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Agostino De Rosa
LA RISONANZA ACUSTICA DEL DISEGNO
Risale al 1885 un disegno (fig. 1) di Sigmund Freud in cui lo psicanalista tenta di graficizzare il meccanismo neurologico che presiede alla rimozione dei ricordi indesiderati; è innegabile che una simile illustrazione racchiuda una complessità di significati
che va anzitutto riferita al non trascurabile peso che invece l’emersione mnemonica
del trauma, secondo Freud, gioca nella soluzione del proprio handicap emotivo, della
propria patologia psichica.
Tuttavia una sua prima analisi suggerisce un’ulteriore duplice riflessione: anzitutto
quella relativa al paradossale compito che qui il disegno assume all’interno della sua
funzione didascalica, vale a dire che Freud fissa nella sua e nella nostra memoria attraverso le linee tracciate dal suo lapis - l’atto della dimenticanza: in altri termini,
disegna/ricorda come si dimentica. Inoltre è significativo - verrebbe da dire, è freudiano - che lo psicanalista ricorra per fare ciò al disegno, in particolare impiegando
uno stile grafico memore di certe incisioni preistoriche o di culture aborigene: con un
gusto probabilmente inconsapevole per la l’archeologia del disegno, come la definirebbe Paul Virillo1, Freud illustra come il flusso di energia proveniente da un neurone
attivo, raggiungendo un altro neurone, attivi il ricordo indesiderato, oppure venga
deviato dall’Io, in virtù di un meccanismo inibitorio noto come ‘investimento laterale’,
dando luogo alla dimenticanza. È qui, in questo ricordare come si rimuove il ricordo
stesso, che riposa una parte non trascurabile e paradossale del significato simbolico
dell’immagine, e per essa del disegno: essa non è solo luogo della memoria ma anche
sede privilegiata dell’oblio, illustrazione della rimozione volontaria o indotta.
C’è da osservare anzitutto che se da un lato l’azione del ricordare attinge ad un aspetto qualitativo sublimato addirittura in una arte della memoria, simmetricamente compare in maniera più discreta nella storia del pensiero occidentale un’ars oblivionalis,
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le sue caratteristiche riguardando più l’aspetto clinico e patologico di un soggetto che
non l’esercizio di una vera e propria tecnica. Ma anche in questo senso, la separazione non sembra così netta: l’ars memorativa classica, a cominciare dal primo testo che
se ne occupa, vale a dire dall’anonimo Ad Herrenium (86-82 d. C.), fornendo precetti pratici per fissare il ricordo di un discorso o di una sequenza di parole, individua nei
luoghi e nelle immagini gli strumenti per costruire la catena di reazioni mnemoniche
auspicata; contemporaneamente, selezionando il desiderato dall’indesiderato, esercita anche un’azione obnubilatrice sul superfluo, su ciò che è lecito o concesso dimenticare.
Le immagini, per lo più scelte all’interno di un repertorio che conservi un forte impatto emotivo, sono sostanzialmente corrispondenti a simboli che individuano e rammemorano con precisione un’azione o un pensiero, meglio se sostenute da una sequenza nota di spazi che le ospitano. Ed è significativo che ancora il disegno assurga a veicolo privilegiato di esposizione di questa ars notoria, in particolare nello splendido
Liber Memoriae Artificialis (Padova [?], 1429) del frate minore Bartolomeo da
Mantova, ove una selva di immagini dipinte (100) a piena pagina su pergamena risulta apparentemente un’incomprensibile raccolta di rebus se non ne è fornita la chiave
di accesso, leggibile nella premessa: solo allora si squaderna la magia di una conoscenza iniziatica.
