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Apprendimento e odio nei gruppi**
N. Michel Landaiche III*
traduzione di Daniela Magnoni
Riassunto
Far parte della comunità dell’analisi transazionale può porre di
fronte alla sfida del vivere in gruppo e nel contempo può fornire
strumenti di crescita all’interno di un’esperienza di appartenenza
al gruppo, vitale e appagante. L’autore svolge una riflessione su
come questo aspetto relativo alla cultura dell’analisi transazionale – ciò che richiede e ciò che dona – abbia contribuito in modo
significativo a modificare la propria inveterata abitudine all’isolamento e a tagliarsi fuori dalla vita di gruppo.
Abstract
Learning and Hating in groups
Being part of the transactional analysis community can provoke
the challenge of living in groups and can provide the means of
growth into viable, satisfying membership. The author considers
how this cultural aspect of transactional analysis – its demands and
its gifts – contributed significantly to reversing his own lifelong
habit of withdrawal and cutoff from group life.
* N. Michel Landaiche, III, Ph.D., psicoterapeuta, trainer e supervisore alla Carnegie Mellon University e docente della teoria dei sistemi
familiari di Bowen al Western Pennsylvania Family Center. Ha pubblicato diversi articoli sul «Transactional Analysis Journal», particolarmente
sul tema dei gruppi.
(e-mail: [email protected])
** L’articolo originale Learning and Hating in groups, è stato pubblicato sul «TAJ» («Transactional Analysis Journal»), 42, (3), 2012, pp.
186-98. Viene qui tradotto e pubblicato con il permesso dell’autore e
dell’ITAA (International Transactional Analysis Association).
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N. Michel Landaiche III
Da più di vent’anni i gruppi suscitano in me un intenso interesse e un altrettanto intenso turbamento. Eppure, dopo anni
che mi dedicavo al loro studio e alla loro conduzione, avevo la
sensazione di trovarmi in un vicolo cieco, di non stare crescendo.
Ho così cominciato a esaminare il mio modo di essere membro, i
miei schemi, i miei obiettivi e il mio modo di reagire. Ho utilizzato
me stesso come soggetto di ricerca – con un approccio di ricerca
partecipata (Landaiche, 2005) – per apprendere qualcosa non solo
su di me, ma anche su come i gruppi arrivino a bloccarsi.
Risulta chiaro, dunque, che questo non è un articolo sulla leadership o sulla formazione di gruppo, ma riguarda lo stare all’interno di un gruppo (e talvolta evitarlo), riguarda ciò che vi si
può imparare e anche le interferenze che i gruppi possono creare, talvolta suscitando odio. Sebbene questi aspetti dei gruppi e
dell’apprendimento siano legati alla leadership e alla formazione,
il presente articolo riguarda la posizione ben più vulnerabile e disorganizzante dell’essere membro di un gruppo (membership) e in
particolare il considerevole impegno che può rendersi necessario
per maturare in mezzo agli altri senza essere danneggiati o bloccati
nella propria crescita.
Userò qui il termine gruppo riferito ai team, organizzazioni,
comunità professionali o d’altro tipo, le classi di allievi, «gruppi
di tutti i tipi e grandezze, dalle nazioni ai gruppi di psicoterapia»
(Berne, 1963/1973), persino le famiglie. Mi piace il termine inclusivo utilizzato da Berne, «aggregazione sociale», con un proprio
«confine esterno» che distingue i membri dai non membri. Esplorerò anche del tema della cultura di gruppo, in particolare quella
della comunità dell’analisi transazionale, poiché ne ho osservato
l’effetto sul mio apprendimento all’interno dei gruppi.
L’eredità di Berne sui gruppi
Una comprensione pratica di come funzionano le organizzazioni
reali... è ciò che rende possibile la terapia dei gruppi sofferenti
(Berne, 1963/1973).
Le dinamiche e il lavoro di gruppo hanno svolto un ruolo fon-
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damentale nell’evoluzione del pensiero di Berne (1961b) e nella
formulazione dell’analisi transazionale caratterizzata da «principi... originariamente derivati da effettivo materiale... dei gruppi»
(Berne, 1961). Almeno dieci anni prima che uscissero i suoi due
libri più noti sull’argomento (Berne, 1963/1973, 1966), apparve
il primo testo pubblicato da Berne sui principi della terapia di
gruppo su «Indian Journal of Neurology & Psychiatry» (Berne,
1953). Egli proseguì il suo percorso esaminando le dinamiche
di un gruppo di terapia avviato da persone di pari grado (Berne,
1954), gli aspetti tecnici della frequentazione del gruppo (Berne,
1955), l’analisi transazionale come forma di terapia di gruppo
(Berne, 1958b), i fattori interculturali (Berne, 1958a, 1961a),
le differenze tra la terapia psicoanalitica e la terapia dinamica di
gruppo (Berne, 1960b), il training dei terapeuti di gruppo (Berne,
1962) e le eccezionali opportunità di apprendimento e crescita
che si presentano durante quegli incontri eterogenei che egli definiva «riunioni di staff con la partecipazione del paziente» (Berne,
1968). Un esempio concreto del metodo adottato da Berne nel
lavoro con i gruppi fu anche pubblicato sotto forma di trascrizione
verbatim (Berne, 1970/1977) poco tempo prima della sua morte.
Gli scritti che Berne ci ha lasciato in eredità non forniscono a
un primo esame una teoria completa sui gruppi, o almeno non
la si può definire tale in confronto alla sua articolata teoria sulla
psicologia individuale nel contesto di transazioni interpersonali
significative. Nonostante ciò si direbbe che i suoi scritti in materia
di gruppi e organizzazioni, le sue modalità di lavoro e la cultura professionale da lui fondata siano stati particolarmente fertili
nell’ispirare pensieri, prassi e scritti di altri autori da 40 anni a
questa parte.
Vorrei dare testimonianza di una parte di questo impegno tuttora in corso. Per esempio, in un numero monografico di questa
stessa rivista dedicato ai gruppi (Cornell, Bonds-White, 2003) e in
altre sedi, diversi autori si sono occupati dell’uso dei gruppi per il
counselling e la psicoterapia (Boholst, 2003; Caizzi, Giacometto,
2008; Clarkson, 1991; Cory, Page, 1978; Hargaden, Sills, 2002;
Misel, 1975; O’Hearne, 1977; Steele, Porter-Steele, 2003; Steiner,
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Cassidy, 1969; Tudor, 1999). Altri hanno esaminato l’applicazione
del trattamento di gruppo a popolazioni particolari (Arnold, Simpson, 1975; Kinoy, 1985; Sinclair-Brown, 1982; Spence, 1974;
Thomson, 1974; Tudor, 1991).
