Roman Polanski,Umorismo nero,Novembre
Transcript
Roman Polanski,Umorismo nero,Novembre
Dicembre – Quale documentario Tutti lo vogliono, tutti lo cercano. Oggi è il documentario il genere cinematografico che fa tendenza e che miete premi nelle numerose rassegne che proliferano in ogni borgo della penisola insieme alle sagre degli strufoli e delle frittelle. Una moda come un’altra di cui è responsabile il Leone d’oro dato a Venezia al superfluo Sacro Gra invece che a qualche altro vero film senz’altro migliore e dunque una moda improvvisata come tutti i mood artistici nostrani, la quale rischia di infliggere un ulteriore colpo letale a un cinema come il nostro già povero di invenzioni visive e regressivo sul piano del linguaggio. Il culto occasionale in atto per il documentario non è che un ennesimo espediente per compensare l’inesistenza in Italia di un cinema-cinema di ampio respiro capace di trasfigurare la realtà attraverso storie che sanno farsi metafora senza rinunciare al binomio motion-emotion su cui deve fondarsi ogni film narrativo, d’autore o di genere che sia. Ma ricorrere oggi a questo recupero pretestuoso e forzoso di un genere nobile come il documentario vuol dire misconoscere la sua anima autentica che è quella del “poemetto in prosa” per immagini e non quella del reportage giornalistico (come è il bozzettistico Sacro Gra laddove la materia richiedeva semmai di essere trattata in chiave horror). Il documentario inteso come genere autonomo o è un sonetto (come erano quelli di Antonioni, di De Seta, di Di Gianni, per non parlare di quelli cubo-futuristi di maestri dell’avanguardia storica come Vertov e Ruttman) oppure è nulla ( o peggio è la televisione, che è peggiore del nulla). Angelo Moscariello Gli dell’espressionismo incubi La nera silhouette del servo Cesare che corre sui tetti con in braccio la fanciulla da lui rapita in Il gabinetto del dottor Caligari, l’ombra del vampiro che si china rapace sul letto dove dorme il suo ospite Hutter in Nosferatu, le lunghe colonne di operai-iloti che entrano nella fabbrica in Metropolis, le strade nebbiose di Londra dove si aggira Jack lo squartatore in Lulù, le statue animate che minacciano i due innamorati in Il gabinetto delle figure di cera. Sono queste alcune delle immagini memorabili recanti il marchio del cinema espressionista attivo in Germania negli anni ’20. La vera novità di questa corrente sta in una scelta stilistica fortemente antinaturalistica che si affida a forti contrasti cromatici, a linee curve, a prospettive sghembe e ad una presenza inquietante delle ombre per trasmettere angoscia nello spettatore. Una tale forma di stilizzazione figurativa investe non soltanto le opere incentrate su personaggi diabolici o su vampiri, ma anche vicende tratte dalla realtà quotidiana quali drammi sentimentali e storie di strada a sfondo sociale. Se il titolo che inaugura la corrente, Il gabinetto del dottor Caligari realizzato da Robert Wiene nel 1920, è ancora tributario della coeva corrente pittorica espressionista (tanto che i fondali e persino le ombre sono dipinti), è soltanto con Nosferatu, girato da Murnau nel 1922, che il linguaggio cinematografico si libera da ogni sudditanza teatrale e pittorica per riprendere in maniera espressionistica una realtà ambientale e scenica non manipolata in precedenza, ma resa inquietante grazie al gioco delle angolazioni e agli effetti di luce che trasfigurano le persone e le cose in direzione demoniaca senza per questo snaturarne la sostanza. Il movimento bene esprime la condizione di smarrimento del popolo tedesco all’indomani della grande guerra e, con le sue figure mostruose, anticipa di un decennio (secondo la nota analisi di Kracauer) la comparsa sulla scena storica di Hitler, il futuro grande manipolatore delle coscienze volto ad imprese malvagie come il Caligari della finzione. Qualunque sia l’argomento dei film espressionisti, ricorrente in essi