MANIFESTAZIONE DEL LIBERO PENSIERO: IL LIMITE. DOVE
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MANIFESTAZIONE DEL LIBERO PENSIERO: IL LIMITE. DOVE
MANIFESTAZIONE DEL LIBERO PENSIERO: IL LIMITE. DOVE FINISCE UN GESTO? “Sono il passaggio dall’ombra alla luce, sono insieme l’occidente e l’aurora. Sono un limite, un rapporto” (Aragon, Il paesano di Parigi). Definizione di diritto alla libertà di manifestazione del pensiero • Consiste nella libertà di esprimere le proprie idee e di divulgarle ad un indeterminato numero di destinatari. In ciò si distingue dalla libertà di comunicazione che consiste nella trasmissione del pensiero ad una o più persone. La libertà di manifestazione del pensiero è uno dei pilastri di ogni ordinamento democratico e non si estende non solo al pensiero politico, ma anche alla fede religiosa, all’arte e alla scienza. Da ciò deriva la libertà di insegnamento e la libertà della scuola. L’unico limite che l’art. 21 della costituzione pone alla libertà di pensiero è il BUON COSTUME, ovvero quelle manifestazioni del pensiero che per la collettività offendono il comune senso del pudore (tale limite non è applicabile alle opere d’arte e di scienza). La legge penale pone dei limiti ai reati di opinione, ovvero: • non sono ammesse espressioni di pensiero atte a determinare azioni pericolose per la pubblica sicurezza, come l’istigazione, l’apologia dei delitti e la diffusione di notizie false o tendenziose; • il diritto di ognuno a manifestare il proprio pensiero non deve ledere la dignità altrui, sono quindi considerati delitti l’ingiuria e la diffamazione. Allo stesso modo si tutela il sentimento religioso ed il prestigio delle istituzioni, attraverso al previsione di reati come il vilipendio e l’oltraggio. • La libertà di manifestazione del pensiero è esercitata attraverso una pluralità di mezzi, come la stampa, la telediffusione e la radiodiffusione, internet. La manifestazione del pensiero attraverso strumenti divulgativi rappresenta la libertà di informazione (art21cost). Essa si articola nel diritto ad informare, di informarsi e di essere informati. Tra gli strumenti di diffusione la costituzione disciplina direttamente solo la stampa. Il regime della stampa è caratterizzato dai seguenti principi: • esclusione di ogni forma preventiva e di censura; • possibilità di sequestro degli stampati, ma con la garanzia della riserva di legge assoluta e della riserva di giurisdizione. Circa la radiotelevisione, va detto che in Italia vige un sistema misto di remittenza pubblico e privato, legittimato dalla legge Mammì del 90’(fino al 1975 vi era il monopolio della RAI). ------Sez. I. - IN GENERALE: L'ART. 21 COMMA 1 DELLA COSTITUZIONE. 1. La garanzia costituzionale apprestata alla libertà in esame. La libertà di manifestazione del pensiero ha ricevuto garanzia costituzionale nell'art. 21 cost., del quale converrà riportare l'intero testo: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro si intende revocato e privo d'ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». La nostra Costituzione dà vita ad una regola fondamentale in tema di limiti alle libertà costituzionali: sono ammessi solamente i limiti ricavabili dalla norma che pone la libertà (nel nostro caso, il buon costume) o da altre norme costituzionali, attraverso un giudizio di comparazione tra le norme stesse. In questi termini, tuttavia, il problema è solo impostato ma non risolto. Non è affatto semplice, infatti, definire quali siano gli interessi tutelati dalla Costituzione che possono costituire altrettanti limiti certi alla libertà d’espressione, in quanto “prevalenti” rispetto a quest’ultima. Infatti il bilanciamento tra interessi e valori costituzionali è quanto mai incerto e difficoltoso specialmente ove si consideri che si assiste ad una continua evoluzione delle situazioni tutelate (diritti della personalità), alla emersione di nuove domande di libertà. Nel nostro sistema costituzionale esiste una “valvola di entrata” di nuovi valori: l’art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, è infatti considerato una “clausola aperta” che consente il riconoscimento di nuovi diritti. È evidente che accogliendo questa impostazione la possibilità di individuare limiti impliciti alla libertà di manifestazione del pensiero aumenta in modo esponenziale. Per cui centrale è l’operazione di bilanciamento, la ponderazione tra valori contrapposti