L’idea che un pittogramma potesse sintetizzare tutto lo scibile umano compare già nei
Flores aurei sive Sacratissima ars notoria, opera attribuita ad Apollonio di Tiana e di
cui esiste un prezioso manoscritto miniato risalente al XIV secolo; ognuno degli schemi grafici (38) presenti nel testo, se osservati e memorizzati seguendo un preciso percorso rituale, sarebbe capace di restituire la complessità di discipline come la geometria, la fisica, la musica etc. Concentrare la propria attenzione su un disegno, sul tessuto di linee ordito da un esperto disegnatore/calligrafo o miniaturista, nel tentativo
non solo di illustrare, ma di trascendere la mera comunicazione formale, risale ad una
tradizione antica e diffusa in tutto il mondo: forse con la stessa attenzione gnostica
verso i simboli della scienza proposti da Apollonio, anche i monaci buddhisti osservavano i loro mandala per attingere ad una conoscenza più profonda e in definitiva
ultima dell’essere, travalicando il divenire.
Ma se un disegno può raccogliere in sé così tanti significati, anche a dispetto dell’essenzialità grafica che lo dissimula, lo stesso disegno può essere indizio di dimenticanza, di sottrazione - volontaria o meno - di prove della propria colpevolezza semantica.
Nell’Inghilterra elisabettiana un brillante prospettivo e paesaggista, incaricato da tale
mrs. Herbert di redigere una serie di dodici vedute della tenuta di Compton House2,
alla fine del suo lavoro è barbaramente accecato dai suoi stessi committenti, non
certo perché scontenti dei suoi eleganti e precisi disegni prospettici, dacché ognuno
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di essi registra, nel modo più obbiettivo - e ottico - possibile e secondo i dettami stilistici dell’epoca, un suggestivo angolo dei giardini che circondano la residenza; tuttavia, queste perfette rappresentazioni ricordano evidentemente qualcosa che, all’insaputa del loro stesso autore, disturba i committenti: sono le prove di un omicidio, che
distrattamente - ma non poi tanto - lasciate in giro, sono state raffigurate dal disegnatore componendo una silenziosa arringa accusatoria, tutta grafica, contro gli
assassini. Questo il plot narrativo de The Draughtman’s contract, il film che il regista
inglese Peter Greenaway ha realizzato nel 1988, e che sintetizza mirabilmente - fra gli
altri - anche il tema del disegno quale luogo in cui si insinua l’ombra della memoria
involontaria, di quel ricordo/segno grafico che è sul limite dell’oblio per il suo stesso
esecutore, ma che per altri attinge ad una complessità di sensi difficilmente immaginabile. Forse mr. Neville, il disegnatore del film di Greenaway, voleva in fin dei conti
essere accecato, voleva cioè non ricordare più; la straordinaria potenzialità di memoria selettiva che egli esercitava con la sua arte - il disegno appunto -, la sua divina illimitatezza e incontrollabilità, può rappresentare un peso spesso insopportabile, che
rasenta le patologie neurologiche analizzate da Oliver Sacks nel suo studio su casi clinici di pazienti iper- e a-mnesici.
Uno degli indizi di memoria semanticamente più complessi in un disegno è fornito
dal tema della citazione, che spesso sconfina nel dolo del plagio. Ciò è particolarmente vero nel caso dell’arte figurativa ove il ricordo degli exempla - classici o meno
- fornisce spesso un blasone stilistico, ma talvolta è segno di una sincera comunanza
di intenti estetici con il passato. Si pensi ad esempio all’opera pittorica di un architetto come Fabrizio Clerici, ed in particolare a due suoi cicli, uno ispirato dalla celebre opera di Böcklin L’isola dei morti, e l’altro memore degli affreschi nel Duomo di
Orvieto di Luca Signorelli: in entrambi la memoria dell’autore vaga tra i propri leitmotiv pittorici e l’ossessiva presenza ora di una spettrale isola cimiteriale, ora dell’immagine di alcune figure umane o dell’Anticristo orvietani, dimostrando che “la memoria non è una lastra passiva, ma è, in realtà, una facoltà creativa, che seleziona e trasceglie le esperienze, e quindi non solo ‘ri-presentifica’ il passato ma lo reinventa”3.
