Le sorti del Pollaiolo

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Le sorti del Pollaiolo
La sorte dei Pollaiolo
È stato Giorgio Vasari, nella sua Vita di Antonio e Piero del Pollaiolo scritta nel 1550, a mettere a
punto quel ritratto dei due fratelli che ha poi condizionato il giudizio della moderna storia dell’arte,
fino a oggi. Per Vasari, Antonio fu un grande pittore e scultore, autore a Firenze di celebri dipinti e
a Roma, in San Pietro, delle tombe di due papi; Piero invece sarebbe stato semplicemente un
collaboratore del fratello maggiore, dalla cui ombra non riuscì mai ad emergere. Se però si studiano
più attentamente i documenti d’archivio e le testimonianze lasciate dai contemporanei su questi due
fratelli, figli di un venditore di polli al Mercato Vecchio di Firenze (da cui il soprannome), si ricava
una realtà ben diversa. Antonio (1431/32 – 1498) fu certamente il più geniale dei due, ma dipinse
pochissimo, concentrandosi piuttosto sulla scultura (in bronzo, terracotta, stucco e legno) e
soprattutto sull’oreficeria. Il vero pittore fu invece Piero (1442 – morto dopo il 1485), artista
praticamente dimenticato, ma che ci si rivela oggi dotato di una personalità autonoma e
riconoscibile.
La mostra al Poldi Pezzoli è stata dunque pensata per proporre al pubblico e agli studiosi
un’immagine non stereotipata dei due fratelli Pollaiolo e dei loro rapporti di lavoro: la pittura non vi
assume un predominio assoluto ma dialoga con le tante altre tecniche in cui sapevano esprimersi gli
artisti del Quattrocento fiorentino. Ad accogliere il visitatore è Antonio nella veste che i
contemporanei riconoscevano come la sua principale: quella di orafo. Ciò è stato reso possibile
dall’eccezionale prestito della grandiosa croce d’argento del Battistero di Firenze, alta quasi due
metri, generosamente concessa dal Museo dell’Opera del Duomo. Ad Antonio spetta la metà
inferiore di questo sontuoso oggetto (cioè il piede e il nodo), mentre la croce vera e propria si deve a
un maestro oggi praticamente sconosciuto, Betto di Francesco Betti. Si tratta per il Pollaiolo senior
del primo incarico importante, ottenuto nel 1457, a 25 anni, vincendo un concorso. Popolata da
decine di figure realizzate a smalto, a sbalzo o a fusione, l’opera dimostra come egli avesse già
sviluppato una predilezione per personaggi definiti da un tratto nervoso e da una accesa
espressività.
La bottega orafa di Antonio del Pollaiolo, che si trovava in via Vacchereccia, a due passi da piazza
della Signoria, era un indirizzo celebre a Firenze. Qui, affiancato da soci e giovani aiutanti, il
maestro realizzava non solo croci, candelieri e rilegature di vangeli, ma anche oggetti profani come
fibbie da cintura, elmi da parata, posate di lusso... Antonio vi trascorreva però anche molto tempo a
disegnare, dando vita a singole figure o a intere scene che altri artefici potevano poi tradurre nelle
tecniche più diverse, dal ricamo alla tarsia. In mostra è esposto uno scelto gruppo di suoi disegni,
realizzati nell’arco di tutta la sua carriera, tra i quali spicca l’Arciere dei Musei di Berlino, un’opera
della maturità che mostra la straordinaria perizia del Pollaiolo nella rappresentazione della figura
nuda in azione, un campo nel quale non aveva concorrenti (come riconosceva già Vasari).
Lo dimostra anche quell’autentica opera-manifesto della poetica di Antonio che è la celebre
incisione con la Battaglia dei dieci nudi (firmata), spettacolare sintesi delle sue capacità come orafo
e disegnatore: si tratta infatti di uno stupendo disegno di figure nude impegnate in una furibonda
mischia, realizzato col bulino su una lastra di rame, tra i primissimi esempi in Italia di questa
tecnica. Un altro bell’esempio dello sperimentalismo di Antonio è offerto da un poco noto scudo
da parata in legno e gesso che proviene dal Louvre, dove è stato restaurato in occasione della mostra
di Milano. Commissionato dalla famiglia senese dei Landucci, è un oggetto da collegare al mondo
delle giostre e dei tornei, così amati e frequenti nelle città italiane del Quattrocento. Raffigura, a
rilievo, la Morte di Milone di Crotone, il mitico atleta antico che rimase intrappolato da un tronco
che cercava di spaccare a mani nude: di nuovo la rappresentazione di uno stato emotivo estremo e
di un dolore disperato. Affascinato dalla rappresentazione di azioni violente e drammatiche nonché
dal meccanismo del corpo umano – che secondo Vasari egli apprese anche studiando anatomia sui
cadaveri –, Antonio individuò presto il suo soggetto prediletto nelle Fatiche di Ercole, un tema sul
quale ritornerà per tutta la vita. Una prima versione fu costituita da tre vaste tele che dipinse nel
1460, insieme al giovane fratello Piero che esordiva proprio allora, per la sala grande di Palazzo
Medici a Firenze.
Quelle opere sono andate perdute da secoli, ma la precisa descrizione che ce ne ha lasciato Giorgio
Vasari ha permesso di riconoscere in una coppia di tavolette degli Uffizi delle repliche in miniatura
che Antonio trasse da due di quei tre quadri: Ercole che stritola Anteo e Ercole che combatte con
l’Idra. La forza esplosiva dell’azione, la grinta dei protagonisti, l’incisività dei profili che esalta la
violenza dello scontro, sono tutte cose perfettamente in linea con la personalità del maggiore dei
due Pollaiolo. In mostra sarà possibile per la prima volta vedere questi due affascinanti dipinti
accanto a un’altra tavoletta, da sempre attribuita anch’essa ad Antonio, ma che vorremmo invece
restituire qui a Piero. Concessa in prestito dalla National Gallery di Londra, la piccola ma stupenda
opera raffigura un’altra vicenda della mitologia: la ninfa Dafne che viene trasformata in albero
d’alloro per sfuggire ad Apollo, follemente innamorato di lei. Qui il registro stilistico è
completamente diverso, lirico, quasi malinconico, sensibile ai modelli della pittura fiamminga.
L’aspetto grafico e disegnativo – sempre dominante in Antonio – perde importanza rispetto a valori
più propriamente pittorici: la bellezza dei tessuti preziosi, gli incarnati pallidi e perlacei, la resa
atmosferica dello sfondo... La metamorfosi accade come al rallentatore sotto gli occhi di Apollo,
elegantissimo nella sua giubba di seta ricamata di polvere d’oro, su un paesaggio vaporoso di
nebbioline e colline pervinca. In un’opera come questa, e in altre presentate in mostra (a cominciare
dai famosi ritratti femminili di profilo, con lo splendore delle loro maniche di broccato e delle loro
perle trafitte da un raggio di luce), si apprezza appieno la qualità di un pittore troppo trascurato e
che da 450 anni attende il suo risarcimento: Piero del Pollaiolo.
Aldo Galli e Andrea Di Lorenzo, curatori della mostra