che è riservata alla discrezionalità del legislatore (ordinario e regionale) e dei giudici costituzionali che possono sindacare il bilanciamento operato dal legislatore attraverso le sue scelte normative. · Il limite esplicito: IL BUON COSTUME Si legge al comma sei dell’art. 21: «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e reprimere le violazioni». Il fatto che questo limite sia esplicitato non semplifica l’opera dell’interprete: l’espressione “buon costume” è infatti un concetto giuridico indeterminato. È una nozione la cui portata semantica è interamente rimessa all’interprete per garantire la elasticità e adattabilità delle norma al cambiamento del tessuto sociale (scelta consapevole del legislatore per assicurare flessibilità al sistema). La giurisprudenza ha abbandonato la nozione di buon costume riferita genericamente alla cd. morale comune o etica sociale. Il concetto di buon costume che la giurisprudenza costituzionale e la dottrina hanno adottato è tratto dal codice penale: si intende per buon costume il comune senso del pudore e della pubblica decenza nella sfera sessuale. Nella sentenza n. 9 del 1965 la Corte costituzionale definisce il buon costume: «l’insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta la violazione del pudore sessuale, della dignità personale (…) e del sentimento morale dei giovani». La contrarietà al sentimento del pudore non dipende dall’oscenità di atti o oggetti in sé considerati, ma dall’offesa che può derivarne al pudore sessuale considerando il contesto e le modalità in cui quegli atti sono compiuti o quegli oggetti esposti. Sicché la pubblicità si configura come requisito essenziale della nozione di buon costume. («Non può riconoscersi capacità offensiva del sentimento del pudore a quelle manifestazioni che, pur avendo in sé un significato osceno si esauriscono nella sfera privata, e non costituiscono oggetto di comunicazione verso un numero indeterminato di persone»: sentenza Corte cost. n. 368/1992). Le attività contrarie al buon costume sono rappresentate unicamente dalle manifestazioni pubbliche attinenti alla sfera sessuale e contrarie alle regole di convivenza sociale e di espressione del costume sessuale in un determinato contesto storico. Il punto è comunque molto dibattuto: alcuni ritengono che il limite non dovrebbe valere per le manifestazioni rivolte ai maggiorenni che non hanno bisogno della protezione paternalista dello Stato, avendo la piena capacità di determinarsi secondo il proprio libero arbitrio [BARILE, 1984]. D’altro canto se il buon costume venisse individuato nella morale sociale corrente, secondo la concezione accolta nel codice civile, verrebbe repressa ogni manifestazione del pensiero anticonformista, cioè non coerente con l’opinione pubblica prevalente. Terreno di prova, non sempre agevole, del limite del buon costume è quello dell’espressione artistica che ai sensi dell’art. 33 Cost. dovrebbe godere di una tutela particolare e più accentuata. La circostanza che l’art. 33 non faccia riferimento esplicito al limite del buon costume ha consentito agli interpreti di ritenere l’insussistenza di limitazioni legate al pudore sessuale per quanto riguarda la libertà d’arte e di scienza. Tesi suffragata dalla circostanza che l’art. 529 del codice penale afferma che «non si considera oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza, salvo che, per motivo diverso da quello di studio, sia offerta in vendita, venduta o comunque procurata a persona minore degli anni 18». Diversa disciplina è poi prevista a seconda del mezzo di comunicazione prescelto: mentre per gli stampati non è ammessa alcuna forma di controllo preventivo ma solamente la possibilità di un eventuale sequestro successivo alla pubblicazione, la legge n. 161 del 1962 (modificata dal d.lgs. n. 3 del 1998) sugli spettacoli pubblici teatrali e cinematografici stabilisce controlli preventivi fino a prevedere per la produzione cinematografica la censura, ovvero l’imposizione di tagli e modifiche per scene giudicate contrarie al buon costume. Una speciale disciplina è poi dettata dalla legge n. 203 del 1995 per i film prodotti per la televisione, la cui trasmissione può essere vietata in determinate fasce orarie. I limiti impliciti alla liberta d’espressione si desumono dalla lettura dell’intero testo costituzionale in materia di libertà. Rispondono alla necessità di contemperare la libertà di