Roman Polanski,Umorismo nero,Novembre

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Roman Polanski,Umorismo nero,Novembre
Dicembre – Quale documentario
Tutti lo vogliono, tutti lo cercano. Oggi è il documentario il
genere cinematografico che fa tendenza e che miete premi nelle
numerose
rassegne che proliferano in ogni borgo della
penisola insieme alle sagre degli strufoli e delle frittelle.
Una moda come un’altra di cui è responsabile il Leone d’oro
dato a Venezia al superfluo Sacro Gra invece che a qualche
altro vero film senz’altro migliore
e dunque
una moda
improvvisata come tutti i mood artistici nostrani, la quale
rischia di infliggere un ulteriore colpo letale a un cinema
come il nostro già povero di invenzioni visive e regressivo
sul piano del linguaggio. Il culto occasionale in atto per il
documentario non è che un ennesimo espediente per compensare
l’inesistenza in Italia di un cinema-cinema di ampio respiro
capace di trasfigurare la realtà attraverso storie che sanno
farsi metafora senza rinunciare al binomio motion-emotion su
cui deve fondarsi ogni film narrativo, d’autore o di genere
che sia. Ma ricorrere oggi a questo recupero pretestuoso e
forzoso di un genere nobile come il documentario vuol dire
misconoscere la sua anima autentica che è quella del “poemetto
in prosa” per immagini e non quella del reportage
giornalistico (come è il bozzettistico Sacro Gra laddove la
materia richiedeva semmai di essere trattata in chiave
horror). Il documentario inteso come genere autonomo o è un
sonetto (come erano quelli di Antonioni, di De Seta, di Di
Gianni, per non parlare di quelli cubo-futuristi di maestri
dell’avanguardia storica come Vertov e Ruttman) oppure è nulla
( o peggio è la televisione, che è peggiore del nulla).
Angelo Moscariello
Gli
dell’espressionismo
incubi
La nera silhouette del servo Cesare che corre sui tetti con in
braccio la fanciulla da lui rapita in Il gabinetto del dottor
Caligari, l’ombra del vampiro che si china rapace sul letto
dove dorme il suo ospite Hutter in Nosferatu, le lunghe
colonne di operai-iloti che entrano nella fabbrica in
Metropolis, le strade nebbiose di Londra dove si aggira Jack
lo squartatore in Lulù, le statue animate che minacciano i due
innamorati in Il gabinetto delle figure di cera.
Sono queste alcune delle immagini memorabili recanti il
marchio del cinema espressionista attivo in Germania negli
anni ’20. La vera novità di questa corrente sta in una scelta
stilistica fortemente antinaturalistica che si affida a forti
contrasti cromatici, a linee curve, a prospettive sghembe e ad
una presenza inquietante delle ombre per trasmettere angoscia
nello spettatore. Una tale forma di stilizzazione figurativa
investe non soltanto le opere incentrate su personaggi
diabolici o su vampiri, ma anche vicende tratte dalla realtà
quotidiana quali drammi sentimentali e storie di strada a
sfondo sociale.
Se il titolo che inaugura la corrente, Il gabinetto del dottor
Caligari realizzato da Robert Wiene nel 1920, è ancora
tributario della coeva corrente pittorica espressionista
(tanto che i fondali e persino le ombre sono dipinti), è
soltanto con Nosferatu, girato da Murnau nel 1922, che il
linguaggio cinematografico si libera da ogni sudditanza
teatrale e pittorica per riprendere in maniera
espressionistica una realtà ambientale e scenica non
manipolata in precedenza, ma resa inquietante grazie al gioco
delle angolazioni e agli effetti di luce che trasfigurano le
persone e le cose in direzione demoniaca senza per questo
snaturarne la sostanza.
Il movimento bene esprime la condizione di smarrimento del
popolo tedesco all’indomani della grande guerra e, con le sue
figure mostruose, anticipa di un decennio (secondo la nota
analisi di Kracauer) la comparsa sulla scena storica di
Hitler, il futuro grande manipolatore delle coscienze volto ad
imprese malvagie come il Caligari della finzione. Qualunque
sia l’argomento dei film espressionisti, ricorrente in essi è
la funzione psicologica delle scenografie, l’uso creativo
della luce e l’antinaturalismo della recitazione, tutti
elementi che fanno di esso,come osserva Tone, “un cinema
dell’irrealtà” che scava nel profondo ed esprime la coscienza
di un Io perturbato e sdoppiato (già messa in luce dagli studi
di Freud e di Rank e anticipata in letteratura da scrittori
della tradizione schauerromantik come E.T.A Hoffmann e da
Adalbert von Chamisso).
