Confederazione Generale Italiana del Lavoro

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SEMINARIO CONTRATTAZIONE BILANCI REGIONALI 3 LUGLIO 2003
Sommario
Presentazione
Emilio Miceli responsabile del Dipartimento Politiche di coesione e del Mezzogiorno della CGIL
Nazionale
Introduzione
Carlo Komel Responsabile contrattazione territoriale del Dipartimento Politiche di coesione e del
Mezzogiorno della CGIL Nazionale
Interventi: Antonio Ruda IRES Nazionale
Una lettura comparata dei principali indicatori dei bilanci regionali
Roberto Romano Responsabile ufficio studi CGIL Lombardia
La formazione del bilancio: strumenti di valutazione
Roberto Polillo Dipartimento welfare e nuovi diritti CGIL Nazionale
Sanità e bilanci regionali
Stefano Daneri Dipartimento welfare e nuovi diritti CGIL Nazionale
Il welfare locale nei bilanci regionali
Roberto Battaglia Responsabile contrattazione territoriale CGIL E. R.
I risultati della concertazione del Bilancio della Regione Emilia Romagna
Beppe Citarella Presidente Cerdfos (Ufficio studi CGIL Sicilia)
Analisi di un falso d’autore: il Bilancio della Regione Sicilia
Walter Martinese Responsabile Osservatorio bilanci CGIL Emilia Romagna
L’Osservatorio quale elemento essenziale per la conoscenza e la contrattazione dei bilanci
Luciano Caon Responsabile contrattazione territoriale CGIL Veneto
La Regione Veneto dal DPEFR al bilancio: incoerenze e difficoltà della concertazione
Giovanni De Falco Ires Campania
Costruire la contrattazione del Bilancio Regionale: la CGIL Campania
Marco Moratto CGIL Piemonte
Nino Zumbo CGIL Calabria
Conclusioni: Paolo Nerozzi Segretario CGIL Nazionale.
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Relazione introduttiva al seminario
Carlo Komel Responsabile contrattazione bilanci CGIL Nazionale.
L’odierno seminario si inserisce in un percorso di lavoro del nostro Dipartimento politiche di
coesione e Mezzogiorno tendente a dare la massima diffusione alla pratica di
contrattazione/concertazione dei bilanci delle Regioni e degli Enti locali per intercettare a quei livelli
competenze e risorse che riguardano diritti di cittadinanza, qualità della vita della nostra gente e,
sempre più, modi e qualità dello sviluppo territoriale.
Già dalla riunione del dipartimento con tutte le strutture, tenutasi lo scorso Marzo, veniva
l’indicazione di un confronto per far emergere profili comuni della nostra iniziativa nelle regioni
nell’affrontare l’approccio ai diversi DPEFR - Documenti di Programmazione Economico
Finanziaria Regionali; tale esigenza si aggiungeva ad una serie di considerazioni oggettive.
Dall’inarrestabile, con la devolution di Bossi oggi caotico, processo di decentramento di poteri dallo
Stato alle Regioni, alle Province e ai Comuni, in parte realizzato con la riforma del Titolo V° della
Costituzione, alla considerazione della centralità del territorio, della sua qualità e capacità di
produrre politiche di contesto autogovernate in un rapporto di sussidiarietà con i livelli regolativi
superiori nazionale ed europeo.
Dall’implicita, forte connessione tra processi di contrattazione e negoziazione territoriale, coniugati
con un forte processo di partecipazione, e difesa e sviluppo della democrazia, alla consapevolezza
del territorio come luogo primo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza, della ricomposizione
delle diverse identità del lavoro, del possibile incontro tra contrattazione di 2° livello e
contrattazione territoriale.
Tutto ciò può essere di argine alla deriva populistico-demagogica innestata dal governo di destra a
patto di trovare un sindacato adeguato nel suo ruolo e nella sua struttura.
Ognuna di queste affermazioni potrebbe essere oggetto di dibattito ed approfondimento specifici,
alcune lo saranno nel corso di questo seminario: tutte rappresentano comunque assi sulle quali
impostare il nostro lavoro.
Emilio nella sua presentazione già parlava delle grandi difficoltà del quadro di discussione dei
prossimi DPEF e dei DPEFR, sono mesi che questa analisi fa parte del nostro dibattito: se il 2003
è stato difficilissimo per Regioni ed Enti locali, che in molti casi sono stati costretti a fare cassa
impegnando il loro patrimonio, per il 2004 si rischia di vivere un inasprimento di tale condizione.
Lo scorso 18 giugno Conferenza delle regioni, Upi, Anci e Uncem, che oggi incontreremo insieme
a Cisl e Uil, hanno prodotto un documento comune, accompagnato da specifici approfondimenti,
col quale rivendicano una corretta ed equilibrata applicazione della riforma del Titolo V° e lo
sblocco dei provvedimenti di emergenza del novembre 2002, decreto tagliaspese, che sono stati
per gran parte causa dell’aumento dell’indebitamento degli enti territoriali.
Contestualmente le stesse organizzazioni di rappresentanza hanno sottoscritto con il Governo un
accordo per il rinvio di un anno, al marzo 2004, della presentazione degli elaborati dell’Alta
commissione sui principi di applicazione dell’art.119 della Costituzione sul Federalismo fiscale.
Tale rinvio deriva da reali difficoltà, la prima delle quali risiede nella assenza di un quadro di
riferimento forte ed attendibile quale dovrebbe essere quello dei conti dello stato, presupposto
essenziale per affrontare temi di tale delicatezza: siamo oramai all’allarme generale, non solo la
CGIL, ma Banca d’Italia, Unione Europea e Ocse manifestano tutte grande preoccupazione; solo
l’ineffabile Tremonti, che ha fallito tutti gli obiettivi che lui stesso si era dato, continua a manifestare
ottimismo.
Tra le spie di questo disagio la più evidente mi pare essere rappresentata dalle dimissioni del
sottosegretario alle finanze Tanzi che si allontana dal Governo per palese mancanza di serietà
nella tenuta dei conti. Un altro segnale di difficoltà finanziaria viene dall’approvazione precipitosa,
in commissione agricoltura del Senato, della legge di riforma degli Usi civici che prevede il
trasferimento di oltre 5 milioni di ettari al patrimonio disponibile dei comuni: la fretta con la quale è
stato accelerato l’iter di approvazione di un provvedimento complesso nelle sue implicazioni e che
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ha già avuto un lungo iter parlamentare, fa pensare ad un’operazione di emergenza per aumentare
la capacità di indebitamento dei comuni.
Regioni, Province e Comuni chiedono poi, ciascuno per la sua parte, il saldo di partite sospese per
più di 7.000 miliardi di €uro che spiegano la sofferenza dei conti di questi enti per partite
fondamentali quali i contratti, la sanità, l’assistenza, l’attuazione della riforma del trasporto pubblico
locale, la messa in sicurezza di scuole, strade, territorio; a queste richieste il DPEF non sarà in
grado di dare risposte se non, forse, molto parzialmente: si preannuncia un’ulteriore contrazione
dei trasferimenti e delle disponibilità di regioni ed enti locali con inevitabili ricadute sulla nostra
gente.
Confindustria, attraverso il suo giornale, titola sui documenti di Conferenza delle regioni, Upi, Anci
e Uncem “DPEF, corsa all’accaparramento” quando invece ci troviamo di fronte a banali e legittime
richieste volte a mantenere il funzionamento ordinario: è ovvio che se si auspica, come fa
Confindustria, l’abbattimento dell’IRAP, che rappresenta dal 10% al 34% delle entrate complessive
delle regioni, non si può che tendere a comprimere le spese pubbliche, anche quelle indifferibili.
E’ quindi in questo complesso scenario che si colloca la nostra iniziativa della quale questo
seminario è un primo appuntamento; tutte le fasi di elaborazione sono fin’ora passate attraverso
un Gruppo di lavoro, costruito con esperienze e competenze note e arricchito man mano che il
lavoro veniva approfondito: intendiamo dare stabilità e ulteriore articolazione a questo metodo che
ci sembra il più efficace.
Alcune comunicazioni potrebbero apparire viziate da eccessivo tecnicismo, la scelta è voluta
perché ci sembra molto difficile poter “contrattare” un bilancio senza averne compreso a fondo
logiche, storia, articolazione.
Tra le comunicazioni ci sembra doveroso segnalare per la sua originalità quella che svolgerà il
compagno Antonio Ruda, che ha collaborato per conto dell’IRES Nazionale, costruita sulla base di
un questionario inviato a tutti i regionali, e non da tutti compilato, e che ha lo scopo di individuare i
punti critici dei bilanci regionale e le sue articolazioni “contrattabili”.
Voglio qui anticipare solo alcuni elementi di nostra lettura della prossima fase di redazione dei
DPEFR che “raccolgo” dal lavoro di preparazione del seminario:
o Sarà necessario rivendicare la massima trasparenza nella redazione dei bilanci, spesso di
difficile lettura anche dentro la stessa struttura burocratica regionale; è questo un elemento
propedeutico alla possibilità della partecipazione e quindi è un importante elemento di
democrazia.
o Occorrerà il massimo sforzo per salvaguardare le quote di finanziamento per sanità, welfare
locale, investimenti.
o E di conseguenza dovremo affermare che “le tasse non possono diminuire”, anzi, in
presenza di esigenze condivise di aumento della qualità dei servizi o di nuovi investimenti
si potrà valutare l’introduzione di imposte di scopo il cui utilizzo sia rigorosamente
verificabile.
Le prossime iniziative che come dipartimento pensiamo di svolgere su questi temi:
o Seminario sui bilanci degli enti locali alla ripresa dopo le ferie.
o Riunione di valutazione dei DPEFR prima delle leggi finanziarie regionali.
o Iniziativa con Conferenza regioni, Anci, Upi e Uncem dopo la presentazione della finanziaria
nazionale.
Tutto ciò se le contingenze non ci obbligheranno a cambiare o accelerare il nostro percorso.
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Ruolo economico delle Regioni e Federalismo: un primo tentativo nella costruzione di un
sistema informativo e di indicatori di bilancio
Antonio Ruda IRES Nazionale
L’ampio decentramento di funzioni dallo Stato centrale agli enti territoriali, attuato con la riforma
del Titolo V della Costituzione, non trova un riscontro adeguato nel nostro sistema informativo e
statistico. In misura non sempre adeguata ed efficiente, il decentramento amministrativo ha
determinato un decentramento delle competenze fiscali e un potenziamento, a volte soltanto
formale, dell’autonomia di spesa. All’interno di questa revisione della divisione dei compiti fra i
diversi livelli di governo un particolare ruolo vengono ad assumere le Regioni che potranno,
sempre di più, svolgere una funzione di stabilizzazione macro economica all’interno della propria
area, anche con effetti sul resto dell’economia nazionale. In questo quadro gli strumenti della
programmazione economica regionale - Piano regionale di sviluppo, Documento di
Programmazione Economica e Finanziaria Regionale - assumono sempre di più un ruolo di primo
piano nelle politiche economiche del nostro Paese e sempre meno potranno essere considerati
residuali rispetto alle misure di politica economica nazionale. Nonostante questo cambiamento di
scenario, stenta a decollare un sistema informativo sulle politiche economiche e di bilancio attuate
dalle amministrazioni regionali. La ricostruzione delle linee programmatiche perseguite dalle
regioni, oltre che l’analisi critica e il confronto degli stessi bilanci regionali, si scontra con la
mancanza di una base informativa omogenea. Per questo motivo l’IRES, in collaborazione con il
Dipartimento Politiche di Coesione della CGIL, ha predisposto un questionario di rilevazione dei
principali indicatori di bilancio delle regioni. Le informazioni riportate nel questionario sono state
elaborate al fine di ottenere indicazioni sulla “qualità” dei bilanci regionali, sempre tenendo
presente l’obiettivo finale del lavoro, che è quello di individuare gli spazi per il confronto negoziale
fra amministrazioni e parti sociali nelle politiche di spesa e fiscali delle Regioni.
1. Bilanci rigidi: il peso della spesa sanitaria.
La completa devoluzione alle regioni delle competenze in materia sanitaria rappresenta il
principale motivo di rigidità dei bilanci. La sanità assorbe quote delle spese correnti che superano
in molti casi il 70% con la punta dell’83% circa del Veneto (bilancio programmatico per il 2003).
Tenendo conto di altre spese non facilmente comprimibili, almeno nel breve periodo, quali le
spese per il personale e gli oneri finanziari per il servizio del debito, è stato calcolato un indice di
rigidità individuato nel rapporto fra le spese fisse e il totale delle spese correnti. Dall’esame di
questo indicatore emerge che le regioni del Centro-Nord hanno bilanci più rigidi rispetto alle
regioni meridionali. I maggiori spazi di manovra dei bilanci nelle regioni
del Mezzogiorno non derivano tanto da una minore spesa sanitaria pro capite, che non presenta
differenze consistenti fra le regioni, quanto dal fatto che, in diversi casi, spese che attengono al
campo degli investimenti sono contabilizzate fra le spese correnti. Per ciò che riguarda il peso
della spesa sanitaria sui bilanci regionali, si deve considerare che la forte rigidità che li caratterizza
dipende dalla mancata assegnazione al bilancio statale del finanziamento dei livelli essenziali di
assistenza. Quale sarebbe la situazione dei bilanci regionali, in termini di flessibilità della spesa, se
la copertura dei “LEA” fosse di competenza delle risorse erariali?
2. La sostenibilità dei bilanci
L’indice di sostenibilità dei bilanci, calcolato come rapporto fra le spese diverse da quelle fisse
(sanità, oneri finanziari e spese per il personale) e le entrate correnti, può essere considerato un
indicatore dell’autonomia di spesa delle regioni. Questo indicatore riguarda, infatti, il peso delle
spese correnti fisse rispetto alle entrate diverse da mutui e operazioni di finanza straordinaria
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(cartolarizzazioni, dismissioni ecc.). L’autonomia di spesa sarebbe maggiore per le regioni
meridionali rispetto a quelle del Nord. Anche questo indicatore può, verosimilmente, essere
influenzato dalla attribuzione alle spese correnti di poste di bilancio che attengono alla spesa in
conto capitale.
3. La dipendenza dai trasferimenti e dalla finanza straordinaria
Le entrate correnti, al netto di tributi propri e compartecipazioni, in rapporto alle spese correnti
forniscono un indicatore della dipendenza dei bilanci dai trasferimenti erariali. L’aspetto da mettere
in rilievo riguarda l’esistenza di una relazione positiva fra l’autonomia di spesa e l’indice di
dipendenza. Sarebbe quindi rilevante il ruolo delle risorse con funzioni di perequazione, che
possono essere considerate a tutti gli effetti risorse derivate, nel determinare i maggiori margini di
manovra riscontabili nei bilanci delle amministrazioni meridionali.
4. L’autonomia tributaria con e senza IRAP
L’autonomia tributaria, data dal rapporto fra tributi propri ed entrate correnti, ha raggiunto livelli
prossimi e superiori al 50% a partire dalle regioni settentrionali. Sulla base del bilancio
programmatico per il 2003, Il Veneto finanzia tramite tributi propri circa il 55% delle entrate correnti.
Per la Lombardia, la percentuale si attesta
intorno al 48% e al 47% per l’Emilia Romagna. Fra le regioni meridionali prese in considerazione
soltanto la Campania mostra un grado di autonomia relativamente elevato e prossimo al 30%.
Analizzando più in dettaglio questo indicatore emerge che, nella maggioranza dei casi, oltre i due
terzi dell’autonomia tributaria deriva dall’IRAP che, nelle regioni settentrionali arriva a coprire
percentuali prossime al 40% delle spese correnti. È importante mettere in evidenza che
l’autonomia tributaria calcolata al netto dell’IRAP è molto contenuta. La differenza fra l’autonomia
tributaria al lordo dell’IRAP e quella calcolata al netto di questa imposta, risulta particolarmente
elevata per le regioni settentrionali. Per esempio, l’autonomia tributaria del Piemonte passa dal
41,6% al 7% se calcolata al lordo o al netto dell’IRAP; quella del Veneto dal 55% al 16% e la
Lombardia passa da un’autonomia tributaria del 48% all’11% escludendo l’IRAP. Per le Regioni
del Mezzogiorno l’autonomia tributaria al netto dell’IRAP passa a percentuali bassissime
(Sardegna 1,5% Sicilia 2,5%, Calabria 4,9%) con la sola eccezione della Campania che, nel
bilancio programmatico per il 2003, mostra un forte peso dei tributi propri diversi dall’IRAP rispetto
al totale delle spese correnti.
5. L’utilizzo della capacità fiscale
L’utilizzo pieno della propria capacità fiscale da parte di ogni singola regione rappresenta un
elemento cruciale per la coesione nazionale all’interno di un sistema federale. In presenza di forti
divari fra le economie regionali, l’istituzione di fondi per la perequazione e la solidarietà incontrerà
il consenso delle regioni più ricche se le economie regionali in ritardo dimostreranno di compiere
uno “sforzo fiscale”, almeno pari a quello delle regioni più ricche. A partire da questa premessa è
importante rilevare come l’utilizzo della capacità fiscale, misurata come rapporto fra tributi propri e
prodotto interno lordo, non mostri rilevanti differenze fra le regioni prese in considerazione.
Un’eccezione importante è rappresentata dalle regioni autonome di Sicilia e Sardegna, per le quali
l’ampia compartecipazione ai tributi erariali, anche con quote del 100%, potrebbe avere l’effetto di
disincentivare il ricorso a tributi propri in senso stretto. L’analisi per regione dell’uso della capacità
fiscale mostra come, a eccezione di Umbria e Campania, nessuna regione raggiunga il 4% in
termini di rapporto fra tributi propri e PIL. E’ ancora scarso il peso dell’addizionale IRPEF sul
complesso dell’economia regionale che, al massimo, raggiunge, lo 0,5% del prodotto interno
regionale.