manifestazione del pensiero con altri interessi e valori di rilevanza costituzionale. Possiamo distinguere limiti impliciti di natura individuale e limiti impliciti di natura pubblicistica. Tra i limiti impliciti di natura individuale vengono in rilievo anzitutto quelli legati ai cd. diritti della personalità , i limiti individuali costituiscono una categoria aperta, non delimitabile a priori, che coincide con i diritti della personalità cui la nostra Costituzione, in una prospettiva evolutiva, consente di offrire protezione (si pensi ai cd. nuovi diritti della personalità: il diritto all’identità personale, il diritto alla privacy, all’obiezione di coscienza, al libero orientamento sessuale, il diritto all’oblio). Evidentemente devono essere considerati anche diritti “più tradizionali”, come l’onore e la reputazione delle persone interessate da forme di manifestazione del pensiero e da attività informative. I limiti di natura pubblicistica sono invece rivolti alla tutela di finalità collettive (esigenze di giustizia, sicurezza dello Stato, ordine pubblico). • Il limite dell’onore e della reputazione: si radica nel principio personalistico che permea di sé l’intero testo costituzionale ed è corollario dell’art. 3 Cost. sulla pari dignità sociale dei cittadini. Il rispetto di tale limite è affidato agli artt. 594, 595 c.p. L’art. 595 c.p. identifica la diffamazione nel reato in cui incorre colui che offende la reputazione di chi non è presente (poiché se il soggetto leso fosse presente si tratterebbe di reato di ingiuria ex art. 594 c.p.). Nucleo centrale del reato è l’offesa all’altrui reputazione: la reputazione e il decoro non rappresentano concetti interpretabili in maniera assoluta poiché essi devono essere valutati in diretta dipendenza del ruolo del soggetto nell’ambito della società e pertanto le offese risultano diversamente valutabili a seconda del gruppo sociale di appartenenza. Dunque la reputazione si profila diversamente a seconda del ceto sociale e del peso economico della parte lesa, come messo in luce dalla giurisprudenza. In particolare la decisione 28 febbraio 1995, n. (Dir. inf., 1995, 86) ha statuito che “in tema di diffamazione, la reputazione non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé stesso o con il semplice amor proprio, ma con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale secondo il particolare momento storico”. Ancora Cass., 1 marzo 1993, ha stabilito che “tra gli elementi di valutazione della diffamazione possono essere considerate le condizioni sociali dell’offeso e la sua collocazione professionale dovendosi tenere conto del fatto che le sofferenze morali sono proporzionate al discredito nell’ambito sociale. L’offesa all’altrui reputazione, nel caso di diffamazione a mezzo stampa o radiotelevisione, può essere impugnata sia in ordine al contenuto sia in ordine alle modalità con le quali la notizia è stata diffusa poiché è stato deciso dalla giurisprudenza che può essere ritenuta offensiva la notizia in se stessa come anche l’indulgenza in particolari o descrizioni tali da coinvolgere i sentimenti o la sfera emozionale del soggetto fino a concretizzare una vera e propria offesa alla reputazione. Anticipando un discorso che faremo oltre è possibile dire che per evitare che la fattispecie del reato di diffamazione costituisca un ostacolo eccessivo all’esercizio del diritto di cronaca la giurisprudenza ha elaborato una serie di requisiti sussistendo i quali l’attività giornalistica è “scriminata” (verità oggettiva o putativa del fatto, utilità sociale della notizia, continenza formale). Vi è però un altro elemento che consente un’efficace difesa dal reato di diffamazione a mezzo stampa, elemento che risulta spesso il punto discriminante decisivo e cioè la natura esclusivamente dolosa che l’ordinamento attribuisce al reato. Sistema diversificato di rimedi (condanna penale del giornalista, risarcimento del danno, sequestro della pubblicazione in via preventiva, applicazione delle sanzioni disciplinari da parte del competente Consiglio d’Ordine, rettifica). • Il limite della riservatezza è da ricondursi, al pari del diritto all’onore e alla reputazione, ai cd. diritti della persona. L’interesse specifico protetto è da ravvisarsi nella “tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile” (Cass., 2199/1975). La nozione di riservatezza si è progressivamente arricchita di nuovi