è la funzione psicologica delle scenografie, l’uso creativo della luce e l’antinaturalismo della recitazione, tutti elementi che fanno di esso,come osserva Tone, “un cinema dell’irrealtà” che scava nel profondo ed esprime la coscienza di un Io perturbato e sdoppiato (già messa in luce dagli studi di Freud e di Rank e anticipata in letteratura da scrittori della tradizione schauerromantik come E.T.A Hoffmann e da Adalbert von Chamisso). Proficua e lunga sarà l’eredità espressionista, se soltanto si pensa alla permanenza di questo stile nel cinema noir americano degli anni ’30 o, ancora meglio, negli horror girati da Tourneur negli Usa per Val Lewton, tipo Ho camminato con uno zombie o Il bacio della pantera (un fenomeno, questo, spiegabile con l’arrivo a Hollywood dalla Germania di molti registi e operatori formatisi alla scuola espressionista e poi costretti ad emigrare oltreoceano per sfuggire al nazismo). Roman Polanski Come tutti i maestri del cinema, anche Polanski fa sempre lo stesso film la cui sostanza poetica resta identica pur nella variazione dei temi e delle forme adottati. Questo vale a partire dall’opera di esordio Il coltello nell’acqua (1962) fino all’ultimo La venere in pelliccia ( 2013) attualmente nelle sale. Quali che siano i generi utilizzati dal regista, l’elemento ricorrente nelle sue opere è una struttura circolare in seguito alla quale la situazione descritta non progredisce mai realmente rispetto al dato iniziale. Ogni volta la dimensione dell’assurdo si configura come una vera ananche contro cui gli sforzi dei protagonisti si rivelano alla fine vani. Il carattere illusorio di ogni azione tendente a contrastare la logica di questa necessità viene reso, sul piano della struttura narrativa, dalla coincidenza, nel senso o nella figurazione, dell’ultima inquadratura di ogni film con la prima. In tal modo un ferreo determinismo frustra l’evoluzione del récit e fa sì che le stesse cose ritornino anche, e sopratutto, quando sembravano essere state definitivamente superate (Chinatown,1974). Lo svolgimento del racconto rinvia ogni volta ad una sfiducia radicale nella Storia, ad una concezione ciclica del Tempo che pone in dubbio le possibilità di successo dell’homo faber e presuppone la presenza di una Colpa originaria che pesa sull’Uomo, quell’Uomo che, secondo la cultura ebraica alla quale Polanski appartiene, è colpevole per il solo fatto di essere nato (proprio come accade al Joseph K., protagonista del romanzo Il processo dell’altro grande ebreo maestro dell’assurdo Kafka). Questa concezione antiumanistica viene evidenziata dal particolare genere preferito dal regista, un genere che, anche se camuffato da tanti altri generi, resta sempre quello dell’”apologo morale”. Da tale scelta deriva il marcato antipsicologismo che caratterizza la filmografia polanskiana, dove i personaggi, più che creature a tutto tondo, risultano essere schemi di comportamento, elementi di un Meccanismo da cui essi sono agiti anche quando credono di agire per loro volontà. Per questo motivo, le opere più riuscite di Polanski sono quelle dove la chiave allegorica o allucinatoria prevale su quella psicologica (come nei primi cortometraggi e come in Cul de sac, 1966, e in Repulsion, 1965), opere in cui si realizza un vero “cinema della crudeltà”, che supera ogni limite naturalistico. La natura “bloccata” della realtà vista da Polanski esclude, tuttavia, la presenza di una dimensione “tragica” poiché nei suoi film non esiste mai una vera opposizione alla Necessità (o Fato, o Storia che dir si voglia), manca, cioè, quel secondo termine di una dialettica che, solo, potrebbe garantire una opposizione decisiva all’Assurdo. Tutti i personaggi sono sempre destinati a cedere al richiamo del Negativo, a farsi inconsci seguaci di Satana anche quando seguono fedelmente il magistero del Papa (la sposina di Rosemary’s baby,1968). Mentre nella tragedia è implicata una “rottura” capace di confutare il grande Piano, in Polanski, al contrario, ogni scelta non fa che riconfermare l’attuazione ineluttabile di esso (l’urlo con cui si apre e si chiude L’inquilino del terzo piano,1976). Di questa resa all’assurdo fa fede anche quella che sembra essere l’opera più “positiva” del regista, Il pianista (2002), dove l’apparente lieto fine viene messo in dubbio dalla morte, ingiusta, dell’ufficiale tedesco ( cioè del “buono” che salva la vita al protagonista, ma che in cambio di ciò non viene salvato a sua volta da Dio per la sua opera dettata da grande umanità, ma finisce barbaramente fucilato dai soldati sovietici “liberatori”). Suscitare il dubbio, sempre e comunque, è il compito che Polanski si è impegnato a fare con il suo cinema e di questo dobbiamo essergli riconoscenti in un’epoca di ottuse certezze pubbliche e private. Umorismo nero Tra tutti i generi cinematografici, l’horror è stato quello che in maniera programmatica ha sempre coniugato il macabro con la paura, con risultati a volte memorabili come nel caso di Suspiria di Dario Argento e di La casa dei mille corpi di Rob Zombie. Ma anche la commedia non ha mai chiuso gli occhi davanti alla morte e ha cercato di esorcizzarla attraverso l’arma dell’umorismo macabro. Il maestro storico assoluto dell’umorismo funereo è stato Luis Bunuel il quale, dall’ iniziale inquadratura dell’ “occhio tagliato” in Un chien andalou fino a molte sequenze degli ultimi film, come quella del “brigadiere insanguinato” in Il fascino discreto della borghesia, ha sempre trattato il tema della morte nella chiave surrealista impiegata da Breton in letteratura e da Magritte in pittura. Su un altro versante, quello dell’umorismo british, il campione del genere è stato Alfred Hitchcock il quale in fatto di divertimento macabro resta insuperabile in tutte le sue opere, con risultati esilaranti soprattutto in La congiura degli innocenti dove il cadavere del povero Harry viene sepolto e dissepolto più volte da tre persone diverse che credono erroneamente di aver causato la morte dell’uomo e con fare impassibile lo spostano da un posto all’altro per trovare un nascondiglio sicuro come se fosse la cosa più normale del mondo. Comunque, a distinguersi nella produzione di opere venate di comicità a sfondo macabro è stato il cinema inglese che dagli anni ’60 in poi ha allineato molti titoli godibili, a cominciare da Sette allegri cadaveri di Pat Jackson per continuare con quelli diretti da Freddie Francis per la Amicus, una società specializzata in opere a basso costo di genere horror e thriller permeate di risvolti umoristici da contrapporre a quelle serie della ricca Hammer Film. La formula adottata con successo da Francis (futuro direttore della fotografia per Elephant man di Lynch) è quella del portmanteau, più episodi legati da una cornice narrativa unitaria come si vede,ad esempio, in Le cinque chiavi del terrore del 1964, in I Racconti dalla tomba girato nel 1972 con un inquietante gusto del macabro (ripreso dai fumetti Tales from the crypt dell’americana EC Comics) e in La bottega che vendeva la morte del 1973. Sempre dall’Inghilterra viene nel 1971 a firma di Robert Fuest l’eccentrico e bizzarro L’abominevole dottor Phibes, dove un ironico e vendicativo Vincent Price escogita le sette piaghe d’Egitto per punire i medici che non seppero salvare l’amata moglie (cui seguirà l’anno dopo il secondo capitolo Frustrazione, sempre con un grande Phibes- Price e con scenografie fantastiche tra art decò e pop). La tradizione del macabro si applica in chiave di commedia satirica anche in opere che prendono spunto da funerali da organizzare o in corso per avanzare pungenti osservazioni di critica dei costumi, cosa che accade nel brioso Il caro estinto girato nel 1965 negli Usa dall’exarrabbiato del free cinema inglese Tony Richardson dove il regista prende di mira il culto della morte diffuso presso gli americani a