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La formazione del bilancio. Strumenti di valutazione di Roberto Romano Cgil 3 luglio ’03
Prima di avviarci alla discussione che interessa la formazione del Bilancio, occorre sottolineare le
caratteristiche macroeconomiche del bilancio.
Il bilancio, infatti, non è solo un documento contabile delle entrate e delle uscite della PA, ma un
potente e spesso efficace strumento di politica economica e distributiva del reddito prodotto
annualmente.
Nell’analizzare il bilancio pubblico, in tutte le sue declinazioni date dalla struttura della Repubblica,
non si deve valutare solo l’equilibrio di bilancio, ma anche l’impatto che lo stesso bilancio ha sui
processi di formazione e distribuzione del reddito, come l’impatto che il bilancio esercita sui
principali diritti sanciti nella Costituzione del dopoguerra e nella novella Costituzione.
Se negli ultimi 10 anni la necessità di agganciare l’Europa ha in qualche modo condizionato le
spese e le entrate della cosa pubblica, a livello europeo si ricorda Maastricht mentre a livello
nazionale si ricorda il Patto di stabilità interno, è comunque utile ricordare che nelle teorie liberali il
Bilancio è valutato in relazione alla sua influenza sull’economia e sulla società. Sostanzialmente il
bilancio viene visto non solo come strumento contabile, ma come strumento di stimolo e di rilancio
dell’economia, in funzione degli obiettivi di politica economica. Non a caso il bilancio regionale e
nazionale è diviso per spesa funzionale. Tale funzione è ancora più evidente se analizziamo gli
strumenti finanziari adottati dal governo nazionale. In particolare si evidenzia la Relazione
Previsionale e Programmatica come il DPEF che in qualche modo “misurano “ l’impatto economico
delle iniziative fiscali adottate dal Governo.
Ciò non può sorprendere. La spesa pubblica è una condizione fondamentale del reddito (C+I+G);
soprattutto è quella parte del reddito che i cittadini decidono di spendere collettivamente piuttosto
che privatamente.
Quindi la spesa pubblica può condizionare il reddito (la formazione e la distribuzione) in misura
significativa. La ragione storica dell’intervento pubblico era fino a non molto tempo addietro
consolidato, ma oggi queste ragioni sembrano deboli.
In realtà la spesa pubblica è in crescita perché sono aumentati i “fallimenti del mercato” e non per
una “devianza” dei soggetti preposti al governo della cosa pubblica. Vi sono sicuramente dei “limiti
della PA”, ma un conto è parlare di limiti, un altro è di “fallimenti” del mercato che spesso si
manifesta in forme e in modi che inibiscono persino l’azione pubblica.
Quindi, quando parliamo di bilancio pubblico, si tratta un aggregato economico che può (deve)
influenzare le scelte private e per questa via “programmare” lo sviluppo come lo stato sociale.
Questa sottolineatura è di un certo rilievo, soprattutto oggi che stiamo vivendo una fase di
transizione che inevitabilmente vedrà crescere i conflitti tra i diversi livelli istituzionali della
Repubblica. Penso agli Enti locali, alle Regioni, allo Stato, che in virtù della novella Costituzione,
invece dovrebbero rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e sociali che oggi sono
oggettivamente più frammentate.
Non si pensi che la “frantumazione” dei livelli istituzionali indebolisca l’azione macroeconomica
della spesa pubblica. Tutti gli studi disponibili, penso al CNEL e alla SVIMEZ, manifestano, in
realtà, un incremento della spesa pubblica in ragione del federalismo fiscale, cioè l’aggregato
economico (spesa pubblica) tende a rafforzarsi nella contabilità nazionale invece che a diminuire.
In questo senso, occorre adottare un nuovo strumento di programma della finanza pubblica
regionale capace di “valutare” l’impatto socio – economico delle misure fiscali intraprese.
Se il federalismo è l’asse su cui si muove la novella Costituzione, le regioni dovrebbero inglobare
anche lo strumento della Relazione Previsionale e Programmatica in ragione della maggiore
disponibilità di risorse finanziarie e di competenze attribuite attraverso l’art. 117 della Costituzione.
Sostanzialmente il federalismo non è solo una azione che interessa la contabilità pubblica, ma
anche la capacità di rimuovere i vincoli economici e sociali territoriali che condizionano il territorio
al fine di “implementare” anche a livello regionale l’art.3 della Costituzione.
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Assumendo il punto di vista liberale, si giustifica l’intervento distributivo e pubblico nei limiti in cui è
diretto a mettere tutti sulla stessa “linea di partenza”, rimuovendo gli ostacoli che impediscono il
libero sviluppo delle capacità individuali. Inoltre, allo scopo si utilizza la spesa pubblica per
l’erogazione di “beni di merito” quali l’istruzione e la sanità in ragione delle asimmetrie informative.
Sostanzialmente sono cambiate le forme e i modi della fiscalità pubblica, ma il federalismo non ha
e non può modificare i fini.
Nella lettura e nella interpretazione dei bilanci pubblici regionali questo orizzonte non solo non è
compromesso, ma in qualche misura è rafforzato dalla prossimità della cosa pubblica ai cittadini.
Esiste anche una lettura più critica di questi passaggi tipo quella fatta da Giarda, che devono
essere attentamente valutati, ma i rischi del federalismo come diversità della capacità reddituale
non devono condizionare l’azione complessiva della PA.
Sostanzialmente i bilanci pubblici regionali devono essere valutati per gli obiettivi intrinsici che il
soggetto collettivo deve assolvere:
� efficacia nella allocazione delle risorse, cioè ripartire quest’ultime fra privato e pubblico;
� lo sviluppo economico, cioè che il reddito cresca al pari della crescita demografica e con
l’innovazione tecnologica;
� stabilità del reddito al fine di armonizzare le fasi di recessione come quelle di espansione;
� la distribuzione del reddito per evitare che la ricchezza si concentri in gruppi ristretti.
Gli strumenti per perseguire i grandi obiettivi di cui sopra non sono tanto diversi da quelli nazionali.
In un certo senso il federalismo qualifica l’azione territoriale e da una nuova e più pregnante
consistenza al bilancio regionale, che ormai ha entrate proprie di un certo rilievo che sono
direttamente proporzionali alla capacità di produrre reddito.
Le principali arre di intervento sono:
� la creazione di infrastrutture ;
� l’istruzione e la formazione;
� parte della ricerca scientifica e tecnologica;
� potenziamento delle funzioni pubbliche essenziali (si pensi ai Lea);
� incentivi fiscali per favorire il risparmio o l’intraprendenza.
La novella Costituzione rafforza il ruolo delle regioni proprio sul terreno della programmazione
attraverso l’art. 117 e 119.
Il primo assegna in regime di concorrenza Stato-Regioni, materie di programmazione quali
infrastrutture, governo del territorio, energia, finanza pubblica; il secondo (art. 119) ha riscritto i
fondamenti del regime finanziario: regioni ed Enti locali avranno autonomia finanziaria e impositiva,
sono previste compartecipazioni al gettito dei tributi erariali ed è stato elevato al rango
costituzionale lo strumento tecnico del fondo perequativo.
Quindi le regioni hanno “intercettato” molte e significative competenze che una volta erano
attribuite allo Stato, ma ciò deve avvenire dentro la cornice costituzionale che si è arricchita dei
LEA.
I Lea non sono, secondo la Costituzione, disponibili solo sulla base delle risorse finanziarie ma
indisponibili, nel senso che sono livelli essenziali a cui tutti devono tendere indipendentemente
dalle risorse. Sostanzialmente le regioni, in realtà anche lo Stato, devono programmare le proprie
disponibilità economiche per raggiungere i Lea e solo in seconda battuta ampliare il “mercato”
legato al privato – pubblico. Ciò è ampliamente giustificato dalla tipologia dei beni di merito, ovvero
che è l’offerta a creare la domanda.
Inoltre i principi costituzionali sono affiancati da principi sanciti a livello europeo. Per esempio il
trattato di Maastricht afferma che l’UE si fonda su uno stato sociale elevato. Tale definizione non è
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ininfluente per la struttura dei bilanci regionali. Infatti, nel bilancio della Regione Lombardia si
legge, a una voce importante del proprio documento contabile, il seguente obiettivo: “welfare più
leggero e dinamico”. Evidentemente questa dizione è in netto contrasto con i principi costituzionali
e con le direttive della UE.
Per assolvere ai nuovi compiti costituzionali, alle regioni sono state assegnate entrate finanziarie
autonome di un certo rilievo. Infatti, le regioni sono oggi enti di governo e di legislazione in grado di
programmare e gestire politiche omogenee su un territorio abbastanza ampio e di coordinare le
diverse esigenze degli Enti locali.
Questa autonomia è molto recente ed è “operativa” solo con la riforma costituzionale del 2001.
Sostanzialmente la potestà impositiva si manifesta in due direzioni:
1. tributi autonomi che sottopongono a prelievo forme di ricchezza non assoggettata ad
imposte erariali (IRAP, tasse automobilistiche, benzina, altro);
2. addizionali a tributi erariali, costituite da una ulteriore e distinta aliquota applicata
direttamente dalla regione.
Inoltre su 2 modalità:
� compartecipazione a tributi erariali (accisa, IVA);
� trasferimenti.
Tra le entrate autonome ricordiamo l’IRAP che è il più importante a livello regionale, ed il terzo se
consideriamo il sistema fiscale nazionale, ma anche le compartecipazioni hanno un indiscutibile
rilievo, soprattutto la quota parte dell’IVA assegnata direttamente alle regioni, che tra l’altro deve
alimentare il fondo perequativo.
Su questo punto occorre sottolineare che una parte non trascurabile delle entrate delle regioni è
direttamente proporzionale alla crescita economica e non più alla “discrezione” della azione
pubblica esercitata dal Governo nazionale.
Da un lato questo modello ha “liberato” le regioni dai vincoli legati ai trasferimenti, ma allo stesso
tempo le ha responsabilizzate, non solo dal lato della programmazione, ma anche dal lato del
concorso a risanamento dei conti pubblici.
In questo senso dovrebbe esaltare la capacità di governo delle regioni, anche se il governo
Berlusconi ha indebolito questa azione.
Inoltre, venendo meno il vincolo di destinazione delle entrate delle regioni, si pensi all’IRAP che
era interamente destinata a finanziare la sanità, sono aumentati gli spazi finanziari delle regioni e
per questa via la necessità di governare la spesa.
Su questo punto occorre aprire una breve ma necessaria parentesi. Se le regioni hanno una
autonomia finanziaria, ma allo stesso tempo devono assolvere a importanti compiti istituzionali
sanciti dalla novella Costituzione, è possibile uno sfilacciamento delle politiche sociali?
Non è una domanda retorica se prendiamo in esame l’incidenza della spesa sanitaria sul bilancio
regionale. Infatti, il deficit sanitario della Lombardia e della regione Lazio rappresentano il 40% di
quello nazionale, ovvero queste due regioni non sono state capaci di programmare una voce
importante del bilancio. Tra l’altro proprio quelle voci di spesa in cui è l’offerta a determinare la
domanda.
Quindi la programmazione economica e finanziaria del bilancio regionale è una componente
essenziale del bilancio pubblico complessivo ed è assoggettato agli stessi vincoli di bilancio
nazionale, tanto da assumere la stessa struttura contabile e quindi lo stesso percorso di
formazione delle politiche fiscali.
Un percorso che è allo stesso tempo più agevole, ma anche meno leggibile se assumiamo
appieno la novella Costituzione.
Il bilancio della regione è più semplice perché determinato nelle voci di spesa dal piano regionale
di sviluppo. Infatti, PRS di legislatura individua le aree di intervento e gli obiettivi che puntualmente
sono indicati nel bilancio di previsione e nel DPEFR.
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Allo stesso tempo è molto debole perché ad oggi il bilancio è ancora solo uno strumento contabile
che evita di indagare l’impatto delle misure economiche adottate, come avviene per il bilancio
nazionale, e per questa via eludere una parte non marginale del federalismo fiscale.
Nella formazione del bilancio regionale vi sono anche delle implicazioni importanti date dalle
politiche governative.
La Corte dei conti nella sua relazione di valutazione dei conti pubblici afferma che una parte
rilevante della manovra fiscale adottata dal Min. Tremonti è in realtà uno slittamento dei
trasferimenti a regioni ed Enti locali di un anno. Se i conti dello Stato sono in equilibrio è un
dibattito ancora aperto, ma che le regioni e gli Enti locali sono stati costretti ad indebitarsi per far
fronte ai propri fabbisogni finanziari è un fatto che con la prossima finanziaria nazionale deve
essere affrontato.
Comunque il PRS rimane la base di partenza della politica economica della regione, mentre il
DPEFR è uno strumento finanziario relativamente giovane ma necessario per scadenzare le
politiche di bilancio e per adeguare gli obiettivi dello stesso PRS alle esigenze congiunturali che si
manifestano sul territorio.
Il DPEFR è spesso sottovalutato, ma in realtà meriterebbe maggiore attenzione. Infatti, questo
documento finanziario informa le politiche di bilancio e raccorda tutte le politiche finanziarie legate
ai trasferimenti dal centro alla periferia e gli impegni che devono essere prioritariamente intrapresi.
E’ su questo oggetto che l’attenzione delle parti sociali dovrebbe “cadere”, in quanto tutti i
provvedimenti ordinamentali come quelli legati alla finanziaria sono indicati proprio nel DPEFR.
Le successive azioni sono solo di implementazione dei provvedimenti immaginati e con difficoltà
possono essere condizionati se non nella misura di mera attuazione tecnica, che comunque non è
irrilevante ai fini della sostenibilità finanziaria.
Tutti i provvedimenti finanziari sono la logica conseguenza delle politiche adottate, ma quest’ultime
devono essere attentamente valutate con una analisi costi – benefici.
Apparentemente questa tecnica è semplice, ma in realtà presuppone una attenta
programmazione. Da un lato occorre identificare gli aspetti positivi, cioè i benefici, dall’altro
tutti gli aspetti negativi, cioè i costi, di ciascun progetto esprimendoli in termini quantitativi
e confrontandoli tra loro.
Ad esempio, nel progetto di spesa per la costruzione di una autostrada potremmo avere, fra i costi,
la perdita di produzione agricola nei terreni occupati, inquinamento e rumore dovuto al traffico
veloce, la depauperizzazione dell’area, mentre tra i benefici la riduzione del tempo di percorrenza,
lo sviluppo industriale nelle zone circostanti.
Altri esempi possibili sono legati allo stato sociale ed in particolare la sanità. Su questo oggetto è
bene ricordare che tutte le regioni che hanno allargato al “privato – pubblico” le prestazioni
sanitarie hanno visto crescere il deficit finanziario strutturale in ragione delle note asimmetrie
informative (teoria del benessere).
Ad oggi questa metodologia a livello regionale è applicata sommariamente. Infatti, l’assenza di una
RPP condiziona la valutazione di efficacia della spesa come della rimodulazione delle entrate.
Altrimenti non si spiegherebbe come una regione importante come la Lombardia abbia scelto un
certo modello sanitario che produce sistematicamente un onere per i cittadini.
La CGIL Lombardia ha analizzato il bilancio della Giunta Regionale adottando il metodo che
abbiamo appena illustrato; sostanzialmente si valuta il bilancio in ragione della sua capacità
funzionale e di stabilizzazione dei processi economici, nonché quello di soddisfare i vincoli imposti
dalla Costituzione relativi all’art.3 e 53, come ai vincoli economici imposti con il patto di stabilità
interno.
Come abbiamo già ricordato, la spesa pubblica è quella parte del reddito aggregato che i cittadini
decidono di spendere collettivamente per soddisfare i fabbisogni che difficilmente possono essere
soddisfatti dal mercato.
La regione Lombardia si è impegnata ad assolvere il suo compito istituzionale, cioè a governare la
spesa e le entrate per intercettare i bisogni dei cittadini?
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Non stiamo parlando delle forme e dei modi di gestire la finanza pubblica, ma della realizzazione
della intermediazione e governo tipica delle teorie economiche liberali.
Dopo quasi 8 anni la giunta Formigoni la regione è passata da promotore dello sviluppo sociale ed
economico a “snodo” dei fabbisogni.
Le implicazioni economiche e finanziarie sono evidenti. Il pubblico rinuncia alla sua funzione
storica attraverso un allargamento delle sue competenze con il pubblico – privato, fino a realizzare
o avvicinarsi ad un modello sociale di privato – pubblico.
Non stiamo parlando di privatizzazione ma della creazione di un modello sociale che vede nella
pubblico – pubblico un vincolo e nel privato – pubblico un’opportunità.
Sostanzialmente la PA Regionale si affranca dai suoi compiti istituzionali dati dalla novella
Costituzione.
La più evidente e palese manifestazione di questo modello è data dalla impostazione dello stato
sociale, ma anche dal modello di sviluppo adottato che modifica nei fatti anche l’art. 53 della
Costituzione introducendo i voucher e buoni. Cioè le entrate sono pre indirizzate tra il privato
cittadino e il privato offritore di beni di servizi, senza nessuna intermediazione del soggetto
pubblico. Sostanzialmente la Giunta sta attuando una politica fiscale che per un verso fa
aumentare la spesa e allo stesso tempo rimodula le entrate attraverso il superamento
(svuotamento) della PA come interlocutore privilegiato dei cittadini.
I buoni, i voucher e i tickets, come le altre misure adottate (si pensi all’IRAP), in realtà non è
l’implementazione della libera scelta dei cittadini, piuttosto l’arretramento della PA regionale dalla
possibilità di incidere sull’economia come sullo stato sociale, cioè diventare solo uno “snodo” dei
bisogni e non più luogo dove si offrono beni e servizi per dare risposte a quei bisogni.