significati: da quello più tradizionale di “intimità della sfera privata”, mutuato dall’esperienza angloamericana della privacy (e fondata sulla logica proprietaria della difesa di uno spazio privato dalle interferenze altrui) a quello emerso più di recente con riguardo ai cd. Crimini informatici e collegato al controllo dei propri dati personali. La riservatezza riguarda insomma una “costellazione” di diritti (right to be let alone, diritto all’autodeterminazione informativa). In Italia il problema della esistenza di un diritto alla riservatezza si è affacciato nel secondo dopoguerra in relazione alla divulgazione di fatti inerenti la sfera intima di persone note. A metà degli anni ’50 la Cassazione negò l’esistenza nel nostro ordinamento di un diritto alla riservatezza (Cass. 22.12.1956) nella nota causa intentata dagli eredi del tenore Caruso contro la società di produzione di film sulla vita del celebre tenore. (“Nell’ordinamento giuridico italiano non esiste un diritto alla riservatezza ma soltanto sono riconosciuti e tutelati in modi diversi singoli diritti soggettivi della persona; pertanto non è vietato comunicare (…) vicende della vita altrui, quando la conoscenza non ne sia stata ottenuta con mezzi illeciti o che impongano il segreto”). A metà degli anni ’60 si intravede un mutamento di rotta nell’orientamento della Suprema Corte (Cass. 20 aprile 1963): “sebbene non sia ammissibile il diritto tipico alla riservatezza, viola il diritto assoluto della personalità, inteso come diritto alla libertà di autodeterminazione nello svolgimento della personalità dell’uomo, la divulgazione di notizie relative alla vita privata, in assenza del consenso dell’interessato e ove non sussista per la natura dell’attività svolta dalla persona e del fatto divulgato un preminente interesse pubblico alla conoscenza” (caso Petacci). Nel 1975 dopo aver negato per lungo tempo l’ammissibilità di una protezione autonoma del rispetto della vita privata il Supremo Collegio perviene all’affermazione che l’ordinamento giuridico riconosce e tutela l’interesse di ciascuno a che non siano resi noti fatti o avvenimenti di carattere riservato senza il proprio consenso (Cass., 27.05.1975: caso Soraya Esfandiari). Nel risolvere questo caso la Corte non si arresta come pure avrebbe potuto al richiamo della normativa del diritto all’immagine ma manifesta chiaramente la volontà politica di ampliare il discorso alla protezione della vita privata in un clima culturale propizio (in Francia era stata appena approvata la norma del Code civil sulla protezione della vie privee). In Italia la situazione legislativa cambia radicalmente con il recepimento delle direttive comunitarie in materia di trattamento dei dati personali (d.lgs. 675/1996 in attuazione della dir. 95/46, attualmente Codice della privacy). Da tali provvedimenti non è stato solo recepito il diritto alla riservatezza nella sua valenza costituzionale ma è stato introdotto un nuovo tipo di tutela che difende questo diritto a fronte dei ben noti pericoli insiti nei processi di raccolta, elaborazione e circolazione dei dati personali. Mentre lo strumento risarcitorio interviene ex post e offre alla riservatezza una tutela insufficiente e parziale , il nuovo strumentario introdotto dai predetti provvedimenti operando in via preventiva attraverso il riconoscimento del diritto al controllo sulle proprie informazioni, appresta una tutela di altra efficacia. • Profilo specifico della riservatezza è il diritto all’identità personale. Sono i giudici della Cassazione civile a tracciare i contorni della nuova figura in un noto caso giurisprudenziale del 1985. Il Caso Veronesi è un leading case della materia (� fatti processuali). Il contenuto del diritto in questione è ravvisato nell’interesse di ciascun soggetto alla “intangibilità della propria proiezione sociale”, interesse a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale, quale si manifesta nell’ambiente sociale. Il diritto all’identità personale mira cioè a garantire la fedele e complessa rappresentazione della personalità individuale del soggetto nell’ambito della comunità in cui la tale personalità è venuta svolgendosi. Distorsione dell’immagine sociale del prof. Veronesi (false light in the public eye, diritto ad essere se stesso). • Ulteriore specificazione del diritto alla identità personale è il cd. Diritto all’oblio (riguarda specialmente il caso di quanti