Libia: quando un parlamento non basta

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Libia: quando un parlamento non basta
29 agosto 2012
Libia: quando un parlamento non basta
Andrea de Georgio(*)
Nella nuova Libia libera ogni volta che scoppia una bomba o muore un uomo, l’orologio che scandisce i progressi della rinascita si blocca, per un istante. Com’è successo alla detonazione delle
due autobombe di Tripoli l’altra settimana o per gli attentati ancor più recenti ai santuari Sufi. Il
tempo è un fattore determinante per il nuovo corso dei paesi mediterranei che hanno annusato la
primavera, ormai più di un anno fa, e ne sono rimasti inebriati. La Storia è maestra in materia: per
la rivoluzione e il cambiamento ci vuole tempo, anni. Ma non sempre si riesce ad avere la dovuta
pazienza. Così in Libia in cui, con un anno di rivoluzione, intervento della Nato e guerra civile da
mettersi alle spalle, la fretta di rinascere dalle proprie ceneri può risultare cattiva consigliera.
Dopo soli otto mesi dalla fine del conflitto armato, sancita simbolicamente dal linciaggio a Sirte
dell’ex-rais Gheddafi, i libici sono stati chiamati alle urne per le prime elezioni libere della storia del
paese. A dispetto dei timori che hanno preceduto il giorno del voto, le elezioni sono state un forte
segnale di ripresa e di volontà di riconciliazione, oltre che una grande (e nuova) manifestazione
sociale di massa, un innegabile momento storico di coesione nazionale. Le scene di giubilo nell’ex
Piazza Verde (oggi Piazza dei Martiri), con un mare di gente in festa, le bandiere tricolore a sostituire quelle verdi e i botti dei fuochi d’artificio al posto di quelli dei cannoni, rimarranno il simbolo di
un paese alla ricerca di se stesso, dove la fase di ridefinizione identitaria va a braccetto con la
riconciliazione e la transizione democratica.
Ma tanti, troppi segnali di destabilizzazione rovinano la festa delle elezioni. Il 19 agosto Tripoli è
tornata a tremare per lo scoppio di due autobombe riscoprendosi ancora in guerra, o quasi, con
una parte di sé, un nemico interno. L’attentato di Tripoli, che si aggiunge ai numerosi precedenti di
violenza che si sono susseguiti in questi primi nove mesi dell’era post-Gheddafi e assomiglia molto
a un attacco qaedista, non è stato rivendicato. Come ha svelato Omar Khadrawi sottosegretario al
ministero degli Interni in una conferenza stampa pochi giorni dopo le autobombe, gli autori
dell’attacco sono appartenenti a una cellula pro Gheddafi infiltrata in una base a Tahrouna
(un’ottantina di km a est della capitale) del neonato esercito nazionale. Tredici persone, di cui non
sono state diffuse le generalità, sono state arrestate mentre preparavano altri attentati. La pista
“verde” era già emersa a poche ore dall’attentato, insieme alla notizia che erano state intercettate
– ben prima dell’attacco – alcune conversazioni su “forum gheddafiani” online (che uniscono nostalgici del rais residenti all’estero e all’interno del paese) con riferimenti espliciti alle autobombe.
Poi c’è il simbolismo, componente imprescindibile di ogni attacco terroristico, in questo caso inequivocabile: le bombe sono esplose il giorno della fine del Ramadan, a poche ore dalle celebrazioni del primo anniversario della “liberazione” di Tripoli, una a pochi passi dagli uffici amministrativi
del ministero dell’Interno, l’altra nella centralissima via Omar Al Mohktar, nei pressi di un ex-centro
di polizia usato dal nuovo ministero della Difesa per detenzioni e interrogatori.
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*) Andrea de Georgio è giornalista freelance.
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ISPI - Commentary
Le bombe di Tripoli, che sono costate la vita a due ventenni, sono la prova che la riconciliazione
interna rimane il primo enorme problema da affrontare, qualunque sia il nuovo governo e la nuova
costituzione del paese. In Libia continuano a esserci troppe armi. I programmi di recupero di pistole e fucili su ricompensa e di assorbimento di miliziani e mezzi nel neonato (e ancora impotente)
esercito nazionale richiedono tempo e, per ora, stanno fallendo. Come il Cnt, il nuovo Parlamento
eletto non gode ancora dell’autorità necessaria per affrontare seriamente il difficile quanto necessario processo di riconciliazione fondato sul pilastro della giustizia transizionale. Un anno di guerra
ha lasciato una pesante eredità, oltre alle mine. Il vuoto di potere, inevitabile dopo la caduta di una
dittatura durata 42 anni, è stato occupato da signori della guerra che guidano giovanissimi miliziani
armati fino ai denti, godono di popolarità e autorità mutuate dalla rivoluzione e sono gli unici “garanti” della sicurezza. Nella quasi totale assenza di forze di polizia e di un esercito nazionale degno
di questo nome, il nuovo organo centrale è ben lungi dal detenere il monopolio della violenza,
componente fondamentale della democrazia e garanzia di stabilità. Se a questo preoccupante
fattore si aggiungono i conflitti intestini esacerbati dalla guerra civile (che ha smosso antichi odi e
nuove lotte claniche, come ad esempio Misurata contro Tawergha o Zintan contro i mashasha), la
questione delle minoranze, dei profughi interni (tawergha, tuareg, berberi, mashasha, tabu), degli
“stateless” e degli immigranti stranieri e la minaccia salafita, il quadro non sembra per nulla roseo.
Ma il maggior pericolo che attenta al delicato processo di ristabilizzazione e riconciliazione rimane, come dimostrato dalle bombe
tripoline, la nostalgia. Focolai di resistenza pro-Gheddafi, oltre che
all’estero come in Algeria ed Egitto, sono ancora accesi anche
all’interno della Libia. Al sud, nel deserto del Fezzan, a Kufra, Sebah, a Bani Walid (roccaforte dei verdi durante la guerra, ultima
città a cadere sotto i colpi dei “ribelli”, e tutt’oggi rifugio della controresistenza i “nuovi ribelli”), ma anche ad Abu Salim, quartiere popolare di Tripoli rimasto “verde” dove le fogne traboccano di armi, le
scritte che inneggiano ai martiri della Rivoluzione sono cancellate
con spray verde e gli arresti di nostalgici sono all’ordine del giorno
(gli ultimi proprio dopo l’attentato di Tripoli). Negli ultimi mesi sono
cresciuti gli episodi di sequestri, detenzioni ed esecuzioni sommarie
da ambo le parti: le qatibe di thuwar (“brigate”, milizie di “rivoluzionari”) da un lato e i gheddafiani dall’altro. In mezzo sta il nuovo
governo – che, preso fra due fuochi, cerca, mediando, di contenere
la violenza dei miliziani in vista di una necessaria riforma del sistema giudiziario e di una pacifica transizione di potere – e la maggioranza dei libici, stanchi di guerra e desiderosi di sicurezza e normalità. Ci vorrà tempo, magari anni, prima che l’orologio della rinascita
cominci a scandire regolarmente le ore della nuova Libia libera.
La ricerca ISPI analizza le dinamiche politiche, strategiche
ed economiche del sistema
internazionale con il duplice
obiettivo di informare e di orientare le scelte di policy.
I risultati della ricerca vengono
divulgati attraverso pubblicazioni ed eventi, focalizzati su
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