Proficua e lunga sarà l’eredità espressionista, se soltanto si
pensa alla permanenza di questo stile nel cinema noir
americano degli anni ’30 o, ancora meglio, negli horror girati
da Tourneur negli Usa per Val Lewton, tipo Ho camminato con
uno zombie o Il bacio della pantera (un fenomeno, questo,
spiegabile con l’arrivo a Hollywood dalla Germania di molti
registi e operatori formatisi alla scuola espressionista e poi
costretti ad emigrare oltreoceano per sfuggire al nazismo).
Roman Polanski
Come tutti i maestri del cinema, anche Polanski fa sempre lo
stesso film la cui sostanza poetica resta identica pur nella
variazione dei temi e delle forme adottati. Questo vale a
partire dall’opera di esordio Il coltello nell’acqua (1962)
fino all’ultimo La venere in pelliccia ( 2013) attualmente
nelle sale. Quali che siano i generi utilizzati dal regista,
l’elemento ricorrente nelle sue opere è una struttura
circolare in seguito alla quale la situazione descritta non
progredisce mai realmente rispetto al dato iniziale.
Ogni volta la dimensione dell’assurdo si configura come una
vera ananche contro cui gli sforzi dei protagonisti si
rivelano alla fine vani. Il carattere illusorio di ogni azione
tendente a contrastare la logica di questa necessità viene
reso, sul piano della struttura narrativa, dalla coincidenza,
nel senso o nella figurazione, dell’ultima inquadratura di
ogni film con la prima. In tal modo un ferreo determinismo
frustra l’evoluzione del récit e fa sì che le stesse cose
ritornino anche, e sopratutto, quando sembravano essere state
definitivamente superate (Chinatown,1974). Lo svolgimento del
racconto rinvia ogni volta ad una sfiducia radicale nella
Storia, ad una concezione ciclica del Tempo che pone in dubbio
le possibilità di successo dell’homo faber e presuppone la
presenza di una Colpa originaria che pesa sull’Uomo,
quell’Uomo che, secondo la cultura ebraica alla quale Polanski
appartiene, è colpevole per il solo fatto di essere nato
(proprio come accade al Joseph K., protagonista del romanzo Il
processo dell’altro grande ebreo maestro dell’assurdo Kafka).
Questa
concezione
antiumanistica
viene
evidenziata
dal
particolare genere preferito dal regista, un genere che, anche
se camuffato da tanti altri generi, resta sempre quello
dell’”apologo morale”. Da tale scelta deriva il marcato
antipsicologismo che caratterizza la filmografia polanskiana,
dove i personaggi, più che creature a tutto tondo, risultano
essere schemi di comportamento, elementi di un Meccanismo da
cui essi sono agiti anche quando credono di agire per loro
volontà. Per questo motivo, le opere più riuscite di Polanski
sono quelle dove la chiave allegorica o allucinatoria prevale
su quella psicologica (come nei primi cortometraggi e come in
Cul de sac, 1966, e in Repulsion, 1965), opere in cui si
realizza un vero “cinema della crudeltà”, che supera ogni
limite naturalistico.
La natura “bloccata” della realtà vista da Polanski esclude,
tuttavia, la presenza di una dimensione “tragica” poiché nei
suoi film non esiste mai una vera opposizione alla Necessità
(o Fato, o Storia che dir si voglia), manca, cioè, quel
secondo termine di una dialettica che, solo, potrebbe
garantire una opposizione decisiva all’Assurdo. Tutti i
personaggi sono sempre destinati a cedere al richiamo del
Negativo, a farsi inconsci seguaci di Satana anche quando
seguono fedelmente il magistero del Papa (la sposina di
Rosemary’s baby,1968). Mentre nella tragedia è implicata una
“rottura” capace di confutare il grande Piano, in Polanski, al
contrario, ogni scelta non fa che riconfermare l’attuazione
ineluttabile di esso (l’urlo con cui si apre e si chiude
L’inquilino del terzo piano,1976).
Di questa resa all’assurdo fa fede anche quella che sembra
essere
l’opera più “positiva” del regista, Il pianista
(2002), dove l’apparente lieto fine viene messo in dubbio
dalla morte, ingiusta, dell’ufficiale tedesco ( cioè del
“buono” che salva la vita al protagonista, ma che in cambio di
ciò non viene salvato a sua volta da Dio per la sua opera
dettata da grande umanità, ma finisce barbaramente fucilato
dai soldati sovietici “liberatori”).
Suscitare il dubbio, sempre e comunque, è il compito che
Polanski si è impegnato a fare con il suo cinema e di questo
dobbiamo essergli riconoscenti in un’epoca di ottuse certezze
pubbliche e private.