Partendo da questa osservazione, allora come giudicare Guidobaldo del Monte che
nel suo Perspectiva libri Sex (Pesaro, 1600) replica l’impostazione grafica delle costruzioni düreriane allorché deve determinare l’ombra di un cubo in prospettiva; oppure J.
Ozanam che, nel suo Récréations mathématique (1694), ricorda in modo letterale l’anamorfosi dell’occhio di Dio già realizzata da Mario Bettini in Apiaria universae philosophiae mathematicae (Bologna 1642)? Siamo qui in presenza di un ricordo fisiologicamente e culturalmente inquadrabile in un atto di devozione e omaggio da parte
di epigoni letterari, o al contrario di fronte a un’azione di plagio?
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Il corpus di studi sulla prospettiva, fra il Quattrocento e il Settecento, spesso offre il
destro a simili considerazioni, dal momento che ogni testo si stratifica rispetto e grazie al precedente in una forma sempre più prossima ad una visione globale della problematica della rappresentazione piana: si perverrà così paradossalmente alla formulazione del più generale metodo delle proiezioni centrali solo allorché la memoria
delle sue innumerevoli applicazioni - comprese le più fantasiose e bizzarre - si ipostatizzerà in una sorta di canone perpetuo, quello pervenutoci dalla lezione di J. V.
Poncelet4. Una simile analisi confermerebbe quanto osserva Platone sulla vera conoscenza che è reminiscenza, “memoria dell’origine divina. Conservando questa memoria, le anime sanno di non appartenere a questo mondo, e guardano alla loro immortalità come alla loro verità.”5
Ma quale sguardo conosce e ricorda? E come conosce lo sguardo?
L’uomo ci volta le spalle e, appoggiato a un esile bastone, osserva dall’alto di un promontorio roccioso il paesaggio sterminato di cime montuose e nebbie che si srotola
ai suoi piedi; così Caspar David Friedrich (1774-1840) (fig. 2) rappresenta un viandante “su di un mare di nebbia”6 nel 1818. Lo sguardo del wanderer ci è precluso, ma
strategicamente la sua testa occupa il punto di dolce incontro dei monti lontani e di
virtuale fuga sia dei vapori atmosferici che delle linee di profondità; nell’immagine
pittorica è inevitabile pensare, per noi osservatori oculocentrici, che l’uomo stia fissando - e già la perentorietà di questo verbo ne tradisce i limiti fisiologici - l’infinito.
Fissare l’infinito: sembra già presente una contraddizione semantica, un’impossibilità
fenomenica di questo accadimento aggirata da un’ellisse linguistica. La sovrapposizione dell’attesa logica che trascina con sé la posizione fisica della figura umana, allo
schema prospettico-geometrico dell’infinito (l’orizzonte su cui si allineano i punti di
fuga di rette orizzontali) sancisce per via figurativa la necessità di ricorrere alla rappresentazione come veicolo di traduzione di una attività così romanticamente smisurata da essere intelligibile solo se decantata dallo sguardo dell’artista. Nelle parole
dello stesso Friedrich:
l’arte si afferma come mediatrice fra la natura e l’uomo. L’originale è troppo grande ed
elevato perché la massa possa coglierlo. La copia, opera dell’uomo, è più vicina alla
sua debolezza.7
Quest’ultimo inciso mi sembra celi qualche segreto e squaderni, come vedremo, un
ruolo molto pietistico - nell’originale accezione latina - nei confronti dell’idea stessa
di rappresentazione.