Un altro gruppo di professionisti si è focalizzato sui sistemi
organizzativi e la consulenza (Altorfer, 1977; Balling, 2005; Blakeney, 1978a, 1978b, 1983; Brown, 1974; Cardon, 1993; Hay,
2000; Jacobs, 1991; Krausz, 1986, 1996; Kreyenberg, 2005;
Mountain, Davidson, 2005; Nuttall, 2000; Nykodym, 1978;
Nykodym, Freedman, Simonetti, Nielsen, Battles, 1995; Petriglieri, Wood, 2003; Poindexter, 1975) e i loro contributi sono stati
in parte raccolti nei numeri monografici di questa stessa rivista
dedicati al lavoro organizzativo (Groder, 1975; van Poelje, 2005).
Negli ambiti della formazione e della didattica, il ruolo essenziale del gruppo nel processo di apprendimento è stato chiarito da
Haimowitz (1975), Kuechler and Andrews (1996), Clarke (1981),
Crespelle (1988), Ranci (2002), Bonds-White (2003), Hawkes
(2003) e Newton (2003).
Allen e Hammond (2003), Noce (1978) e Robinson (2003)
hanno scritto a proposito dell’influsso reciproco tra fattori istituzionali e gruppi di trattamento. Altri hanno esaminato le dinamiche dei gruppi indipendentemente dai contesti di applicazione
(Bonds-White, Cornell, 2002; Campos, 1971; Gurowitz, 1975;
James N.L., 1994; Micholt, 1992; Sills, 2003; van Beekum, Laverty, 2007; Woods, 2007) e altri ancora hanno analizzato le differenze e la complementarietà di approcci teorici e pratici diversi
(Kapur, Miller, 1987; Peck, 1978; Shaskan, Moran, 1986).
Anche i punti di vista personali sono stati ben accetti in questo dialogo e nello studio che prosegue tuttora (Solomon, 2010;
Wells, 2002).
Questo lungo appello di nomi e applicazioni è la riprova di
una storia eccezionale. Attraverso molteplici percorsi, la vita
di gruppo ha svolto un ruolo fondamentale nella formazione,
nell’apprendimento e nella pratica della comunità internazionale dell’analisi transazionale. Si potrebbe dire che la mancanza
di Berne, il fatto che non abbia lasciato una teoria sui gruppi
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pienamente articolata, abbia in realtà contribuito a una cultura
della libertà di essere curiosi nei confronti dei gruppi, a utilizzarli
e pensarli in una miriade di modi. Ne consegue a mio avviso, a
che alle successive generazioni di professionisti dell’analisi transazionale venga trasmesso in modo implicito, un atteggiamento
molto coerente circa la vita di gruppo, attraverso la mediazione
di significati culturali.
La cultura in analisi transazionale
Ben prima che Berne definisse in modo formale la teoria dell’analisi transazionale, il tema della cultura, analogamente a quello dei
gruppi, era apparso di frequente nei suoi scritti. Oltre a nutrire
interesse per gli effetti dei fattori interculturali sulla terapia di
gruppo (vedi le citazioni precedenti) Berne visitò e scrisse sulle
diverse pratiche psichiatriche in Siria (Bernstein, 1939), nelle Isole
Fiji (Berne, 1959a, 1959c), e a Tahiti (Berne, 1960a). Berne ebbe
anche occasione di visitare ospedali psichiatrici nelle Filippine,
in Cina, Singapore, Malesia, Sri Lanka, India e Turchia (Berne,
1949) confrontando le prassi e le condizioni vigenti e scrivendo
in seguito alcuni testi nell’ambito della psichiatria comparativa
(Berne, 1956). Egli prese anche in considerazione gli usi della
mitologia e del folklore in psichiatria (Berne, 1959b) così come
il ruolo svolto dalla cultura nel caso di un filippino che aveva assassinato cinque amici (Berne, 1950). Berne (1963/1973) definì
esplicitamente la cultura nei gruppi come:
Le influenze materiali, intellettuali e sociali che regolano il lavoro
del gruppo, compresi la cultura tecnica, l’etichetta di gruppo e il
carattere del gruppo (Berne, 1963).
Egli considerava la cultura una componente centrale, insieme
alla «Costituzione... [e] alle leggi», del canone del gruppo, «una
forza regolatrice» che dà «forma alla coesione del gruppo», affermando:
la cultura influisce sulla quasi totalità delle cose che accadono
all’interno di un’aggregazione sociale (Berne, 1963).
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Tuttavia, nel suo ultimo libro, Berne (1972) assunse un atteggiamento di critica negativa nei confronti della cultura, sostenendo ad esempio la sua scarsa attinenza con i copioni dei singoli
individui, una posizione contro cui Mazzetti (2010) si è espresso
in modo pungente.
All’interno della comunità dell’analisi transazionale, il significato della cultura è stato studiato in prima battuta da Roberts
(1975), White e White (1975) e in un numero speciale di questa
rivista (James, 1983). In seguito Drego (1996) ha elaborato un
proprio concetto di cultura come Genitore culturale, con aspetti
oppressivi e dotato di un potenziale rigenerativo. In questo decennio è stata studiata da vari autori anche la cultura della comunità
dell’analisi transazionale e, in particolare, l’influsso di tale cultura
sul modo di lavorare dei professionisti (Cox, 2007; Erskine, 2009;
Grant, 2004; Mazzetti, 2010; Newton, 2003, 2011; Noriega,
2010; Oates, 2010; Robinson, 2003; Tudor, 2002, 2009).
Per dirla con le parole di Newton (2003):
La comunità dell’analisi transazionale ha una premessa comune
nella propria “professione di fede”:
“Io sono Ok, tu sei Ok”, un presupposto filosofico che rispecchia i nostri valori essenziali. Insegnare l’analisi transazionale vuol
dire anche “fare” A.T... Ci si domanda: come può la nostra formazione dare una dimostrazione concreta del concetto “Io sono Ok,
tu sei Ok”? Come trasmettiamo la nostra cultura? (Newton, 2003).
Derivazioni, clima, azione
Nella mia riflessione sulla vita di gruppo utilizzo il termine “cultura” in tre accezioni. Anzitutto per cultura intendo un insieme
di strumenti o di schemi relativi alla vita in comune, per esempio
certi alimenti, i costumi, i rituali (e certo, anche i giochi), le regole, la saggezza tramandata, gli oggetti d’arte e la musica, le opere
letterarie, le mode e altri prodotti culturali.
Oltre a questo la cultura per me è anche un ambiente, un’atmosfera entro cui la vita si trasmette di generazione in generazione, da
cui prendono origine una particolare sensazione e un odore quasi
impossibile da tradurre in parole. Infine, utilizzo la parola cultura
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nel suo senso etimologico [di coltivare, NdT], con cui intendo le
azioni intenzionali volte a dare forma alla vita, quelle ad esempio
che si ritrovano nell’allevamento e nell’agricoltura (vedi Barrow,
2011).