Per queste ragioni la segreteria della CGIL Lombardia ha avviato una serrata discussione proprio
per trovare le forme e modi per arrestare la politica di Formigoni di svuotamento della PA.
Spesa sanitaria e sistema di finanziamento delle regioni: considerazioni generali sui
rapporti tra Stato e regioni ed analisi della Relazione della Corte dei Conti sulla gestione
finanziaria delle regioni per gli anni 2001 e 2002.
di Roberto Polillo
Responsabile delle Politiche della salute
Dipartimento del Welfare, CGIL Nazionale
Le trasformazioni del Servizio sanitario Nazionale dalla sua costituzione
Singolare appare la storia del nostro Servizio Sanitario Nazionale; la sua istituzione avveniva 25
anni fa con la legge 833/1978 sulle ceneri del precedente sistema mutualistico che aveva prodotto
disavanzi da parte delle mutue nei confronti degli ospedali ( pari a 4 mila miliardi ripianati dal
governo aveva sotto forma di prestiti obbligazionari ) (1)senza riuscire a garantire universalità di
accesso e trattamento a tutti i cittadini. Con la legge di Riforma Sanitaria istitutiva del Servizio
sanitario veniva colmato così un vuoto legislativo che datava addirittura al secolo precedente, se si
considera che la legge Crispi sulle “istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza IPAB”( legge n
° 6972), il primo e tanto avversato tentativo legislativo di riordino complessivo dell’assistenza era
del 17 luglio 1890 (2,3). Dalla sua nascita il SSN ha vissuto un periodo di stabilità legislativa per
circa 15 anni dopodiché è stato sottoposto nell’arco degli ultimi 10 anni a una serie di controriforme
e riforme ( in larga parte incompiute) la cui cifra finale è ora una tendenza ad un mix di
decentralizzazione e frammentazione. Il D. Lgs. 502 del 1992( la controriforma) il D.Lgs 517 del
1993, il D.Lgs. 229 del 1999 ( il rilancio dei contenuti della L. 833) e la legge di riforma
Costituzionale del Titolo V del 2001 sono i titoli di trasformazioni ancora incompiute e tuttora in
divenire se a questo si aggiunge la proposta di riforma Costituzionale La Loggia/Bossi i cui esiti
sulla tenuta dell’intero sistema in termini di universalità ed uniformità destano peraltro allarme e
preoccupazione crescenti.
L’attività legislativa succedutasi con progressiva accelerazione sembra dunque più obbedire ad
opzioni di tipo ideologico che alla necessità di adeguare la più importante componente del welfare
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state alle mutate condizioni della società; di fatto a questa continua instabilità e “cedevolezza
legislativa” del sistema ha corrisposto una minore convinzione, stante il quadro generale di
progressivo declino del paese, a considerare il Servizio sanitario una risorsa per il quale rendere
disponibile un livello di finanziamenti realmente sufficienti; a questo disimpegno dello Stato, in una
condizione peraltro resa oggettivamente difficile dal continuo lievitare dei costi dell’assistenza, si è
poi specularmente accompagnata un’ insufficiente responsabilizzazione da parte di molte delle
regioni ad un uso corretto delle risorse e ad una gestione orientata ai principi della appropriatezza .
In risposta a tale situazione, l’attuale governo, invece di elaborare strategie capaci di indurre le
regioni inadempienti ad una corretta gestione delle risorse, ha colpevolmente utilizzato la leva della
contrazione del finanziamento indifferentemente per l’insieme delle regioni, ivi comprese quelle
storicamente in regola dal punto di vista della buona amministrazione; la scelta adottata, in totale
contrasto con gli impegni sottoscritti, è stata infatti quella di non erogare le risorse dovute ma di
consentire solo anticipazioni di cassa sul fondo sanitario parametrato al 2001( estremamente
sottodimensionato), dando così luogo ad una crisi di liquidità a cui le regioni hanno dovuto fare
fronte, per potere continuare ad erogare le prestazioni e pagare i fornitori, ricorrendo ad ulteriori
pesanti indebitamenti.Dal convergere di questi fattori si è dunque pervenuti alla attuale condizione
caratterizzata da un sostanziale non governo del sistema, al limite del collasso come è stato
denunciato con forza da parte dell’Assessore della sanità dell’Emilia Romagna (4) .
Il Finanziamento del SSN
In premessa ad una analisi sul finanziamento del SSN, è opportuno ricordare come la sanità del
nostro paese sia stata nel corso di tutti gli anni ’90 cronicamente sottofinanziata, fatto qiesto più
volte segnalato da numerosi ed autorevoli istituti di ricerca tra cui il Fondo monetario Internazionale
in un report del 2000 dedicato all’Italia (5). Il livello del finanziamento ha mostrato infatti a partire
dal 1992 un andamento progressivamente decrescente fino al 1997( anche rispetto ad altri paesi e
media europea) per presentare una inversione di tendenza solo a partire dall’anno successivo .
A dimostrazione di quanto pesante fosse poi questa condizione di cronica insufficienza dei
finanziamenti ( che il FMI ritiene incompatibile con un paese fortemente industrializzato come il
nostro) basta considerare i due principali effetti che da questo determinati: lo sviluppo veramente
importante della spesa privata a diretto carico del cittadino, divenuta col tempo la più alta in
Europa, ed il progressivo maturare, al fine di garantire i livelli di assistenza, di un crescente
disavanzo da parte delle regioni (solo recentemente esattamente quantificato).
L’andamento della spesa privata
La spesa privata del nostro paese alla fine degli anni ’90 ha raggiunto il 30% della spesa sanitaria
totale, a fronte di una media del 25% circa degli altri paesi europei (6). Mentre infatti negli altri
paesi dell’Ocse la crescita della spesa privata si è svolto in modo parallelo rispetto a quella
pubblica, nel nostro paese l’andamento è stato a forbice; da questo ne è derivato che la
percentuale della quota pubblica sulla spesa totale è progressivamente diminuita fino agli anni ’95
per mostrare solo da allora una ripresa . Dirindin(7) osserva come lo sviluppo della spesa privata
sia stato possibile anche grazie alle agevolazioni fiscali presente nel nostro paese: “le agevolazioni
fiscali costituiscono infatti un vero e proprio sussidio al mercato privato delle coperture
assicurative”; ma nono solo “esse generano una spesa pubblica nascosta, ovvero una spesa
connessa al mancato gettito fiscale correlato ai trattamenti agevolati; la rinuncia al gettito
corrisponde di fatto ad una spesa mediante imposta perché la pubblica amministrazione spende
attraverso una rinuncia d una parte delle entrate per agevolare fiscalmente il mercato privato delle
prestazioni o delle coperture assicurative.Tali agevolazioni in presenza di una protezione
universale qual è quella italiana produce un eccesso di coperture assicurative.”
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La composizione della spesa privata mostra tuttavia profonde differenze rispetto agli altri paesi per
quanto attiene le diverse quote di cui essa risulta costituita: assicurazioni private e finanziamento
out of pocket
Nel nostro paese infatti la quota dei premi assicurativi rispetto alla spesa privata totale non
sarebbe superiore all’ordine del 4,1% nel 1977 a fronte di un 12,5% della Francia (2000), del
17,7% dell’Olanda (1998) e di un 12,5% della Germania. In Italia dunque i premi assicurativi
rappresentano appena uno 0,9% della spesa sanitaria complessiva, la percentuale più contenuta
insieme alla Grecia tra tutti i paesi europei.
Il cumulo dei disavanzi
Il finanziamento pubblico per la sanità, contraddistintosi come detto per una storica sottostima del
fabbisogno effettivo sia in riferimento agli anni precedenti al ‘95 (le cosiddette gestioni liquidatorie)
che al periodo ‘95-‘99 e seguenti, ha portato ad una condizione in cui era di fatto impossibile
procedere ad una corretta programmazione ( 8); questo ha fatto si che ai fini del mantenimento dei
livelli di prestazioni erogate si andasse a costituire un progressivo disavanzo nelle gestioni
finanziarie.
L’importo complessivo di tale indebitamento, suddiviso nelle diverse quote di spettanza tra Stato e
regioni, solo recentemente è stato certificato dalla Corte dei Conti che, nella relazione dell’anno
2002, lo ha contabilizzato in un importo di oltre 60.000 miliardi. La Tabella evidenzia la ripartizione
di detto disavanzo nei vari periodi di gestione ed il ripiano e debito residuo posto a carico delle
regioni.
Tabella Disavanzi 1994/2001
Disavanzi al3/712/ 94
Disavanzi1995/97
Disavanzi1998/99
Disavanzi
2000/01
Totale Disavanzi
-4.523
-15.758
-17.642
-22.247
-60.170
Fonte: Corte dei conti, 2002
La copertura del fabbisogno regionale ( RSS+RSO) per il 2002 e spesa sanitaria nel triennio 19992002
Nel 2002 la copertura del fabbisogno regionale [RSS+RSO], parametro strettamente legato a
quello del settore statale mostra una consistente flessione rispetto all’anno precedente di 4.375
milioni di euro [8.471 miliardi di lire], percentualmente pari a -4,5%. Risultato, questo, decisamente
opposto a quello del 2001 che aveva fatto invece registrare una crescita del 19% rispetto all’anno
precedente
L’indicata flessione è sostanzialmente ascrivibile al comparto delle Regioni a statuto ordinario
[RSO] il cui fabbisogno 2002 segna la consistente diminuzione di 4.211 milioni di euro, pari a –
5,4% sull’anno 2001 di cui capovolge il risultato [il 2001 aveva segnato una crescita del 20,9%
rispetto all’anno 2000: +13.592 mln-euro in v.a.].
Si tratta di una controtendenza (in realtà solo apparente) a confronto con gli andamenti registrati
negli anni precedenti ove l’impatto sul fabbisogno del settore è sempre stato positivo e per valori in
costante crescita [+ 10,3% nel 2000, + 2,9% nel ‘99; +6,6% nel ’98; +6,8% nel ’97].
L’esito 2002 tuttavia, attribuibile soprattutto alla gestione della sanità, non deve trarre inganno ;
esso dipende infatti, come denunciato dai Presidenti delle regioni (9) dalle modalità con cui, a
seguito dell’accordo del 8 agosto e della legge 63, è stato illegittimamente effettuato il
finanziamento o meglio il sottofinanziamento delle regioni ( pari a circa 14.000 milioni di € ).
Quello che si profila è dunque un altro risultato della cosiddetta finanza creativa del Ministro
Tremonti capace soltanto di nascondere il vero quadro del paese e di scaricare gli esiti di una
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politica sbagliata sulle regioni; le conseguenze su queste ultime non saranno limitate al 2002 ma si
riverseranno anche negli anni a venire con intensità purtroppo progressivamente crescente.
E’ dunque ora opportuno analizzare in dettaglio quanto avvenuto nel corso dell’anno; Con
l’accordo Governo-Regioni dell’8 agosto 2001, recepito con la legge 405/2001 di conversione del
d.l. 347/2001, il finanziamento dell’assistenza sanitaria è stato integrato di un importo pari a
3.412,75 milioni di euro, la cui assegnazione alle Regioni( da realizzarsi in tre trenches nel 2001,
2002 e 2003) è stata peraltro condizionata all’adempimento di numerosi impegni, primo fra tutti il
ripiano
delle quote di deficit rimaste a carico dei bilanci regionali. La dimostrazione di avvenuto
assolvimento a tale ultimo onere ha richiesto inevitabilmente verifiche complesse, impegnando
tutto l’anno 2002; tant’è che le prime erogazioni alle Regioni adempienti sono avvenute nel
febbraio 2003
Tale meccanismo ha comportato la mancata definizione delle nuove aliquote IVA funzionali alla
copertura del maggiorato finanziamento 2002 e la stessa impossibilità di ripartizione delle quote di
copertura del fabbisogno per la sanità, avvenuta solo a fine gennaio 2003.
Due le conseguenze influenti sull’andamento dei conti pubblici dell’anno.
1. La prima, è quella di una sottodotazione finanziaria per sanità 2001 pari alla
integrazione non corrisposta [3.412 mln € pari a 6.800 mld lire]. Inoltre, il regime di
transitorietà ha comportato per l’anno 2002 il ricorso ad anticipazioni
provvisoriamente misurate sull’importo corrispondente al finanziamento 2001,
neppure incrementato del 3,5%, cioè inferiore a quanto stabilito con il precedente e
ormai superato accordo del 3 agosto 2000, con temporanea decurtazione di circa
4.590 miliardi di lire [€ 2.370 mln – (I costi di tali anticipazioni sono stati quantificati da
M. Massaro sul Sole 24 ore del giorno 30 giugno in 685 mila € giornalieri) (30). Tale
meccanismo ha poi continuato ad operare anche per il 2003 (31).
2. Anche i ripiani degli anni precedenti, 94-99 e 2000, hanno risentito di slittamenti a
causa dei tempi necessari a dare dimostrazione dei riequilibri operati dalle Regioni.
Così per il 1994-1999 con minore assegnazione alle Regioni di 1.420 milioni di euro
[2.750 mld lire] sui 3.099 milioni di euro dovuti nel 2002 Così pure per il 2000, con
acconto erogato nel 2002 di 697 milioni di euro e residuo rimasto da versare di pari
importo.
Le anticipazioni dunque, a motivo della speciale disciplina che ne regola la gestione, tendono a
non avere fisiologico esito nell’anno di riferimento e da questo deriva il sollievo del bilancio statale
(per quanto non trasferito ai conti ordinari regionali e in tale misura trattenuto dalle Regioni in conto
anticipazione).
Va solo notato che per le Regioni l’indicata movimentazione viene a realizzarsi, da un punto di
vista contabile e per l’attuale sistema di contabilizzazione, fuori dalla c.d. parte effettiva del
bilancio, entro la quale si ritagliano entrate e spese finali.
Del che va tenuto conto qualora si voglia individuare il contributo del comparto all’indebitamento
netto dell’anno.
A tener conto dunque degli indicati slittamenti di cassa, complessivamente pari a circa 7.900
milioni di euro, cui va aggiunto l’ammontare del fondo perequativo 2002 ( circa 6.200 milioni di
euro) previsto dalla legge 56 non corrisposto nell’anno a causa della mancata ripartizione del
fabbisogno, l’impatto sul fabbisogno del settore statale per il 2002 sarebbe stato ben maggiore
[+14.099 mln €], e l’incremento rispetto al 2001 anziché in flessione sarebbe stato di + 9.888
milioni di euro, percentualmente pari a + 12,6%.
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Minori finanziamenti per l’anno 2002 in milioni di €
Accordo
regioni
Stato
Importo
Accordo 3 agosto
-2.370*
Accordo 8 agosto
-3.412*
Ripiani 95-99
-1420
Ripiani 2000
-697
Fondo
perequativo
-6.200
TOTALE
14.099
Variazione anno
precedente
+9.888
(+12,6%)
*Penalizzazioni determinate da applicazione legge 63
A ulteriore dimostrazione di tale ipotesi sussistono i dati di quelle regioni che , essendo state
meno inadempienti al patto di stabilità hanno subito una minore decurtazione; ebbene la spesa
registrata in alcune di queste regioni tra cui Emilia Romagna, Lombardia ed Umbria ha
registrato un incremento rispettivamente pari a +6,6%; + 6,7 e + 6,8% mostrando dunque un
andamento percentualmente coerente con gli anni precedenti.
La stessa modalità di finanziamento, determinata dagli effetti perversi del regime sansonatorio
previsti dall’articolo 4 della legge avrà effetto anche per le successive annualità, così da rendere
possibile una sottodotazione che la Corte dei Conti stima pari per i quattro anni indicati a lire
42.529 ( vedi oltre).
Finanziame
ntoSSN
Accordo
agosto
2001
8 138.000
Penalizzazi
6.857
oni articolo miliardi
4 legge 63
2002
2003
2004
146.376
152.122
157.810
10.643
miliardi
11.707
miliardi
13.322
miliardi
Aldilà di queste considerazioni sull’anno 2002 che, a fronte di una valore atteso non inferiore del
6/7 % rendono poco credibile il dato riportato di un incremento della spesa al 3,7%, nel triennio
2000-2002 la spesa sanitaria di parte corrente, ( differenza tra finanziamento e spesa) ha
mostrato, , una crescita pari al + 7,9%, nonostante le numerose integrazioni ricevute che saranno
di seguito illustrate. L’incremento registrato si compone per ciascuno degli anni considerati nelle
misure di +11,2; + 8,2 e + 3,7%. Tra questi l’anno che ha maggiormente pesato per la crescita
dell’intero triennio è stato il 2000 e le regioni che hanno maggiormente contribuito a tale risultato in
quello stesso periodo sono state:
Basilicata con +19%; Calabria con +14,7%; Sardegna con + 14% e Lazio e Campania con oltre il
13,6%.
Nel 2001 la maggiore crescita è stata a carico della Sicilia +16,4%; del Molise + 17%; della
Campania + 10,9% della Lombardia + 9,9% ed infine della Toscana +9,8%.
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A fronte dunque di un PIL nominale la cui evoluzione negli ultimi quattro anni considerati è stata
del 4,3%, lo scarto registrato smentisce la tenuta dei fabbisogni e rende assolutamente inadeguata
l’ipotesi che un finanziamento pari al 6% del PIL come
limite massimo previsto dall’accordo del giorno 8 agosto 2001 possa essere sufficiente anche per
il futuro. Aldilà dunque di una maggiore attenzione da parte delle regioni nel combattere sprechi e
diseconomie tuttora presenti è assolutamente indispensabile, per la stessa sopravvivenza del
sistema, provvedere in tempi rapidi ad una ridefinizione delle disponibilità economiche allineandole
quanto più possibile alla media europea .