Se la raffigurazione di una realtà effettiva o solo immaginata - forse come nel caso
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dei dipinti di Friedrich - si muove lungo il limite che separa terra e cielo, cioè a dire
l’oggetto e la sua stessa immagine, essa appare anche come uno di quei funamboli
orientali che sulla corda tesa sembrano stare per precipitare ma, con uno scatto
improvviso di reni e una piroetta scomposta continuano il loro percorso in equilibrio
su una linea retta quasi invisibile per il pubblico: offrendosi come elementi indistinti
immersi in un àpeiron, gli oggetti fenomenici possono acquistare un loro ‘volto’,
secondo Lévinas, soltanto per il tramite dell’arte, di un’azione rappresentatrice che ce
ne consegna una sembianza,
una facciata, grazie alla quale gli oggetti (...) fanno mostra di sé.8
Pur tuttavia, per quanto l’immagine possa attrarre l’osservatore in virtù di apparenti
e implicite qualità estetiche, essa è pur sempre un sostituto della realtà, un’icona che
riduce l’Infinito a una “immagine finita”: secondo Giampiero Comolli, tale rapporto
sussiste in quanto basato proprio sulla somiglianza della cosa con la sua immagine
silenziosa, quest’ultima compresente nella realtà insieme all’oggetto stesso. Dunque,
“la realtà non è soltanto ciò che è, ma anche il suo doppio: l’essere è rivestito da una
sorta di ‘veste’ che lo duplica, lo raddoppia come una ‘natura morta’”9; così, questo
carapace senza anima, quest’ombra è l’immagine: in ogni rappresentazione, l’immagine dell’oggetto è il testimone silenzioso dell’assenza dell’oggetto stesso, “come se
l’oggetto rappresentato morisse, si degradasse, si disincarnasse nel suo riflesso”10.
Ma allora quale senso può avere rappresentare l’Infinito attraverso uno strumento
destinato, come per sortilegio, a sottrarre infinitezza? Naturalmente l’interrogativo va
qui esteso e ampliato rispetto ai limiti meramente fenomenici; e dunque, a quale
silenzio, svuotamento o estremizzazione di senso è costretto l’infinito, ad esempio, nel
suo raggrumarsi sull’orizzonte prospettico di una rappresentazione geometricamente
concepita? A questo punto è necessario spostare la soglia rispetto alla quale si discrimina il finito dall’infinito spingendola dall’esterno dell’osservatore al suo interno.
Ancora Friedrich scrive: “Il pittore non deve dipingere solo quello che ha davanti a sé.
E se in questo sé non vede nulla, smetta di dipingere anche quello che vede dinanzi a sé”11.
Uno sguardo che, reclino su se stesso sonda le indefinite lande dell’interiorità, in cui
lo sguardo - fisiologico e geometrico - contempla ed è contemplato allo stesso tempo,
sperimentando in quell’istante due modalità gnoseologiche a confronto: quella razionale che riposa sull’esperienza che abbiamo degli oggetti e degli eventi del nostro
ecosistema; lo strumento di questa modalità conoscitiva è evidentemente l’astrazione, una sorta di “mappa intellettuale della realtà nella quale le cose sono ridotte ai
loro contorni”12, proprio per la necessità di analizzare l’immensa mole di dati che la
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natura ci offre secondo criteri scientifici. La conoscenza razionale è dunque caratterizzata da una struttura lineare e sequenziale che, a ben guardare, poco si adatta alla
complessità del mondo naturale, sostituendo in sua vece un modello molto semplificato.
“Cercando di comprendere il mondo, ci troviamo di fronte alle stesse difficoltà che
incontra un cartografo che cerchi di rappresentare la superficie a doppia curvatura
della terra con una serie di mappe piane. Da un procedimento di questo tipo possiamo attenderci solo una rappresentazione approssimata della realtà, e di conseguenza tutta la conoscenza razionale è necessariamente limitata”13.
In questa accezione, la rappresentazione della realtà - che di quest’ultima appare
come una versione sintetica e inevitabilmente ‘angolata’ - nel nostro emisfero geo-culturale tende a sostituire la realtà stessa, laddove la conoscenza mistica ed interiore
invece ne ricerca un’esperienza diretta, scevra dagli influssi del pensiero razionale e
della pura percezione sensoria.
“I buddhisti Zen dicono che serve un dito per indicare la luna: ma non ci si deve più
preoccupare del dito quando si è individuata la luna”14.