Considero la cultura un impegno collettivo e un’organizzazione
finalizzata a favorire la vita. Nei suoi scritti, Damasio (2010) ha
parlato dell’evoluzione di quella che definisce «omeostasi socioculturale», dell’idea che la cultura – vale a dire «i sistemi della giustizia, le organizzazioni economiche e politiche, le arti, la medicina
e la tecnologia» (Damasio, 2010) – si sviluppa in un contesto
biologico e sociale per agevolare la sopravvivenza degli organismi
viventi, in questo caso degli esseri umani. Berne (1963/1973) alludeva a questo aspetto essenziale della vita di gruppo quando
scriveva che «preservare la cultura del gruppo ha la precedenza
sull’attività del gruppo», è il compito principale.
Perciò, quando nei miei scritti parlo della cultura nella comunità
dell’analisi transazionale, mi riferisco agli oggetti e alle procedure
concrete lasciate dalle generazioni precedenti; alludo alla peculiare
sensazione che si prova facendo parte di quella comunità, e metto
in evidenza l’impegno dei leader delle comunità e dei maestri per
promuovere una crescita continuativa, soprattutto nell’allevare la
generazione successiva.
“Verso una terapia dura e incisiva”: una prospettiva marziana della
cultura
La comunità dell’analisi transazionale struttura il tempo e il lavoro
in modo tale da richiedere la partecipazione ai gruppi attraverso
training, terapia, conferenze, gruppi di lavoro, peer learning e così
via. Quali attribuzioni culturali potrebbero influire sull’approccio
di questa comunità circa il lavoro e l’apprendimento in gruppo?
Quali le attribuzioni, come indicato da Tudor (2009) che caratterizzano un approccio al training di tipo analitico transazionale?
Un aspetto significativo di questa cultura, a mio avviso, è lo
stile aggressivo della scrittura di Berne, che ha ispirato il titolo di
questo capitoletto: Verso una terapia dura e incisiva (Toward Hard
Therapy and Crispness) (Berne, 1966). Era, questa, una schietta
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dichiarazione di separatismo che distingueva il suo approccio duro
e incisivo dalle terapie più tradizionali o consolidate di tipo soft
(ossia inefficaci). Il vocabolario utilizzato da Berne può essere evocativo e illuminante, anche quando dalle parole non si evince con
precisione cosa egli intendesse. Inoltre, nel suo stile si coglie un
permesso implicito a provocare, giocare (play), manifestare disaccordo e arrecare disturbo (make trouble). E in effetti la comunità
dell’analisi transazionale sembra attrarre personaggi dall’indole indipendente e talvolta ribelle. C’è il permesso di pensare e la libertà
di scoprire e dare voce alla saggezza che l’individuo già possiede o
cui può dar corpo, indipendentemente da quanto egli sia istruito
in materia di analisi transazionale.
Berne (1968) perorava
l’abolizione delle categorie professionali durante la riunione [dello
staff con la partecipazione del paziente come] licenza per ognuno
di pensare senza limitazioni artificiose: se lo desiderano gli infermieri possono pensare come se fossero medici, i medici possono
pensare come se fossero infermieri, gli psicologi possono pensare
come se fossero assistenti sociali e così via (Berne, 1968).
Nei gruppi, questo tipo di licenza può avere un effetto vivificante e liberatorio: consente infatti una ricca molteplicità di vedute
e contributi e dunque un più alto potenziale di apprendimento.
La teoria dell’analisi transazionale fornisce un quadro di riferimento – un linguaggio condiviso – che si mantiene aperto ad
altri quadri di riferimento. Ciò consente, a mio parere, un’utile
comunanza e al tempo stesso l’emergere di nuove conoscenze e di
forme inconsuete di espressione nei gruppi.
Un altro aspetto della comunità dell’analisi transazionale che
trovo rilevante è l’interdisciplinarietà (Landaiche, 2010), ossia il
fatto che la sua teoria sia un buon supporto per chi lavora in diverse situazioni e campi di applicazione (ad esempio nell’ambito
dell’educazione, counselling, organizzazioni e nella psicoterapia).
Questo sembra facilitare una comprensione più approfondita della condizione umana e soprattutto delle sue manifestazioni
all’interno dei gruppi. Sebbene a volte si riscontri un’intolleranza
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tra i diversi campi di applicazione, questa caratteristica sembra
offrire maggiori possibilità di dialogo e di scambio professionale,
soprattutto a confronto con altre comunità di professionisti, di
cui ho fatto parte, che denotano una più marcata tendenza a non
riconoscere tale interdisciplinarietà.
Nell’analisi transazionale è tradizione svolgere un lavoro su di sé
nei gruppi; in questo modo si normalizzano le difficoltà comuni a
molti e si modella un processo per l’andare oltre. L’analisi transazionale afferma la capacità dell’individuo di crescere e superare i
propri comportamenti problematici, e nello stesso tempo colloca
questo potenziale entro limiti realistici. Nei gruppi questo alimenta il senso di speranza, senza tuttavia alimentare un’illusione che
si dimostra impossibile da sostenere nel mondo che c’è al di fuori.
L’ambiente di gruppo nell’analisi transazionale sembra facilitato
dalla cultura dell’offrire carezze (strokes), mantenere una posizione
“Ok-Ok”, ridurre i comportamenti di gioco psicologico e cercare
un contatto più intimo e onesto. C’è un impegno a riconoscere
e soddisfare i bisogni di strutturazione del tempo. C’è una forte
«cultura del dono» (Newton, 2011) che favorisce il rendersi disponibili a offrire un servizio per la comunità, e generosità, nonché
un senso di responsabilità sociale – aspetti fondamentali per una
vita di gruppo produttiva ed etica.
Ho potuto cogliere con maggior chiarezza e lucidità l’insieme
di questi aspetti di indipendenza, interdisciplinarietà, intimità,
sollecitudine e generosità in un workshop che ho condotto insieme a un collega durante una conferenza internazionale di analisi
transazionale.
In quell’occasione ho fatto, nella mia presentazione, qualcosa
che io ho percepito come un imbarazzante “casino”, essendomi
permesso di “andar fuori dal mio schema di copione”, ossia non
seguendo la traccia che avevo preparato e non seguendo l’ingiunzione a parlare solo nel turno prestabilito. Sebbene io fossi
mortificato, il gruppo non ha manifestato disapprovazione, né
mi ha “svergognato”. Alcuni hanno colto nella mia spontaneità
l’opportunità per uno scambio vivace e per imparare in gruppo.
