nostro futuro che sarebbe diventato più roseo. Ma c’era
ancora qualcosa di non completamente chiaro nella mia testa.
Dopo due settimane andai dal dottor Paolo per chiedergli di chiarirmi un po’ le idee:
quando aveva parlato di patologia, avevo subito pensato alle autopsie (era l’unica cosa
che conoscevo del lavoro dei patologi). Invece mi disse che voleva diventassi un tecnico di laboratorio e di citopatologia.
Questo mi sembrava veramente impossibile. Sapevo che per diventare un tecnico si
deve andare al college e studiare per molti anni, mentre io non mi ero mai nemmeno seduto davanti ad un microscopio! Pensai che mi stesse prendendo in giro, sino a
82
Patologi Oltre Frontiera
quando non è arrivato il primo patologo dall’Italia, il dottor Tino, con altre persone e il
microscopio. E così è iniziato il progetto.
Sono arrivati dall’Italia altri patologi, biologi e tecnici per insegnare a me e a Wilbroad
il lavoro: come colorare, come preparare i coloranti e come organizzare e gestire il laboratorio e l’archivio; e come leggere i pap test al microscopio.
Il primo giorno è stato bellissimo sedersi al microscopio e vedere. Non avevo assolutamente idea di come usare questo strumento e volevo imparare in fretta. Afferravo gli
oculari con le mani come fossero un cannocchiale. Il primo pap test mi ha fatto venire
in mente dei girasoli.
Dopo un anno di scuola eravamo in grado di distinguere tra casi negativi e positivi e
avevamo imparato a chiedere una seconda opinione sui casi positivi attraverso internet. Bastava scattare delle foto dei sospetti casi positivi e spedirle in Italia per avere il
parere di un esperto.
I patologi italiani hanno pensato poi che, perché il nostro lavoro avesse un maggior
riconoscimento, avremmo potuto sostenere un esame. Ci hanno fatto delle lezioni supplementari e abbiamo preparato i passaporti e i visti. Mi sembrava un’altra cosa impossibile. Mi sono chiesto come mi sarei sentito a volare sopra l’Africa e l’Europa. Il 3
novembre 2006 siamo partiti con Tino per l’Italia. Abbiamo viaggiato appiccicati a lui.
A Milano ho scoperto un mondo nuovo: case alte, molta gente indaffarata e che si muove molto velocemente e un sacco di traffico. È stata una bella cosa vedere l’altra parte
del mondo. La prima notte ho dormito tanto perché non avevo dormito durante il viaggio, per via della paura. Poi siamo andati a Torino per rifinire la nostra preparazione.
Il 20 novembre 2006 abbiamo avuto una simulazione dell’esame e tutti e due abbiamo
fatto bene. Il 29 novembre c’era l’esame vero. Io pensavo che l’avrei passato. Il mio
amico Wilbroad lo ha superato, io invece no. Mi sono sentito umiliato. Ho pianto e
pianto tanto perché avevo perso la miglior opportunità della mia vita. Ho pensato a
quanto era stato speso per il volo, la sistemazione in Italia e tutto il resto. Ho provato un
dolore così grande che non sono più riuscito a godere della mia permanenza in Italia,
tutto si è trasformato in dolore. Hanno cercato di consolarmi dicendomi che avrei avuto
un’altra possibilità di ripetere l’esame l’anno successivo.
Durante gli ultimi giorni della nostra permanenza in Italia abbiamo visitato tanti posti:
Roma, Bologna, Rimini e Assisi. Tutti belli, ma io non me li sono goduti. Abbiamo
passato gli ultimi giorni a casa di Paolo Giovenali e Daniela Fenocchio a Perugia. Poi
una mattina siamo partiti per ritornare in Zambia. A Lusaka, abbiamo trovato Paolo,
mia moglie Mirriam e la cognata di Wilbroad.