Una simile modalità di conoscenza, che i buddhisti definiscono assoluta, prescinde
dalle astrazioni intellettuali e mira alla pratica diretta dell’essenza assoluta, che sfugge a qualunque tentativo classificatorio o meramente descrittivo, mercé l’ausilio dei
limitati strumenti razionali. A essa hanno accesso coloro che attingono a uno stato di
coscienza non ordinario tipico del mistico o di chi esperisce la meditazione. Come recitano le Upanisad, sacra raccolta di testi vedici:
Ivi non giunge la vista, né la parola, e neppure la mente. Non sappiamo né conosciamo in quale modo la si possa insegnare...15
La realtà che si svela alla conoscenza mistica è dunque completamente indifferenziata e indeterminata, e per giunta non si invera attraverso i classici canali sensoriali.
Nonostante sia stato spesso osservato che l’atto gnoseologico nel misticismo orientale si fonda sull’esperienza personale - come nel caso del buddhismo ove esso risulta” radicalmente empirico o sperimentale, indipendentemente dalla dialettica utilizzata in un secondo momento per approfondire il significato dell’esperienza di illuminazione”16 -, ed in particolare sull’esercizio della visione17, è indispensabile precisare
che quest’ultima va intesa in senso metaforico, cioè una percezione che trascende le
qualità immanenti dell’azione fisiologica dell’osservare, pur caratterizzata da un
approccio intuitivo diretto nella natura della realtà. Si pensi al dipinto di Kuwayama
Gyokoshû (1746-1799) ritraente il poeta Matsuo Bashô (1644-1694) (fig. 3): anch’egli è rappresentato con uno sguardo estaticamente rivolto verso l’infinito - e questa
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Fig. 1. Sigmund Freud, Il meccanismo della rimozione, disegno a penna, in “Progetto per una psicologia”,
Vienna 1895.
Fig. 2. C. D. Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela, 1818. Kunsthalle, Amburgo.
Fig. 3. Kuwayama Gyokoshû, Ritratto di Matsuo Bashô, XVIII sec. Museum Rietberg, Zurigo.
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volta visibile a differenza del protagonista del quadro di Friedrich -, proprio nell’atto
di ricevere l’ispirazione istantanea e improvvisa per uno dei suoi celebri haiku18; ma
significativo è notare che l’ispirazione poetica di Bashô sia sostenuta dallo sguardo,
sia condotta a compimento mercé l’azione del Vedere. I leggeri segni calligrafici che
compaiono in un angolo della tela, materializzano così l’epifania del poema attraverso la sua immagine scritturale scaturita dallo scandagliamento - interiore ed esteriore - dello spazio circostante.
Le parole della poesia si dànno quindi come un’apparizione da contemplare, nello stesso momento in cui appare, e si offre alla contemplazione, anche l’immagine della cosa
di cui la poesia parla: la figura di Bashô, dipinto nel Genjû-an, ‘l’Eremo della Visione’,
la sorgente da cui nasce la poesia.19
Ma chi o cosa conduce Bashô, il viandante sui monti immersi nelle nebbie, ma al contempo Gyokoshû e lo stesso Friedrich a osservare e rappresentare inutilmente
l’Infinito? Sicuramente un sentimento, quello necessario ma al contempo sconsolante
di restituire, narrare qualcosa che sfugge al nostro dominio fisico e percettivo, forse
più in generale cognitivo. Rappresentare dunque nell’accezione di re-praesentare, di
“stare per altro”, ma anche nel senso di strumento teso a misurare lo scacco della
visione, il suo limitato orizzonte gnoseologico a fronte dell’estensione infinita del
conoscibile. Ma ecco che si manifesta anche un sentimento di sconcerto nell’accorgerci non solo che l’insondabile fenomenico nasconde, in ombra, “le dimensioni di
profondità della nostra interiorità”20, ma anche che l’immagine da noi o da altri eseguita, e dunque da altri vista prima di noi, ci guarda, ci re-interroga sui perché del
nostro agire. Fra immagine e oggetto l’osservatore misura questa distanza invisibile,
sentendo lacerante - oggi ancor più che nel passato - la contemporanea attrazione e
repulsione verso la rappresentazione.