Umorismo nero
Tra tutti i generi cinematografici, l’horror è stato quello
che in maniera programmatica ha sempre coniugato il macabro
con la paura, con risultati a volte memorabili come nel caso
di Suspiria di Dario Argento e di La casa dei mille corpi di
Rob Zombie. Ma anche la commedia non ha mai chiuso gli occhi
davanti alla morte e ha cercato di esorcizzarla attraverso
l’arma dell’umorismo macabro. Il maestro storico
assoluto
dell’umorismo funereo è stato Luis Bunuel il quale, dall’
iniziale
inquadratura dell’ “occhio tagliato” in Un chien
andalou fino a molte sequenze degli ultimi film, come quella
del “brigadiere insanguinato” in Il fascino discreto della
borghesia, ha sempre trattato il tema della morte nella chiave
surrealista impiegata da Breton in letteratura e da Magritte
in pittura. Su un altro versante, quello dell’umorismo
british, il campione del genere è stato Alfred Hitchcock il
quale in fatto di divertimento macabro resta insuperabile in
tutte le sue opere, con risultati esilaranti soprattutto in
La congiura degli innocenti dove il cadavere del povero Harry
viene sepolto e dissepolto più volte da tre persone diverse
che credono erroneamente di aver causato la morte dell’uomo e
con fare impassibile lo spostano da un posto all’altro per
trovare un nascondiglio sicuro come se fosse la cosa più
normale del mondo.
Comunque, a distinguersi nella produzione di opere venate
di comicità a sfondo macabro è stato il cinema inglese che
dagli anni ’60 in poi ha allineato molti titoli godibili, a
cominciare da Sette allegri cadaveri di Pat Jackson per
continuare con
quelli diretti da Freddie Francis per la
Amicus, una società specializzata in opere a basso costo di
genere horror e thriller permeate di risvolti umoristici da
contrapporre a quelle serie della ricca Hammer Film. La
formula adottata con successo da Francis (futuro direttore
della fotografia per Elephant man di Lynch) è quella del
portmanteau, più episodi legati da una cornice narrativa
unitaria come si vede,ad esempio, in Le cinque chiavi del
terrore del 1964, in I Racconti dalla tomba girato nel 1972
con un inquietante gusto del macabro (ripreso dai fumetti
Tales from the crypt dell’americana EC Comics) e in La bottega
che vendeva la morte del 1973. Sempre dall’Inghilterra viene
nel 1971 a firma di Robert Fuest l’eccentrico e bizzarro
L’abominevole dottor Phibes, dove un ironico e vendicativo
Vincent Price escogita le sette piaghe d’Egitto per punire i
medici che non seppero salvare l’amata moglie (cui seguirà
l’anno dopo il secondo capitolo Frustrazione, sempre con un
grande Phibes- Price e con scenografie fantastiche tra art
decò e pop). La tradizione del macabro si applica in chiave di
commedia satirica anche in opere che prendono spunto da
funerali da organizzare o in corso per avanzare pungenti
osservazioni di critica dei costumi, cosa che accade nel
brioso Il caro estinto girato nel 1965 negli Usa dall’exarrabbiato del free cinema inglese Tony Richardson dove il
regista prende di mira il culto della morte diffuso presso gli
americani a base di saloni di bellezza per le salme e bare
firmate da rinomati costruttori , mentre in seguito il rito
funebre sarà occasione per far luce sui segreti di famiglia
nella farsa nera Funeral party realizzata nel 2007 da Frank
Oz. (continua).
Angelo Moscariello
Novembre –
alternative
Buone
visioni
Se la società sta male neanche il cinema se la passa tanto
bene. Mentre inizia la sgonfiata ma tanto pompata edizione
dell’inutile Festival di Roma,uno si guarda intorno alla
ricerca di qualche nuova uscita che valga il prezzo del
biglietto,magari di qualche titolo già passato a Venezia e
accolto con favore da una critica che in verità è sempre di
più al servizio degli uffici stampa delle produzioni
soprattutto italiane. Qualcosa lo trova pure , per esempio
titoli come lo spietato e goliardico Machete Kills di Robert
Rodriguez oppure come quel
tosto esempio di cinema della
crudeltà in famiglia che è Miss Violence del greco Alexandros
Avranas oppure,se è di gusti più sofisticati,come la surreale
versione
in
bianco
e
nero
della
nota
favola Blancanieves ambienta tra toreri e flamenchi dallo
spagnolo Pablo Berger. Per il resto deve accontentarsi dei
puntuali nuovi capitoli della nuova commedia americana postApatow con i soliti bamboccioni e i soliti trentenni sfigati
oppure dei sequel di action e superhero movies di successo
che saranno pure buoni per passare due ore ma che lasciano il
tempo
spettatoriale che trovano.