Il quadro complessivo delle risorse a disposizione delle regioni i ritardi del Governo centrale e le
richieste delle regioni
Il quadro complessivo delle risorse di competenza dello stato ai fini del finanziamento dei livelli di
assistenza è sinteticamente riportato nella tabella seguente; esso ricomprende anche ripiani e
somme di riequilibrio previste nell’accordo del giorno 3 agosto 2002 e 8 agosto 2001 ed in
riferimento alle annualità 2001( per 6.608 milardi) 2002, 2003 e 2004 le penalità già evidenziate e
dipendenti dall’articolo 4 della legge 63. Nella tabella vengono inoltre indicati i crediti vantati dalle
regioni e richiesti al governo nella seduta della Conferenza Stato regioni del 18 e 19 giugno nei
confronti dello Stato che ammontano al giugno 2003 a 9,8 miliardi di € (Tabella3)
Quadro complessivo delle risorse di competenza dello stato comprensive di ripiani o
somme di riequilibrio previste nell’accordo del giorno 8 agosto 2001 e dei crediti maturati da
parte delle regioni
Anno
(accordo3
agosto2000)
Finanziamento
Totale (accordo
8 agosto 2001)
2000
(118.000)
miliardi
124.000 +2.700
2001
(131.143)
miliardi
138.000 +
Di cui per ripiani*
riequilibrio**
penalizzazioni art. 4 legge 63***
2.700 miliardi* poiché le somme sono state
integrate adesercizio chiuso si configurano
come
disavanzo
e pertantonon sono
ricomprese nella tabella allegata dalla Corte
deiConti. Nel corso del 2002 è stato erogato
alle regioni solola metà di detta somma; la
rimanente pari a 1.350 miliardiè stata erogata
nei primi mesi del 2003 solo a favore
delleregioni che hanno assunto provvedimenti
a copertura dellaquota di disavanzo a loro
carico; mancano ancora 6 regioniper un
importo di 305 miliardi pari a 157 milioni di €
7.157 miliardi* pari a 3.696 milioni di € di cui posto
acarico dello Stato per 6.608 miliardi ( la cui
utilizzazione è
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397
per il Policlinico Umberto 1°
stata definita con la legge 63 convertita in legge 112
cheha iscritto nella tabella B della legge 448/2001
( finanziaria2002).
L’erogazione di tali somme è stato subordinato al
rispettodegli obblighi previsti dalla legge 405/2001; la
commissioneall’uopo costituita ha verificato che le
regioni che hannopotuto accedere alle risorse erogate in
data 10 febbraio2003 sono:
Piemonte ( 296 mil €); Lombardia ( 593); Veneto
( 293);Emilia Romagna (279); Toscana ( 248); Umbria
(57); Marche( 99); Lazio ( 332); Puglia (236) Basilicata
(38); Le regioninon ammesse sono state Abruzzo,
Molise, Campania,Calabria; Sicilia, Sardegna. Di fatto il
ritardo nellacorresponsione di tale cifre ha comportato
unasottodotazione di pari importo (6.608 miliar.)e il
ricorsoonero ad anticipazione a carico delle regioni con
conseguenzesugli anni a venire.
2002
(135.733)
2.000 miliardi**
La ripartizione del finanziamento è avvenuta solo a
partiredal 2003; La copertura del fabbisogno si è avvalsa
delsistema di anticipazione di cassa commisurata
alfinanziamento previsto per il 2001 dal 3 agosto e pari
a131.143 mil neppure incrementato del 3,5% (Fin.
2001),con temporanea decurtazione di altri 4.590 miliardi
di lire €2.370 mln –. Il riparto è invece avvenuto a
gennaio 2003 adesclusione di 1,380 mil. ripartiti a
maggio c.a. Il credito èpari ai 2,3 miliardi di € (di
mancato %) + 5,5miliardi comedifferenziale tra 3 ed 8
agosto per un totale di 7,8 miliardidi €
miliardi
146.376
(-10.643)***
2003
(140.415)
miliardi
152.122
(-11.707)***
2.000 miliardi**
La copertura del fabbisogno si è avvalsa anche inquesto
caso del sistema di anticipazione di cassacommisurata
al finanziamento previsto dal 3 agosto e pari a131.143
mil neppure incrementato del 3,5%, cioè inferiorea
quanto stabilito con il precedente e ormai
superatoaccordo del 3 agosto 2000. Il credito è pari a 2,0
miliardidi € per un totale di 9.8 per il biennio 2002/2003
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2004
(144.488)
miliardi
1.500 miliardi**
157.371
(13.322)***
La spesa di parte corrente ed il finanziamento nel triennio 1999-2002; il livello dei
disavanzi accumulato a carico delle regioni.
Nonostante le consistenti integrazioni ai fondi sanitari previste dai provvedimenti ed
accordi illustrati ( 4.900 miliardi per il ’99 ; 6.670 + 2700 per il 2000; 6.608 per il 2001) il
quadriennio 1999-2002 ha prodotto un disavanzo pari a circa 33.660 miliardi di lire
come può essere visto nella successiva tabella 5 illustrante il livello di finanziamento e
la spesa effettivamente sostenuta; per il 2002 valgono le considerazioni
precedentemente espresse che causa lo slittamento del finanziamento porterebbero il
debito di circa ad un valore doppio di circa il 7 % (conseguentemente il fabbisogno del
settore statale aumenterebbe di circa 14.000 milioni di €.
Dal punto di vista della composizione interna della spesa corrente ciascuna delle singole voci
( Personale, beni e servizi, medicina di base, farmaceutica, ospedaliera convenzionata,
specialistica interna ed esterna,) ha mostrato nel triennio un costante trend di crescita come si
evince dalla successiva tabella 6.
Tabella 6: Costo dell’assistenza sanitaria anni 2000-2002 ( migliaia di € )
A
y
A
x
y
A
x
y
CLASSIFICAZIONE
ECONOMICA
2000
%
2001
%
%
2002
%
%
PERSONALE
25.618.566
36,77
26.823.877
4,70
35,44
27.528.519
2,63
35,08
BENI E SERVIZI
15.826.631
22,72
15.989.295
1,03
21,12
17.288.403
8,12
22,03
MEDICINA DI BASE
4.167.461
5,98
4.506.715
8,14
5,95
4.615.083
2,40
5,88
FARMACEUTICA
8.747.746
12,56
11.663.066
33,33
15,41
11.869.308
1,77
15,12
OSPEDALIERA
CONVENZIONATA
8.019.070
11,51
7.918.505
-1,25
10,46
7.948.224
0,38
10,13
SPECIALISTICA INTERNA
453.052
0,65
377.644
-16,64
0,50
317.316
-15,97
0,40
SPECIALISTICA
ESTERNA
1.819.819
2,61
2.105.245
15,68
2,78
2.318.968
10,15
2,95
ALTRE PRESTAZIONI
4.432.825
6,36
6.084.044
37,25
8,04
6.562.474
7,86
8,36
ONERI FINANZIARI
194.381
0,28
258.782
33,13
0,34
177.260
-31,50
0,23
Differenza SALDO VOCI
ECONOMICHE e SALDO
INTRAMOENIA
383.926
0,55
-29.367
-107,65
-0,04
-146.607
399,2
2
-0,19
69.663.478
100,0
75.697.804
8,7
78.478.948
3,7
100,00
TOTALE
100,00
A Valore assoluto; x scostamento rispetto anno precedente; y percentuale rispetto al totale
esercizio
• La spesa per il personale continua a rappresentare la voce di maggiore peso essendo pari
nel 2002 al 35,1%; dopo un crescita sostenuta nel 2000 pari al + 7,6 rispetto l’anno
precedente, la spesa ha mostrato un trend calante del + 4,7% nel 2001 e +2,6% nel 2002.
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Da dire tuttavia che tale risultato riflette lo slittamento al 2003 degli aumenti relativi al
secondo biennio economico del contratto del comparto sanitario. Il costo è risultato
proporzionalmente più elevato nelle regioni ove la componente legata a ricoveri
convenzionati equiparati pubblici è meno estesa o inesistente e minore nelle realtà dove
sono presenti IRCCS, Policlinici Universitari, Ospedali classificati ed equiparati il cui costo
del personale è incluso in altra voce economica; conseguentemente la spesa è più alta in
Umbria ( 47%), Toscana( 40,1%), Emilia Romagna( 37%), Veneto(35,6%) e più bassa dove
è forte la presenza di tali strutture: Lazio (29%), Puglia (32,9%), Lombardia (30,3%) e
Campania (33%). Va inoltre considerato il peso dell’offerta privata presente nella regione il
cui effetto è quello di prosciugare ulteriormente il peso percentuale del costo del personale
sanitario pubblico.Il personale sanitario è responsabile del 79% del totale della spesa
sostenuta con percentuali diverse tra le singole regioni; questa risulta superiore alla media
in tutto il nord con l’eccezione del Piemonte al 76,8% e minore in tutto il sud con
l’eccezione di Puglia al 80%.
• La spesa per beni e servizi ha fatto registrare tra il 1999 e il 2002 un andamento in crescita
passando da 26.306 miliardi di lire [€ 13.586 mln] a 33.474 miliardi [€ 17.288 mln per
attestarsi in questo ultimo anno ad una percentuale del 22%. Le misure di contenimento,
reiteratamente riprodotte con le annuali manovre a partire dal 19941, hanno mancato,
secondo la Corte dei Conti, l’obiettivo della prevista riduzione. A partire dal 1999 il
necessario contenimento è stato dapprima incluso nelle regole del Patto di stabilità interno
[art. 28, legge 448/’98], mentre per gli anni seguenti è soprattutto al sistema della
centralizzazione degli acquisti che viene affidato l’obiettivo di risparmio. Malgrado le regole
e i vincoli introdotti in questi anni sugli acquisti, e le numerose iniziative regionali, la spesa
relativa ha continuato a lievitare. L’esito dell’anno 1999 conferma l’andamento in crescita,
già riscontrato nel ’98, con una spesa di 26.306 miliardi [€ 13.586 mln], superiore sull’anno
precedente del 7,4%. Quanto al 2000, la crescita è ancora maggiore, con incremento
percentuale del 16,5%. Ad un consistente rallentamento nel 2001 [+1,0%] - quale effetto
del moltiplicarsi di adesioni alla Consip. e dei progetti sulle centrali di acquisto regionali o
sovraregionali - è seguita nel 2002 la corsa al rialzo con incremento del 8,1%. Con
riferimento al 2002, una percentuale di crescita sopra media si riscontra nel Lazio [17,8%],
nella Provincia di Bolzano [17,0%], in Umbria [14,8%], Emilia Romagna [12,8%], Abruzzo
[11,0%], Toscana [10,0%], Calabria [9,5%], Campania [9,0%]. Sotto media: Molise [1,5%],
Puglia [2,1%], Liguria [2,6%], Sicilia [2,9%], Basilicata [3,5%], Marche [3,8%], Trento
[5,6%], Lombardia [6,8%]. Elevata l’incidenza di tale aggregato di spesa sul totale
complessivo di cui assorbe, nel 2002, il 22%. A prevalere sono gli acquisti delle Regioni del
Nord. In particolare, si segnalano: Umbria, Emilia Romagna, Toscana, Valle d’Aosta con
percentuali superiori al 28%, Inferiori le percentuali di composizione registrate al Sud:
Campania [15,8%], Calabria [16,8%]. Nel Lazio la bassa percentuale [17,9%] si coniuga
peraltro con quella assai elevata dell’ospedaliera convenzionata, che contribuisce a
prosciugare l’aggregato relativo agli acquisti e ove consistente è altresì il peso
dell’ospedaliera privata accreditata
• La spesa per l’assistenza farmaceutica ha evidenziato a livello nazionale a partire dall’anno
2000 un andamento incrementale assai rilevante rispetto al ’99, percentualmente pari a
+14,6%. Ma è soprattutto l’anno 2001 che segna la maggiore crescita per la spesa
farmaceutica convenzionata che raggiunge i 22.582 miliardi di lire [11.663 milioni €], con un
incremento di 5.836 miliardi di lire sull’anno precedente pari ad un aumento del 33,3%
( vedi successiva tabella ).
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Tabella:Andamento della spesa farmaceutica nel 2001 e 2002 in valori % e assoluti
2001
2002
Regioni
PIEMONTE
V.D'AOSTA
LOMBARDIA
P.A.
BOLZANO
P.A.
TRENTO
VENETO
FRIULI V.G.
LIGURIA
E.ROMAGN
A
TOSCANA
UMBRIA
MARCHE
LAZIO
ABRUZZO
MOLISE
CAMPANIA
PUGLIA
BASILICATA
CALABRIA
SICILIA
SARDEGNA
TOTALE
Farmaceu
tica
Conv.
804.494
21.158
1.625.748
68.927
Spesa
Corrente
Inc %
Farmaceut
ica Conv.
Spesa
Corrente
Inc %
5.712.713
178.491
11.814.879
776.157
14,08
11,85
13,76
8,88
763.256
21.956
1.771.594
72.029
5.828.962
189.754
12.616.395
926.314
13,09
11,57
14,04
7,78
71.293
720.544
9,89
69.812
658.891
10,60
786.313
210.389
381.185
727.939
6.042.429
1.586.411
2.340.396
5.516.627
13,01
13,26
16,29
13,20
784.906
222.128
359.264
781.153
6.278.895
1.699.961
2.394.316
5.880.840
12,50
13,07
15,00
13,28
673.936
164.888
294.943
1.244.979
4.814.482
1.111.796
1.943.280
7.207.431
14,00
14,83
15,18
17,27
681.715
166.961
310.191
1.246.753
5.008.076
1.187.785
2.004.701
7.373.436
13,61
14,06
15,47
16,91
282.079
67.170
1.263.880
864.468
119.404
465.364
1.189.542
334.969
11.663.06
6
1.717.857
439.398
7.372.401
4.849.622
701.924
2.512.143
6.239.834
2.098.989
75.697.804
16,42
15,29
17,14
17,83
17,01
18,52
19,06
15,96
15,41
290.373
69.284
1.228.291
857.084
115.246
457.113
1.261.318
338.881
11.869.308
1.805.632
424.969
7.364.516
4.960.353
711.321
2.523.719
6.500.138
2.139.974
78.478.948
16,08
16,30
16,68
17,28
16,20
18,11
19,40
15,84
15,12
Per quanto riguarda il rispetto del tetto di spesa del 13% questo ha mostrato ampia
variabilità tra le regioni ; tra le più virtuose sono da annoverare oltre alle Provincie
Autonome Veneto , Emilia Romagna e Toscana; ampiamente sopra la media sono invece
Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna; nell’ambito di questo ultimo gruppo
tuttavia Campania e Basilicata hanno mostrato un miglioramento rispetto l’anno precedente
I dati relativo al primo quadrimestre 2003 recentemente pubblicati da Federfarma sul
consumo di farmaci registrato nel primo quadrimestre 2003 ( grafico n° 4) confermano il
trend positivo di riduzione della spesa già registrato nel corso del 2002 (34).
Dall’analisi del periodo gennaio-aprile 2003, emerge una riduzione della spesa netta del
-10,7% rispetto allo stesso periodo del 2002. Tale diminuzione è correlata a un calo del –
6,6% del numero delle ricette rispetto al primo quadrimestre 2003. Nel mese di aprile il calo
della spesa è stato pari al –11,6% e la riduzione del numero delle ricette al –7,6% rispetto
ad aprile 2002. La spesa farmaceutica a carico del SSN nel periodo gennaio-aprile 2003 è
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diminuita del –10,7% rispetto allo stesso periodo del 2002, attestandosi intorno a 3 miliardi
777 milioni €. Nel mese di aprile 2003, tale riduzione è stata pari al–11,6% rispetto ad aprile
2002 .
• La spesa per l’ospedaliera convenzionata mostra negli ultimi due anni 2001 e 2002 una
diminuzione rispetto a quella registrata nel 2000, allorché aveva invece segnato un +10,5%
rispetto al 1999, passando dai 7.535 milioni di euro [£ 14.590 miliardi] agli 8.019 milioni[£
15.527 miliardi]. Migliora il trend nei due anni successivi con una flessione 2001 [-1,25%] e
un lieve aumento nel 2002 [+0,38%] Va innanzitutto ricordato che nella “ospedaliera
convenzionata” rientrano i costi per assistenza ospedaliera in IRCCS pubblici e privati, in
ospedali ecclesiastici classificati econvenzionati, in case di cura private accreditate, in
cliniche universitarie e istituti universitari di ricovero, nonché i costi per rimborso ricoveri in
Italia e all’estero. Anche in questo comparto si presentano differenziate le situazioni
riconducibili alle realtà regionali come evidenziato nelle precedenti tabelle.La Lombardia
espone nell’anno 2000 una crescita percentuale pari al 50,11% della spesa registrata nel
1999 e aumenta ancora la crescita nei due anni successivi, seppure ad un tasso inferiore:
+8,3% nel 2001 e +6,5% nel 2002. Notevole anche la crescita 2000 del Lazio [11,2%] che
peraltro flette sensibilmente nel 2001 [-17,4%] e, seppure in modesta misura, nel 2001 [0,9%]. I dati dimostrano come la scelta di ampliare l’offerta di prestazioni da parte degli
erogatori privati, favorendo il loro ingresso nell’albo dei fornitori, peraltro senza verifica
alcuna dei requisiti effettivamente posseduti, ha incrementato il livello di spesa senza
implementare la qualità del sistema. Quanto alla Basilicata, il consistente picco del 2002,
pari a + 52,2%, segue la crescita del 5,9% del 2001 e conferma il dato in crescita del 2000
[+67,0%]. L’osservazione degli ultimi tre anni denota un generale andamento altalenante
fra anni più e meno virtuosi quanto a tasso di crescita. Insieme alla Lombardia mostrano
invece andamenti costantemente crescenti: il Piemonte [+2,2%, +11,1%, +9,6%], il Veneto
[+22,7%, +8,1%, 7,1%], il Friuli [-27.5%, +8,1, +10,6%] Risultati positivi di consistente
diminuzione di spesa in questo settore ospedaliero è tuttavia registrabile in alcune Regioni,
per effetto di politiche di razionamento nell’utilizzazione delle strutture di ricovero private,
calmierate a livello di volume di prestazioni erogabili con
meccanismi tariffari penalizzanti il surplus ( definizione di precisi tetti di spesa e diversa
pesatura del DRG in funzione della complessità organizzativa degli erogatori)
Per quanto riguarda l’incidenza sulla spesa sanitaria regionale di parte corrente, primeggia
il Lazio con la percentuale del 19,1%, seguito dalla Lombardia che con questa voce di
spesa assorbe il 15,6% del totale della spesa sanitaria regionale di parte corrente; ad
influirvi, in entrambi i casi, l’elevata presenza nel territorio di IRCCS, ospedali classificati e,
nel caso del Lazio, di Policlinici universitari, nonchè case di cura accreditate, numerose
peraltro anche in Lombardia.