“L’opera, il racconto, l’opera d’arte, nascono anche da una forma di commozione che
è pietà, amore per ogni cosa del mondo, presa nella solitudine della sua vita”21.
Il desiderio e la volontà di confrontarci con l’Altro rispetto a noi, presente sia pure
sotto forma di icona, è in definitiva il desiderio di riattingere a una condizione archetipica scevra dagli ingombranti dualismi appena descritti, ove è difficile “tenere separati il volto dell’uomo dal volto delle cose... Questo Altro lontanissimo, infinitamente
lontano, che è e non è un Medesimo, è la soggettività al di là di ogni soggettività: è
come un sorriso leggero in cui, esuli, alberghiamo”22.
L’idea di visione e conseguentemente di rappresentazione - grafica o pittorica - che
storicamente si è andata formando, s’innerva dunque di una serie di indicatori cultu-
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rali, filosofici e più in generale antropologici relativi ad una particolare etnia, in un
dato spazio dunque, ma anche in quel dato tempo che l’ha prodotta. Ma questa specificità semantica, questa pluralità linguistica, questa multi-etnicità espressiva sembra
oggi scomparire, se non per emergere carsicamente, grazie al - o forse a causa del ricorso alla dominante elettronica. Il tentativo di imporre un esperanto grafico-espressivo, attraverso le procedure standardizzate dettate da princìpi informatici, appare
come un tentativo di ‘investimento laterale’ al corpus disciplinare del disegno, col
quale talvolta si vogliono rimuovere le conoscenze poste alla base della rappresentazione geometrica della realtà - vale a dire la geometria proiettiva e naturalmente quella descrittiva -, giustificando nella natura autarchica del programma la loro assenza e,
tutto sommato, la loro inutilità.
Ma quale senso ha sottrarre la comprensione dei processi rappresentativi, conservandone solo il risultato finale, il vuoto carapace memore dell’Altro?
Vi è infatti da osservare che il rapido sviluppo, in poco meno di un ventennio, di una
estesa produzione di tecniche di computer graphic ha determinato la repentina riconfigurazione dei rapporti intercorrenti tra il soggetto osservante e le modalità di rappresentazione che effettivamente nullificano la maggior parte dei significati attribuiti in ambito culturale ai termini osservatore e rappresentazione. La formalizzazione e
la diffusione delle immagini generate dal computer annunciano l’elaborazione di
‘spazi’ visivi costruiti in maniera radicalmente diversa rispetto alle capacità mimetiche
del cinema, della fotografia e della televisione. Queste ultime tre, almeno fino alla
metà degli anni settanta, erano generalmente forme di comunicazione omologhe che
ancora corrispondevano alle lunghezze d’onda dello spettro visivo e al punto di vista,
statico o mobile, collocato nello spazio reale. La progettazione assistita, l’olografia sintetica, i simulatori di volo, le animazioni computerizzate, la visione robotica, il ray tracing, il texture mapping, il motion control, gli strumenti per la percezione di ambienti virtuali, le immagini prodotte attraverso risonanza magnetica, e i sensori multispettrali sono solo alcune delle tecniche che stanno ricollocando la visione su di un piano
distinto rispetto all’osservatore umano. Ovviamente altri e più antichi e più familiari
modi di “vedere” non senza difficoltà persisteranno e coesisteranno a lungo accanto
a queste nuove forme. Ma queste tecnologie emergenti della produzione di immagini stanno diventando vieppiù i modelli dominanti di visualizzazione, in sintonia con i
principali processi sociali e con i correlati ruoli istituzionali attribuiti alla visione. E,
naturalmente, esse sono intrecciate con le aspettative delle industrie di informazione
globale e con le richieste crescenti delle gerarchie mediche, militari e investigative. La
maggior parte delle funzioni storicamente rilevanti dell’occhio umano hanno iniziato
ad essere sostituite da pratiche in cui le immagini visive non hanno più alcun riferi-
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mento con la posizione di un osservatore collocato in un mondo ‘reale’, percepito otticamente. Se queste immagini si può dire che siano riferibili a qualcosa, questo qualcosa sono i milioni di bits dei dati matematico-elettronici che le costituiscono. Sempre
più, la visualità è destinata a collocarsi su di un terreno cibernetico e elettromagnetico in cui gli elementi linguistici e astratto-visivi coincideranno e saranno consumati,
fatti circolare e scambiati in forma globale.
