da Giorgio Franchetti a Giorgio Franchetti. Collezionismi alla Ca` d`Oro

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da Giorgio Franchetti a Giorgio Franchetti. Collezionismi alla Ca` d`Oro
da Giorgio Franchetti a Giorgio Franchetti. Collezionismi alla Ca’ d’Oro La Caʹ dʹOro di Giorgio Franchetti. Da Palazzo a Museo. Un sogno di bellezza tra luce e pietra testo di Claudia Cremonini, curatore Lʹacquisto del Palazzo La storia di Caʹ dʹOro ha tante epoche. Due sono tuttavia le grandi tappe che scandiscono la rilevanza pubblica dellʹedificio, segnandone fama e identità culturale. Espressione sfavillante di fasto e magnificenza nella Venezia rinascimentale di primo Quattrocento, quando il ricco mercante Marino Contarini fece erigere, tra il 1421 e il 1440 circa, la sua ʺdomus magna sora il Chanal Grandoʺ a monumentale status symbol del prestigio famigliare, il celebre ma ormai degradato edificio tardogotico ‐ frazionato, riadattato a mutevoli esigenze abitative, più volte manomesso e restaurato nel corso dei secoli, fino allʹinvasivo e criticatissimo intervento di Giovan Battista Meduna realizzato tra il 1847 e il 1850 ‐ conobbe la sua seconda rinascita sullo scorcio dellʹOttocento, quando il barone Giorgio Franchetti, in unʹappassionata operazione di tutela ante litteram contro le minacce incombenti di riutilizzi commerciali allʹepoca già dilaganti, rilevò lʹimmobile, nel 1894, facendone il serbatoio eletto di un lungimirante sogno di bellezza e arte. Prese avvio da lì quella complessa vicenda di rilancio identitario e recupero architettonico, volta a far rivivere lo splendore di una delle più prestigiose dimore del patriziato veneziano, sulla quale si innestò lʹavventura collezionistica e museale vera e propria, ultima tappa di un lungo cammino ancora in corso. I restauri dellʹedificio, la donazione allo Stato e la genesi del Museo Dopo una prima fase dedicata al restauro dellʹedificio, in cui unico obiettivo definito era quello di restituire alla Caʹ dʹOro il suo aspetto originario di dimora patrizia quattrocentesca, fu soltanto negli anni della guerra che maturò lʹideazione della ʺcasa‐
museoʺ e della futura Galleria, concretizzatasi nel 1916 con la donazione allo Stato delle raccolte dʹarte e del palazzo stesso. I complessi lavori di ripristino della fisionomia delle antiche strutture, avviati già negli anni Novanta dellʹOttocento, ma poi interrotti e portati a termine negli anni Venti del nuovo secolo, avevano comportato ‐ oltre al restauro della facciata e allʹallestimento della Cappella del Mantegna ‐ il recupero dei grandi ʺporteghiʺ affacciati sulle logge e, soprattutto, il riassetto del cortile, cui Franchetti riuscì a riguadagnare lʹoriginaria vera da pozzo scolpita da Bartolomeo Bon (1427) e dove fu rimessa in uso, recuperandone in parte i frammenti, lʹoriginaria scala su arcate a sesto acuto, smantellata nella prima metà dellʹOttocento e ricomposta con materiali di riutilizzo. Il mosaico pavimentale dellʹatrio Lʹimpronta tuttavia più suggestiva, a suggello del gusto raffinato del committente e del suo diretto impegno nel recupero estetico e funzionale dellʹedificio, rimane quella dellʹinconsueto mosaico dellʹatrio in opus sectile ispirato ai pavimenti cosmateschi e agli esempi della basilica marciana, cui il nobiluomo lavorò personalmente, a più riprese, sin dai primi interventi ottocenteschi attuati sul palazzo, con lʹausilio dei consigli di Gabriele 1
