Orfeo - FUSS

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Orfeo - FUSS
MITO DI ORFEO
Orfeo
Già dall’antichità, sicuramente, Orfeo esercita il fascino drammatico di una figura che abita sia il mondo
dei vivi che quello dei morti.
Originario della Tracia, si trattava del figlio di un re e della musa Calliope, e le Muse gli avevano
insegnato a suonare la lira di cui Apollo in persona gli aveva fatto dono: tale strumento lo avrebbe
accompagnato sempre, conferendo al suo canto il potere magico di incantare la natura, di ammansire le
fiere e di far vivere addirittura le rocce ed i sassi.
La lira è forse la prima vera amante di Orfeo, e scoraggia nelle fasi più antiche del mito la presenza di
donne accanto a lui. Il primo Orfeo per i Greci è agamos, senza moglie, e solo dopo viene collegato alla
ninfa Euridice.
Euridice, una volta moglie di Orfeo, viene uccisa dal morso di un serpente, ma l’arte del mitico cantore
fa sì di commuovere il re degli Inferi, Ade, il quale concede ad Orfeo di scendere nell’al di là e di
riportare in vita Euridice, a condizione di non voltarsi mai a guardarla prima di essere giunto in
superficie. Questo divieto corrispondeva ad una credenza antica secondo la quale non bisognava
voltarsi a guardare gli spiriti, i fantasmi, le creature infernali, perché incontrare lo sguardo dell’Altro
poteva rendere per sempre prigionieri della morte, ossia l’Altro per eccellenza.
Purtroppo, proprio nell’attimo della sua esistenza più denso, forse, di attesa e di speranza in una nuova
vita, Orfeo, simbolo della capacità del poeta di sconfiggere le tenebre della morte con la forza
eternatrice del canto, si mostra nella sua umana fragilità: dimenticando – lui nipote di Mnemosyne –
l’ingiunzione degli Dei infernali, si volta indietro, e riesce solo a vedere la sposa per l’ultima volta, prima
che venga rapita di nuovo nell’Ade.
La disperazione per la perdita della moglie provoca in Orfeo un atteggiamento misogino e sprezzante
nei confronti delle donne di Tracia che, esasperate, lo dilaniano e gettano la testa e la lira nel mare; da lì
i resti di Orfeo approdano nell’isola di Lesbo, dove vengono sepolti. Il cantore si lega così nella morte
alla terra che sarà la madre storica di grandi poeti: Alceo e Saffo.
Le riletture del mito di Orfeo
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La lettura di Virgilio, nelle Georgiche, ci fa riflettere su come il mistero della morte si possa
svelare e vincere solo per un attimo. L’Euridice di Virgilio sembra salvarsi dalla crudeltà del
destino, ma per poco, perché in un attimo svanisce come fumo nel vento (ceu fumus in auram, ci
dice il poeta), ineluttabilmente e per sempre, pur non volendo, a causa di una subita dementia –
improvvisa follia – di Orfeo che si volta.

Gesualdo Bufalino, ha scritto Il ritorno di Euridice, in cui immagina la conclusione più beffarda e
più amara:
Ripensò al suo uomo, al loro ultimo incontro. Ci ripensò con fierezza. Poiché il poeta era venuto qui per lei, e aveva
sforzato le porte con passo conquistatore, e aveva piegato tutti alla fatalità del suo canto. Perfino Menippo, quel buffone,
quel “fool”, aveva smesso di sogghignare, s’era preso il calvo capo tra le mani e piangeva, fra le sue bisacce di fave e lupini.
E Tantalo aveva cessato di cercare con la bocca le linfe fuggiasche, Sisifo di spingere il macigno per forza di poppa... E la
ventosa ruota d’Issione, eccola inerte in aria, come un cerchio d’inutile piombo. Un eroe, un eroe padrone era parso. E
Cerbero gli s’era accucciato ai piedi, a leccargli con le tre lingue i sandali stanchi...
Ade dalla sua nube aveva detto di sì.
Rivide il seguito: la corsa in salita dietro di lui, per un tragitto di sassi e spine, arrancando col piede ancora zoppo del
veleno viperino. Felice di poterlo vedere solo di spalle, felice del divieto che avrebbe fatto più grande la gioia di
riabbracciarlo tra poco.
Quale Erinni, quale ape funesta gli aveva punto la mente, perché, perché si era irriflessivamente voltato?
“Addio!” aveva dovuto gridargli dietro, “Addio!”, sentendosi la verga d’oro di Ermete picchiare piano sopra le spalle. E
così, risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanarsi verso la fessura del giorno, svanire in un pulviscolo biondo...
Ma non sì da non sorprenderlo, in quell’istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le
corde con entusiasmo professionale...
L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava: “Che farò senza Euridice?”, e non sembrava
che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti ad uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto,
da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta...
La barca era tornata ad andare, già l’attracco si intravedeva tra fiocchi laschi e sporchi di bruma. Le anime stavano
zitte, appiccicate tra loro come nottole di caverna. Non s’udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi
nell’acqua. Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente, capì:
Orfeo s’era voltato apposta.
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Vecchioni, nella sua canzone Euridice, immagina che Orfeo si volti consapevolmente a guardare
Euridice, scegliendo in prima persona di decretarne per sempre la morte. Questo perché voler
riportare in vita chi ormai è morto pare più un atto di egoismo che di amore, cosa che Orfeo
capisce in extremis una volta sceso nell’Ade, superato il primo immenso dolore per la morte della
moglie. Orfeo nella canzone non è succube del destino e del volere di Ade, ma è capace di
scegliere da solo (nella canzone si insiste molto sull’uso della prima persona)
Link alla canzone:
https://www.youtube.com/watch?v=id6O7j8sC2Y