In questa penuria non resta allora che
andar per streaming e
cercare di beccare in uno dei siti francesi o spagnoli o
statunitensi qualche opera di nicchia a suo tempo persa oppure
per rivedere vecchi cult che fanno sempre bene alla salute.Può
capitare allora di catturare un capolavoro assoluto del trash
satirico-demenziale targato Troma come Poultrygeist-La notte
dei polli viventi con l’effetto di godere di una delle
pellicole del genere horror -comedy più dissacranti,scorrette
e divertenti mai realizzate ( la scena iniziale con il nerd e
la ragazza che stanno copulando nel cimitero e vengono
sorpresi da un maniaco guardone che
con una mano impugna
un’ascia e con l’altra potete immaginarlo,la mutazione dei
commessi del fast-food in voraci polli-zombie che si sbranano
a vicenda e su tutto il diluvio di vomiti verdi e di cacche
pestilenziali a ricoprire la logica capitalistica delle
multinazionali dell’alimentazione) oppure un gioiello
umoristico della sci-fi comedy come I marziani invadono la
Terra diretto nel 1988 da tal Stanley Sheff che nella storia
narrata sarebbe dovuto essere il film più brutto del mondo e
invece si rivela un grande successo per il modo ironico con
cui riscrive i topoi del cinema di serie B degli ’50 ( l’uomoaragosta Lobster Man viene spedito sul nostro pianeta dal re
di Marte per rubarci l’atmosfera e sono cavoli amari.
Distruggerlo dopo tanti tentativi sarà come scoprire l’acqua
calda,in senso letterale…).Belle sorprese dal web mondiale e
pazienza se sono in lingua originale ( ma tanto visto il tipo
di film dei dialoghi chi se ne importa). Altrimenti l’altra
soluzione è fare scorta di dvd recenti e rivedersi almeno il
mai abbastanza lodato L’alba dei morti dementi oppure le
lapdancers morte-viventi di Zombie strippers,giusto per
tenersi su il morale con un campionario di squartamenti tanto
inauditi quanto esilaranti.
Questo nell’attesa speranzosa che esca nelle sale l’ultima
cattiveria di Polanski Venere in pelliccia ,film non di genere
ma d’autore che forse almeno ci risolleverà dalla depressione
provocataci dalle scemenze dei tanti furbi soliti idioti
nostrani e in particolare dalle facezie dilaganti del lepido
finto-scorretto Zalone Checco ( ma checcocolpa abbiamo noi
per vedercelo spacciato come il miglior comico italiano sulla
piazza?).
Angelo Moscariello
L’epoca
slapstick.
d’oro
dello
Fra il 1908 e il 1915 il cinematografo cessa di limitarsi a
mostrare soltanto vedute o quadri autonomi e incomincia a
elaborare una prima forma di narrazione articolata in più
inquadrature collegate tra di loro. Avviene quello che Edgar
Morin ha chiamato “la trasformazione del cinematografo in
cinema”. In questo modo il nuovo dispositivo finisce di essere
una semplice attrattiva destinata ai parchi di divertimento e
incomincia a muovere i primi passi che lo porteranno a
diventare un’arte. Una delle prime opere nata con ambizioni
artistiche è L’assassinio del duca di Guisa, realizzato nel
1908 dalla società parigina Film d’Art dei fratelli Laffitte,
un’opera di ispirazione letteraria accompagnata in sala dalla
musica originale scritta da Saint-Saens..
La logica di produrre grandi spettacoli di forte impatto
visivo, ma dall’impianto sostanzialmente teatrale, trova uno
dei più alti risultati in La caduta di Troia girato
dall’italiano Giovanni Pastrone nel 1911, lo stesso regista
che tre anni dopo realizzerà Cabiria, un kolossal di
ambientazione cartaginese ricco di novità scenografiche,
pittoriche e sopratutto già organizzato in una narrazione ben
articolata e coerente che si avvale delle didascalie scritte
da Gabriele D’Annunzio. E’ proprio da questo film, assieme a
quelli coevi girati in America da Griffith Nascita di una
nazione(1915) e Intolerance(1916), che il cinema mette a punto
le sue tecniche narrative e diventa la più grande macchina per
raccontare storie mai esistita ,meritandosi a pieno titolo la
definizione di “Settima Arte” coniata per esso da Ricciotto
Canudo.