DʹAnnunzio e del letterato e amico Angelo Conti, prodigandosi con entusiasmo e tenacia nella faticosa impresa fino alla morte nel 1922.Vera e propria ʺinstallazioneʺ, autonoma e originale, lʹidea del mosaico pavimentale, riambientato nel portico da basso di un edificio privato, ben testimonia dello spirito con cui il barone affrontava il delicato problema del ʺrestauro dʹarteʺ, sempre sottilmente in bilico tra impulso filologico e slancio creativo, tra ricostruzione del preesistente e creazione di unʹopera dʹarte nuova, capace di trasmettere ai posteri una sua personale e soggettiva idea di ʺvenezianaʺ bellezza. Per realizzare lʹopera Franchetti non si accontentò di marmi e pietre di cavatura moderna, ma si prodigò lungamente per procurarsi marmi antichi, che fece arrivare soprattutto da Roma, privilegiando i più rari e preziosi. Ricorda Ugo Ojetti: «Voleva che visitaste la sua Caʹ dʹOro con lui, solo con lui, vi conduceva dappertutto, dai merli al portego, si metteva in ginocchio a mostrarvi con le sue mani come sʹavevano da commettere i mosaici dellʹandrone, con le tessere ineguali ʺcome a San Marco, bada, come a San Marcoʺ, vi spiegava la tecnica del mosaico da Roma a Ravenna, da Salonicco a Palermo...». Nel 1943, nel suo volume su DʹAnnunzio a Venezia, Gino Damerini scriveva, a proposito della dedizione di Franchetti alla sua opera pavimentale: «E spesso coloro che erano ammessi alla visita scorgevano un operaio intriso di sudore e di polvere di cemento, prono sul pavimento del pianterreno, con due suole di scarpe legate ai ginocchi per potersi trascinare su quelle di metro in metro, lavorare assiduo ed attento a un grande mosaico che nulla aveva da invidiare, per lo spirito arcaico, ai mosaici di san Marco...». La Cappella del Mantegna Cuore sacralizzato della raccolta e primissimo tra gli interventi compiuti da Franchetti fu la cosiddetta Cappella del Mantegna, con al centro la dolente immagine del San Sebastiano, attorno alla quale il barone aveva ideato un suggestivo vano architettonico, interamente rivestito di marmi, che riproduce le forme e lʹatmosfera di una cappella rinascimentale. Allʹinterno di un vero e proprio altare era ed è incastonata la tela, tra le opere più spietatamente drammatiche del pittore. Lʹopera, che era stata acquistata nel 1893 dalla pinacoteca di Antonio Scarpa a Motta di Livenza, per la somma di 40.000 lire, costituisce ancor oggi lʹicona del museo, mantenendo sostanzialmente inalterata la sistemazione voluta dal proprietario allʹinterno di un percorso museale che ha subito negli anni inevitabili modifiche e revisioni. Sono le parole dello stesso collezionista, riferiteci ancora una volta da Ugo Ojetti nel 1922, a evocare il nesso ideale che lega questa immagine ʺeroicaʺ di dolore alla figura di Franchetti, al suo impegno tenace e ostinato di fare della Caʹ dʹOro un luogo eletto di bellezza e arte, alla sua stessa vicenda‐umana, segnata da un ʺsogno di universalità del belloʺ spinto spesso fino alla ricerca sofferta e sfibrante della perfezione: «In basso, ai piedi del santo, il Mantegna ha dipinto un torcetto acceso che, sotto quello spasimo imprigionato in tanto poco spazio, fumiga come sotto un vento dʹuragano. Franchettí ce lo indicò, con un mesto sorriso: ‐ Vedi questo piccolo cero. Sono io. E mʹilludo di fare un poco di luce». E a fare ʺun poco di luceʺ il nobiluomo riuscì certamente, nel suo progetto, maturato nellʹarco di quasi un trentennio, di restaurare la superba dimora tardogotica e di farne la degna cornice alle sue raccolte dʹarte, nonostante la morte sopraggiunta nel 1922, proprio quando lʹarredo e lʹallestimento degli interni riprendevano il loro lento percorso dopo una lunga e snervante battuta dʹarresto. Il male che lo costrinse a togliersi la vita nel dicembre di quellʹanno non gli consentì di veder concluso il suo sogno, ma i lavori continuarono sotto la supervisione del figlio Carlo, del soprintendente Fogolari e dellʹingegnere Ferdinando Forlati della Soprintendenza ai Monumenti. 2