Conclusioni
Il Servizio Sanitario del nostro paese continua a presentare un livello di finanziamento fortemente
disallineato rispetto a quello dei restanti paesi europei; in riferimento all’anno 2000 la differenza
rispetto alla Francia è stata di 1,3 punti di PIL e rispetto la Germania di 2,1 punti; di fatto tale
differenza non è mutata neanche nel 2002 dove la nostra spesa rispetto al PIL è stata pari al
6% .Ancora più marcata appare la differenza per la spesa dedicata alla assistenza sociale ( 3,7 del
PIL) che si colloca sotto la media europea per 2 punti di PIL.
La risposta a tale condizione, manifestatasi a partire dai primissimi anni’90 è stato lo sviluppo di
una spesa privata che ha portato il nostro paese al primo posto della classifica europea e di un
disavanzo da parte delle regioni per gli anni ante ‘94- 2001 che ha raggiunto nella certificazione
della Corte dei Conti quota 60.000 miliardi.
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A questo vanno ora aggiunte le quote maturate nel corso del 2002 la cui esatta quantificazione
riflette le particolari modalità di finanziamento adottate dal Governo Centrale e le stime per il 2003
che confermano tale linea di tendenza (10).
La politica del Governo Centrale è stata improntata al principio di riconoscere sicuramente una
integrazione ai fondi (accordo del giorno 8 agosto 2001) ma di negarne al contempo l’erogazione
nei tempi e modi concordati Articolo 4 della legge 63) ; la conseguenza di questa assai singolare
prassi è stata la formazione di un pesante credito dello Stato nei confronti delle regioni pari, per gli
anni 2002 e primi 5 mesi 2003 a circa 9,8 miliardi di €.
Del pari le regioni hanno mostrato nel loro complesso e con le dovute eccezioni una insufficiente
capacità di governo e di corretta gestione ed allocazione delle risorse loro attribuite; mentre per
alcune di esse, come la Lombardia ed il Lazio, l’incremento registrato nella spesa è da attribuire
alle scelte adottate in tema di potenziamento dell’offerta privata, per altre si è trattato
semplicemente della mancanza di capacità e volontà politica di esercitare un controllo della spesa
e di evitare sprechi e diseconomie.
Questo porta a concludere che sicuramente la questione principale da porre al tavolo di confronto
tra Stato e Regioni è quella di un incremento delle risorse da dedicare alla sanità e all’assistenza
rendendo al contempo più stringenti e vincolanti gli impegni assunti dalle regioni a partire dalla
adozione di regole trasparenti nella scrittura dei rispettivi bilanci ( ivi compreso l’obbligo dei bilanci
previsionali).
Un ulteriore linea di sviluppo,scarsamente e colpevolmente assente allo stato attuale, deve essere
poi quella della implementazione continua della qualità per l’intero sistema in un processo di
circolarità di eventi, procedure e risultati in cui la parte principale deve essere svolta dai diversi
soggetti professionali e non impegnati nelle strutture del SSN. Un ruolo importante di promozione
dovrebbe avere in tale senso la ASSR sul modello dell’Istituto per l’eccellenza NICE del NHS
inglese.
In tale senso crediamo che, aldilà di ogni visione economicistica della sanità, i tre postulati di
Ovreitvet (11) identificati nel ciclo virtuoso della qualità totale: qualità percepita dagli utenti, qualità
professionale e qualità della gestione delle risorse mantengano inalterato il loro straordinario
significato e rappresentino l’unico modo per coniugare corretta prassi clinica ed efficienza
produttiva.
BIBLIOGRAFIA
1. E.:Guzzanti Introduzione a “Il finanziamento delle attività e delle prestazioni sanitarie” Il
Pensiero Scientifico Editore Roma 1999
2. D. Petri : La questione ospedaliera nell’Italia fascista (1922-1940). Un aspetto dalla
modernizzazione corporativa in Storia D’Italia , Annali 7, Malattia e medicina G Einaudi
Editori Torino 1984 pg. 338 e seg
3. Soresina M.: La tutela della salute nell’Italia unita (1860-1980) in Storia della Società Italiana
Teti editore Milano 1987
4. Bissoni G: comunicazione al convegno “Le risorse in sanità” Roma 9 luglio 2003
5. R.Polillo,S. Polillo ASI, Agenzia Italiana Sanitaria L’evoluzione della spesa sanitaria in Italia
negli anni ’90 dal FSN al federalismo fiscale , Agenzia Sanitaria Italiana N° 38, 21
settembre 2000
6. Comino F.in I fondi sanitari integrativi, a cura di Nomisma Franco Angeli Roma 2003
7. N: Dirindin in Previdenza, assistenza e sanità , atti del seminario di Perugia 17/18 Giugno
2002 Edit Coop Roma 2002
8. Corte dei Conti :Relazione sul finanziamento dei bilancidelle regioni 2001-2002
9. Documento dei Presidente delle Regioni del 18, 19 giugno 2002
10. Ministero dell’Economia: Relazione generale sulla condizione economica del paese 2002.
11. J.Ovretveit La qualità nel servizio sanitario Edises Napoli 1966
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La spesa sociale per l’assistenza alla famiglia e all’infanzia
Stefano Daneri
Responsabile politiche dell’assistenza CGIL Nazionale
La spesa sociale nazionale pari al 25,3% del pil riserva la quota più bassa alle politiche
assistenziali rivolte alla famiglia e all’infanzia (3,7%) con il risultato che l’Italia per i trasferimenti a
favore della famiglia si colloca al penultimo posto in Europa, superata solo dalla Spagna.
Le cose non migliorano a livello regionale. Infatti l’andamento delle spese regionali per l’assistenza
(interventi per le aree più deboli delle popolazioni anziani, minori, famiglie) evidenzia nel periodo
‘96-2000 un aumento delle risorse, ma senza segnare significativi risultati.
Nel 2000 l’incidenza della spesa per l’assistenza sulla spesa totale raggiunge il 2% e la spesa
procapite 184mila delle vecchie lire.
C’è uno squilibrio tra centro nord e sud, ma le differenze maggiori si registrano tra regioni a statuto
ordinario con le regioni a statuto speciale. Infatti la Valle d’Aosta risulta prima nella graduatoria con
una spesa superiore di decine di volte quella dell’ultima in classifica. La differenza della spesa è
motivata dai maggiori trasferimenti di cui godono le regioni a statuto speciale in ragione del diverso
grado di competenze che hanno avuto in materia previdenziale.
Ora però lo scenario è cambiato. Le modifiche costituzionali hanno affidato competenze esclusive
alle regioni in materia di assistenza. La conseguenza di ciò deve essere il passaggio dei
trasferimenti assistenziali che lo Stato eroga direttamente alle regioni.
Si pensi che nel corso del 2001 lo Stato ha erogato direttamente attraverso l’Inps e il ministero del
Tesoro prestazioni pari ad un valore superiore 10 volte i 3000 miliardi di vecchie lire del Fondo
Nazionale per l’Assistenza.
Inoltre va rapidamente completato il processo di separazione tra previdenza e assistenza,
compiuto il quale si potrà devolvere le relative voci di spesa e i finanziamenti all’assistenza a livello
regionale.
In attesa che questi processi si realizzino alle regioni vengono ripartite le risorse del Fondo
Nazionale delle politiche sociali. Quest’anno i trasferimenti del Fondo Nazionale, che ammonta a
1.716.555.931 Euro, sono stati oggetto di un forte contrasto tra le regioni e il Governo a causa di
un minacciato pesante dimensionamento del fondo stesso, poi evitato attraverso l’attivazione di
fondi relativi ad altre leggi. La quota del Fondo Nazionale trasferita alle regioni è di 869.823.876
Euro di cui 700 milioni sono fondi indistinti e gli altri vincolati. Il fatto che aumenti la quota di
trasferimento non vincolata a precise destinazioni di spesa lascia alle regioni stesse la possibilità di
misurare il loro intervento a seconda delle proprie aree d’intervento prioritarie. Ma la reale
autonomia delle regioni in campo sociale e assistenziale si concretizzerà solo quando saranno
titolari dell’intero volume di spesa.
I governi Regionali sono chiamati a esercitare poteri legislativi e di programmazione importanti
nell’ottica del superamento dell’assistenzialismo; le politiche sociali devono essere considerate
come fattore di sviluppo economico e occupazionale. E’ quindi necessario aumentare e
riqualificare la spesa. E la riqualificazione delle spesa ha come presupposto il decentramento
perché solo a livello locale si può spendere meglio e con più efficacia.
Anche a fronte di una riforma compiuta in base a quanto definito dalla revisione del titolo V della
Costituzione non vi sarà chiarezza della spesa regionale in materia assistenziale se la maggior
parte delle regioni continuerà a non dotarsi di Piani regionali degli interventi e dei servizi sociali,
quali strumenti di programmazione degli interventi e di coordinamento e finalizzazione della spesa
necessaria.
Infatti ad eccezione di poche regioni, l’impostazione della politica sociale e assistenziale e della
relativa spesa non si è rinnovata.
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Intervento di Roberto Battaglia - Cgil regionale Emilia Romagna.
" I risultati della concertazione del bilancio della regione Emilia Romagna"
Premessa.
Per parlare della concertazione svolta con la regione sul bilancio regionale 2003 e descrivere i
risultati conseguiti, è utile illustrare, in partenza di questo mio intervento, anche la metodologia
seguita quale scelta politica assunta confederalmente a sostegno della nostra iniziativa
rivendicativa intrapresa sul territorio. Anzitutto è bene precisare che i confronti con la regione e con
gli enti locali non possono essere considerati occasionali "una tantum", circoscritti alla mera
informazione dovuta da parte della regione nei confronti delle parti sociali, ma al contrario, per le
ragioni che brevemente esporrò, sempre di più i confronti, dovranno strutturarsi e forse perfino
codificarsi con regole e procedure concordate nell'ambito di intese sulle relazioni sindacali tra enti
locali e sindacato. Il DPEF regionale, i documenti programmatici che accompagnano il bilancio
preventivo, l'assestamento di bilancio, le stesse leggi regionali rappresentano atti e strumenti di
vero governo regionale con inevitabili conseguenze sulla qualità delle condizioni di vita dei cittadini
interessati. In questo senso, politiche di grande rilevanza sociale, per le aspettative di larga parte
di lavoratori e pensionati che rappresentiamo, in ordine alle politiche della sanità, dell'assistenza,
dei servizi, della difesa dell'ambiente, della sicurezza dei cittadini, delle risorse e della fiscalità
locale, debbano costituire materie non solo di confronto, bensì di vera e propria negoziazione di
merito. Possiamo, a fronte di questi temi che ho appena richiamato rimanere indifferenti, oppure
non è invece il caso di ragionare sulla necessità di assumere un ruolo autorevole e organico di
contrattazione nei confronti delle regioni e degli enti locali? La nostra risposta e la nostra iniziativa
confederale va in questa ultima direzione: svolgimento di confronti preventivi, di concertazione, e in
alcuni casi anche di vera e propria contrattazione su alcune significative materie, in particolare su
temi più strettamente di nostra competenza come quelli relativi alle politiche sociali, dei tributi e del
fisco locale,, sugli investimenti per lo sviluppo produttivo ed economico regionale. Il confronto Tra
noi, e con le strutture confederali territoriali, con il sindacato dei pensionati e della funzione
pubblica, abbiamo a lungo discusso, anche in occasione di appositi momenti seminariali e formativi
propedeutici alla contrattazione territoriale, se non fosse il caso di pensare ad un modello
negoziale. Abbiamo superato questa discussione su un improbabile modello, per ricercare invece
la volontà su scelte generalizzate sul " come fare contrattazione". Una contrattazione diffusa, nel
territorio verso tutti gli enti locali, a partire dalla regione, sulla base di nostre autonome proposte e
attraverso la predisposizione di apposite piattaforme o documenti, a volte anche definite
unitariamente con Cisl e Uil. Tra i tanti problemi ancora aperti di una contrattazione territoriale
sperimentata sul campo, e sicuramente di gran lunga il più problematico, è senz' altro quello del
mancato intreccio e raccordo con la contrattazione integrativa di secondo livello praticata nei luoghi
di lavoro. Occorrerà su questo aspetto soffermarci, poiché inevitabilmente molti temi presenti nel
territorio, e oggetto del confronto con le regioni e con i comuni , come sulle politiche sociali, sugli
orari e sulla qualità dei servizi, sulla sicurezza, sulla mobilità, sui trasporti, solo per citarne alcuni,
hanno forti collegamenti con l'organizzazione del lavoro dell'impresa. Al momento, nonostante
questo riconosciuto intreccio, la contrattazione territoriale e quella integrativa aziendale procedono
separatamente e distintamente quasi ignorandosi. Ma fino a che punto, questa separazione
proseguirà, quando invece c'è necessità urgente di trovare almeno punti di contatto e di incontro
per l'importanza dei problemi congiuntamente presenti sia sul territorio che sul luogo di lavoro? Il
merito del confronto e le nostre priorità Nell'ottobre scorso il comitato direttivo regionale ha
discusso e approvato il documento "Oltre il buon governo"" indicando le priorità della Cgil
dell'Emilia Romagna per una nuova fase del governo regionale. Il documento regionale pone al
centro della propria proposta, la coesione sociale e la qualità dello sviluppo per incidere
positivamente sulle trasformazioni sociali ed economiche in atto e per rispondere all'attacco del
governo centrale al sistema solidaristico , ai diritti, e al ruolo dei governi regionali e del sistema
delle autonomie locali. Nel confronto svolto con la regione abbiamo dunque posto alcune priorità:
le politiche sociali, con la questione del fondo per la non autosufficienza, il tema del federalismo
fiscale, con criteri di equità e progressività nonchè la finalizzazione delle risorse verso il sociale; la
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qualità delle leggi regionali come azione del governo regionale per la coesione sociale tra i
cittadini. I risultati del confronto. I confronti con la regione sulle linee di indirizzo del bilancio 2003
hanno prodotto un verbale di intesa preventivamente all'approvazione del bilancio stesso da parte
del consiglio regionale. L'intesa raggiunta, costituisce un atto importante, non solo per il ruolo di
rappresentanza sociale riconosciuto alle confederazioni sindacali, ma soprattutto per il contenuto
della stessa e per gli impegni assunti dalla giunta regionale molti dei quali già attuati nel corso del
presente anno di esercizio di bilancio e in particolare sulle risorse necessarie al mantenimento
qualitativo e quantitativo dei servizi ai cittadini in un quadro di bilancio che ha escluso prelievi
fiscali aggiuntivi sotto forma di tickets o tributi locali. Impostazione questa discussa e attuata
sostanzialmente anche nei restanti comuni della regione dove si è mantenuta nei fatti, una
invarianza della pressione fiscale dei tributi comunali. Uno dei punti principali dell'intesa tra Cgil
Cisl Uil con la regione, riguarda l'impegno della regione stessa alla istituzione del fondo per la non
autosufficienza al fine di sostenere le prestazioni e i servizi socio assistenziali per le persone
indigenti e meno abbienti che vivono per l'appunto in condizione di non autosufficienza.
Considerazioni finali. I confronti e la concertazione sui bilanci di previsione per l'anno 2003, hanno
prodotto positivi risultati per quanto riguarda in particolare, il mantenimento del livello della spesa
destinata alle politiche sociali, alla qualità dei servizi in un contesto di invarianza della pressione
fiscale in ambito locale. Critico appare invece il tema delle tariffe sul quale occorrerà riflettere
meglio per impostare nel futuro una nostra iniziativa in difesa dei redditi più bassi. Occorre ora da
subito pensare già ai prossimi bilanci del 2004 sicuramente resi più problematici dalle annunciate
misure del governo che minano le risorse e l'autonomia delle regioni e dell'intero sistema delle
autonomie locali con il serio rischio di pregiudicare la qualità e la sopravvivenza di servizi
indispensabili per l'insieme dei cittadini. Prepariamoci dunque per tempo alla prossima stagione di
confronti rendendo omogenei contenuti e pratiche contrattuali territoriali..
Il Bilancio della Regione siciliana, un falso d’autore?
di Beppe Citarrella
Presidente CERDFOS CGIL Sicilia
La Regione siciliana, in virtù del particolare regime autonomistico, esercita una serie di
competenze legislative ed amministrative, talune in forma esclusiva, altre entro i limiti dei principi
ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato. In linea di principio, in queste
materie, la Regione ha anche potestà di erogare e di disporre spese a carico dei propri bilanci.