Per comprendere questa inesorabile astrazione del visuale e evitare di fraintenderla
ricorrendo a spiegazioni meramente tecnologiche, sarebbe necessario porsi molte
domande e dare conseguentemente molte risposte. Fra queste domande alcune delle
più cruciali sono di natura storica. Ma se in effetti c’è un progressivo mutamento nella
natura della visualità, che forme o che modi ci siamo lasciati alle spalle? Di che tipo
di cesura si tratta? Ma allo stesso tempo, quali sono gli elementi di continuità che
legano l’immaginario contemporaneo alle precedenti organizzazioni del visuale? Fino
a che punto, se non completamente, la grafica computerizzata e i contenuti di una
videata rappresentano un’ulteriore elaborazione e un perfezionamento di ciò che Guy
Debord ha definito come la “società dello spettacolo”? Qual è la relazione fra l’immaginario digitale dematerializzato tipico dell’era presente e la cosiddetta epoca
della riproduzione meccanizzata? Le domande più impellenti, tuttavia sono di più
ampio respiro. In che modo il corpo, compreso il corpo osservante, sta diventando una
componente delle nuove macchine, economie, apparati, sia sociali, libidinali che infine tecnologici? Secondo quali percorsi la soggettività sta diventando una precaria
condizione di interfaccia tra i sistemi razionalizzati di scambio e i networks d’informazione? Non esiste ancora una risposta a questa serie di domande, ma ricorrerò,
concludendo, alle parole di un amico, W.A. Mathieu, musicista e docente di teoria
armonica presso il Mills College di San Francisco (CA), che in uno dei suoi libri più stimolanti, non solo per gli addetti ai lavori, intitolato The Listening book. Discovering
your own music23, interrogandosi sulla natura e sulla qualità espressiva degli strumenti elettronici, osservava: “Non sono un appassionato degli strumenti elettronici,
intendendo con essi sia i sintetizzatori che i campionatori. Non è che non mi piacciano… È solo che quando ti disponi ad ascoltare profondamente uno strumento acustico riesci ad udire il legno, il respiro, le fibre di una canna. Quando invece ti disponi
ad ascoltare profondamente della musica elettronica, riesci ad udire solo elettroni. Mi
piacciono gli elettroni. Ma amo il legno, il respiro, la pelle e i capelli. So di essere fatto
di elettroni… Ma si tratta di infrastrutture, non di oggetti del desiderio. Essi sono ciò
che mi permettono di ascoltare, non ciò che voglio ascoltare”24.
Credo che nel passo citato vi siano parecchi temi di riflessione, ma preferirei sottolinearne solo alcuni connessi al tema di questa riflessione: anzitutto il carattere cogni-
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tivo - nel senso più profondo del termine - che si rinviene nell’aspetto iletico25 del
disegno (tradizionale), il fatto cioè che esso si innervi di materia - china, carta, matita, linee dotate di spessore, strappi e ripensamenti - e dunque anche di memoria. Mr.
