Kenya - TOAssociati
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Kenya – Resistenza masai di Pierre Le Hir, da Le Monde Nella savana del Kenya, una tribù di pastori e guerrieri cerca di difendere il proprio stile di vita. Ma qualcosa sta cambiando. All’ombra di un’acacia stremata dal caldo due guerrieri fanno la guardia al villaggio. Hanno corpi slanciati e muscoli affusolati. Una gamba piegata sull'altra, in una posa curiosamente languida. Indossano degli abiti rossi, che nella savana rappresentano un segno di riconoscimento e di coraggio. Anche Sonto e Gobakota un giorno saranno dei guerrieri. I due ragazzini dalle gambe magre stringono un bastone in mano e montano con orgoglio la guardia all'entrata della manyatta. È una barriera di rovi che tiene i predatori a distanza dal bene più prezioso della comunità: quaranta mucche dal mantello lucido, ottanta capre ben in carne e dieci asini selvatici. I due futuri guerrieri sono lì per impedire a iene, sciacalli e leopardi di avvicinarsi troppo. Tra qualche anno Sonto e Gobakota affronteranno la prova della circoncisione. Vivranno per diversi anni isolati nella savana, vestiranno di nero e saranno iniziati all'arte del combattimento e ai segreti delle piante medicinali. Saranno considerati dei guerrieri, morane, solo quando avranno dimostrato il loro coraggio uccidendo un leone, olowaru. Solo allora potranno indossare la tunica scarlatta, la suka, cospargersi i capelli e il viso di tintura ocra, ornare di anelli di rame i lobi forati delle orecchie, brandire la lancia, empere, e la mazza, oringa, infilare nella loro cintura la spada, olalem, con l'impugnatura in cuoio di giraffa. A quel punto potranno tornare al villaggio a scegliere una o più donne. Saranno considerati i coraggiosi tra i coraggiosi. Terra, fuoco, sole, sangue: il rosso è il colore dei masai. Rossa è anche la terra, osinyai, della pista accidentata che a due ore da Nairobi si inoltra negli altopiani keniani attraversati da fiumi prosciugati. Un angolo di savana ancora ignorato dai tour operator. Arriviamo a Torosei, una decina di capanne fatte di rami ricoperti con una miscela di terra e sterco. Sono le donne che costruiscono le abitazioni e si occupano di tutto: dalla casa alla mungitura del bestiame. Rosso è il fuoco, enkima, intorno al quale ci si riunisce al tramonto. Rosso è il sole, enkolong, che nelle ultime ore del giorno infuoca il Kilimangiaro. Rosso è il sangue, orsarge, degli animali da cui questo popolo di pastori trae il suo nutrimento. Il rosso masai, nyekundu, è diventato per il Kenya l'emblema del turismo di massa in cerca di esotismo. Ma qui siamo lontani dalla famosa riserva di Masai Mara, dove le tradizioni sono finte, dove i valorosi guerrieri si sono trasformati in venditori di gadget e in ballerini di danze folcloristiche. Basta dimenticare gli stereotipi e aprire gli occhi, per rendersi conto che qui tutto è multicolore: bambini che indossano tessuti variopinti, vecchi pezzi di stoffe policrome, collane e braccialetti di perle cangianti. E poi le ragazze giovanissime vestite di nero o di blu. "Il blu indica che una donna è in età di matrimonio”, spiega Salaon, il capo del villaggio, che a scuola è stato ribattezzato con il nome cristiano di Paul. Ma qui nubile è anche sinonimo di infibulazione. "Il governo vuole impedire questa pratica, ma da noi una donna che non è stata infibulata non troverà marito", spiega Salaon. A distanza di un lancio di giavellotto da Torosei, nascosta nella savana, c'è Eropet, quattordici case e altrettante donne: è la regola da queste parti. Kashua, ribattezzato Joshua, ha portato qui tutta la sua famiglia: le due mogli, il padre e i due fratelli, anche loro bigami, kobilos, le sorelle. E poi i figli, neanche lui sa più quanti. Ha deciso di trasferirsi qui perché a mezz'ora di cammino c'è la scuola, facoltativa e gratuita. Gli studenti imparano il masai, maa, lo swahili e l'inglese, studiano storia, geografia e matematica. Le ragazze, invece, non hanno quasi mai questa opportunità. La società masai sta cambiando a piccoli passi: istruzione contro iniziazione. Salaon e Kashua sono dei guerrieri, scelti come capi dai loro padri. Sikoyo, spiega Salaon, "è tra coloro che ha scelto di studiare invece di combattere. E anche se si è allenato duramente dopo gli studi per imparare a usare le armi, gli spiace non essere un morane". Sikoyo sa bene che tra la forza del guerriero e il prestigio dell'educazione, il cuore di una ragazza non esita. Preferirà sempre la virilità espressa nelle danze, in cui gli uomini si affrontano in gare di salto - il più alto, il più elegante – per festeggiare una vittoria contro un'altra tribù o per dichiarare il loro amore. Ma in realtà non sono le donne a scegliere. È il bestiame che fa la differenza: dieci mucche per una donna, ecco il prezzo. Servono le scuole Nel paese dei masai nulla è più come prima. L'espansione urbanistica di Nairobi ha spinto sempre più lontano questa tribù di nomadi, che fugge dalla civiltà e rifiuta di mescolarsi con le altre etnie. Le terre trascurate dai pastori masai, indifferenti alla proprietà e poco portati per l'agricoltura, sono state vendute. Anche lo stato ha contribuito a sottrarre la terra ai masai, creando immensi parchi naturali per gli animali. Così a poco a poco questa etnia si è ritrovata spinta verso la Tanzania, dove molti masai sono emigrati. Ci sono stati poi gli anni terribili della siccità, che ha decimato il bestiame. Il governo ha consegnato ai masai degli aiuti alimentari: fagioli rossi, semola di mais e olio. Cibo che i masai hanno cominciato ad apprezzare, ma che adesso devono pagare vendendo il bestiame. Poi sono arrivati i turisti, e i loro soldi. A Torosei e a Eropet i primi bianchi, irmusungu, sono apparsi solo dieci anni fa (1997). Ma ci sono ancora villaggi che nessun occidentale ha mai visto. I primi tempi le donne e i bambini scappavano impauriti. Oggi, più incuriositi che spaventati, i masai si chiedono :"Cosa cercate qui da noi, voi che avete tutto?". Una domanda legittima. L'Ente francese dei centri sportivi all'aria aperta (Ucpa), che qui organizza dei trekking, vuole promuovere un turismo "equo e solidale": gruppi formati da poche persone versano un contributo al capo del villaggio, che lo distribuisce alle guide locali. Inoltre si chiede ai turisti di portare acqua potabile al villaggio e aiuti per la costruzione di scuole. "Non abbiamo cambiato il nostro modo di vivere", assicura Sikoyo. Finora la cultura dei masai sembra aver resistito allo scontro delle civiltà. La cristianizzazione non impedisce agli stregoni di continuare a fare sacrifici al loro dio, Engai, per far cadere la pioggia. Ma che succederà domani, quando arriveranno frotte di cacciatori di immagini e di incontri "autentici"? Sikoyo non sembra preoccuparsene più di tanto: "Succederà quel che succederà".