si siano resi colpevoli di un reato e tentino di ricostruirsi una credibilità sociale). Caso Rececconi (fatti processuali/bilanciamento tra tutela all’identità personale e diritto di cronaca romanzata/la Corte ha ritenuto la prevalenza del diritto di cronaca individuando la rilevanza e l’attualità della divulgazione dello sceneggiato nella rappresentazione di un particolare contesto storico caratterizzato da una diffusa violenza e da una attitudine aggressiva sia nel comportamento dell’aggressore sia in quello della vittima (scherzo violento). • Il limite della sicurezza dello Stato: si trova espresso nelle disposizioni penali che puniscono la rivelazione di segreti di Stato (artt. 261 e 262 c.p.) ossia di notizie che, nell’interesse della sicurezza dello stato o comunque nell’interesse politico, interno o internazionale dello stato, debbono rimanere segrete. Il fondamento di questo interesse è stato rinvenuto dalla Corte costituzionale nell’interesse alla sicurezza nazionale, inteso come interesse dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza e alla sua stessa sopravvivenza. • Il segreto investigativo (le esigenze di giustizia): gli artt. 114, 115 e 329 c.p.p. si propongono di contemperare i diversi interessi in gioco: l’efficienza delle indagini, l’indipendenza del giudice, il diritto all’informazione sulle vicende giudiziarie, il diritto di difesa, la presunzione di non colpevolezza, la riservatezza delle persone coinvolte, la corretta amministrazione della giustizia. Ma è una normativa sostanzialmente disapplicata tanto che si parla di “desuetudine del segreto investigativo”. Il Governo Berlusconi con il disegno di legge Alfano propone una riforma della disciplina del segreto nel senso di aumentare la segretezza e le sanzioni previste nel caso di violazione dei divieti di pubblicazione. In realtà il segreto processuale dovrebbe essere limitato ai soli casi in cui la diffusione della notizia potrebbe pregiudicare l’accertamento della verità o ledere la riservatezza di un soggetto rispetto a circostanze processualmente irrilevanti (Triggiani). L’art. 329 c.p.p. dispone che gli atti d’indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti da segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Anche per gli atti non più coperti da segreto il divieto di pubblicazione non cade integralmente (pubblicazione del contenuto dell’atto ma non del testo integrale). Cautele speciali sono previste per la cronaca giudiziaria che riguarda i minori, rispetto ai quali si prevede il divieto di pubblicare e divulgare, con qualsiasi mezzo, “notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minorenne comunque coinvolto nel procedimento”. Il giudice – se le parti vi consentono – può autorizzare le riprese televisive del dibattimento a condizione che non ne derivi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza o della decisione. L’autorizzazione può essere data anche senza il consenso delle parti quando sussiste un interesse socialmente apprezzabile alla conoscenza del dibattimento. • Il limite dell’ordine pubblico: limite di natura pubblicistica fortemente problematico per la matrice autoritaria da cui trae origine e per i rischi di strumentalizzazione in senso antidemocratico a cui si presta. Attualmente la Corte cost. riferisce la nozione di ordine pubblico alla sicurezza, alla tranquillità pubblica, alla prevenzione dei reati (nozione in senso materiale). In senso ideale è inteso come ordine legale su cui poggia la corretta convivenza sociale. • Parliamone anche in Storia • Secondo Aristotele “ciò che non ha limite ( peras) non è rappresentabile esaurientemente nel nostro pensiero, ed è perciò inconoscibile”. • Per Calvino come già per Leopardi il compito della letteratura consiste precisamente nel continuo tentativo di descrivere l’ignoto, l’indeterminato, il vago. E come per Leopardi anche per Calvino “la ricerca dell’indeterminato diventa l’osservazione del molteplice, del formicolante, del pulviscolare...” (Calvino, 1993), cioè dell’infinito e dell’illimitato. Ma per poter rappresentare l’illimitato lo scrittore deve far ricorso al limite, come osserva ancora Calvino a proposito di Leopardi: “Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione” cioè dell’esattezza che deriva da un senso del limite. • Bateson (“Perché le cose hanno contorni?”, Verso un’ecologia della mente), citando Blake, spiega come i