base di saloni di bellezza per le salme e bare firmate da rinomati costruttori , mentre in seguito il rito funebre sarà occasione per far luce sui segreti di famiglia nella farsa nera Funeral party realizzata nel 2007 da Frank Oz. (continua). Angelo Moscariello Novembre – alternative Buone visioni Se la società sta male neanche il cinema se la passa tanto bene. Mentre inizia la sgonfiata ma tanto pompata edizione dell’inutile Festival di Roma,uno si guarda intorno alla ricerca di qualche nuova uscita che valga il prezzo del biglietto,magari di qualche titolo già passato a Venezia e accolto con favore da una critica che in verità è sempre di più al servizio degli uffici stampa delle produzioni soprattutto italiane. Qualcosa lo trova pure , per esempio titoli come lo spietato e goliardico Machete Kills di Robert Rodriguez oppure come quel tosto esempio di cinema della crudeltà in famiglia che è Miss Violence del greco Alexandros Avranas oppure,se è di gusti più sofisticati,come la surreale versione in bianco e nero della nota favola Blancanieves ambienta tra toreri e flamenchi dallo spagnolo Pablo Berger. Per il resto deve accontentarsi dei puntuali nuovi capitoli della nuova commedia americana postApatow con i soliti bamboccioni e i soliti trentenni sfigati oppure dei sequel di action e superhero movies di successo che saranno pure buoni per passare due ore ma che lasciano il tempo spettatoriale che trovano. In questa penuria non resta allora che andar per streaming e cercare di beccare in uno dei siti francesi o spagnoli o statunitensi qualche opera di nicchia a suo tempo persa oppure per rivedere vecchi cult che fanno sempre bene alla salute.Può capitare allora di catturare un capolavoro assoluto del trash satirico-demenziale targato Troma come Poultrygeist-La notte dei polli viventi con l’effetto di godere di una delle pellicole del genere horror -comedy più dissacranti,scorrette e divertenti mai realizzate ( la scena iniziale con il nerd e la ragazza che stanno copulando nel cimitero e vengono sorpresi da un maniaco guardone che con una mano impugna un’ascia e con l’altra potete immaginarlo,la mutazione dei commessi del fast-food in voraci polli-zombie che si sbranano a vicenda e su tutto il diluvio di vomiti verdi e di cacche pestilenziali a ricoprire la logica capitalistica delle multinazionali dell’alimentazione) oppure un gioiello umoristico della sci-fi comedy come I marziani invadono la Terra diretto nel 1988 da tal Stanley Sheff che nella storia narrata sarebbe dovuto essere il film più brutto del mondo e invece si rivela un grande successo per il modo ironico con cui riscrive i topoi del cinema di serie B degli ’50 ( l’uomoaragosta Lobster Man viene spedito sul nostro pianeta dal re di Marte per rubarci l’atmosfera e sono cavoli amari. Distruggerlo dopo tanti tentativi sarà come scoprire l’acqua calda,in senso letterale…).Belle sorprese dal web mondiale e pazienza se sono in lingua originale ( ma tanto visto il tipo di film dei dialoghi chi se ne importa). Altrimenti l’altra soluzione è fare scorta di dvd recenti e rivedersi almeno il mai abbastanza lodato L’alba dei morti dementi oppure le lapdancers morte-viventi di Zombie strippers,giusto per tenersi su il morale con un campionario di squartamenti tanto inauditi quanto esilaranti. Questo nell’attesa speranzosa che esca nelle sale l’ultima cattiveria di Polanski Venere in pelliccia ,film non di genere ma d’autore che forse almeno ci risolleverà dalla depressione provocataci dalle scemenze dei tanti furbi soliti idioti nostrani e in particolare dalle facezie dilaganti del lepido finto-scorretto Zalone Checco ( ma checcocolpa abbiamo noi per vedercelo spacciato come il miglior comico italiano sulla piazza?). Angelo Moscariello L’epoca slapstick. d’oro dello Fra il 1908 e il 1915 il cinematografo cessa di limitarsi a mostrare soltanto vedute o quadri autonomi e incomincia a elaborare una prima