Il grande sogno di David Lynch
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Il grande sogno di David Lynch
Il grande sogno di David Lynch di ANTONELLA BELLIFEMINE “The Big Dream” è il secondo pazzo album di David Lynch, regista, pittore, fotografo, artista a 360 gradi. Quale sia però questo grande sogno non è dato sapere. È una narrazione surreale questo disco, in cui si vaga come nella nebbia tra suoni impalpabili misti a squarci cupi, come nell’attesa di un cattivo presagio… insomma sembra di essere in uno dei suoi film, infatti questo disco sarebbe una giusta colonna sonora alla Lynch. La chiave per entrare nel suo mondo musicale la dà lui stesso: il blues, “quel suono così onesto e così emozionante per l’anima a cui torno, perché ci si sente così bene”. 1/3 Il grande sogno di David Lynch Eppure si ha una leggera vertigine e un piccolo smarrimento all’inizio dell’ascolto di questo “grande sogno” perché il blues di Lynch è ricerca e sperimentazione, non è individuabile all’istante, c’è dentro l’elettronica, la dance, il rock. Il viaggio onirico di Lynch incomincia con l’omonima “The Big Dream”, un lento elettro blues narcotico in cui, cercando il senso del grande sogno, ci imbattiamo in parole perse nel vento, un “vento che soffia tra gli alberi e le stelle” e “una notte in cui sognare insieme”, niente spiegazioni dunque, perché “è arrivato il tempo di pronunciare le parole che vogliamo sentire”. La seguente “Star Dream Girl” è un blues sporco alla maniera di Tom Waits e “Last Call” è un trip hop che striscia sinuoso, trasportandoci verso “Cold Wind Blowin”, una ballata con lente e vacillanti chitarre elettriche, forse la canzone più semplice e immediata, con una malinconia tipicamente blues. Con “Wishin' Well” e “We Rolled Together” ci addentriamo in quella parte del sogno che diventa inquietudine, serpeggia una strana tensione, il viaggio onirico diventa incubo. Più tradizionale “Sun Can’t Be Seen Anymore”, un rockabilly, che vede la partecipazione del figlio Riley come chitarrista, in cui la nota straniante è la voce di Lynch, un gorgheggio strozzato, quasi una caricatura, non senza un filo d’angoscia. “The Line It Curves” inaugura la terza fase del sogno, quella in cui si esce dall’incubo per entrare in una dimensione limpida e sospesa, leggera come questo brano, a cui segue la conclusiva “I’m Waiting Here” cantata dalla svedese Lykke Li, una voce angelica che ci culla e ci accompagna dolcemente al risveglio. È un disco ben studiato, una metafora che è un viaggio della mente, un sogno che ha mille sfumature e mille stati d’animo, un album fatto di sensazioni e d’immagini. Non c’è niente di concreto, siamo in un sogno indefinibile e sfuggente, tra la realtà e l’inconscio, 2/3 Il grande sogno di David Lynch in quello spazio di surrealtà tanto caro ai surrealisti, e infatti potrebbe essere benissimo un quadro di Dalì questo disco. In questo angolo di pseudo realtà c’è spazio anche per una cover di “The Ballad Of Hollis Brown” di Bob Dylan, una storia nera a tempo di blues ambientata nell'America profonda e i cui temi, povertà e disperazione che sfociano in violenza e tragedia familiare, combaciano alla perfezione con la sua visione beffarda del mito americano. Dean Hurley cura il suono, ancora al suo fianco come in passato. Avviso ai viaggiatori onirici: la voce di Lynch non è per niente quella che si può definire una bella voce, è stridula e metallica, poco rassicurante, distorta e aliena. Fate attenzione perché potrebbe stordirvi, traghettandovi in una di quelle autostrade americane deserte e spettrali, come nel video di “I’m Waiting Here”. Forse però ne vale la pena. 3/3