In verità,nel decennio 1910-1920 il vero territorio dove si
elabora la forma di un cinema totalmente autonomo rispetto ai
modelli teatrali o letterari non è quello del kolossal a
sfondo storico ma è quello delle comiche inaugurate da Mack
Sennett nel 1910 e costituite da brevi filmati a base di
situazioni assurde, di fughe, di cadute e di torte in faccia
miranti a suscitare l’ilarità del pubblico. Ebbene, proprio
per rappresentare un “mondo alla rovescia”, i registi e i
gagman sfrutteranno tutte le possibilità offerte loro dalla
cinepresa per creare un tempo e uno spazio del tutto
“antinaturalistici” che in molti casi attingerà alla
dimensione della poesia pura con l’approdo ad un’astrazione
generale. Si tratta di un cinema dalla forte carica sovversiva
che per questo sarà molto amato dagli esponenti delle
avanguardie europee di qualche anno dopo,come Breton, Aragon e
Buñuel e anche da un maestro dell’assurdo letterario come
Kafka.
Da questo genere verranno fuori due dei più grandi poeti di
tutta la storia del cinema, Charlie Chaplin e Buster Keaton.
La grandezza del primo è legata al personaggio di Charlot,il
buffo omino in bombetta e bastoncino che turba l’ordine
costituito e smaschera con i suoi maldestri interventi le
ingiustizie e le falsità della società borghese, sopratutto
nella serie di comiche mute in due o tre rulli girate per la
Essanay e la Mutual nel biennio 1915-17 e poi per la First
National ( come Charlot emigrante, Charlot evaso ,Charlot
soldato e Charlot nottambulo) ,prima di passare ai
lungometraggi dove prevarrà un fondo di sentimentalismo di
gusto ottocentesco che mitigherà la cattiveria iniziale
dell’autore trasformandola in un generico umanitarismo che
permea titoli pur ricchi di memorabili gag visive come Tempi
moderni e Il grande dittatore .
Geometrica e astratta è,invece,la comicità di Keaton, un
marziano che si ritrova sulla terra e che si applica con
tenacia per capire come vi funzionino le cose e i rapporti
umani, impassibile anche dinanzi ai più grandi disastri in cui
viene a trovarsi coinvolto in opere di assoluta modernità che
anticipano il tema della relazione sogno-realtà in chiave
psicoanalitica e prefigurano anche quello che sarà il futuro
meta- cinema ( Sherlock jr.). Le comiche di Keaton giocano su
figure come la velocizzazione,lo sdoppiamento e l’equivoco
sempre rivelando un uso creativo dello spazio utilizzato
secondo criteri prettamente cinematografici per fungere da
sfondo alle vertiginose traiettorie del personaggio
catapultato ogni volta in ambienti a lui poco familiari ( il
West in Io e la vacca o il porto fluviale in Io e il ciclone)
oppure alle prese con la ribellione degli oggetti ( Una
settimana)in un crescendo catastrofistico che anni dopo
ritroveremo nei film di Jerry Lewis.
Più infantile ma dalla risata assicurata è la comicità della
coppia Stan Laurel-Oliver Hardy che si afferma all’inizio
degli anni Venti e si consolida nel decennio grazie a una
lunga serie di comiche in cui i due personaggi danno vita a
situazioni umoristiche che si risolvono in buffe coreografie
negli ambienti in cui essi entrano a provocare guai e
distruzioni a catena (La battaglia del secolo, Affari in
grande, Agli ordini di sua altezza) L’ira trattenuta del
paziente Ollio e la grattatina sul capo dell’imbarazzato
Stanlio sono i gesti tipici che connotano i due soggetti e che
li faranno amare da milioni di spettatori piccoli e grandi.
Alla scuola della slapstick comedy si formano anche centinaia
di stuntman capaci di acrobatici capitomboli e di frenetici
inseguimenti, dote che essi con il tramonto del genere
metteranno al servizio del filone western che dominerà nel
cinema americano negli anni Trenta.
Il segreto dei suoi occhi
Crimine, amore e mistero. Alla sapiente fusione di questi tre
elementi si deve la riuscita di Il segreto dei suoi occhi,
firmato dal regista argentino Juan José Campanella e vincitore
di un Oscar come miglior film straniero. Dentro una cornice da
legal thriller dall’impianto tradizionale la storia si
arricchisce di tonalità da noir esistenziale e di aperture
romantiche rese con la giusta distanza grazie ad uno sguardo
ironico che sa raffreddare la sostanza drammatica della
narrazione.