forma di narrazione articolata in più inquadrature collegate tra di loro. Avviene quello che Edgar Morin ha chiamato “la trasformazione del cinematografo in cinema”. In questo modo il nuovo dispositivo finisce di essere una semplice attrattiva destinata ai parchi di divertimento e incomincia a muovere i primi passi che lo porteranno a diventare un’arte. Una delle prime opere nata con ambizioni artistiche è L’assassinio del duca di Guisa, realizzato nel 1908 dalla società parigina Film d’Art dei fratelli Laffitte, un’opera di ispirazione letteraria accompagnata in sala dalla musica originale scritta da Saint-Saens.. La logica di produrre grandi spettacoli di forte impatto visivo, ma dall’impianto sostanzialmente teatrale, trova uno dei più alti risultati in La caduta di Troia girato dall’italiano Giovanni Pastrone nel 1911, lo stesso regista che tre anni dopo realizzerà Cabiria, un kolossal di ambientazione cartaginese ricco di novità scenografiche, pittoriche e sopratutto già organizzato in una narrazione ben articolata e coerente che si avvale delle didascalie scritte da Gabriele D’Annunzio. E’ proprio da questo film, assieme a quelli coevi girati in America da Griffith Nascita di una nazione(1915) e Intolerance(1916), che il cinema mette a punto le sue tecniche narrative e diventa la più grande macchina per raccontare storie mai esistita ,meritandosi a pieno titolo la definizione di “Settima Arte” coniata per esso da Ricciotto Canudo. In verità,nel decennio 1910-1920 il vero territorio dove si elabora la forma di un cinema totalmente autonomo rispetto ai modelli teatrali o letterari non è quello del kolossal a sfondo storico ma è quello delle comiche inaugurate da Mack Sennett nel 1910 e costituite da brevi filmati a base di situazioni assurde, di fughe, di cadute e di torte in faccia miranti a suscitare l’ilarità del pubblico. Ebbene, proprio per rappresentare un “mondo alla rovescia”, i registi e i gagman sfrutteranno tutte le possibilità offerte loro dalla cinepresa per creare un tempo e uno spazio del tutto “antinaturalistici” che in molti casi attingerà alla dimensione della poesia pura con l’approdo ad un’astrazione generale. Si tratta di un cinema dalla forte carica sovversiva che per questo sarà molto amato dagli esponenti delle avanguardie europee di qualche anno dopo,come Breton, Aragon e Buñuel e anche da un maestro dell’assurdo letterario come Kafka. Da questo genere verranno fuori due dei più grandi poeti di tutta la storia del cinema, Charlie Chaplin e Buster Keaton. La grandezza del primo è legata al personaggio di Charlot,il buffo omino in bombetta e bastoncino che turba l’ordine costituito e smaschera con i suoi maldestri interventi le ingiustizie e le falsità della società borghese, sopratutto nella serie di comiche mute in due o tre rulli girate per la Essanay e la Mutual nel biennio 1915-17 e poi per la First National ( come Charlot emigrante, Charlot evaso ,Charlot soldato e Charlot nottambulo) ,prima di passare ai lungometraggi dove prevarrà un fondo di sentimentalismo di gusto ottocentesco che mitigherà la cattiveria iniziale dell’autore trasformandola in un generico umanitarismo che permea titoli pur ricchi di memorabili gag visive come Tempi moderni e Il grande dittatore . Geometrica e astratta è,invece,la comicità di Keaton, un marziano che si ritrova sulla terra e che si applica con tenacia per capire come vi funzionino le cose e i rapporti umani, impassibile anche dinanzi ai più grandi disastri in cui viene a trovarsi coinvolto in opere di assoluta modernità che anticipano il tema della relazione sogno-realtà in chiave psicoanalitica e prefigurano anche quello che sarà il futuro meta- cinema ( Sherlock jr.). Le comiche di Keaton giocano su figure come la velocizzazione,lo sdoppiamento e l’equivoco sempre rivelando un uso creativo dello spazio utilizzato secondo criteri prettamente cinematografici per fungere da sfondo