Ci hanno dato il benvenuto ed erano contenti del nostro ritorno. Mentre tornavamo a
casa ho raccontato a mia moglie quello che era successo. Avevano organizzato una festa
parabola africana 83
per il nostro rientro ma almeno per me non c’era nulla per cui essere felice perché ero
tornato come un fallito.
Poi abbiamo continuato con la nostra solita vita. La mattina lavoriamo al fianco dei
patologi italiani ai quali mandiamo le immagini dei nostri pap test per un secondo
parere: riceviamo le diagnosi rapidamente e devo dire che mi sembra a volte di avere il
patologo a lavorare con noi in laboratorio. Il lavoro è come quello di un tecnico che dà
al patologo i vetrini da vedere su un vassoio, noi invece usiamo la macchina fotografica
e salviamo le foto nel pc per poi spedirle via web per farle leggere al patologo.
Abbiamo anche iniziato a preparare i vetrini istologici. È un lavoro che mi piace più di
quello del giardiniere. La mia vita è veramente cambiata e tutti i miei amici mi chiedono come è stato possibile che da spaccasassi e giardiniere sia diventato un tecnico. Non
riesco a rispondere a questa domanda perché anche per me è un mistero. Ho anche
continuato a studiare per ritentare l’esame.
Il 13 ottobre 2007 prima dell’alba ho lasciato Chirundu per la seconda volta. Abbiamo
fatto il check-in ma l’aereo aveva dei problemi tecnici: così ci hanno portato in un hotel
in attesa che riparassero l’aereo. Due giorni. Questa volta ho viaggiato con Milena che
era venuta per insegnarci l’immunoistochimica. A Torino ho trovato Stefano Guzzetti
e mi sono messo a studiare intensamente. I miei compagni di laboratorio si meravigliavano di come studiavo, ma io pensavo alla mia precedente umiliazione. Evitavo di parlare, me ne stavo quieto la maggior parte del tempo e mi concentravo. Mi chiedevano
che cosa avessi. Evitavo di parlare, stavo tranquillo e concentrato tutto il tempo…
Given torna in Italia
Anche questa volta devo passare la mano a Stefano Guzzetti che ci racconta come è
andata la seconda volta di Given in Italia.
STEFANO GUZZETTI RACCONTA...
All’EFCS-QUATE di quest’anno hanno assegnato a Given un numero, come a tutti gli altri
candidati: serve a rendere il più oggettivo possibile il metodo di valutazione. Given è il numero dieci. Chi assegna il numero ai candidati non partecipa alle correzioni dei test. Non
c’è scampo: nessuno degli esaminatori potrà mai usare un occhio di riguardo, neanche
inconscio, nei confronti di questa promessa nera della citopatologia.
Alla fine della correzione, il professor Roberto Navone dell’Istituto di Anatomia Patologica
dell’Università di Torino raduna i candidati nell’emiciclo e comincia a snocciolare l’elenco
dei promossi. Ovviamente li nomina con il numero assegnato. È la privacy, mi dicono.
84
Patologi Oltre Frontiera
Ad un certo punto Navone dice “dieci”.
Given è seduto nell’emiciclo, non muove un muscolo, non fa trasparire la minima emozione. Per lui “dieci” è un suono privo di senso. Ma non per me. Che comincio a saltellare per
la stanza come un idiota, sotto lo sguardo attonito della commissione e dei candidati. Poi
mi fermo e punto il dito su di lui, lo indico più volte. Given, unico straniero, è uno dei 10
promossi su 18 partecipanti.
Finalmente anche Given capisce e sorride. È troppo stanco per fare altro.
Era tornato in Italia due settimane prima. Come l’altra volta, si è sottoposto alla preparazione intensiva già sperimentata su entrambi lo scorso anno. Come l’altra volta, abbiamo
rifatto i turni per farlo mangiare e per fargli compagnia, per infondergli coraggio e per
distrarlo. Dopo l’esame, mezza Italia se lo contende. Resterà qui per tre mesi, ancora a
imparare. Poi verrà anche Wilbroad.