Sebbene in quel contesto io fossi uno dei due docenti designati,
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ne ho tratto per me un insegnamento profondo scaturito in gran
parte dalle capacità e dalla volontà collettive dei partecipanti di
ricavare qualcosa dalla mia disorganizzazione, come fecero attraverso il loro feedback, permettendo a se stessi di coinvolgersi, e
infine riportando le conclusioni che ne avevano tratto sia a me, sia
al resto del gruppo. È stata una straordinaria esperienza di rischio
e consolidamento, un microcosmo della crescita che la comunità
è capace di coltivare.
Alcuni intoppi
Oltre a questi doni legati alla cultura dell’analisi transazionale, ci
sono anche aspetti che interferiscono con l’apprendimento e la
crescita, soprattutto nei gruppi?
Nelle situazioni in cui ho riscontrato scissioni e faziosità tra i
diversi campi di applicazione dell’analisi transazionale pare esservi
un rafforzamento di determinate «Imago consensuali» (Newton,
2003), che favoriscono, ad esempio, l’infantilizzazione degli allievi
o una intellettualizzazione di fronte a processi organizzativi che
sono per noi complessi e che ci spaventano. A volte patologizziamo le esperienze emotive umane per noi difficili tenendole a una
distanza clinica. Oppure ci precipitiamo ad agire senza riflettere
con calma e cogliere pienamente le difficoltà emotive e cognitive
che i clienti e gli allievi portano con sé. Ritengo che queste visioni ristrette della condizione umana limitino il potenziale dei
gruppi nello svolgere il loro lavoro e impongano una costrizione
ai membri le cui difficoltà di apprendimento necessitano di un
respiro più ampio.
Sembra anche che vi sia un altro lato della medaglia oltre a
quello legato alla chiarezza e direttività della teoria dell’analisi
transazionale, al suo dialetto e alla sua enfasi sul pensiero e sulla
razionalità. Dopotutto, i gruppi possono essere luoghi intensamente irrazionali, irriflessivi, contorti. Come trovare le parole
per parlarne? Berne cercò di tener conto di questo aspetto più
disturbante della vita umana attraverso i concetti di «mortido...
l’energia dell’istinto di morte» (Berne, 1947), di «demone... comportamento impulsivo non adattivo» (Berne, 1972; vedi anche
Apprendimento e odio nei gruppi243
Novellino, 2010) e attraverso quello schema (pattern) copionale compulsivo e non conscio che egli definiva protocollo (Berne,
1963/1973, 1966, 1972; vedi anche Cornell, Landaiche, 2006).
Eppure sembra difficile, per noi come comunità, mantenere l’attenzione su questi aspetti più oscuri abbastanza a lungo da poter
darvi forma e significato.
Sebbene prima io abbia parlato delle libertà che possono derivare dalla mancanza di una più esaustiva teoria dell’analisi transazionale sui gruppi, mi domando se a causa di questa mancanza
i membri della comunità abbiano anche difficoltà a essere consapevoli dei processi di gruppo significativi, a trovare le parole per
descriverli e dunque a reagire in maniera diversa quando sono in
atto.
Più di 35 anni fa, Schanuel (1976) intimava di guardarsi da
quella che definiva un’insularità emergente,
un senso di appartenenza a un gruppo esclusivo da parte degli appassionati dell’A.T... [Un fatto ] avallato dall’uso di un gergo particolare, dal fatto di rendere la teoria più complessa, e dall’emergere
molto inquietante della convinzione che l’A.T. sia onnipotente
(Schanuel, 1976).
L’autrice implorava: «Non rinchiudiamoci nel gruppo escludendoci dal mondo». Sono parole rivolte al lato speculare della «rispettata marginalità» di cui ha parlato Petriglieri (2010) nel discorso
di apertura a una conferenza dell’ITAA tenutasi a Montreal, in
cui questo autore ha fornito esempi del rapporto rispettabilmente
marginale tra la comunità dell’analisi transazionale e i settori della
didattica, della consulenza organizzativa, del counselling e della
psicoterapia in senso più lato. Forse ogni punto di forza culturale
ha il suo risvolto problematico.
La mia psicologia di gruppo
Sono arrivato a nutrire un profondo rispetto per la potenza costruttiva delle... esperienze di gruppo e al tempo stesso una reale
preoccupazione per il fatto che in certe situazioni e modalità tale
esperienza possa arrecare danno ai singoli individui (Rogers, 1967).
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Utilizzando me stesso come soggetto di ricerca all’interno della
cultura dell’analisi transazionale, condividerò parte della mia storia personale e del mio habitus psicologico allo scopo di inquadrare
il contesto.
Essendo io il maggiore di nove fratelli, il mio ruolo di copione era di superfunzionamento: dover far da paciere, terminare il
lavoro lasciato a metà da altri, tenere d’occhio tutto e tutti, ripristinare l’ordine, prendersi carico, essere responsabile, all’infinito
– un diluvio di ingiunzioni, tutte variazioni sullo stesso tema,
trito e ritrito.
Alla base del mio comportamento copionale posso vedere
principalmente l’assillo della sopravvivenza, con un evitamento,
a qualsiasi costo, del rifiuto e del dolore sociale (Landaiche, 2009).
Può darsi che in parte il mio timore derivi dal fatto che in certi
periodi sono stato marginalizzato in modo offensivo e odioso – il
culmine sono stati i continui episodi di bullismo durante i quattro anni di college alle scuole superiori. Eppure credo che la mia
storia personale non spieghi del tutto la mia aspettativa di poter
essere maltrattato.
Detto in termini semplici, il mio approccio primario ai gruppi
consiste nell’isolarmi, nel sottrarmi al pericolo. Sebbene all’inizio
identificassi l’isolamento con il fatto di interrompere la comunicazione o chiudermi in un silenzio imbronciato, oggi mi rendo
conto che posso isolarmi anche quando do l’impressione di partecipare attivamente. Accade quando, nel pieno dell’azione, perdo
il filo e il conto di cosa sto cercando di apprendere o ottenere dal
gruppo, quando vengo coinvolto in una situazione che mi porta a
esercitare il controllo o a super-funzionare per il gruppo, quando
mi crogiolo in fantasie di isolamento plateale anziché riflettere
su cosa sia frustrante per me e su come affrontarlo. Queste forme meno evidenti, mascherate, rappresentano un isolamento dal
gruppo, attraverso cui mi distolgo dalla mia crescita personale e
abbandono me stesso.