alle vertiginose traiettorie del personaggio catapultato ogni volta in ambienti a lui poco familiari ( il West in Io e la vacca o il porto fluviale in Io e il ciclone) oppure alle prese con la ribellione degli oggetti ( Una settimana)in un crescendo catastrofistico che anni dopo ritroveremo nei film di Jerry Lewis. Più infantile ma dalla risata assicurata è la comicità della coppia Stan Laurel-Oliver Hardy che si afferma all’inizio degli anni Venti e si consolida nel decennio grazie a una lunga serie di comiche in cui i due personaggi danno vita a situazioni umoristiche che si risolvono in buffe coreografie negli ambienti in cui essi entrano a provocare guai e distruzioni a catena (La battaglia del secolo, Affari in grande, Agli ordini di sua altezza) L’ira trattenuta del paziente Ollio e la grattatina sul capo dell’imbarazzato Stanlio sono i gesti tipici che connotano i due soggetti e che li faranno amare da milioni di spettatori piccoli e grandi. Alla scuola della slapstick comedy si formano anche centinaia di stuntman capaci di acrobatici capitomboli e di frenetici inseguimenti, dote che essi con il tramonto del genere metteranno al servizio del filone western che dominerà nel cinema americano negli anni Trenta. Il segreto dei suoi occhi Crimine, amore e mistero. Alla sapiente fusione di questi tre elementi si deve la riuscita di Il segreto dei suoi occhi, firmato dal regista argentino Juan José Campanella e vincitore di un Oscar come miglior film straniero. Dentro una cornice da legal thriller dall’impianto tradizionale la storia si arricchisce di tonalità da noir esistenziale e di aperture romantiche rese con la giusta distanza grazie ad uno sguardo ironico che sa raffreddare la sostanza drammatica della narrazione. Nella sua vita trascorsa il commissario in pensione Esposito ha mancato due grandi occasioni, una riguardante la sua dimensione professionale, l’altra quella privata. Venticinque anni prima, infatti, all’epoca della dittatura dei militari in Argentina, egli si è lasciato sfuggire il sadico autore dell’uccisione di una giovane donna, da lui rintracciato dopo una ingegnosa ricerca ma rimesso in libertà dagli scherani dei colonnelli. Inoltre, non ha saputo dichiarare il suo amore alla bella procuratrice Irene, alle cui dipendenze egli lavorava diviso tra gli obblighi della gerarchia e il sogno di una impossibile relazione sentimentale. Ma adesso, dopo tanti anni, Esposito decide di scrivere un romanzo sull’atroce delitto con la speranza di poterne chiudere i punti irrisolti guidato da una saggezza che non poteva avere da giovane e impulsivo funzionario. Le memorie del passato lo aiutano a mettere ordine nel presente e a scoprire che l’omicida dato per morto vive tuttora tenuto prigioniero del marito della defunta e che l’irraggiungibile Irene, ormai divorziata, non aspetta altro che egli le dichiari il suo amore. L’incastro dei piani temporali è eseguito con una perizia che ricorda quella mostrata da Losey in Messaggero d’amore e rende inavvertibili gli slittamenti cronologici con il risultato di consentire alla narrazione di procedere compatta e lineare nonostante la continua dialettica tra presente e passato che connota l’intero film. Il personaggio di Esposito è uno di quei “lucidi folli” di cui è ricca la letteratura argentina, un uomo oscillante tra disillusione e impeto vitale (“Non si può vivere una vita vuota”, ripete spesso all’Irene ritrovata), un malinconico resistente dinanzi al clima di corruzione del paese e alla vigliaccheria dei colleghi d’ufficio. La sua passione per la ricerca della verità è un sentimento totalizzante che si incrocia con un’altra passione meno nobile ma altrettanto assoluta, quella calcistica nutrita dall’omicida, in un serrato pedinamento che conduce all’arresto dello sconosciuto introvabile in una sequenza dall’impatto shocker (la carrellata aerea sullo stadio di Buenos Aires che piomba sui giocatori e