Lʹinaugurazione della Galleria nel 1927 Nel 1927 la Galleria intitolata al fondatore fu inaugurata e aperta al pubblico. Restano oggi, a testimonianza dell’ordinamento degli anni Venti, le foto realizzate in occasione delle prime guide del museo. L’allestimento delle raccolte ‐ abbozzato da Franchetti nella soluzione di alcune stanze soltanto, ma interrotto dopo la morte ‐ fu portato avanti con criteri ispirati a un gusto amatoriale, dove il modello ottocentesco del vecchio museo di stampo ambientalistico, volto a restituire il clima di un tempo passato, si coniugava con soluzioni di sapore antiquariale, basate spesso sulla commistione di pezzi del tutto diversi tra loro per genere e cronologia. L’originario nucleo di dipinti, arazzi, sculture, tappeti orientali e arredi, era nel frattempo stato integrato, e lo fu ancora nel corso delle campagne di lavori degli anni Settanta‐Ottanta, con l’apporto di opere provenienti dalle Gallerie dell’Accademia, dal Museo Archeologico e dai depositi demaniali, il cui afflusso portò poi all’ordinamento odierno, teso a razionalizzare, secondo linee guida tematiche, l’aggregazione progressiva di manufatti eterogenei. Un prestigioso nucleo di sculture e bronzi rinascimentali (si citino per tutti il pregevole Doppio Ritratto di Tullio Lombardo o il rilievo marmoreo con la Porzia di Giovanni Maria Mosca, i grandi bronzi di Andrea Riccio provenienti dalla chiesa dei Servi, quelli di Vittore Camelio e del maestro dell’altare Barbarigo e il raffinatissimo Apollo di Jacopo Bonaccolsi detto l’Antico, proveniente dalla collezione Pasqualigo) andò ad aggregarsi ai pochi esemplari scultorei della raccolta Franchetti, mentre una nuova sezione dedicata alla ceramica veneziana, venutasi a costituire a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e aperta al pubblico nel 1992, ha trovato spazio in alcuni ambienti dell’attiguo Palazzo Duodo. Il Museo oggi Ingenti lavori di riallestimento, restauro e adeguamento funzionale degli impianti e dellʹintero edificio — con integrazione di ambienti dedicati ai servizi e alle funzioni di conservazione e manutenzione — sono stati intrapresi dal 1969 e hanno comportato la chiusura prolungata della Galleria, riaperta e completamente rinnovata nel 1984. Nellʹoccasione furono effettuate campagne di restauro a tappeto sulla quasi totalità delle opere e si intraprese un completo riassetto del percorso museale, volto a unificare ʺlʹaspetto alquanto discontinuo e disomogeneoʺ delle raccolte e ispirato a nuovi criteri di riordino cronologico e tipologico dei nuclei collezionistici, divenuti col tempo irrinunciabili alla luce dei parametri museografici dell’epoca e degli ulteriori apporti di donazioni private e di beni demaniali (tra cui il celebre ciclo di affreschi di Tiziano e Giorgione provenienti dal Fondaco dei Tedeschi). La messa a fuoco delle vicende storiche che determinarono la nascita del museo e il risarcimento della memoria del grande ʺsogno di bellezza e arteʺ concepito dal fondatore della Galleria avviati in occasione di questa mostra costituiscono la prima tappa di un progetto globale di revisione degli allestimenti e riordino delle raccolte divenuto ormai improrogabile, specie dopo la recentissima conclusione dei lavori per la climatizzazione del museo e i restauri avviati su alcuni dei manufatti ricoverati nei depositi, che si porrà tra i suoi obbiettivi anche quello della restituzione ideale – almeno per quel che riguarda gli ambienti che ospitano l’originario nucleo della collezione Franchetti – del gusto estetico raffinato ed eletto che ispirò le scelte del nume tutelare del luogo. 3