Indubbiamente vi sono momenti in cui è doveroso correre ai
ripari. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, non mi trovo in una
reale situazione di pericolo: solo che vivo come se lo fossi, in modo
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delirante. L’effetto è che ho una resa insoddisfacente e divento più
ansioso, paranoide e depresso e dunque meno resiliente e meno
in condizione di maturare o di apprendere. Ho anche osservato
che quando riesco a superare il mio orribile “allarme di pancia”,
quando riesco a stare in contatto con i gruppi in cui mi trovo,
questi stessi problemi si capovolgono in modo decisivo. E quando
partecipo come individuo, anziché ricoprire un ruolo (per esempio quello del super-efficiente o del paciere), anche i miei gruppi
sembrano andare meglio.
Per queste ragioni sono ora dell’idea che il problema della mia
partecipazione (membership) ai gruppi sia legato all’isolamento.
Per di più, senza cambiare questa abitudine non posso ottenere
alcun beneficio dal fatto di appartenere a un gruppo. Ottengo solo
il danno lento e inesorabile che deriva dall’illusoria sicurezza del
tenersi a distanza (disconnection).
In questo senso scrivo a quelli e per quelli di voi che considerano
la partecipazione a un gruppo l’ultima cosa al mondo che vorrebbero fare, e per coloro che sono anche consapevoli del prezzo che
comporta seguire questa strada come stile di vita.
Una ricerca controfobica
Si potrebbe pensare, in ragione del fatto di aver vissuto la posizione di fratello, che il mio interesse nei confronti dei gruppi e della
loro conduzione come leader sia frutto del mio allenamento fin
dalla più tenera età o anche che derivi dalla coltivazione attiva di
una passione innata. A mio avviso è vero, ma al contrario. In altre
parole, il mio spiccato interesse nei confronti della vita di gruppo ha un’origine controfobica. Le prime esperienze mi avevano
lasciato fortemente timido e sospettoso; odiavo i gruppi. Eppure,
verso i trent’anni, per motivi che ancora non mi sono chiari, ho
provato il bisogno impellente di andare verso ciò da cui volevo
fuggire, di forzare me stesso a stringere una qualche forma di
contatto con dei gruppi di persone. Avevo la sensazione, ancora
vaga, che se non avessi capito come stare con gli altri, all’interno
della comunità, facendo parte di una famiglia allargata, non sarei
diventato me stesso. Consideravo il cambiamento un prodotto sia
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di processi collettivi sia dell’impegno individuale, del carattere o
della genetica, e mi rendevo conto che non avrei potuto possedere
un’integrità se non attraverso un’interazione intensa con gli altri –
la famiglia, le cerchie di amici, i colleghi, i concittadini.
Come Berne (1963/1973) osservava
uno degli scopi insiti nel formare gruppi, aderirvi e adattarsi ad
essi è prevenire il deterioramento biologico, psicologico e anche
morale. Pochi individui sono in grado di “ricaricare le batterie”,
risollevarsi, attingendo alle loro intrinseche risorse psicologiche e
mantenersi moralmente integri senza un’assistenza esterna (Berne,
1963/1973).
Ma che cosa succede se si ha difficoltà a utilizzare quell’assistenza esterna?
Odiare invece di imparare
È chiaro che, quando si forma un gruppo, gli individui che lo
costituiscono si augurano di trarne delle soddisfazioni. È altresì
chiaro che la prima cosa di cui diventano consapevoli è un senso di
frustrazione indotto dalla presenza del gruppo di cui sono membri
(Bion, 1959/1969).
Sebbene conosca bene la frustrazione di cui parla Bion, la soddisfazione non mi si concede. Anziché parlare in modo generico
del senso di odio che suscitano i gruppi, descriverò ciò che io
odio dei gruppi e in che modo questo renda la mia partecipazione
problematica, anche quando la cultura del gruppo è fortemente
facilitante.
Tuttavia la parola “odio”, per quanto significativa, non descrive
l’intero quadro. Dopotutto mi piace essere in presenza della vitalità di un gruppo – la sua varietà e il dinamismo, il fatto di non
dover faticare troppo (dal momento che posso limitarmi a osservare). La vita in gruppo potrebbe sembrare meno faticosa, dare
meno l’impressione di essere qualcosa di meno fuggevole e fragile.
Eppure, al tempo stesso, temo e detesto l’altro lato della medaglia di quella vitalità – la noia che si prova vedendo che il gruppo
mette risolutamente in atto un evitamento, le tensioni, la minaccia
Apprendimento e odio nei gruppi247
di essere uccisi o umiliati (morte sociale), la passività, i trinceramenti, la lentezza di deliberazione (rispetto alla velocità e sicurezza
della mia mente), la celebrazione della meschinità.
Provo un estremo disagio, ai limiti del panico, nell’unirmi a un
gruppo quando sento di non farne parte, quando mi sento troppo
diverso, o quando butto all’aria i canoni del gruppo – per esempio
cambiando posto alle persone in un gruppo in cui i posti sono
tacitamente riservati, oppure rifiutando il cibo e le bevande che
appartengono ai rituali fondamentali del gruppo.
Certe volte provo una sensazione di improduttività. Per esempio, nella struttura psichiatrica dove lavoro, durante la discussione
settimanale dei casi difficili mi capita di insistere per esprimere il
mio parere, tiranneggiando il gruppo senza di fatto offrire una guida. Oppure di non poter dire la mia perché gli input del gruppo
continuano a interrompere il corso dei miei pensieri. Urtato, cado
in un silenzio cupo. Con quanta frequenza ci si trova infognati in
queste situazioni nei gruppi?
Frustrazione, incertezza, contagio, minaccia – in momenti come questi non si direbbe che valga la pena di essere in un gruppo.
Eppure una volta lontano dai gruppi, riesco a dimenticare come
ci si sta. Li idealizzo, ma, quando il contatto riprende, l’idealizzazione romantica va bruscamente in fumo.
Questo articolo, dunque, è la storia più realistica che racconto
a me stesso per sopportare di far parte dei gruppi.
La parte che io gioco
Il genere di odio che provo nei gruppi, quando si amplifica diffondendosi tra diversi dei suoi membri, spiega forse almeno in parte
le atrocità che i gruppi possono commettere.
Per parte mia, mi capita facilmente di sconfessare i gruppi, accusandoli come se non avessi alcun ruolo nel loro tipo di comportamento. Come Bion (1959) ha scritto,
Il singolo non può fare a meno di essere un membro di un gruppo
anche se la sua appartenenza... consiste nel comportarsi in maniera
tale da dare corpo all’idea che egli non appartenga assolutamente
al gruppo (Bion, 1959).
248
N. Michel Landaiche III
È una frase che ben descrive il mio disconoscimento dei gruppi.