Ai primi di dicembre ritorna a Perugia, nella “beauty farm” dei Patologi Oltre Frontiera:
metafora coniata qualche anno fa, quando avevo deciso di diventarne assiduo frequentatore, incoraggiato all’inizio dal calore e dall’accoglienza di Daniela e Paolo, poi da
un’amicizia sempre più solida e complice.
Given ha passato a Perugia le feste di Natale. Alcuni di noi l’hanno raggiunto per Capodanno, unendosi ad altri amici di Paolo e Daniela. Fra questi, un grosso signore dagli occhi
allegri e dal viso triste, discreto bevitore di vino rosato e ottimo suonatore di chitarra,
con un buonumore appena velato dalla recente scelta di smettere di fumare. Ha suonato
tutta la notte. Anche Given è un buon suonatore di chitarra, così gli ha fatto sentire le
sue splendide canzoni in tonga, la lingua della sua gente. Grazie, Francesco, per la bella
serata. Per averci divertito tentando di imparare il tonga quel tanto che bastava per cantare con Given. Per averlo preso in disparte e avergli tradotto “Auschwitz”, storia di un
dolore immenso e lontano.
Given Hampungani
a Perugia, mentre
accompagna alla
chitarra Francesco
Guccini.
parabola africana 85
Il seminario a Chirundu
Ricevo da Paolo questo messaggio:
Il programma di prevenzione del tumore della cervice uterina a Chirundu
è lanciato. Ora viene il bello!
Due seminari rivolti a tutto il personale dell’ospedale sono stati
organizzati, il 7 e 14 gennaio, con l’intento di informare medici, infermieri,
tecnici e lavoratori generici del problema che è un’emergenza sanitaria
misconosciuta in Zambia.
I dati WHO sono chiari, lo Zambia è tra i paesi con più alta incidenza del
tumore della cervice uterina e i due anni di attività del nostro servizio di
citologia hanno ampiamente confermato tali dati. Nel 2006, il 3,4% dei
pap test esaminati a Chirundu si è rivelato essere cancro.
I seminari hanno avuto anche lo scopo di sensibilizzare il personale
dell’ospedale e di motivarlo a partecipare attivamente al programma di
screening.
Infatti stiamo costituendo una task force per ricoprire tutti i ruoli
necessari:
• un coordinatore del progetto:
• persone esperte nelle tecniche di comunicazione per la sensibilizzazione
e l’educazione della popolazione non solo femminile (in Zambia – e in
Africa più in generale – se non si coinvolgono anche gli uomini è difficile
riuscire in qualsivoglia azione sul territorio) sull’importanza del pap
test;
• infermieri che saranno formati per la raccolta dei campioni da
esaminare;
• due Clinical Officers pronti ad imparare a eseguire colposcopie;
• tre o quattro operatori sanitari che costituiranno il gruppo che assicurerà
l’ “adherence” della popolazione testata;
• un amministrativo con conoscenze informatiche per raccolta ed
elaborazione dati;
• un paio di citologi esperti pronti a passare ore al microscopio.
86 Patologi Oltre Frontiera
Questi ultimi sono Given Hampungani e Wilbroad Monze. E hanno già
avuto il loro battesimo come docenti della materia che ormai conoscono
nei dettagli.
Given ha parlato della citologia della cervice, del pap test, della sua raccolta,
conservazione, preparazione, lettura ed archiviazione presentando il
Bethesda System e spiegando parole chiave come Displasia, CIN, SIL,
SCC, colposcopia, “see and treat model”.