Nella sua vita trascorsa il commissario in pensione Esposito
ha mancato due grandi occasioni, una riguardante la sua
dimensione professionale, l’altra quella privata. Venticinque
anni prima, infatti, all’epoca della dittatura dei militari in
Argentina, egli si è lasciato sfuggire il sadico autore
dell’uccisione di una giovane donna, da lui rintracciato dopo
una ingegnosa ricerca ma rimesso in libertà dagli scherani dei
colonnelli. Inoltre, non ha saputo dichiarare il suo amore
alla bella procuratrice Irene, alle cui dipendenze egli
lavorava diviso tra gli obblighi della gerarchia e il sogno di
una impossibile relazione sentimentale. Ma adesso, dopo tanti
anni, Esposito decide di scrivere un romanzo sull’atroce
delitto con la speranza di poterne chiudere i punti irrisolti
guidato da una saggezza che non poteva avere da giovane e
impulsivo funzionario. Le memorie del passato lo aiutano a
mettere ordine nel presente e a scoprire che l’omicida dato
per morto vive tuttora tenuto prigioniero del marito della
defunta e che l’irraggiungibile Irene, ormai divorziata, non
aspetta altro che egli le dichiari il suo amore.
L’incastro dei piani temporali è eseguito con una perizia che
ricorda quella mostrata da Losey in Messaggero d’amore e rende
inavvertibili gli slittamenti cronologici con il risultato di
consentire alla narrazione di procedere compatta e lineare
nonostante la continua dialettica tra presente e passato che
connota l’intero film. Il personaggio di Esposito è uno di
quei “lucidi folli” di cui è ricca la letteratura argentina,
un uomo oscillante tra disillusione e impeto vitale (“Non si
può vivere una vita vuota”, ripete spesso all’Irene
ritrovata), un malinconico resistente dinanzi al clima di
corruzione del paese e alla vigliaccheria dei colleghi
d’ufficio. La sua passione per la ricerca della verità è un
sentimento totalizzante che si incrocia con un’altra passione
meno nobile ma altrettanto assoluta, quella calcistica nutrita
dall’omicida, in un serrato pedinamento che conduce
all’arresto dello sconosciuto introvabile in una sequenza
dall’impatto shocker (la carrellata aerea sullo stadio di
Buenos Aires che piomba sui giocatori e devia sulle gradinate
gremite e sui corridoi sottostanti fino a cogliere il giovane
braccato)
Oltre al tema dell’amore perduto e poi ritrovato per Irene, il
regista tratta con grande sensibilità pure il motivo
dell’amicizia virile che lega Esposito al suo aiutante Pablo,
un ubriacone assai perspicace grazie al cui contributo riesce
a risolvere il caso (ma non a impedirne l’uccisione da parte
dei sicari del regime). Anche questo secondo (o terzo) filo
narrativo è condotto con mano sicura da Campanella e dallo
sceneggiatore Eduardo Sacheri ( autore del romanzo La pregunta
de sus ojos da cui il film è tratto) e si inserisce senza
forzature nel contesto della vicenda che scorre avvolgente e
avvincente fino all’atteso ma sempre rinviato bel finale.
Quanto al titolo Il segreto dei suoi occhi, esso ha una
pregnanza che corrisponde alla complessa sostanza narrativa,
visto che gli occhi di cui parla possono essere sia quelli
dell’omicida ritratto in una vecchia foto mentre fissa
adorante la futura vittima sia quelli di Irene che attende da
Esposito le parole che lui tarda troppo a dirle. In questa
ambiguità sta forse il merito maggiore del film, quello di
ricordarci la verità che i film, tutti i film, in fondo altro
non sono che “staffette di sguardi” carichi di significati
inespressi.
Angelo Moscariello
La horror
storico
comedy:
profilo
Di commedie con un po’ di spavento se ne trovano sin dagli
’20,per esempio in alcune comiche di Buster Keaton come The
haunted house o di Harold Lloyd come Haunted spooks,così come
dai ’30 ai ’70 se ne trovano tante che fanno anche un po’ di
paura,soprattutto nella forma di parodie di veri film
dell’orrore di grande successo ( la serie con Gianni e Pinotto
contro i mostri del cinema classico,Frankenstein Junior di
Brooks) ma anche in storie originali ( quali
Il castello
maledetto di Whale e il successivo Per favore..non mordermi
sul collo di Polanski definito dall’autore
non una parodia dei film di vampiri ma una fiaba). Ma è
soltanto a partire dagli inizi degli anni ’80 che si può
parlare della affermazione della horror comedy intesa come un
nuovo genere autonomo dove la comicità se la batte con
massicce dosi di autentico orrore.