Prendiamo il fatto di non riuscire a tollerare di avere sbagliato. Ovviamente, incide sul gruppo il fatto che io non riesca a
rinunciare alla mia opinione dopo essermi sentito dire qualcosa
che la contraddice e che corregge il mio punto di vista o la mia
errata percezione. Quando ho difficoltà ad accettare di non capire,
proprio mentre cercavo di farlo senza riuscirci, contribuisco in
modo negativo alla cultura di un gruppo. Non è questo il modo
di alimentare un clima di apertura e libertà di parola. Mi trovo
d’accordo con Stacey e Griffin (2005) quando scrivono che
non esiste un modo distaccato per comprendere le organizzazioni
[o i gruppi], nella posizione dell’osservatore oggettivo. Le organizzazioni devono essere invece capite secondo il metro dell’esperienza
personale, della partecipazione insieme agli altri nella co-creazione
dei pattern di interazione che costituiscono l’organizzazione (Stacey, Griffin, 2005).
Eppure, sul piano emotivo, continuo a immaginare il gruppo
come un oggetto unico e afferrabile e sono convinto in tutta buona fede di vederlo nella sua interezza. Anche quando mi trovo a
incorporare con riluttanza nuovi dati, che è come dire che il mio
precedente modo di vedere le cose era incompleto, pur rendendomi conto che questo procedimento di revisione è ricorrente
(infinitamente ricorrente, oserei aggiungere), accolgo ogni nuovo
punto di vista come se fosse l’ultima parola. Non vivo alcun pensiero di incompletezza, anche se forse a parole lo faccio. Poiché
è probabile che lo stesso accada anche agli altri, mi limito ad
alimentare il clima di scontro e lite di quando ognuno vuole far
valere le proprie ragioni.
Gruppo senza mente
Kreyenberg (2005) ha scritto che «lavorare con le organizzazioni
significa lavorare con sistemi viventi». È un’affermazione simile a
quella di Hargaden e Sills (2002) che caratterizzano il gruppo di
terapia come un «organismo interconnesso, vivente, che respira».
Questa vitalità corrisponde all’esperienza che ho nei posti di lavo-
Apprendimento e odio nei gruppi249
ro, nelle famiglie e nei gruppi, e potrebbe anche spiegare alcune
delle difficoltà che caratterizzano la vita in comunità. In quanto
organismi, i gruppi sono dotati della facoltà di sentire. Quando si
sentono minacciati, ad esempio, possono seguire alcune semplici
routine di evitamento o deterrenti, come fanno altri organismi
semplici quali le spugne.
Bion (1959/1969) definiva queste routine “assunti di base”,
decisioni primitive e non consce di lottare, fuggire, dipendere e
così via, che avvengono tutte come reazione a un’ansia elevata.
Eppure sono convinto che queste manovre difensive diano prova
di un’intelligenza alquanto limitata e che, quando si ripetono,
motivino il senso di frustrazione e di pericolo che molti di noi
incontrano nei gruppi. Charlotte Sills (2003) ha definito questo comportamento ripetitivo e maladattivo del gruppo come un
«blocco in un ruolo» (role-lock).
Presumibilmente queste routine e questi assunti senza pensiero
hanno svolto un ruolo nella sopravvivenza umana e, come la cultura, sono stati e sono tuttora funzionali in determinate circostanze.
Molti di noi trovano forse diletto in irragionevolezze di questo
tipo, concedendo il lusso di una vacanza alla propria testa stanca.
Tuttavia l’intelligenza di gruppo sembra senza cervello se messa
a confronto con quella di un essere umano preso da solo e con
la mente funzionante. E quando affrontano compiti complessi, i
gruppi di esseri umani hanno bisogno di qualcosa di più di un
pensiero di gruppo arcaico.
Se i gruppi non riescono a pensare
Sebbene, per la mia esperienza, i gruppi non siano in grado né di
pensare né di apprendere, ho constatato che i loro singoli membri possono farlo e, nel farlo, stimolano e sostengono in modo
evidente la riflessione e l’apprendimento degli altri. Per dirlo con
le parole di van Beekum e Laverty (2007), in simili momenti «si
materializza qualcosa che non è esclusivamente il prodotto degli
individui coinvolti».
L’intelligenza emerge, in modo a volte stupefacente, quando gli
individui all’interno di un gruppo fanno uso autonomo della loro
250
N. Michel Landaiche III
mente. Emerge quando un gruppo contiene le proprie diversità, la
propria conoscenza e la propria ansia anziché espellerle. Allora si
vede una ripartizione delle mansioni – una sorta di elaborazione
distribuita tra i singoli all’interno del gruppo – dove i problemi vengono suddivisi e condivisi tra menti distinte. I risultati di
questa elaborazione vengono quindi nuovamente riassemblati per
intraprendere un lavoro più complesso.
Affinché i singoli membri possano apprendere e funzionare come gruppo, sembra che debbano trovare e condividere le proprie
menti incarnate. Questa presenza di riflessività e di un relazionarsi etico può propagarsi nel gruppo con la stessa contagiosità
dell’ansia e dell’effetto branco. Ma la lucidità, come notava Bion
(1959/1969), è molto più difficile da ottenere perché «si è coinvolti nella situazione emozionale [del gruppo]». Per utilizzare tutta
la propria mente e il proprio corpo occorrono coraggio e una
determinazione disciplinata, mentre l’irragionevolezza è una cosa
che si produce a occhi chiusi.
In un campo di corpi-menti che lottano
Ognuno di noi si vergogna a tal punto della sua impotenza e ignoranza da ritenere opportuno comunicare solo quando pensa che
gli altri capiranno. Tuttavia, vi sono situazioni in cui, per qualche
motivo, ci spogliamo lentamente di quella vergogna e cominciamo a parlare apertamente di tutte le cose che non comprendiamo
(Milosz, 1969/1975).
Nel suo saggio sulle «riunioni di staff con la partecipazione del
paziente», Berne (1968) scriveva che uno degli obiettivi di tali
riunioni è «stimolare la riflessione e l’organizzazione dei pensieri»
(Berne, 1968). Per me, uno dei valori della vita di gruppo è rappresentato dai momenti in cui tutti si impegnano nel comprendere
un problema complesso, riflettendo in parallelo e parlando con
ponderazione o intuito. Il mio lavoro e la vita che conduco fanno
sì che una delle cose che trovo più stimolanti sia cercare di comprendere l’esperienza umana.
Anche quando voglio tenermi stretto a quello che so – e mi
Apprendimento e odio nei gruppi251
agito a disagio sulla sedia per via di tutte le opinioni divergenti
– nel momento in cui gli altri manifestano i loro diversi punti di
vista riesco in qualche modo a beneficiare di un senso di crescente
chiarezza. È una situazione che mi permette di allargare il mio
quadro di riferimento, accelerare il mio processo e metabolizzare
alcune delle cose che non sono in grado di pensare da solo. Alla
fine mi trovo ad apprezzare le offerte ricevute, a dispetto della mia
testardaggine e permalosità.