Wilbroad ha introdotto alla telemedicina e in particolare alla telepatologia,
spiegando quello che grazie ai POF si sta facendo al Mtendere Hospital,
dove si possano avere diagnosi affidabili e veloci grazie a una moderna
tecnologia, che fa leggere i pap test anche a specialisti distanti migliaia di
chilometri – i Patologi Oltre Frontiera, appunto – grazie a un computer,
uno scanner, un software dedicato e un collegamento satellitare a banda
larga.
La partecipazione del personale è stata massiva e il grande interesse
suscitato fa ben sperare nel coinvolgimento volontario di un buon numero
di persone e quindi nella riuscita del programma.
parabola africana 87
Il nuovo progetto Zambia
I risultati raggiunti ci spingono ad estendere sul territorio zambiano quanto fatto a Chirundu, coinvolgendo in prima battuta l’Istituto di Anatomia Patologica dell’University
Teaching Center di Lusaka, diretto da Victor Mudenda.
Tutto questo è ovviamente più facile dirlo che non realizzarlo perché dovremo dialogare con le istituzioni statali zambiane e, se pensiamo a quello che accade qui in Italia
quando abbiamo a che fare con organismi statali, possiamo immaginare le difficoltà che
incontreremo.
Una bozza del nuovo progetto è stata elaborata alla fine del 2007, nel mese di novembre, dopo rapidi incontri incontri con Paolo, Mudenda, l’ambasciatore italiana a Lusaka, Giovanni Ceruti, e il ministero della salute dello Zambia.
All’incontro al Ministero di Lusaka sono andato in automobile insieme all’ambasciatore, con tanto di bandierina italiana svolazzante. Per la seconda volta incontro l’ambasciatore e mi sembra quasi di essere già di casa.
Ecco un suo commento.
GIOVANNI CERUTI RACCONTA...
Sin dai primi giorni dopo il mio arrivo a Lusaka, nel mese di
novembre 2006, ho avuto il privilegio di incontrare il gruppo di medici e volontari legato al progetto Telepatologia dei
Patologi Oltre Frontiera, il che mi ha subito permesso di confrontarmi con la straordinaria presenza italiana nel campo
dell’assistenza sanitaria, che avrei poi imparato a meglio conoscere e ad apprezzare con orgoglio. Ma allora cominciavo
appena ad orientarmi nella nuova realtà di un Paese che per
Giovanni Ceruti,
me era ancora tutto da scoprire.
ambasciatore italiano Devo confessare che anche la mia comprensione precisa di
a Lusaka.
tutte le implicazioni del progetto dei Patologi Oltre Frontiera,
all’inizio era rimasta piuttosto vaga.
Malgrado ciò, ho comunque netto il ricordo della favorevole impressione che suscitò
in me quel primo incontro, e fui colpito fortemente dalle straordinarie qualità umane,
dalla sicura competenza, dall’entusiasmo e dallo spirito di solidarietà di quei miei
connazionali, che a pochi giorni dal mio arrivo mi davano una concreta testimonianza
88 Patologi Oltre Frontiera
di quanto in certi ambienti del nostro Paese vi fossero un interesse e una conoscenza
della realtà di questa lontana parte dell’Africa del tutto straordinari. Ancora una volta
l’Italia dimostrava di avere, nella sua anima profonda, energie, generosità e capacità
di iniziativa ben superiori, più ricche e vitali, rispetto all’immagine più riduttiva di sé
che è troppo spesso capace di proiettare.
Queste prime impressioni sono poi divenute col tempo conoscenze e convinzioni meglio definite, man mano che ho potuto acquisire un’esperienza più diretta di realizzazioni straordinarie come quella dell’ospedale di Chirundu, più volte ricordato in
questa “Parabola africana”, e che è uno splendido gioiello della presenza italiana in
Zambia.