In materia di finanza regionale, le entrate della regione sono disciplinate dallo Statuto e dalle
norme di attuazione in materia finanziaria: l'art. 36 dello Statuto prevede che al fabbisogno
finanziario della Regione si provveda, oltre che con i redditi patrimoniali della Regione stessa, "a
mezzo di tributi deliberati dalla medesima". Alla Regione spettano quindi tutte le entrate erariali
riscosse nell'ambito del suo territorio, fatta eccezione per le imposte di produzione e le entrate dei
tabacchi e del lotto, e per le nuove entrate il cui gettito sia destinato con apposite leggi alla
copertura degli oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti, come ad esempio la
copertura degli oneri per il servizio del debito pubblico.
L'autonomia impositiva della Regione, a di là dell'interpretazione leggermente restrittiva data dalla
Corte Costituzionale (che ha disposto un coordinamento tra finanza statale e finanza regionale), di
fatto non è mai stata attuata dalla Regione, non essendo mai stati introdotti nuovi tributi regionali.
Per quanto riguarda la possibilità di contrarre mutui la Regione Siciliana fino ad un paio di anni fa
accendeva mutui per il pareggio del bilancio. Successivamente lo stesso legislatore regionale
stabiliva con un’apposita norma che i mutui contratti dovevano essere destinati esclusivamente
alla spesa per investimenti. Tale principio è stato rafforzato dalla recente riforma del titolo V della
Costituzione, art. 119.
Per l'accertamento delle entrate la Regione si avvale degli uffici periferici dello Stato; mentre la
riscossione viene gestita direttamente.
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Il bilancio di previsione della Regione siciliana viene redatto solo in termini di competenza, a
differenza di quanto previsto per lo Stato e per le regioni ordinarie che sono tenute a presentare
anche le previsioni di cassa.
Da una prima sommaria analisi del documento contabile predisposto dalla Regione Siciliana per il
2003 emergono dubbi e perplessità sia in merito all'impostazione contabile seguita
dall'Amministrazione Regionale per la stesura dello stesso, sia per sulla sua validita' di strumento
idoneo a supportare lo sviluppo socio-economico dell'Isola.
Relativamente alle Entrate sembra si continui a perpetuare la dinamica degli anni precedenti, le
Entrate finanziarie della Regione Siciliana sembrano muoversi in un quadro di incertezza assoluta.
Ma ancor piu' grave e' che dalla dinamica delle stesse non e' possibile cogliere alcun segno di
stabilizzazione. Appare interessante evidenziare che una parte consistente delle Entrate e'
costituita dall'Avanzo Finanziario di gestione e dalla Accensione di Prestiti.
Tali voci rappresentano circa il 38 % delle previsioni definitive di Entrata della Regione. Da cio' si
deduce, per la natura contabile delle due voci, che una fetta consistente delle Entrate e' costituita
da risorse finanziarie fittizie, che annualmente danno copertura finanziaria "concreta" a leggi di
spesa, negli ultimi anni prevalentemente di parte corrente.
Sempre sul fonte delle Entrate sono da sottolineare due fenomeni perversi che hanno raggiunto,
nel corso degli ultimi esercizi finanziari, limiti preoccupanti.
Ci si riferisce in particolare al fenomeno del sovradimensionamento delle entrate e alla difficolta'
della Regione a riscuotere le Entrate proprie. E’ ormai una costante lo scostamento tra previsione
di entrata e accertamento delle stesse.
Il Bilancio previsionale 2003 non sembra discostarsi, relativamente alle Entrate, dai fenomeni
appena descritti. Infatti non si riesce a capire come, a fronte di un arretramento complessivo
dell'intero tessuto economico della Sicilia, e quindi in presenza di minor gettito fiscale, di
decrescenti flussi di trasferimenti da parte dello Stato, di maggiori oneri finanziari, rivenienti per la
Sicilia dalla nuova legge Finanziaria dello Stato, le Entrate della Regione scontino un aumento di
ben 3.000 milioni di euro rispetto all'anno precedente (20.900/23.700).
Dalla impostazione complessiva del Bilancio, parrebbe cogliersi che anche quest'anno i
responsabili della “Cosa Pubblica” abbiano intenzione di ricorrere ai noti meccanismi fittizi di
finanziamento, a cui si accennava sopra.
Il documento, come piu'volte evidenziato dalla CGIL Regionale, non pare possa produrre momenti
di sviluppo per la economia siciliana.
Si continua a cogliere un preoccupante immobilismo che ha avuto ed ha pesanti refluenze
negative sullo sviluppo della Sicilia. Non e' casuale il fatto che il reddito in Sicilia negli ultimi anni e'
cresciuto meno rispetto alla media nazionale e meridionale,
Per quanto attiene alle spese previste appare interessante sottolineare che il Risparmio Pubblico
(differenza tra entrate tributarie + extratributarie e spese correnti) risulta negativo per circa 400
milioni di euro; ciò sta a significare che i flussi di entrata previsti per il 2003 non sono sufficienti
neanche a finanziare la spesa corrente. Di conseguenza, dal punto di vista strettamente contabile,
la Regione, relativamente ai flussi contabili del 2003, non parrebbe disporre di alcuna risorsa
finanziaria da destinare agli investimenti se non i fondi di Agenda 2000.
Le spese correnti nel prossimo esercizio dovrebbero attestarsi ad oltre 15 mila milioni di euro, il
65% della spesa complessiva prevista, mentre quelle in conto capitale, di cui buona parte lo e'
formalmente, si attesterebbero intorno al 35% della spesa.
Mette conto osservare in merito alla percentuale di cui sopra, e il fatto non e' totalmente casuale,
che le entrate della Regione, come ricordato sopra, per un buon 30% sono fittizie; guarda caso la
stessa percentuale degli investimenti previsti per il 2003.
Se la riflessione di cui sopra la si collega al fatto che oltre il 55% della spesa
per investimenti e' allocata in capitoli di spesa dell'Assessorato Bilancio e che quest'ultimo ha
registrato un tasso di attivazione finanziaria negli ultimi anni inferiore al 10% è facile arguire che
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anche nei prossimi mesi la spesa per investimenti sarà la grande assente del bilancio della
Regione.
I complessi e drammatici problemi della società Siciliana, le risultanza degli ultimi consuntivi, la
lentezza delle erogazioni, l'irrigidimento del bilancio, la mancanza di qualsiasi progetto di sviluppo,
impongono al sindacato di vigilare in questo momento delicatissimo della realtà socio-economico
dell'Isola.
Occorrre quanto prima fermare questa spirale perversa della spesa regionale, che ha reso
improduttivo il Bilancio della Regione, e rilanciare lo stesso in chiave anticiclica e di sviluppo.
Cercherò brevemente di sintetizzare l'attuale ciclo di stallo dell'economia siciliana ed il quadro
finanziario della Regione. Analizzando gli aggregati economici degli ultimi anni emerge che il
reddito è cresciuto meno rispetto alla media nazionale e che gli investimenti, sempre nello stesso
periodo, hanno fatto registrare una flessione, mentre i consumi si sono tenuti sostanzialmente
allineati alla dinamica nazionale. Tutto ciò ovviamente ha comportato un considerevole aumento
delle importazioni nette di beni e servizi. E' noto che l'aumentare di queste ultime e la loro
incidenza sul PIL regionale sono generalmente assunti quali indicatori del grado di dipendenza del
sistema economico. Esse indicano infatti in quale misura il flusso di beni e servizi, che è frutto
dell'autonoma capacità produttiva dell'area venga integrato da un apporto esterno che va ad
accrescere la disponibilità di risorse dell'area medesima.
L'esistenza di tale saldo, che ha oscillata nell’ultimo decennio tra il 18-20% ha una lettura ben
precisa.
Questo dato ci dice infatti, che la dipendenza dell'economia siciliana è essenzialmente mirata a
sostenere i consumi e non finanzia la capacità produttiva dell'Isola. Non a caso gli investimenti
sono calati in termini reali in maniera preoccupante.
Tale quadro strutturale dell'economia siciliana e soprattutto la incapacità del sistema di produrre
reddito sta condannando la popolazione siciliana ad avere un reddito - procapite non solo inferiore
alle regioni del centro - nord ma anche a tutte le altre regioni meridionali esclusa la Calabria.
A fronte di tale quadro strutturale vi sono sulla carta risorse finanziarie che se ben utilizzate
potrebbero influenzare positivamente lo sviluppo reale dell'Isola.
Infatti, le previsioni definitive di spesa della Sicilia hanno rappresentato, negli ultimi anni,
mediamente quasi i 2/5 delle disponibilità di spese di tutte le regioni meridionali; per meglio
visualizzare il fenomeno, per uguagliare il potenziale finanziario della Sicilia, occorrerebbe mettere
assieme almeno 4 regioni meridionali. E' evidente che in atto vi è uno scollamento tra risorse
disponibili e livello di sviluppo dell'economia.
Un’ultima riflessione la vorrei fare sulla consistenza del debito della Regione che fino al ‘97 non
aveva contratto alcun debito, mentre negli ultimi 6 anni ha fatto registrare un incremento annuo di
oltre 500 milioni di euro, fino a raggiungere una consistenza a tutt’oggi di oltre 3.500 milioni di
euro, con una incidenza sulle spese correnti intorno ai 450 milioni di euro ad esercizio.
L’Osservatorio dei bilanci degli Enti Locali dei Comuni, delle provincie della Regione Emilia
Romagna
G. W. Martinese
Rresponsabile Gruppo Lavoro CGIL Emilia Romagna, Ires Cgil Emilia Romagna, Osservatorio
Bilanci Enti Locali
1.1 Il bilancio dell’Ente Locale come strumento d’informazione nel confronto negoziale con le
Organizzazioni Sindacali Territoriali
Confronti nel territorio sul tema dei bilanci regionali, comunali, provinciali e delle A.U.S.L. locali tra
Istituzioni Pubbliche locali e Associazioni rappresentative di interessi delle diverse categorie
economiche e sociali, sono sempre avvenuti anche se in modo molto formale (alcune volte alla
vigilia dell’approvazione dei bilanci nei Consigli Comunali, Provinciali, ecc.). Oggi i cambiamenti nel
modo di “essere e di fare” delle Istituzioni Pubbliche locali hanno intensificato e modificato tempi,
metodi e sostanza di questi confronti. Il processo di federalismo avviato dalla 142 del ’90, la
riforma della finanza locale, la modifica del Titolo V della Costituzione hanno comportato il
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graduale trasferimento del welfare a livello locale, siamo da alcuni anni in presenza di vere e
proprie politiche di bilancio programmate a livello regionale e municipale, delle vere e proprie
“finanziarie” a livello territoriale.
Si pone quindi per il Sindacato il problema strategico di come affrontare i vari livelli di confronto
sulla finanza pubblica e sullo stato sociale, prima concentrato a livello centrale sul D.P.E.F. e sulla
Legge Finanziaria annuale, in una fase di risanamento e razionalizzazione dei bilanci pubblici nel
rispetto dei Patti di Stabilità sottoscritti a livello europeo.
Come impostare, cioè, il confronto sul bilancio dello Stato, sul Dpef e sulle leggi finanziarie a livello
nazionale, quello sui bilanci delle Regioni a livello regionale e quello sui bilanci degli enti locali nei
singoli territori.
Come, cosa, con chi contrattare i diversi “pezzi” di stato sociale: con quali regole, con quale nostra
progettualità, con quali strumenti di analisi per arrivare a confronti utili con i diversi soggetti
istituzionali dal livello centrale al livello locale.
La capacità di confronto sulla finanza pubblica locale presume una capacità di ascolto che deve
caratterizzare il modo di atteggiarsi delle istituzioni pubbliche locali per creare quel circuito di
conoscenze senza il quale sarà impraticabile qualsiasi progetto orientato a far crescere non solo la
qualità delle convivenza delle comunità locali ma la stessa efficienza del sistema economico
produttivo locale.
Il confronto deve portare a progettualità sociali ed economiche condivise, il rinnovamento dello
stato sociale si costruisce nel territorio/comunità.
Diventa indispensabile sapere cosa fa il tuo Comune, la tua Provincia, la tua Regione e quanto
costa amministrare una città, una provincia, una regione.
La stragrande maggioranza della gente comune non sa rispondere a questa domanda né d’altra
parte è messa nelle condizioni dalla Pubblica Amministrazione di rispondere a queste domande;
esiste, quindi, un problema di disinformazione ma molte volte è lo stesso cittadino che non è
interessato a conoscere la realtà. Spesso e volentieri tutti criticano genericamente che i servizi
pubblici non funzionano, che costano troppo, che i dipendenti pubblici non lavorano.
Lo strumento dell’Osservatorio permanente sui bilanci degli Enti Locali per conoscere le politiche
finanziarie locali di bilancio è necessario per un’organizzazione come il sindacato se vuole incidere
sulle scelte amministrative a livello locale nella duplice veste di rappresentante dei lavoratori degli
enti locali nella gestione del rapporto negoziale e contrattuale e di referente dei cittadini in quanto
lavoratori e pensionati che sono chiamati a sostenere gli oneri tributari derivanti dalle scelte
amministrative locali.
Una buona contrattazione con gli enti locali, per il forte peso che ha la finanza locale sulle “tasche
dei lavoratori e dei pensionati”, spesso equivale ad un beneficio economico talvolta superiore a
quello di una buona negoziazione contrattuale di categoria o di azienda.
Scuole, acqua potabile, asili nido, raccolta rifiuti, trasporti pubblici, biblioteche, illuminazione
pubblica, assistenza agli anziani, aiuti agli immigrati, sostegno agli handicappati, case popolari,
carte d’identità, certificazioni, licenze varie, piani regolatori, mercati, gas, promozione delle attività
economiche e turistiche, tutela dell’ambiente, arredo urbano, cimiteri, musei, aree industriali, verde
pubblico, parchi e giardini, impianti sportivi, vigilanza urbana, cultura, investimenti in opere
pubbliche, manutenzioni di fabbricati pubblici e strade comunali…
Questo ed altro con l’entrata a regime delle leggi Bassanini e con il processo di federalismo in
corso, fanno gli oltre 8.000 comuni italiani.
Gestire una comunità locale è diventato più difficile perché le esigenze dei cittadini aumentano e
far funzionare una città o un paese è sempre più complesso sia dal punto di vista normativo, sia
dal punto di vista delle risorse finanziarie; per mantenere i servizi e migliorarli i Comuni devono
continuamente aumentare il prelievo tributario sui cittadini e migliorare l’efficienza della produzione
dei vari servizi pubblici.
Diventa, quindi, indispensabile conoscere i bilanci degli enti locali per sapere quanto spende il
comune per fornire tali servizi e come acquisisce le risorse per finanziare tutte quelle spese.
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È difficile presentare in modo sintetico una mole complessa di informazioni come quelle che sono
contenute nei bilanci degli enti locali in una fase, tra l’altro, di cambiamenti. Siamo quindi obbligati
ad operare scelte di merito sintetiche ed utilizzabili dall’operatore sindacale per poter leggere in
maniera sufficiente un bilancio per poter attuare un confronto con gli enti locali non solo
ritualmente o come momento di pura informazione ma cercando di incidere sulle scelte sociali ed
economico-finanziarie dell’ente.
La scelta del sindacato di dotarsi di un Osservatorio dei Bilanci degli enti locali che prenda in
esame la riclassificazione delle Entrate e delle spese dei Comuni e della Provincia è una logica
conseguenza.
Si tratta di cambiare un approccio metodologico e culturale: prima il sistema produttivo locale
veniva studiato attraverso ricerche che riguardavano prevalentemente le imprese private avendo
una visione degli Enti Locali come enti burocratici fuori dal sistema economico, da alcuni anni il
processo di federalismo di autonomia ha collocato la Pubblica Amministrazione locale dentro il
sistema socio-economico del territorio. Si sta aprendo un nuovo ed inedito capitolo nel panorama
economico-sociale italiano e si parla nella letteratura economica della nascita di una nuova branca
di ricerca: quella sull’economia urbana. Lo sviluppo si misura se si considera il sistema territoriale
nel suo insieme come sistema produttivo di manufatti, di servizi commerciali, finanziari e di servizi
pubblici locali. Lo sviluppo nel territorio sarà più o meno competitivo e vincente e la qualità della
vita dei cittadini migliorerà se sia l’economia privata che quella pubblica funzioneranno meglio e se
ci sarà non contrapposizione di interessi corporativi ma collaborazione di interessi comuni.
2 Abitanti della regione media anni 2001/2002: 3.980.000. Superficie: Kmq. 22.123. Pil annuale: 91
miliardi di euro. Pil pro-capite: superiore ai 20.000 euro. Tasso disoccupazione: 3,3%
1.2 Le fasi per costruire un Osservatorio dei Bilanci degli Enti Locali nel territorio
1. Raccolta dati: Raccogliere tutti documenti utili per l’Osservatorio.
Cosa chiedere: Bilanci preventivi, rendiconti consuntivi, Bilanci triennali, relazioni programmatiche,
…, (tutta la documentazione contabile ed extra-contabile resa obbligatoria dalla legge Nr. 77/95,
dal DPR 194/96 e dal Testo Unico degli Enti Locali dell’Agosto 2000 sull’ordinamento finanziario e
contabile degli Enti Locali ).
A chi chiedere la documentazione: Direttamente ai Sindaci dei vari Comuni ed agli Assessorati al
Bilancio (i Bilanci degli Enti Locali, a differenza di quelli delle imprese privati, non sono depositati
presso le locali Camere di Commercio). 2. Immissione dati nel Data-Base informatico: prima
elaborazione dei dati contenuti nei documenti con adeguate riclassificazioni e tabelle, che
trasformano in informazioni leggibili e fruibili il gran numero di “numeri” contenuti nei Bilanci.