A inaugurare la serie è nel 1981 John Landis con Un lupo
mannaro americano a Londra,film che riprende in
chiave
“antiromantica” il tema della licantropia inaugurato nel 1941
da Waggner con il suo L’uomo lupo e lo fa non già nella forma
di un tradizionale horror comico
bivalente ma in quella
originale di un film “bifronte” dove orrore e umorismo
instaurano un “passo a due” nel pieno rispetto dei rispettivi
statuti semantici. Allo spettatore abituato al salto di
qualità compiuto dal new-horror anni ’70 rispetto a quello
classico il film di paura con momenti divertenti non basta
più,ora egli vuole un vero film dell’orrore che sia anche un
vero film divertente e in questo Landis ha risposto alla sua
attesa con un’opera che innesca sentimenti contastanti ma non
scade mai nel ridicolo. Per Un lupo mannaro americano a Londra
valgono le parole dette da Prawer a proposito del nuovo genere
della horror comedy : “ Siamo qui in presenza dell’arte del
grottesco,in cui gli impulsi alla ripugnanza inorridita
nascono insieme come impulsi al riso;le due cose si inibiscono
a vicenda e il risultato è una risposta caratteristica e
complessa”(1).
Una volta aperta la strada gli schermi saranno invasi da
decine di film orribilmente divertenti come il comico-macabro
Creepshow di George A. Romero, lo splatterstick Re-animator
di Stuart Gordon,il surreale Society di Brian Yuzna,il barocco
mostruoso Splatter-Gli schizzacervelli di Peter Jackson su su
fino all’orgiastico Dal tramonto all’alba di Quentin Tarantino
e allo slasher metafilmico Scream di Wes Craven.Non solo, ma
nell’arco del decennio nuove variazioni del genere si
aggiungono
a quelle esistenti ,tra le quali la commedia sexy-horror tipo
Una strega chiamata Elvira e la commedia macabra per famiglie
come La famiglia Addams,mentre dal canto suo la parodia si
scatena tra orrori naturali e soprannaturali con l’irriverente
farsa Il ritorno dei morti viventi e con i vomiti verdi di
Riposseduta. Negli anni Duemila il genere si afferma con
ottimi risultati anche in Spagna da dove giunge La notte dei
morti dementi di Miguel Lamata e persino in Norvegia dove
Tommy Wirkola gira l’insolito nazi-zombie Dead snow.Intanto il
cinema Usa non si mostra da meno e allinea prima due gioielli
come Benvenuti a Zombieland del giovane Ruben Fleischer e
Ladri di cadaveri- Burke & Hare del veterano John Landis e poi
,infine ,nel 2013 sorprende con la romantica horror comedy di
Jonathan Levine Warm bodies , divertente versione della storia
di Romeo e Giulietta ambientata tra gli zombi.
1) Prawer S.,I figli
Riuniti,Roma,1981,pag.62
del
dottor
Caligari,Editori
Angelo Moscariello
Spring breakers spettatoriali
contro la noia.
Affermare che i migliori film in assoluto delle ultime due
stagioni sono Spring breakers e Killer Joe potrebbe sembrare
una provocazione e invece è soltanto una constatazione
oggettiva motivata dalla qualità media dell’odierna produzione
cinematografica.Parliamo di quella americana,l’unica davvero
contemporanea capace pur sempre di coinvolgerci ancora in modo
non regressivo( tanto con gli assalti in stile action alla
Casa Bianca tipo White House down quanto con la fantascienza
simbolica in chiave di suspence tipo Gravity ),l’unica che
non dimentica mai che il cinema è in primo luogo un grande
spettacolo popolare che deve far passare il “discorso”
attraverso l’intrattenimento intelligente ( e quindi non
parliamo
ovviamente
del
cinema
italiano
ininfluente,irrilevante e vecchio nel suo provincialismo
romanocentrico che non va oltre il famigerato- disgraziato
Gra,un cinema che non sa scuoterci né nelle sue pratiche alte
né in quelle basse come almeno un tempo sapeva fare diviso tra
Antonioni e Pasolini da una parte e Corbucci e Fulci
dall’altra) . Nell’odierno cinema Usa tra tanti discreti
horror e tante godibili commedie post-Apatow
sono stati
soltanto il film
di Korine e quello di Friedkin a
sorprenderci,il primo per come ha saputo rivitalizzare
in
forma
di scorretto e sconcatenato delirio pop
la teen comedy ,il secondo per averci
dato l’equivalente di un romanzo di
Lansdale nella forma di una delle più
strepitose commedie nere mai apparse
sullo schermo ed entrambi perché sono
due film shocker densi e divertenti che
hanno in se la memoria di tutto il
precedente cinema classico e anche
postmoderno. Esclusi
autentici
“spring
questi due
breakers”
spettatoriali, tutto il resto è noia,o
quasi (Kim Ki Duk compreso) e allora due ragazze gioiose ma
anche molto cattive e un killer spietato ma anche molto umano
sono ciò che ci resta nella memoria filmica grazie
all’originale lavoro intertestuale compiuto sui generi dai
rispettivi registi. E
dunque non resta che dar ragione a
Carlo Freccero quando dice che “oggi per capire il cinema ci
vuole un’anima da cinefilo in un corpo da cultore”.