E tutto ciò è stato ancora meglio confermato dal successivo incontro con il dottor
Faravelli a Lusaka, nel novembre 2007. Il colloquio avuto insieme a lui e ai suoi accompagnatori presso il Ministero della Salute dello Zambia, anche questo avvenuto in
una giornata luminosa di sole, piacevolmente calda com’è generalmente piacevole il
clima di questo accogliente Paese. È stato un incontro che ha suscitato grandi speranze e che ha permesso di misurare la disponibilità e l’interesse della controparte locale
nei confronti di un’iniziativa il cui successo non può evidentemente prescindere dalla
risposta favorevole e dall’appoggio che può trovare in loco. Certo non tutto poi ha
proceduto secondo il programma che nell’incontro era stato delineato. Ma ogni ritardo
e ogni ostacolo hanno solo la capacità, ne sono certo, di accrescere la determinazione
e l’impegno di tutti coloro che sono attivamente coinvolti nel progetto.
Vorrei quindi concludere esprimendo loro il mio più sincero apprezzamento per la loro
opera e i migliori auguri per il successo che meritano, assicurando loro che da parte
dell’Ambasciata di Lusaka non mancherà mai tutto l’appoggio e il sostegno che possano esser necessari. Al dottor Faravelli tengo in particolare a far pervenire, assieme
alla mia profonda ammirazione, i miei più vivi ringraziamenti per la sua volontà di
tenermi costantemente informato degli sviluppi dell’iniziativa, in una maniera che
non è sempre consueta, per usare un eufemismo, dimostrando nei miei confronti
un’attenzione e una fiducia di cui gli sono profondamente grato.
Ma vediamo il nuovo progetto che prevede:
1. l’organizzazione a Lusaka di un corso di 15 mesi per la formazione di personale
qualificato (citotecnici e organizzatori di screening sul territorio) per la prevenzione e la cura del cancro della cervice uterina, prima causa di morte per tumore
nella popolazione femminile in Zambia. Il corso avverrà in parte con docenti che
si recano in Zambia e in parte per e-learning;
2. la sistemazione del laboratorio di Anatomia Patologica dell’UTH di Lusaka, per
metterlo nelle condizioni di effettuare diagnosi citologiche e istologiche correnti
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ma con standard europeo, avvalendosi del supporto di patologi europei. Ciò avviene, d’accordo con il direttore V. Mudenda, con tecnologia informatica (telepatologia) e con visite degli stessi patologi a Lusaka;
la formazione di almeno due medici specialisti in anatomia patologica.
la collaborazione con il progetto di prevenzione e cura del cancro della cervice
uterina, proposto dagli americani (rif. dottor Groesbeck Parham);
l’organizzazione dell’attività diagnostica on line dall’Italia, anche con il supporto
delle scuole di specialità;
l’organizzazione di una visita di una settimana in Italia di Mudenda per stendere
il progetto definitivo.
Prima di stendere il progetto dobbiamo però definire ancora molti punti:
• il numero degli allievi;
• quanti e quali sono gli ospedali dove inserire le coppie di tecnici;
• dove e come scegliere gli allievi tenendo conto che non possono essere presi dal
parco tecnici, per non mettere in crisi i laboratori degli ospedali;
• dove fare la scuola (all’University Teacching Hospital o altrove);
• dove appoggiarci per l’alloggio dei volontari a Lusaka;
• con quali ONG consociarsi;
• quale ruolo attribuire al Mtendere Hospital;
• che tipo di rapporto instaurare con gli americani;
• come scegliere i docenti;
• a chi affidare la gestione del programma relativa allo screening;
• come gestire la componente di e-learning;
• come selezionare i docenti anche in ambito europeo e non solo italiano;
• definire chi si occupa di reperire i fondi.
Per realizzare quanto sopra, tanto per cambiare, ci vogliono fondi, tanti fondi! E dovremo ricominciare da capo per trovarli. Per ora possiamo solo contare su “possibili”
finanziatori: la Regione Lombardia, la CEI, il Ministero degli Affari Esteri, privati e/o
fondazioni filantropiche come la Bill Gates Foundation.
parabola africana
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Conclusioni
Il progetto è ormai in dirittura di arrivo. Quotidianamente riceviamo casi da Chirundu
e da altri 5 ospedali collocati nel raggio di circa 100 km dal Mtendere.