Risultato: ottenere una struttura di dati omogenea e confrontabile. 3. Elaborazione: utilizzando
Software applicativo (programma informatico creato internamente dal sindacato), vengono
elaborate una serie di tabelle e di indicatori sia analitiche che sintetiche per ottenere informazioni
utili per capire l’aspetto finanziario della gestione dell’Ente Locale, le tendenze in atto e le diverse
strategie per amministrare una provincia, una città, un paese, una comunità montana, un’azienda
sanitaria locale, con particolare riferimento ad una lettura del Welfare locale. 4. Formazione: Come
leggere i Bilanci degli Enti Locali, come negoziare con gli Enti Locali, quali relazioni sindacali e con
quali strumenti affrontare il confronto sulle linee generali di bilancio e gli indirizzi di politica
economica degli enti locali. Come arrivare a sottoscrivere veri e propri protocolli di intesa con gli
Enti Locali. 5. Interpretazione: Come interpretare a livello di gruppo dirigente della CdLT i fenomeni
economici e quelli sociali che i processi decisionali degli enti locali producono nel territorio.
Utilizzare cioè lo strumento di lavoro dell’Osservatorio per la nostra comune attività di
negoziazione con l’Ente Locale ai vari livelli della nostra organizzazione (livello confederale, livello
categoriale – Es. Funzione Pubblica e SPI - ).
1.3 Quanto costa amministrare un Comune, una Provincia, una Regione. Dati Enti
Locali Emilia Romagna2, media anni 2001 – 2002. (Spese correnti in lire)
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L’esperienza degli osservatori sui bilanci degli Enti Locali costruita nel corso degli anni, a partire
dalla metà degli anni ’90 con un’esperienza pilota della Cgil di Rimini, estesa poi ad altre camere
del lavoro e assunta dalla Cgil regionale dell’Emilia Romagna, ha permesso la conoscenza della
dinamica finanziaria complessiva della pubblica amministrazione locale che sinteticamente risulta
così suddivisa: per amministrare i 13 comuni con più di 50.000 abitanti occorrono 3.250 miliardi di
lire (1.850.000 lire per abitante) con 20.000 addetti. Complessivamente i 342 comuni della regione
Emilia Romagna hanno spese correnti per circa 7.000 miliardi di lire (1.700.000 lire per abitante)
con 38.000 addetti.
L’amministrazione delle 9 provincie emiliano – romagnole comporta una spesa corrente di 1.250
miliardi di lire (310.000 lire per abitante) con 4.500 addetti.
Il bilancio della regione Emilia Romagna ha spese correnti per 20.000 miliardi di lire (5.000.000 di
lire per abitante) con 3.100 addetti diretti, 52.000 addetti nelle Aziende Sanitarie Locali.
In totale per amministrare tutti i comuni, le provincie e la regione, in Emilia Romagna vengono
spesi 28.250 miliardi di lire (7.010.000 lire per abitante), altrettante dunque devono essere le
risorse finanziarie (entrate) necessarie per mantenere in equilibrio la finanza locale.
In sintesi l’Osservatorio permette di conoscere e quindi di confrontarsi con le pubbliche
amministrazioni locali sui seguenti punti:
1. Quale è lo “standard medio” dei servizi locali offerti ai cittadini nei singoli comuni e quanto
pesa nelle “tasche” dei cittadini. 2. Quanto costa amministrare un Comune e quali servizi è
in grado di offrire alla comunità locale. 3. Negoziare la quantità e qualità del Welfare
Comunity (Stato Sociale Territoriale).
La Regione Veneto dal DPEFR al bilancio: incoerenze e difficoltà della concertazione.
Luciano Caon
Responsabile contrattazione territoriale CGIL Veneto
L’iniziativa sindacale nei confronti delle scelte della Regione a partire dalla discussione sul
D.P.E.F. regionale, sul Bilancio preventivo, sul programma regionale di sviluppo, sull’attività
legislativa, sui provvedimenti operativi, sta diventando un aspetto che sempre più assumerà un
valore primario nel calendario degli impegni sindacali.
Le ricadute di questa attività ha sempre più stretti legami con il territorio su questioni rilevanti che
vanno dal socio-sanitario, all’assetto del territorio, ai temi dello sviluppo, dell’innovazione, della
mobilità, all’immigrazione e formazione e si intrecciano con i rapporti che noi stessi sviluppiamo
attraverso la negoziazione con gli enti locali e con le organizzazioni imprenditoriali.
Lo sviluppo dell’iniziativa sindacale a partire dal confronto con la regione è possibile se c’è una
chiara e trasparente volontà politica dei governi regionali a produrre coesione sociale attraverso la
concertazione con le parti sociali. Non sono sufficienti accordi sindacali sulla concertazione e sulle
sue regole come abbiamo realizzato in Veneto, se non c’è una trasparente volontà di confronto da
parte del governo regionale; cosa che manca e che si risolve il più delle volte attraverso un
adeguato numero di incontri e con la presunzione da parte della giunta regionale di
contrabbandare una buona informazione che viene data in questi incontri con la concertazione.
Le attività di governo della regione in particolare, e non solo in previsione della predisposizione del
DPEF e del bilancio di previsione, sono argomenti che sempre più vedono una attenzione forte con
un’informazione approfondita da parte dei mass-media e per questa via un coinvolgimento dei
cittadini, dei lavoratori e dei pensionati sempre più rilevante.
Insomma - la Regione - anche per effetto della riforma in senso federalista, dell’accentuazione che
questo tema ha avuto in Veneto e dell’elezione diretta del presidente della giunta è sempre più
percepita come un soggetto istituzionale che decide cose importanti per lo sviluppo economico e
sociale e per le condizioni di vita dei cittadini.
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La relazione, soprattutto in questa fase politica, fra scelte del DPEF nazionale e ricadute sulle
scelte regionali è forte e a senso unico; e cioè nella direzione di un centralismo immobilizzante per
le regioni.
Oggi qualsiasi spazio di manovra fiscale regionale è precluso, anche per quei minimi spazi riferiti
ad IRPEF e IRAP in quanto è reso tutto funzionale alle politiche fiscali di Tremonti e quindi alle sue
decisioni. Imbarazza la totale mancanza di imbarazzo della Giunta Regionale del Veneto.
A questo va sottolineata la molta strada che ancora si deve fare per un uso corretto e funzionale
del DPEF, che ha il compito di delineare gli obiettivi utili a costruire il Bilancio di previsione e non
essere lo strumento che fotografa l’applicazione del Bilancio dell’anno in corso.
Anche se va rilevato che questi due strumenti sono sempre più usati per parlare alla società
veneta su temi che fino a poco tempo fa erano d’esclusiva pertinenza nazionale. Mi riferisco in
particolare ai temi della sicurezza dei cittadini, diventata nel Bilancio di previsione 2003 della
Regione Veneto per volere dell’assessore regionale di Alleanza nazionale un capitolo che ha avuto
la quintuplicazione delle risorse o dell’istituzione della previdenza integrativa regionale che ha
trovato nella Confindustria la richiesta di una posta di Bilancio per l’avvio e la gestione.
A fronte di spazi d’intervento che ci sono - anche se limitati – è possibile intervenire prima
nell’orientare le scelte del DPEF, per poi trarne le conseguenze nella costruzione del Bilancio di
previsione. Ci sono spazi sia sul versante della manovra finanziaria, sia su quello della spesa quello che non si riesce ad affermare è una prassi di concertazione in grado di realizzare gli
obiettivi individuati. Le nostre proposte, anche quando parzialmente vengono accolte non sono
frutto di un rapporto trasparente di concertazione, ma di atti unilaterali della giunta o
dell’assessore.
A questo comportamento della Giunta, al tavolo di concertazione generale da parte delle 23
organizzazioni che vi partecipano viene dato un giudizio molto diversificato, legato ad interessi che
il più delle volte non sono riconducibili alla visione di cui è portatore il sindacalismo confederale.
Prevalgono in molte organizzazioni professionali e di rappresentanza istituzionale interessi
esclusivamente settoriali, che come tali trovano risposta da parte della Giunta Regionale.
Si crea in questo modo un confronto tra parti sociali e giunta regionale al Tavolo di concertazione
generale squilibrato e non rispondente alla proposta di cui il sindacalismo confederale è portatore;
per questo è opportuno aprire un’attenta riflessione in grado di produrre proposte politiche e
organizzative innovative sul tema della concertazione che potrebbero trovare una loro prima
concretizzazione nella predisposizione dei nuovi Statuti regionali.
Costruire la contrattazione del bilancio regionale:la CGIL Campania.
Giovanni De Falco Ires Campania
L’esperienza sulla contrattualità per il Bilancio nella Regione Campania non sembra dissimile da
altre esperienze regionali, soprattutto riferita a quella nelle regioni del Mezzogiorno.
In particolare, è da segnalare il fatto che, seppure tra le parti sociali e l’Amministrazione regionale
esistesse un Protocollo d’intesa, nessun passaggio ex ante è stato compiuto per la definizione
della finanziaria regionale.
La convocazione delle parti (maggio) si è registrata soltanto alla fine del percorso che ha definito i
capitoli preventivi di spesa per l’anno 2003 e che vede la luce con gravissimo ritardo.
In preparazione all’incontro con la Regione, la Cgil ha avuto modo di consultare il materiale
prodotto dalla Commissione Bilancio: esso è risultato non completo e mancante della relazione di
accompagnamento. Ciò ha complicato l’analisi nella lettura dei dati finanziari o, quantomeno, ne ha
rallentato il lavoro in attesa di nuovi e più dettagliati documenti, ed anche così, però, in assenza di
una relazione di accompagnamento alcuni di essi sono risultati di difficile interpretazione.
Nel frattempo si è avuto modo di organizzare alcuni incontri con le categorie maggiormente
interessate ai capitoli di spesa regionali: la Funzione pubblica per quel che riguarda in generale gli
Enti locali, l’Ambiente e la Sanità; il sindacato Pensionati per le relative politiche sociali e di
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assistenza; il sindacato Scuola e la Camera del Lavoro di Benevento (unica rappresentanza
territoriale). Assenti le categorie della produzione.
In tale sede sono state analizzate a grandi linee le maggiori voci di spesa riguardanti i grandi
capitoli e su di essi si è potuta svolgere una analisi capillare rilevando numerose contraddizioni e
carenze negli articolati.
Successivamente, rilevati i maggiori problemi, si è concordato un documento unitario Cgil-Cisl-Uil
trasmesso al Presidente della Commissione Bilancio, alla Commissione ed ai Capigruppo consiliari
per ottenere un nuovo incontro e ridiscutere i numerosi punti oggetto di osservazioni.
La Commissione Bilancio ed i Capigruppo consiliari hanno concesso un nuovo incontro (giugno) e
si sono impegnati ad assumere le osservazioni in fase di dibattito.
Gli impegni richiesti riguardano: un contenimento della spesa sanitaria e l’articolazione di un Piano
Ospedaliero con l’obiettivo di abbattere i costi dei servizi sanitari migliorandone l’efficienza; il
recupero di risorse finanziarie (circa 150 milioni di euro posti a Bilancio pluriennale per l’anno
2004) per confermare il Reddito di cittadinanza (contributo alle famiglie meno abbienti); un
maggiore impegno a Bilancio per i capitoli destinati all’assistenza dei soggetti deboli (anziani,
giovani con disagio sociale, immigrati e così via); un recupero di risorse per i capitoli di spesa
relativi all’Ambiente (per l’Arpac e per altri enti commissariati ed in gestione provvisoria); nuove e
più consistenti risorse per lo sviluppo (destinate al Turismo, alle Piccole e Medie Imprese,
all’artigianato). Su questi temi le OO.SS. hanno richiesto di impegnare una parte delle risorse
derivanti da una Premialità di circa mille miliardi di vecchie lire (circa 500 mila euro) ottenuta dalla
Regione Campania per le buone capacità di spesa dimostrate sui finanziamenti comunitari.
Il dibattito consiliare, nel momento in cui si discute oggi a Roma, è ancora in corso (alla data
attuale 16/7/03 non si riesce a prevedere se il Consiglio sia in grado di approvare il Bilancio entro il
mese di luglio, ndr). Sulla trasparenza e leggibilità dello strumento sono state sollevate molte
obiezioni e, per questo motivo, la scadenza per la presentazione di eventuali emendamenti è stata
prorogata a più riprese.
L’opposizione ha presentato circa duemila emendamenti, di questi circa millecinquecento dal solo
partito di Forza Italia (emendamenti per la maggior parte di ostruzionismo politico), circa
cinquecento presentati da An e Ccd, più precisi e di merito.
Tale messe di emendamenti è stata provocata anche per le improvvide dichiarazioni
dell’Assessore al Bilancio che ribatteva ad una serie di rilievi affermando “I consiglieri continuano a
ragionare per capitoli e non per Unità previsionali di base, le cosiddette Upb: macrocapitoli
all’interno dei quali è possibile stornare i fondi da una “voce” all’altra con una semplice delibera di
Giunta, che non richiede l’approvazione dell’Assemblea”.
Anche la maggioranza ha preparato un maxiemendamento per tenere conto "di questioni
importanti come le risorse da destinare ai piccoli comuni, all'artigianato, alle piccole e medie
imprese, alla ricerca scientifica ed a leggi approvate dal Consiglio regionale che però non vedono
un euro di finanziamento". Il maxiemendamento non è destinato a trasformare le linee del
documento ma ad aggiustare tutto ciò che è possibile. Senza alterare la sostanza del collegato (di
soli cinque articoli), ma disponendo maggiori investimenti per cultura, turismo e Piccole e medie
imprese.
Quale coerenza esiste tra un Bilancio preventivo ed un Bilancio definitivo? Questa è stata la
domanda che ci siamo posti rispetto al fatto che i Bilanci preventivi arrivano con così grande ritardo
a dibattito ed approvazione.
Ebbene, nonostante il Preventivo possa considerarsi quasi prossimo ad un Definitivo, in ragione
dei tempi per l’approntamento e l’approvazione, questi due “strumenti finanziari” appaiono assai
distanti, quasi che il Preventivo ed il Definitivo si riferissero ad anni differenti tante sono le
variazioni apportate alle varie voci di spesa, vuoi per una politica di indirizzo (in preventivo) non
coerente con gli andamenti congiunturali regionali, vuoi per il rincorrere le emergenze straordinarie
(verificabili in definitivo) mai calcolabili in preventivo.
Per l’anno 2001, per il quale si dispone dello strumento di Bilancio definitivo (approvato, tra l’altro,
soltanto pochi mesi fa), questa situazione è ampiamente confermata. Per l’anno 2002, per il quale
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il Bilancio definitivo dovrebbe giungere in Consiglio nei prossimi mesi, si prevede lo stesso destino
e, per come va sviluppandosi il dibattito, non dovrebbe differire il Bilancio di quest’anno.
Come struttura di ricerca siamo in attesa dell’approvazione del Bilancio preventivo: siamo già
pronti a rifare completamente conti ed analisi su un documento contabile “flessibile” e, per certi
versi, “imprevedibile”.
Federalismo fiscale e lettura dei bilanci regionali Marco Moratto CGIL Regionale Piemonte
Il tema proposto dal seminario ritengo sia molto interessante; per questo e considerato che
mi considero un “addetto ai lavori” visto che mi occupo del bilancio della mia regione, il
Piemonte, vorrei proporre alcune considerazioni.
La prima, ovvia, è che i risultati di una qualsiasi negoziazione dipendono molto dalla
reputazione delle parti, e qui il fronte delle regioni è molto differenziato, inoltre gli interventi
che di fatto vengono proposti da questo seminario non possono essere confusi con il rituale
ereditato dagli anni settanta della consultazione consiliare sul bilancio. Il sentire le parti
sociali anche a livello regionale può di fatto contribuire a chiarire il quadro delle contrattazioni
locali e per alcuni comparti (anche solo quelli della pubblica amministrazione) la discussione,
ad esempio, sui PIL regionali è senz’altro utile e necessaria.
Il secondo punto riguarda il c.d. federalismo fiscale. Con questo termine, almeno nell’uso che
se ne fa nel nostro paese, ci si riferisce solitamente ad una serie di problemi anche molto
diversi tra loro. Il termine è così ambiguo ed indicativo di tematiche eccessivamente ampie.
La stessa parola federalismo -considerata a se stante- ha un utilizzo che copre almeno due
casi: il federalismo “classico” che si riferisce all’unione di più stati e quello “contemporaneo”
che attiene ai problemi di divisione di stati, si pensi ad esempio alla recente esperienza del
Belgio. In quest’ultimo caso i problemi possono essere notevolmente appesantiti se si pensa
alle dimensioni del debito pubblico che tutti gli stati hanno e su come ripartirlo tra le nuove
comunità. Va anche ricordato che il federalismo fiscale in senso classico nasce come
reazione all’eccesso di localismo nell’applicazione dei sistemi fiscali e nel modo di governo
delle varie comunità.
Una notevole semplificazione delle problematiche è possibile se si ragiona in termine di
Federalismo Fiscale / Regionalismo. I due termini sono intercambiabili solo ad una condizione: che
s'affrontino non solo i problemi della competenza delle spese ma che s'inseriscano anche le analisi
delle regole dei finanziamenti. In questo senso il Federalismo Fiscale assume un valore normativo
di definizione delle regole dell’autogoverno e di conseguenza è al contempo una proposta di
riordino del settore della Pubblica Amministrazione. Sempre in questo senso il Federalismo Fiscale
comporta l’abbandono dei modelli di finanza derivata in uso a partire dagli anni sessanta ed il
ritorno al principio Einaudiano di corrispondenza tra responsabilità della spesa e responsabilità
dell’entrate, che devono entrambi far capo ad uno stesso soggetto politico. Ma questo modello
lascia irrisolto il problema principale che ha determinato la nascita della finanza così detta derivata:
il problema in altre parole della solidarietà tra la popolazione d'aree geografiche diverse in materia
di reddito.