devia sulle gradinate gremite e sui corridoi sottostanti fino a cogliere il giovane braccato) Oltre al tema dell’amore perduto e poi ritrovato per Irene, il regista tratta con grande sensibilità pure il motivo dell’amicizia virile che lega Esposito al suo aiutante Pablo, un ubriacone assai perspicace grazie al cui contributo riesce a risolvere il caso (ma non a impedirne l’uccisione da parte dei sicari del regime). Anche questo secondo (o terzo) filo narrativo è condotto con mano sicura da Campanella e dallo sceneggiatore Eduardo Sacheri ( autore del romanzo La pregunta de sus ojos da cui il film è tratto) e si inserisce senza forzature nel contesto della vicenda che scorre avvolgente e avvincente fino all’atteso ma sempre rinviato bel finale. Quanto al titolo Il segreto dei suoi occhi, esso ha una pregnanza che corrisponde alla complessa sostanza narrativa, visto che gli occhi di cui parla possono essere sia quelli dell’omicida ritratto in una vecchia foto mentre fissa adorante la futura vittima sia quelli di Irene che attende da Esposito le parole che lui tarda troppo a dirle. In questa ambiguità sta forse il merito maggiore del film, quello di ricordarci la verità che i film, tutti i film, in fondo altro non sono che “staffette di sguardi” carichi di significati inespressi. Angelo Moscariello La horror storico comedy: profilo Di commedie con un po’ di spavento se ne trovano sin dagli ’20,per esempio in alcune comiche di Buster Keaton come The haunted house o di Harold Lloyd come Haunted spooks,così come dai ’30 ai ’70 se ne trovano tante che fanno anche un po’ di paura,soprattutto nella forma di parodie di veri film dell’orrore di grande successo ( la serie con Gianni e Pinotto contro i mostri del cinema classico,Frankenstein Junior di Brooks) ma anche in storie originali ( quali Il castello maledetto di Whale e il successivo Per favore..non mordermi sul collo di Polanski definito dall’autore non una parodia dei film di vampiri ma una fiaba). Ma è soltanto a partire dagli inizi degli anni ’80 che si può parlare della affermazione della horror comedy intesa come un nuovo genere autonomo dove la comicità se la batte con massicce dosi di autentico orrore. A inaugurare la serie è nel 1981 John Landis con Un lupo mannaro americano a Londra,film che riprende in chiave “antiromantica” il tema della licantropia inaugurato nel 1941 da Waggner con il suo L’uomo lupo e lo fa non già nella forma di un tradizionale horror comico bivalente ma in quella originale di un film “bifronte” dove orrore e umorismo instaurano un “passo a due” nel pieno rispetto dei rispettivi statuti semantici. Allo spettatore abituato al salto di qualità compiuto dal new-horror anni ’70 rispetto a quello classico il film di paura con momenti divertenti non basta più,ora egli vuole un vero film dell’orrore che sia anche un vero film divertente e in questo Landis ha risposto alla sua attesa con un’opera che innesca sentimenti contastanti ma non scade mai nel ridicolo. Per Un lupo mannaro americano a Londra valgono le parole dette da Prawer a proposito del nuovo genere della horror comedy : “ Siamo qui in presenza dell’arte del grottesco,in cui gli impulsi alla ripugnanza inorridita nascono insieme come impulsi al riso;le due cose si inibiscono a vicenda e il risultato è una risposta caratteristica e complessa”(1). Una volta aperta la strada gli schermi saranno invasi da decine di film orribilmente divertenti come il comico-macabro Creepshow di George A. Romero, lo splatterstick Re-animator di Stuart Gordon,il surreale Society di Brian Yuzna,il barocco mostruoso Splatter-Gli schizzacervelli di Peter Jackson su su fino all’orgiastico Dal tramonto all’alba di Quentin Tarantino e allo slasher metafilmico Scream di Wes Craven.Non solo, ma nell’arco del decennio nuove variazioni del genere si aggiungono a quelle esistenti ,tra le quali la commedia sexy-horror tipo Una strega chiamata Elvira e la