Ci rendiamo conto, giorno dopo giorno, di avere aperto in Africa un nuovo percorso
mai prima sperimentato, almeno con queste modalità operative e ne siamo orgogliosi:
la telepatologia e il coinvolgimento diretto della popolazione mediante formazione di
personale locale.
Non c’è settimana che non ci arrivi una richiesta di intervento da qualche luogo remoto
dell’Africa o di qualche altra area del mondo. Ci capita addirittura di ricevere chiamate
sul cellulare da ministri di piccoli stati africani come la Sierra Leone che ci chiedono di
aiutarli a pianificare l’avvio di un servizio di anatomia patologica nel loro Paese.
Ma noi siamo pochi e le nostre forze sono limitate. Non è solo di finanziamenti che
abbiamo bisogno, ma soprattutto di persone che ci aiutino ad inventare e poi a portare
a termine nuovi progetti. Per fare questo ci vogliono altri medici, biologi e tecnici
ma non solo. Per realizzare tutto questo abbiamo bisogno anche di esperti nel settore
informatico, di persone disposte ad elaborare e scrivere i progetti, di esperti nella
comunicazione che ci diano una mano a farci conoscere con iniziative di marketing. E
infine di persone capaci di trovare i fondi da destinare alla realizzazione dei progetti, i
cosiddetti esperti in fund raising.
Infine dobbiamo proiettarci in Europa, trasformando i Patologi Oltre Frontiera in una
associazione europea, che sia quindi veramente e in ogni senso “oltre frontiera”.
Lascerei però a Paolo Marelli il compito di concludere questo piccolo libro che spero
possa essere il primo di una serie che informi la gente sui progetti dei Patologi Oltre
Frontiera.
“L’arrivo della citologia e dell’istologia a Chirundu ha costituito una
svolta epocale nella nostra attività di medici. La possibilità di avere
diagnosi citologiche ed istologiche precise ha cambiato il nostro
approccio diagnostico e terapeutico. Abbiamo dovuto rivedere il nostro
modo di fare il medico ed abbiamo dovuto ristudiare e spesso studiare
per la prima volta nuovi capitoli della medicina e della chirurgia che
avevamo dimenticato o che non avevamo mai conosciuto. È stato ed è
impegnativo, ma anche stimolante e soprattutto utile per i malati che
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Patologi Oltre Frontiera
ora possono godere di un aiuto sicuramente più qualificato di prima.
L’anatomia patologica ci dà anche una mano non indifferente in una
delle attività mediche a cui diamo maggiormente importanza: la medicina
preventiva sul territorio e l’educazione sanitaria della gente tra cui
viviamo. Ora siamo in grado di scoprire e di far scoprire alla gente stessa
condizioni che, se non curate, potrebbero evolvere in tumore maligno.
Il progetto di prevenzione del cancro della cervice uterina che è iniziato
all’ospedale nel 2007 ne è un chiaro esempio. Ogni settimana, grazie
al pap test, a cui moltissime donne si sottopongono spontaneamente,
vediamo e curiamo lesioni che potrebbero evolvere e divenire più tardi
incurabili.
Qualcuno ha detto che “un ospedale senza anatomia patologica è poco
più di un lazzaretto!”. Io non sarei così drastico, certo è che grazie ai
POF ora il Mtendere Mission Hospital di Chirundu è un ospedale
migliore e i malati che lo frequentano sono curati meglio. Tutto questo
è possibile grazie a cosa? Certo alle moderne tecnologie di informazione
e di comunicazione, è vero, ma nulla, nulla di quello che è oggi realtà a
Chirundu, nella lontana Africa nera a migliaia di chilometri dal cosiddetto
mondo evoluto, sarebbe possibile senza l’impegno costante, gratuito,
professionale di un gruppo di persone che hanno deciso di offrire le loro
capacità e di dedicare il loro tempo a chi non poteva usufruire di un
servizio che è dato per scontato nei Paesi ricchi. Loro è il merito e a loro
va il nostro ringraziamento.