Oggi è ancora questo il problema principale e la soluzione odierna è contenuta nel decreto
legislativo sulla compartecipazione delle regioni al gettito dell’IVA. Il problema è che questa legge
non è ottemperata dallo stesso governo. In ogni caso personalmente ritengo la formula di riparto
proposta dal decreto sull’IVA inadeguata. A mio giudizio i parametri utilizzati per il riparto per la
parte sanitaria confondono (anche se è difficile non farlo) problemi di allocazione delle risorse con
problemi di redistribuzione.
Il terzo ed ultimo punto riguarda i bilanci delle Regioni. La lettura dei bilanci regionali è attualmente
complicata dalle scelte fatte in applicazione della nuova legge quadro di contabilità, il decreto
legislativo 76/2000. Sostanzialmente si sono percorse due strade, la prima è stata quella di legare
la costruzione delle c.d. unità previsionali di base alla programmazione degli interventi regionali, la
seconda è quella di legarli a momenti organizzatori. A mio giudizio questa seconda strada è quella
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che meglio attiene ai processi proposti e messi in atto, almeno in parte, dai c.d. “bassanini”, poiché
consente una migliore individuazione delle responsabilità dei vari soggetti.
Per chiudere rilevo come la situazione della finanza regionale sia tuttora in movimento poiché
nessuna delle fonti previste è in grado di soddisfare l’esigenza d'autonomia finanziaria né di
risolvere il problema della perequazione tra regioni diverse.
Il problema della perequazione è in effetti il più difficile. Se si guarda alla distribuzione della spesa
pro-capite delle varie regioni s'evidenziano delle distribuzioni che sono inversamente proporzionali
al reddito prodotto da queste. Si passa, ad esempio, dalle 1700 lire della Lombardia, che è la
regione che produce il reddito maggiore, a 1850-1900 lire delle regioni meridionali. questi dati
possono essere considerati come effetto delle precedenti politiche redistributive degli anni
precedenti il 1990, ma influenzano notevolmente la richiesta d'autonomia finanziaria delle attuali
regioni ed inoltre tendono ad essere abbastanza costanti.
Intervento conclusivo
di Paolo Nerozzi
Segretario Confederale CGIL Nazionale
In premessa vorrei fare alcune considerazioni generali. La prima riguarda il lavoro che è stato
prodotto e che emerge da questo seminario.
A me pare che abbiamo competenze e lavoro svolto, ricerche, esperienze che, in un settore come
questo, probabilmente non sono utilizzate quanto invece servirebbe rispetto all’attuale nuova fase
e alla necessità di imprimere innovazioni nei processi di contrattazione anche rispetto a quello che
avverrà nel paese nei prossimi mesi. Quindi anche quella che qualcuno potrebbe leggere come
eccessiva tecnicità della discussione di oggi, se inquadrata nelle riflessioni e nelle previsioni di
quadro che dobbiamo fare per i prossimi mesi, credo sia un contributo importante e una risorsa da
utilizzare e da spendere, non solo dando continuità al lavoro, ma anche rendendolo pubblico,
facendo circolare le riflessioni e i contributi di stamattina.
Nei prossimi mesi, col Dpef e la successiva finanziaria, avremo da gestire un quadro delicatissimo.
Il Dpef, io penso, sarà una cosa scritta in aramaico: ognuno la leggerà come gli pare e il dibattito
rimarrà tutto sommato tranquillo. Si potrà leggere che ci sono gli assalti alle pensioni o che non ci
sono, che ci sono meno contributi alla sanità o che ce n’è di più, che si tagliano i soldi agli enti
locali o che non si tagliano ma, nella sostanza, risulterà un elemento di complessiva vaghezza.
Dobbiamo discutere, probabilmente in altra sede e non solo in questo dipartimento, delle politiche
regionali, se e quanto serve il Dpef, che cosa rappresentano le finanziarie in una politica di
federalismo e in una nuova fase in cui c’è l’Europa, il federalismo e anche un diverso ruolo del
Parlamento: è comunque indubbio che con la Finanziaria e con i processi in atto avremo delle
innovazioni cui dovremo dare risposte. La mia impressione è che questo sia un governo incapace
di fare scelte economiche di rilievo, e quindi di dare risposte alla crisi e al declino di questo paese.
Rispetto quindi alle attuali difficoltà del centro-destra nel rapporto con i movimenti, per i recenti
risultati elettorali e per i conflitti fra i partiti della stessa maggioranza su questioni materiali ed
economiche quali le pensioni di anzianità, l’intervento nel Mezzogiorno, le privatizzazioni, la
risposta sarà tutta e solo politica.
Nella Finanziaria presumibilmente noi avremo di nuovo una linea di condoni, cui si aggiungerà il
condono edilizio, su cui dobbiamo da subito assumere una posizione. Una proposta di
ricostruzione della maggioranza, a mio avviso, avverrà proprio sul terreno e sull’intreccio
federalismo-riforma istituzionale, e cioè devolution-presidenzialismo. Questo può produrre due
conseguenze: la prima, minare l’idea solidaristica alla base dello stato nazionale e in generale di
tutte le politiche di welfare così come le conosciamo, non riformare ma minare la sanità,
l’assistenza, la scuola; la seconda, evidentemente la risposta presidenzialista introduce elementi di
neoautoritarismo che traspaiono anche dalle vicende di queste ore. Perché dopo l’esordio di
Berlusconi in Europa in una condizione normale saremmo alla presenza di una crisi di
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maggioranza; poiché ciò non avverrà, bisogna che trovino collanti e forme per dare risposte
economiche e complessive alle diverse parti che la compongono.
In questo quadro noi abbiamo appunto la necessità di modificare il nostro modello di intervento
aprendo un fronte locale, regionale e territoriale più forte, almeno pari in intensità, se non
superiore, a quello nazionale; se noi vogliamo collegare i diritti del lavoro ai diritti di cittadinanza, la
trasformazione dello scontro deve avvenire attraverso l’assunzione da parte nostra della
dimensione regionale e territoriale dello sviluppo e dei diritti di cittadinanza.
Anche l’accordo con la Confindustria (oggi c’incontreremo con Conferenza delle regioni, Anci, Upi
e Uncem) o evolve in una dimensione regionale di costruzione delle alleanze e di sconfitta del
blocco sociale del centro-destra, o rischia di rimanere solo un elemento importante per la fase
nazionale ma non uno strumento di lavoro che determina modifiche reali nella composizione
sociale di questo paese.
Per questo bisogna riflettere su che cosa significa una politica dei redditi in questa fase, che non
può che avere origine da una politica dei redditi regionale e territoriale che poi si confronta in una
dimensione nazionale e in una dimensione europea; dobbiamo quindi ribaltare la logica di tutti gli
anni novanta che parte da Roma, dalla politica nazionale e si riproduce a livello regionale e
territoriale, provare a invertire questa tendenza. Ciò vuol dire dare ruolo e responsabilità d’iniziativa
alle nostre strutture confederali e alle nostre controparti maggiore dell’attuale, anche producendo
elementi di innovazione, contrattazione e sperimentazione individuando nel sistema delle regioni e
delle autonomie un nostro fondamentale interlocutore ma anche una nostra controparte reale, non
solo per concordare qualche protocollo da portare poi a Roma, ma per costruire innovazione sui
temi che vanno dallo sviluppo alle infrastrutture e al welfare. Perché se è vero, come io penso e
temo, che noi andiamo a modifiche istituzionali profonde, così come è importante dare una
risposta sociale e sindacale è altrettanto importante che vi sia una risposta di natura istituzionale
delle articolazioni dello Stato.
Il protagonismo dell’anno scorso delle regioni, che quest’anno speriamo sia delle regioni, dei
comuni e delle province, è elemento importante per l’allargamento della democrazia e la
definizione di un diverso rapporto tra lo Stato centrale e lo Stato periferico. E allora per
determinare scelte concrete (dalla sanità alla scuola, dalle infrastrutture allo sviluppo), noi
dobbiamo avere interlocuzione con queste articolazioni costituzionali dello Stato, e nel farlo diamo
vitalità e forza al fondamentale processo di ridefinizione dei poteri.
Oggi ci siamo trovati di fronte a una discussione sui bilanci con le caratteristiche da voi illustrate,
con storie e metodologie diverse nelle varie regioni sia per la diversa storia sindacale che per
quella delle diverse controparti. Sostanzialmente noi abbiamo avuto un’importante esperienza di
confronto, se escludiamo alcune regioni dove tradizionalmente l’elemento contrattuale è stato più
forte: sulle questioni di bilancio Zumbo non raccontava la Calabria, raccontava una storia più
diffusa di confronto e di presa d’atto. Il punto allora è come noi trasformiamo la discussione sui
bilanci in un’occasione per la produzione di una piattaforma, di rivendicazione e di contrattazione e
poi anche di intesa; ciò non solo sulle questioni della sanità e del sociale, che occupano gran parte
dei bilanci e sulle quali abbiamo per altro una tradizione vasta e diffusa, ma anche sulle questioni
infrastrutturali, sui fondi strutturali, sullo sviluppo, per orientare all’interno delle regioni anche
un’idea diversa di sviluppo e di qualità, riprendendo cose che in passato furono fatte, ciò anche
riflettendo sul modello industriale del nostro paese, delle nostre regioni e intervenendo con
politiche di qualità nell’uso degli incentivi, sia nazionali sia locali, e anche nell’uso dello strumento
fiscale.
Se coraggiosamente oggi abbiamo detto insieme e concordando su ciò anche col dipartimento
stato sociale — io sui dipartimenti mi confondo sempre — che noi non dobbiamo ridurre la spesa
ma semmai, attraverso politiche qualificate, consolidarla (nella sanità aumentarla, e più in generale
consolidarla), allora anche lo strumento fiscale, locale e regionale, può servire, penso a tutti i temi
dello sviluppo del territorio, facendo anche politiche di redistribuzione del reddito, a livello locale e
regionale, e di intervento di recupero di risorse per interventi di qualità.
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Sull’utilizzo delle risorse dovremmo riflettere più in generale, ma è indubbio che anche tutto il
sistema della previdenza integrativa, oggi tutto nazionale, dovrà probabilmente in prospettiva avere
anche sue articolazioni territoriali (questa è una mia opinione, ovviamente il dibattito è da aprire)
per l’utilizzo di quelle risorse per la costruzione di reti protettive sociali nei confronti della parte di
popolazione esclusa, gli anziani ma anche la parte più povera e gli immigrati. La riforma del Titolo
V, i processi di federalismo ma anche i processi nel mercato del lavoro e di ristrutturazione
industriale, obbligano a una riflessione sul modello contrattuale nazionale e territoriale, e obbligano
quindi alle necessarie ricadute organizzative.
Penso, per esempio, perché ho Michele di fronte, a quanto lo Spi può essere inserito di più in una
politica confederale di presidio del territorio, non solo di difesa dell’interesse dei suoi rappresentati,
ma più in generale, dalle questioni del welfare a quelle dell’ambiente e dello sviluppo. Come
ridefiniamo, quindi la nostra riflessione sul modello contrattuale? Nell’ultimo lavoro, postumo, di
Massimo D’Antona sul Patto di Natale (che poi ebbe una chiusura rapida per ragioni politiche
come il Kossovo e la difficile fase politica del centro-sinistra nella quale potremmo individuare i
prodromi della sconfitta di due anni e mezzo dopo), c’era una riflessione su una dimensione
territoriale della contrattazione orizzontale, sulle questioni che abbiamo discusso oggi ma anche su
quelle più generali della qualità dei rapporti sociali e dello sviluppo: io penso che i bilanci possano
essere l’occasione perché noi ci abituiamo a costruire anno per anno una vera piattaforma di
discussione, di vertenzialità regionale e poi anche comunale e intercomunale. Qui si apre una
questione che alcuni compagni hanno sollevato, quella della rappresentanza: io penso che
dovremo farne, a settembre, una riflessione specifica perché il nostro lavoro s’intreccia con la
questione della riforma del Titolo V della Costituzione, degli statuti e quindi della rappresentanza;
dobbiamo riflettere su che cosa significa modello concertativo a livello regionale, su quale
contrattazione, su come dobbiamo separare la concertazione o consultazione dalla contrattazione,
come alimentiamo quindi un canale partecipativo importante che non diventi però un canale che
sostituisce il canale contrattuale, come ridefiniamo quindi un modello anche istituzionale. Molte
regioni hanno già prodotto loro modelli, si tratta allora di riflettere sui contenitori che questa
produzione ha determinato. Penso anche ai Crel, i Cnel regionali: noi eravamo contrari alla loro
istituzione, visto però che si sono fatti dappertutto, poiché il reale è rivoluzionario ne prendiamo
atto; bisognerà ora riflettere come questo non sia un elemento che surroghi la partecipazione,
elimini l’elemento contrattualistico e come invece la partecipazione, l’esercizio della
rappresentanza può trovare una sua diversa dimensione.
Per questo l’esercitarsi a comporre elementi di vertenzialità generale, come indicava Battaglia e
come è stato fatto in Emilia, in Toscana e in altre regioni, e poi all’interno di questo articolare
l’iniziativa, ovviamente nel rispetto delle specifiche dimensioni, perché è evidente che quella
sanitaria è obbligatoria e primaria rispetto ad altri argomenti, ma come anche questa sta dentro a
una riflessione più complessiva sul bilancio.
Il bilancio diventa allora la nostra idea di regione o di comune o di provincia, da cui poi si dipartono
tutti i vari interventi: sanità, assistenza, sviluppo, infrastrutture, formazione e anche interventi
inediti. Dico questo pensando alle regioni del centro-nord, perché purtroppo per le regioni del
centro-sud questa dimensione è oggi meno importante, ma con gli interventi della Moratti che
colpiscono il tempo pieno, i doposcuola, le scuole materne e le scuole dell’obbligo, noi dobbiamo
approfondire una riflessione su una presenza pubblica articolata (pubblica che non vuol solo dire
statale) su terreni che incidono non solo sulla qualità della vita, ma anche sullo sviluppo
complessivo delle regioni. Questo vale per le regioni rosse ma vale anche per la Lombardia e per il
Veneto che con modelli simili, ovviamente gestiti dalla vecchia Democrazia Cristiana, avevano
prodotto da un lato elementi di coesione sociale ma anche, dall’altro, di reddito differito e di
sostegno al modello di sviluppo di quelle regioni.
Dovremmo riflettere anche su cose che potevamo pensare superate e che invece si ripropongono
nel Mezzogiorno in alcune aree dove lo sviluppo produce condizioni per l’aumento
dell’occupazione femminile e giovanile, anche questi sono elementi di novità che speriamo si
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stabilizzino e che non regrediscano: anche qui si ripropone un ragionamento sul terreno della
qualità e dell’estensione dei servizi.
Penso che già da quest’anno noi dovremmo riuscire a fare dei bilanci un elemento programmatico
delle nostre attività, di trattativa e di contrattazione, un elemento di discussione e di confronto con
gli enti locali, con la società civile, con le nostre controparti tutte, non solo Confindustria ma
l’insieme delle associazioni imprenditoriali, e ciò anche per la parte sociale, elemento di rapporto
con i movimenti, penso ai giovani rispetto a piccoli segmenti dei bilanci quali le attività culturali,
l’imprenditoria culturale giovanile attraverso cui passano anche le questioni della coesione.
Il diritto allo studio, lo sviluppo culturale, altre piccole ma interessanti partite di bilancio che
abbiamo sempre trascurato possono essere elementi di riaggregazione sociale anche di un
movimento che in questi due anni abbiamo intrecciato attraverso le questioni della pace, della
globalizzazione o della scuola.
Io penso che tutto ciò rappresenta anche un modello contrattuale e un cambio di fisionomia della
nostra organizzazione che prevede nostri mutamenti, ma questo non è tema né del nostro
dipartimento né di oggi, riguarda invece profondamente la nostra struttura alla stessa maniera di
come i nuovi meccanismi della produzione industriale propongono altri mutamenti.
E’ questo un lavoro che siamo intenzionati a continuare, speriamo in rapporto con l’Ires, che ha
dato oggi un contributo molto importante sia con la struttura nazionale sia con presenze territoriali,
e anche ampliando il coinvolgimento. Osservatorio non osservatorio… sì, osservatorio è bello,
gruppo di lavoro, cioè un lavoro che continua e si articola, e proviamo non solo a vedere i Dpef, ma
i bilanci che in autunno saranno presentati, come diceva giustamente Zumbo, anche con riunioni
regionali, anche perché questo è un lavoro che non deve andare dall’alto al basso ma dal basso
può costruire una politica generale, confederale e nazionale, che deve essere ulteriormente
articolata nel rapporto con i comuni, più complicato, e con le province, dove forse abbiamo una
tradizione maggiore di contrattazione, molto estesa sul sociale in genere, ma più limitata rispetto
alle questioni dello sviluppo e delle infrastrutture.
Io credo che, oltre ad approfondire questa iniziativa, noi dobbiamo mettere in campo anche un
passaggio sulla contrattazione territoriale, comunale, provinciale o intercomunale con una
riflessione anche sui servizi, compresi quelli economici, non sociali, e dobbiamo utilizzare, mettere
in rete le competenze che oggi qui si sono espresse. Io, come i compagni che mi conoscono
sanno, non sono uno che fa molti complimenti, ho un cattivo carattere; dico però che quello che
oggi voi avete prodotto, come anche il lavoro che da qualche mese il dipartimento dello stato
sociale sta producendo, mette in campo conoscenze e competenze che possono essere utili per
l’insieme della nostra organizzazione per portarci a quel livello d’iniziativa che indicavo prima e che
rappresenta lo scontro per la noi dovremmo riuscire difesa e possibilmente l’ampliamento dei
processi democratici in questo paese.
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