Il dar senso (meaning) a livello personale è diverso quando sia
continuamente alimentato, interrotto e messo in dialogo con un
simile processo emozionale e comunicativo collettivo. Questa creazione di significato (meaning making) avviene durante gli scambi
a volte garbati e a volte energici tra due e più persone e attraverso
modalità di relazione diverse: vocale, tattile, visiva, ecc. (vedi Berne, 1966). Nell’ascoltarci reciprocamente, con tutti i sensi, cominciamo a delineare i contorni della nostra difficoltà collettiva, forse
arrivando a trovare un nome da darle e un luogo da assegnarle
nel più ampio territorio di significato da noi condiviso. Schmid e
O’Hara (2007) hanno descritto queste situazioni come
gli straordinari momenti nella vita del gruppo in cui... le persone...
riescono a conciliare complessità che erano parse ingestibili solo
fino a pochi minuti prima (Schmid, O’Hara, 2007).
Possiamo renderci conto di questo potenziamento dell’apprendimento attraverso il gruppo nelle situazioni in cui il brainstorming funziona, negli incontri in cui emergono una visione più
chiara e una pianificazione più efficace, nelle discussioni in classe
che producono una descrizione di un certo fenomeno migliore di
quella fornita dal testo ufficiale o dalla spiegazione del docente,
nei gruppi di trattamento che stimolano a elaborare certe comuni
fatiche esistenziali, dove l’esprimere i molteplici punti di vista
comincia a costruire un palpabile senso di benessere e di contatto.
Anche conflitto e disaccordo possono avere una funzione chiarificatrice quando danno voce ai molti aspetti di una questione
rendendoli a poco a poco più afferrabili. A volte il conflitto e la
divergenza di opinioni rappresentano lo stato della conoscenza in
252
N. Michel Landaiche III
modo più realistico del consenso stesso o di un’apparente chiarezza.
Stacey (2001) ha parlato in modo più neutrale dell’interazione
in gruppo come una
interazione comunicativa [che] produce contemporaneamente sia
una collaborazione emergente e novità, sia una ripetizione sterile,
disgregazione e distruzione (Stacey, 2001).
Egli ci ricorda la continua tensione tra creatività e mortificazione che si riscontra nella vita di gruppo. Il mio entusiasmo è altrettanto moderato. Infatti, sebbene sul piano intellettuale sia incline
a pensare che determinate cose si debbano apprendere all’interno
di un gruppo per funzionare più efficacemente nel nostro posto
di lavoro, nelle comunità e nelle famiglie, far questo non è sempre
un processo lineare né esente da difficoltà.
Dilemmi insolubili
Il problema dell’individuo nella comunità... è il problema di garantire... un senso di identità personale. Il problema che riguarda
tutti gli individui consiste nell’osare distinguere se stessi dal resto
dei partecipanti... [Devono] stabilire in modo chiaro il confine
fra ciò che considerano interno e ciò che considerano esterno
(Hinshelwood, 1987).
Alcuni mesi fa ho partecipato a un incontro di un comitato di
cui faccio parte, che si occupa di pianificazione a lungo termine.
Non riuscivo a trovare punti di contatto con la discussione, che
verteva su mercati, prodotti, programmi e meccanismi di raggiungimento degli obiettivi. La trovavo priva di senso. Mi sentivo a
disagio, insoddisfatto, impossibilitato a parlare liberamente o, per
meglio dire, volevo solo sbottare, trascinare il gruppo nella mia
direzione (qualunque essa fosse). Così ho tenuto la bocca chiusa
(troppo prossimo alla paura di parlare). Alla fine ho spostato la
mia attenzione dal gruppo a ciò che si agitava nella mia mente e
nel mio corpo, e mi sono reso conto che stavo cercando di capire
qualcosa di diverso dall’oggetto della discussione. Mi stavo interrogando sulle caratteristiche di un’organizzazione sana e, più preci-
Apprendimento e odio nei gruppi253
samente, mi domandavo che cosa in passato avesse reso così vivace
e pulsante l’organizzazione di volontariato per la quale stavamo
pianificando. Sebbene non riuscissi a trovare una risposta, ho sentito allentarsi sia la frustrazione sia la confusione che provavo. Le
mie viscere e ciò che viaggiava al mio interno hanno trovato una
sorta di ordine. A quel punto ho potuto rendermi conto del fatto
che la discussione del gruppo, che mi era sembrata così campata in
aria, in realtà aveva contribuito alla mia riflessione, e che ero stato
in grado di ricevere quel contributo solo nel momento in cui mi
ero concentrato sui miei pensieri anziché seguire passivamente il
gruppo o resistervi. Gli altri, opponendosi, mi avevano aiutato a
mettermi in rotta. Ero sia al di fuori, sia parte del gruppo, intento a lavorare sul mio pezzo del puzzle mentre ognuno degli altri
lavorava sul proprio.
In molti gruppi spesso non trovo chiarezza. Mi pongo allora
queste domande:
– Immerso come sono nel processo e nel contenuto, come posso
mantener viva l’attenzione alle mie stesse idee e aspirazioni? Posso
figurarmi cosa voglio ottenere e cosa è realistico ottenere dai lavori
in corso?
– In un gruppo che “sta perdendo tempo”, qual è la mia responsabilità? L’inefficacia è una impasse oppure è solo quella disorganizzazione che spesso precede un passo avanti? Che cosa devo
cambiare nel mio contributo?
– Quando sto in silenzio, qual è la mia funzione rispetto al
gruppo: Contenere? Ascoltare? Incubare? Rimuginare (o confondere)? Limitare l’ansia del gruppo?
– Quando «l’aria è ricolma del clamore dell’analisi e della definizione conclusiva, sarebbe del tutto inutile ammettere che [io]
non capisco?» (Milosz, 1969/1975)
Mi torna in mente ciò che Berne (1966) scriveva a proposito
del leader di gruppo in psicoterapia:
Riguardo alla propria evoluzione personale, egli dovrebbe domandarsi: “Perché sono seduto qui in questa stanza? Perché non sono
254
N. Michel Landaiche III
a casa con i bambini, oppure a sciare, a tuffarmi dal trampolino, a
giocare a scacchi oppure a fare qualsiasi altra cosa la mia fantasia
potrebbe suggerirmi? In che modo quest’ora contribuirà alla mia
realizzazione?” (Berne, 1966).
Un’evoluzione e una ricerca che sembrano non finire mai.
Prendere in mano se stessi
In virtù dell’essere un fratello maggiore, posso entrare in un batter
d’occhio nei ruoli di leadership (a proposito di role-lock). Perciò
ho cercato di capire se focalizzandomi sull’essere un membro del
gruppo più efficace mi permettesse di modellare il modo in cui
occupo la mia posizione di leadership, come docente/formatore,
facilitatore di gruppo e dirigente dell’ambulatorio presso cui lavoro.