È un impegno costante, a volte un sacrificio, ma chi lo fa si accorge
cammin facendo che più diamo qualcosa di noi stessi agli altri più
riusciamo come per incanto ad alleviare i crucci, ad allentare le tensioni
ed a ridimensionare i problemi che ciascuno di noi ha nella propria vita
quotidiana.
Se guardiamo indietro anche noi fatichiamo a spiegare come possa essere
vero quello che giornalmente scorre sotto i nostri occhi. Davvero anche i
miracoli (o quasi) sono possibili quando più persone si mettono insieme
e si prodigano con tenacia e determinazione per contribuire a rendere
questo mondo un po’ più giusto.
parabola africana 93
Ringraziamenti
Il progetto Telepatologia in Zambia ha appassionato i Patologi Oltre Frontiera,
gli operatori dell’ospedale Mtendere e tutti coloro che ci hanno aiutato e seguito
dall’esterno.
È stato più volte presentato a convegni e congressi scientifici italiani e, occasionalmente,
europei. Ci ha portato sulle pagine dei giornali, in trasmissioni radiofoniche e
televisive.
Sono colmo di gratitudine per aver incontrato Elisa e il gruppo delle suore, Given e
Wilbroad, in Africa; tutti i volontari, medici, biologi e tecnici, in Italia.
Grazie a quanti hanno arricchito questo racconto con le loro testimonianze.
Grazie a Ida Campagnola, a Giusi Quarenghi e a Silvana Becce, che mi hanno aiutato a
trasformare in una cosa leggibile un ammasso aggrovigliato di appunti.
Grazie a Bruno Kleinefeld che ha “graficamente” costruito questo libro e a Chiara
Porro che lo ha tradotto in inglese.
Grazie a chi ha consentito la sua pubblicazione: NIKON, APERIO, BIO-OPTICA,
MILANO TELEPORT e O. S. & I.
Ma voglio riservare uno spazio speciale a Paolo con il quale è nato un rapporto di intesa
e di amicizia come raramente mi è capitato in tutta la mia vita.
Un ringraziamento, antcipato, va anche a tutti coloro che vorranno aiutarci e sostenerci,
effettuando una donazione. Questi i nostri riferimenti bancari:
Associazione Patologi oltre Frontiera - ONLUS - ONG
UNICREDIT BANCA
P.LE G. MENGHINI, 3
c/o OSPEDALE SILVESTRINI - PERUGIA
Cod. IBAN: IT 16 S 02008 03009 000029478991
parabola africana
INDICE
Introduzione5
Chirundu7
I Patologi Oltre Frontiera: chi sono?9
L’incontro11
Chi sono Paolo ed Elisa?13
L’idea16
La valutazione di fattibilità18
La preparazione del corso 21
Inizia il corso 23
La staffetta dei docenti27
I corsi sono finiti46
Dobbiamo trovare altri fondi47
La lettura on line dei pap test49
Andiamo a Superquark!51
Cerchiamo ginecologi
52
Il viaggio della verifica53
Given e Wilbroad volano a Torino59
Arriva lo scanner61
L’installazione62
La diagnosi istologica on line67
Lo spot di Bruno Bozzetto69
Un intervento chirurgico attraverso il satellite72
Arrivano anche i ginecologi73
Le storie di Wilbroad e Given76
Il racconto di Wilbroad76
Il racconto di Given78
Given torna in Italia83
Il seminario a Chirundu85
Il nuovo progetto Zambia87
Conclusioni91
Ringraziamenti93
95
Finito di stampare
nel settembre del 2008
presso la litografia Varo di Pisa