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RIFLESSIONI DI COPERTINA
Jacopo Casadei, No posa, 2016, tecnica mista su tela, 60 × 45 cm, Courtesy dell’artista
Jacopo Casadei nasce nel 1982 a Cesena (FC), città in cui vive e lavora attualmente.
Diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, affianca la carriera di artista visivo a quella di musicista.
Tra le più recenti mostre personali ricordiamo: Veduta a margine, TOMAV, Moresco, Fermo (2016); This is nowhere,
Yellow artist-run space, Varese e Defrag, Localedue, Bologna (2015).
Mentre tra le mostre collettive e altri progetti segnaliamo: Le stanze di Aragona, Rizzuto gallery, Palermo (2015);
Contemporary Italian Painters Today, a Personal View, Federico Bianchi gallery, Milano (2015); Let there be light,
Yellow artist-run space, Varese (2014); Landina, Villa Giulia, Verbania (2013); Visioni per un inventario: una mappa
del navegar pittoresco, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (2013); Linea Fiammeggiante, collaborazione con
l’artista Laura Santamaria, Villa Contemporanea, Monza (2013); Bianca feat. M.A.R.S., galleria Bianca, Palermo
(2012); On Cloud Seven, C.A.R.S., Omegna (2011); Can’t take my eyes off you, M.A.R.S., Milano (2011).
L’ultimo artista che presentiamo con la consulenza
dello spazio varesino Yellow artist-run space è Jacopo
Casadei.
Oltre a ringraziare Vera Portatadino, direttrice di Yellow, per la preziosa collaborazione, cogliamo l’occasione per riepilogare l’anno di “Riflessioni” trascorso
insieme: Marco Salvetti, marzo 2016, vol. 36 n. 1;
Lorenzo Di Lucido, giugno 2016, vol. 36 n. 2 e
Valentina D’Amaro, settembre 2016, vol. 36 n. 3.
Jacopo Casadei è musicista oltre che pittore. Conoscere
questo suo duplice talento risulta fondamentale per “interpretare” le sue opere. L’artista stesso afferma di affrontare ogni nuovo dipinto come uno spartito, in cui,
proprio come nella notazione musicale, ogni minimo
segno concorre in maniera essenziale alla composizione.
E se il linguaggio rigoroso della musica trasforma un’intuizione creativa, attraverso una ferrea disciplina grammaticale, in un edificio di simboli e regole tecniche ed
esecutive, non stupirà notare come anche la pittura di
Casadei, benché apparentemente improntata all’improvvisazione, prenda forma da gesti controllati, per
niente sfrenati: linee quasi timide, effimere, accompagnate da atmosfere evanescenti e ariose, colori crepuscolari, figure informi, delicate e fluttuanti, che proprio in
questo stato aurorale sprigionano la loro forza estetica,
come suoni tenui che giungano al nostro orecchio da indefinite lontananze.
Le opere di Casadei si offrono allo spettatore come uno
spartito arcano, privo di una sintassi rigida, ritmato dalla
destrutturazione e dalla leggerezza della scrittura pittorica. Le tracce lasciate sulla tela risultano irregolari, intermittenti, talvolta enigmatiche, non sono chiuse entro la
cornice di una figura predeterminata, ma scaturiscono
da un flusso emotivo in divenire, una sorta di narrazione
aperta. In questi segni di matita, graffiti, scarabocchi infantili e macchie di colore che sembrano distribuirsi in
modo disordinato, ma che in realtà rispondono a un
ritmo interiore, a un registro recondito, scorgiamo una vicinanza con il lavoro del pittore americano Cy Twombly,
riguardo al quale il critico Harald Szeemann, in un testo
del 1987, parlò appunto di «liberazione della linea e della
materia». Ne deriva, per dirla con le parole dello Zarathustra nicciano, un «vagheggiare di animule lievi e leggiadre», che tentano di liberarsi (e forse di liberare) dallo
spirito di gravità, biasimato dal filosofo tedesco perché a
causa sua «tutte le cose cadono».
Nella prima delle Lezioni americane dedicata alla leggerezza, Italo Calvino attribuisce al De Rerum Natura di
Lucrezio una «poesia delle infinite potenzialità imprevedibili», che ben potrebbe definire anche le improvvisazioni di Casadei. Nella leggerezza formale dei suoi dipinti,
tuttavia, si intravede una sensibilità blues, venata di malinconia, che rispecchia forse il senso di generalizzata insicurezza di cui è pervaso il nostro tempo. Non si tratta
però di «una melanconia compatta e opaca», per riprendere ancora la Lezione di Calvino, bensì di «un velo
di particelle minutissime d’umori e sensazioni, un pulviscolo d’atomi come tutto ciò che costituisce l’ultima sostanza della molteplicità delle cose».
Veronica Liotti