Mi è sembrato che l’aspetto saliente per me fosse avere imparato a gestire il mio comportamento reattivo durante i processi di
gruppo. In altre parole, non cercando di esercitare una coercizione
sugli altri abbandono «[l’obiettivo] controproducente, seppur rassicurante» (Petriglieri, Wood, 2003) di voler controllare il gruppo.
Cerco di non perdere di vista la mia esigenza di apprendere
e contribuire io stesso, esprimendo la mia opinione e traendo il
massimo dalla realtà, dalle circostanze presenti in un certo gruppo
in un dato momento. Cerco di dare spazio alla curiosità verso le
mie emozioni di disagio; provo a sopportare la frustrazione. Non
avendo a disposizione tempo a sufficienza (essendo io uno fra i
tanti) cerco di lasciar sedimentare, magari tristemente, problemi
molto difficili da risolvere o senza fine, come quelli legati alla
condizione umana. Potrebbero forse essere queste le fatiche della
cittadinanza.
C’è ancora da imparare
Negli ultimi vent’anni sono un po’ cresciuto: all’interno della famiglia non sono più distaccato come prima; lavoro in un’organizzazione, non più isolato; aderisco a comunità professionali; non
sono appartato come in passato. La cultura dell’analisi transazionale mi ha aiutato molto a maturare in questo senso, così come
i suoi derivati (ad esempio gli scritti, gli incontri, le usanze), il
Apprendimento e odio nei gruppi255
clima di vivace scambio e la predominante ricerca e sostegno dello
sviluppo.
Ho ancora difficoltà ad abbandonare il mio ruolo superfunzionante di fratello maggiore per poter essere un cittadino normale e
attivo: come ho detto in precedenza, capita che dia l’impressione
di partecipare mentre di fatto mi sto isolando. Riguardo al fatto di
essere cittadino del mio Paese, ad esempio, sono capace di esprimere forti critiche e sprezzo per la politica, ma non intraprendo
azioni costruttive a livello politico o della comunità. Sebbene le
mie lamentele possano avere una validità, devo anche assumermi
la mia dose di responsabilità per le disfunzioni che si manifestano
a livello politico, a cominciare dal mio abdicare all’impegno e alla
collaborazione.
Nei molti gruppi cui appartengo mi rendo conto che considerarmi membro, crescere e maturare per qualche aspetto contribuendovi, ha un impatto diretto sulla mia capacità di fare leadership. Sono particolarmente impossibilitato a essere leader quando
i ruoli di leadership offrono un escamotage per aggirare i problemi
che mi pone l’appartenenza al gruppo, vale a dire quando quei
ruoli rinforzano il mio copione. In quei casi la mia leadership è solamente una forma di super-funzionamento, una manifestazione
della massa egoica indifferenziata del gruppo trasformata in capro
espiatorio. Mi limito a recitare un ruolo.
Pertanto, sono arrivato a considerare la leadership una proprietà o un fenomeno secondario, che scaturisce dall’appartenenza
(membership). Quando il membro del gruppo è in grado di gestirsi
ha il potenziale di diventare un leader naturale che ha anche la
capacità di seguire gli altri.
Gruppi: perché darsi la pena?
La disperazione personale e il disperarsi di un’organizzazione vanno di pari passo. L’esperienza di lavorare in un’organizzazione demoralizzata non è molto diversa da quella provata dal paziente che
è arrivato a fine corsa con la vita (Hinshelwood, 1987).
Facendomi forza nel contrastare la disperazione che ha ancora
256
N. Michel Landaiche III
il potere di tormentarmi, insisto con i gruppi e con il mio disagio
perché sono fortemente interessato al loro potenziale di apprendimento, di lotta e di elaborazione collettiva rispetto a certi problemi
fondamentali. In una democrazia deliberativa, ad esempio, come
dovremmo governare, e cos’è l’imparzialità nel diritto e nella sua
applicazione? Nella comunità scientifica, quali le prove evidenti
che aiutano a comprendere il funzionamento del mondo? In un
team, come raggiungeremo il compito assegnato? In un seminario
che parla, ad esempio, delle Sacre Scritture di una certa tradizione
religiosa, come si può articolare la complessità di quei testi spesso
antichissimi e il disvelarsi progressivo della loro rilevanza per le
nostre vite? I concerti jazz, i gruppi di supervisione tra pari, i circoli di preghiera, le spedizioni di caccia, le comunità d’interesse
su Internet: vi sono infiniti modi di unirsi agli altri con lo scopo
di far progredire il proprio sviluppo in innumerevoli ambiti del
cimento umano.
Una settimana ho constatato con sorpresa di avere partecipato
a ben 19 gruppi, nei panni sia di leader, sia di seguace o di pari.
Questo senza contare i gruppi che quella settimana non erano attivi, e senza neppure tenere conto del mio coinvolgimento sociale
o nella comunità in senso lato.
Quella stessa settimana mi sono accorto anche di provare un
disinteresse intenzionale nei confronti della frequenza con cui mi
capitava di vivere la mia vita in relazione a un gruppo, un fatto
che ho ancora difficoltà ad accettare.
Malgrado creda che non tutte le persone siano animali da gruppo che funzionano meglio quando sono in contatto con gli altri,
come capita a me, ho maturato la convinzione che ciascuno di noi
ricavi beneficio dall’avere le idee più chiare sulla propria posizione
nei confronti di questo aspetto sociale della vita umana e su come
vuole agire al riguardo. A tale scopo propongo i seguenti interrogativi per una ricerca di base:
– Che cosa osserviamo riguardo a noi stessi e ai nostri gruppi?
– Che ripercussioni ha la nostra appartenenza [ai gruppi, NdT]
sulle nostre aspirazioni e magari, per estensione, su quello che ci
auguriamo possano ottenere il gruppo e i suoi membri?
Apprendimento e odio nei gruppi257
– Che cosa ci suggerisce di cambiare la nostra ricerca circa la
membership, il nostro essere parte di un gruppo?
Ciascuno di noi si pone di fronte ai gruppi come davanti a un
pericolo, a un piacere oppure, con una modalità prescrittiva, una
sorta di medicina che, per quanto amara, a lungo andare ci farà
bene. Personalmente sono arrivato a considerarli semplicemente
inevitabili. Non avendo più bisogno di forzare i miei incontri
con i gruppi, li cerco intenzionalmente, forte del mio consenso
informato, perché far parte del loro ambiente vitale mi fa crescere
meglio. Mi preoccupo meno di quanto possano piacermi. Inseguo
invece con passione il contributo che solo essi possono dare alla
mia ricerca di una vita dotata di senso in fieri.
258
N. Michel Landaiche III
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