Neville esegue le sue prospettive, non totalmente consapevole della straordinaria
risorsa cognitiva e mnesica - il disegno, appunto - posta nelle sue mani, rappresentando anche ciò che non dovrebbe. Sempre muovendoci in ambito musicale, Toru
Takemitsu, il compositore giapponese recentemente scomparso, affermava che nella
musica tradizionale nipponica esiste un’espressione, sawari, che indica un suono emesso da strumenti acustici, come lo shakuachi - fatto di altri suoni, un suono stratificato, nel quale riconoscere o ricordare musiche già udite o che si udranno. Credo
che anche nel disegno tradizionale riposi l’eco di altri segni e di memorie grafiche che
mai nessun computer aided design potrà mai campionare: l’errore nel tracciamento di
una linea, gli equilibri tra pieni e vuoti in un tratteggio, il raccordo tra linee faticosamente tracciato per ricomporre l’andamento di una curva, sono tutti documenti che
registrano ‘ad alta definizione’ i processi di apprendimento e visualizzazione, da parte
del disegnatore, della complessità spaziale, rinunciando - almeno per un po’ - all’uniformità ‘democraticamente dittatoriale’ imposta da plotter e stampanti, alla moderna perdita di senso dettata da un gesto antico: quello del disegno.
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Note
1
“Il campo della visione mi è sempre parso simile ad uno scavo archeologico”. Cfr. DE ROSA A.,
Proiezioni dello spazio etereo, in DELL’AQUILA M., DE ROSA A. (a cura di), Proiezione e immagine. La
logica della rappresentazione, Arte Tipografica, Napoli 2000.
2
In realtà il nome di Compton House è un’invenzione di P. Greenaway: il film è infatti ambientato
in una villa settecentesca presso Groombridge, nel Kent. Cfr. BENCIVENNI A., SAMUELI A., Peter
Greenaway. Il cinema delle idee, Le Mani, Recco 1996; WOODS A., Being naked playng dead. The art
of Peter Greenaway, Reaktion Books ltd., Manchster 1996; ELLIOT B., PURDY A., Peter Greenaway.
Architecture and allegory, Academy Editions, Londra 1997.
3 F. FERRAROTTI, Al setaccio della storia, “Sfera”, n. 41, Sigma-Tau ed., Roma, agosto-ottobre 1994, p. 8.
4
Cfr. PONCELET J. V., Traité des propriétés projectives des figures, Bachelier, Parigi 1822.
5
GALIMBERTI U., Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 1988, p. 23.
6
Amburgo, Kunsthalle.
7
FRIEDRICH C. D., Scritti sull’arte, Società Editoriale, Milano 1989, p. 21.
8
LÉVINAS E., Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 141.
9 COMOLLI
G., Risonanze/Saggi sulla scrittura, il mito, l’Oriente, Theoria, Roma-Milano 1993, p. 49.
10
LÉVINAS E., La realtà e la sua ombra, in “Nomi Propri”, Marietti , Casale Monferrato 1984, p. 181.
11
FRIEDRICH C. D., op. cit., p. 81.
12
CAPRA F., Il Tao della Fisica, Adelphi, Milano 1993, p. 31.
13
Ivi.
14
Ibidem, p. 32.
15
Kena-upanisad, I, 3.
16 SUZUKI D. T., On Indian Mahãyãna Buddhism, a cura di CONZE E., Schocken, New York 1968, p. 237.
17
Il primo precetto dell’Ottuplice Sentiero - raccolta di prescrizioni buddhiste - è appunto il “retto
vedere”. Cfr. SUZUKI D. T., Outlines of Mahãyãna Buddhism, Schocken, New York 1963.
18
Forma poetica giapponese consistente di diciassette sillabe.
19
COMOLLI G., op. cit., p. 83.
20
RILKE R. M., Lettera a Muzot, 11 Agosto 1924.
21
COMOLLI G., ivi, p. 64.
22
Ivi, p. 68.
23
MATHIEU W. A., The Listening book. Discovering your own music, Shambala, Boston 1991.
24
Ivi, p. 98.
25
Dal greco hylê, materia.