confini siano essenziali alla comprensione delle cose, per evitare la confusione, o l’omogeneizzazione. Si tratta di una specie di epistemologia morale. Per bene conoscere occorre segnare dei limiti. Limiti mobili, che possono cambiare, che s’articolano secondo punti di vista, che si flettono e si spostano nel tempo, che sono persino in grado di cancellarsi, ma pur sempre limiti, bordi, contorni. • Il limite non è mai una cosa facile. Quando un atleta lavora sulla sua “soglia”, è il momento in cui fa il massimo della fatica e soffre. Deve avere il coraggio di affrontarla, questa sofferenza, se vuole migliorare le sue prestazioni e la sua resistenza. Se riesce a lavorare al limite della soglia anaerobica, allora tutto cambia: diventa più “forte”, più “potente”. Questa forza non è solo un semplice incremento quantitativo, ma comporta una trasformazione qualitativa di tutto l’atleta. Ora sarà capace di affrontare altre prove, di vincere altre gare. Perché è sempre grazie alla fatica del limite che le cose cambiano. E cambiando, esse ridisegnano i proprio confini, entrano in nuovi rapporti fra loro, acquisiscono una diversa potenza. • Le guerre scoppiano quando la tensione della differenza diventa insopportabile e ognuno, ogni territorio, ogni entità territoriale non vuole ammettere la differenza, non vuole accettare i propri confini. Non vuole ammettere di esser limitata da “altri”, e quindi non vuole ammettere la differenza di questi altri limitanti. Vuole renderli omogenei a sé, oppure eliminarli: lo scopo è lo stesso, perché ciò che segue l’eliminazione o la cacciata degli “altri” è sempre l’istituzione di insediamenti coloniali, ossia di entità che sono omogenee al territorio madre. La guerra di espansione come ogni altra guerra - ha per fine quello di estendere i propri confini. Nessuna guerra ammette confini (tranne le guerre di liberazione e d’indipendenza, che per definizione rivendicano confini e differenze specifiche, e per questo hanno uno statuto particolare); persino la guerra civile non ammette la limitazione differenziazione che esiste al proprio interno. • Il coraggio del limite è proprio questo: non solo saper tracciare un confine là dove non c’era, ma anche riconoscere la differenza inevitabile che così si crea e situarsi in questa stessa differenza, disporsi nel limite, saper passare. Il coraggio consiste infatti in questo doppio gioco del porre e del passare, del chiudere e dell’aprire. • È più facile pensare che ogni delimitazione sia definitiva, che ogni confine sia una prigione, che disporre un limite sia una chiusura; ci vuole invece coraggio per capire che ogni chiusura è anche immediatamente un’apertura, che un confine dev’essere valicato, che il limite nel momento in cui è posto va spostato, che la differenza è irrinunciabile e che per quanto ci si rinchiuda o si rinchiuda, per il fatto stesso di farlo si prepara l’evasione. • Nel Secolo dei lumi si portò all'estremo compimento il principio secondo il quale la ragione, essendo condizionata e quindi tipica manifestazione della limitatezza umana, era l'unico strumento in grado di fornire all'uomo quella conoscenza certa cui egli aveva, sin dalle origini del pensiero occidentale, aspirato. Essa venne pertanto elevata a giudice imparziale al cui tribunale sottoporre ogni realtà al fine di distinguere il vero dal falso e di individuare ciò che poteva risultare di giovamento per la realtà; costante risultò pertanto, all'interno del movimento illuminista, l'esortazione al avvalersene in modo libero e pubblico, come si legge nella celebre definizione kantiana fornita nel saggio Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? (1784): "Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo […] Senonchè a questo Illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi." La novità più importante che l'Illuminismo introdusse, rispetto alla pretesa razionalistica di considerare vero solamente ciò che apparisse evidente alla ragione, fu la rigorosa autolimitazione della ragione stessa nel campo dell'esperienza; non più, pertanto, uno sterile dogmatismo nel quale la ragione si erigesse ad assoluta legislatrice valicando le proprie possibilità, ma, al suo posto, una scienza feconda e caratterizzata dalla possibilità di investigare ogni aspetto della realtà, solamente a prezzo di accettare l'obbligo preliminare di delineare con precisione i limiti della conoscenza umani. .