Angelo Moscariello
L’età del muto (1895-1929)
Nel cinema delle origini venivano chiamate “vedute” le scene
di vita quotidiana girate con una sola inquadratura con la
macchina fissa e senza variazione di asse. Si trattava di
riprese della durata di 50 secondi circa effettuate en plein
air in varie località di Parigi con pellicole di 17 metri e
con luce naturale, messe in commercio dai fratelli Lumière
differenziandole dai “quadri” che erano invece brevi scene
girate interamente in interni. Le vedute si estesero ben
presto anche a documentare la vita in paesi lontani e, come
tali, restano ancora oggi un prezioso documento geografico e
antropologico del mondo nel primo quindicennio del ‘900. Per
questa loro funzione, le vedute riscossero lo stesso successo
che nel ‘700 arrise alle analoghe vedute pittoriche di città
europee eseguite da Canaletto e da Bellotto.
La più famosa di queste “vedute in movimento” è quella del
treno che arriva alla stazione della Ciotat, che fu proiettata
il 28 dicembre 1895 al Café des Capucines e che segna la
nascita ufficiale del cinematografo. La posizione diagonale
della cinepresa rispetto al binario produce una profondità di
campo in virtù della quale la locomotiva in arrivo sembra
davvero piombare addosso agli spettatori sconcertati e
impauriti. Il fatto che la prima immagine del cinema
rappresenti un treno non è casuale. Infatti, anche la
pellicola scorre trascinata dai dentini di un rocchetto, anche
essa segue dei binari lungo i quali corre avanti, un
particolare che farà stabilire a Wenders una equazione tra
motion ed emotion.
Da notare che le riprese per le vie parigine delle “vedute”
non erano occultate, ma avvenivano con la consapevolezza dei
passanti, i quali spesso si fermavano a salutare in direzione
dell’obiettivo, tanto che esse possono considerarsi anche come
una “auto-rappresentazione” degli abitanti di Parigi
dell’epoca, i quali poi correvano nei cinema per rivedersi sul
grande schermo.
Louis Lumière girò anche delle brevi scene a soggetto spesso
divertenti basate su trovate o gag di facile comprensione,
come nel caso di L’innaffiatore innaffiato. Non mancavano
momenti di vita familiare, come quello della coppia di
genitori con bebè a tavola intitolato Le repas de bebè, un
idillico quadretto che stupì gli spettatori non tanto per la
presenza del neonato imboccato dal padre, quanto per le foglie
dell’albero agitate dal vento sullo sfondo con un effetto
realistico mai visto prima.
Il
cinematografo
diventa
più
sofisticato
rispetto
al
naturalismo dei Lumière con l’arrivo dei trucchi elaborati da
Georges Méliès. Quest’ultimo si serve delle risorse ottiche
che possono essere utilizzate dal nuovo mezzo per produrre
meraviglia e stupore. Le sue prime opere sono vere
“attrazioni” che consistono in effetti illusionistici basati
su sparizioni e metamorfosi ottenute con procedimenti tecnici
quali le sovrimpressioni, l’arresto della ripresa e lo
spostamento della cinepresa avanti o indietro per alterare le
dimensioni degli oggetti, cosa che si vede, ad esempio, in
L’uomo con la testa di caucciù. Ben presto dai film
consistenti in un solo “quadro”, Méliès passò a realizzare
opere composte di più quadri, articolandole grazie a un
montaggio magari ancora ingenuo, ma senza dubbio efficace.
Questo progresso gli consente di costruire una forma primitiva
di “racconto”, come dimostra l’avventura fantastica narrata in
Il viaggio nella Luna, progenitore storico datato 1902 del
futuro cinema di fantascienza. La rappresentazione è ancora di
impianto teatrale e si basa sui fantasiosi fondali dipinti e
sui numeri derivati dal music-hall ma presenta,comunque,un
arco narrativo compiuto che unifica l’insieme delle scene
“meravigliose”,ciascuna autonoma nel suo svolgimento.
Il dualismo Lumière-Méliès esprime le due anime del cinema,
quella documentaria e quella visionaria. In realtà, bisogna
dire che le due dimensioni del cinema sono sempre intrecciate,
anche se a volte prevale l’una e altre volte l’altra. Se è
vero che-come ha osservato Godard- “Lumière ha scoperto lo
straordinario nell’ordinario, mentre Méliès ha trovato
l’ordinario nello straordinario”, la conclusione è che il
cinema parte sempre dal realismo per giungere all’irrealismo,
e in questo consiste il suo fascino esclusivo.
Angelo Moscariello