commedia macabra per famiglie come La famiglia Addams,mentre dal canto suo la parodia si scatena tra orrori naturali e soprannaturali con l’irriverente farsa Il ritorno dei morti viventi e con i vomiti verdi di Riposseduta. Negli anni Duemila il genere si afferma con ottimi risultati anche in Spagna da dove giunge La notte dei morti dementi di Miguel Lamata e persino in Norvegia dove Tommy Wirkola gira l’insolito nazi-zombie Dead snow.Intanto il cinema Usa non si mostra da meno e allinea prima due gioielli come Benvenuti a Zombieland del giovane Ruben Fleischer e Ladri di cadaveri- Burke & Hare del veterano John Landis e poi ,infine ,nel 2013 sorprende con la romantica horror comedy di Jonathan Levine Warm bodies , divertente versione della storia di Romeo e Giulietta ambientata tra gli zombi. 1) Prawer S.,I figli Riuniti,Roma,1981,pag.62 del dottor Caligari,Editori Angelo Moscariello Spring breakers spettatoriali contro la noia. Affermare che i migliori film in assoluto delle ultime due stagioni sono Spring breakers e Killer Joe potrebbe sembrare una provocazione e invece è soltanto una constatazione oggettiva motivata dalla qualità media dell’odierna produzione cinematografica.Parliamo di quella americana,l’unica davvero contemporanea capace pur sempre di coinvolgerci ancora in modo non regressivo( tanto con gli assalti in stile action alla Casa Bianca tipo White House down quanto con la fantascienza simbolica in chiave di suspence tipo Gravity ),l’unica che non dimentica mai che il cinema è in primo luogo un grande spettacolo popolare che deve far passare il “discorso” attraverso l’intrattenimento intelligente ( e quindi non parliamo ovviamente del cinema italiano ininfluente,irrilevante e vecchio nel suo provincialismo romanocentrico che non va oltre il famigerato- disgraziato Gra,un cinema che non sa scuoterci né nelle sue pratiche alte né in quelle basse come almeno un tempo sapeva fare diviso tra Antonioni e Pasolini da una parte e Corbucci e Fulci dall’altra) . Nell’odierno cinema Usa tra tanti discreti horror e tante godibili commedie post-Apatow sono stati soltanto il film di Korine e quello di Friedkin a sorprenderci,il primo per come ha saputo rivitalizzare in forma di scorretto e sconcatenato delirio pop la teen comedy ,il secondo per averci dato l’equivalente di un romanzo di Lansdale nella forma di una delle più strepitose commedie nere mai apparse sullo schermo ed entrambi perché sono due film shocker densi e divertenti che hanno in se la memoria di tutto il precedente cinema classico e anche postmoderno. Esclusi autentici “spring questi due breakers” spettatoriali, tutto il resto è noia,o quasi (Kim Ki Duk compreso) e allora due ragazze gioiose ma anche molto cattive e un killer spietato ma anche molto umano sono ciò che ci resta nella memoria filmica grazie all’originale lavoro intertestuale compiuto sui generi dai rispettivi registi. E dunque non resta che dar ragione a Carlo Freccero quando dice che “oggi per capire il cinema ci vuole un’anima da cinefilo in un corpo da cultore”. Angelo Moscariello L’età del muto (1895-1929) Nel cinema delle origini venivano chiamate “vedute” le scene di vita quotidiana girate con una sola inquadratura con la macchina fissa e senza variazione di asse. Si trattava di riprese della durata di 50 secondi circa effettuate en plein air in varie località di Parigi con pellicole di 17 metri e con luce naturale, messe in commercio dai fratelli Lumière differenziandole dai “quadri” che erano invece brevi scene girate interamente in interni. Le vedute si estesero ben presto anche a documentare la vita in paesi lontani e, come tali, restano ancora oggi un prezioso documento geografico e antropologico del mondo nel primo quindicennio del ‘900. Per questa loro funzione, le vedute riscossero lo stesso successo che nel ‘700 arrise alle analoghe vedute pittoriche di città europee eseguite da Canaletto e da Bellotto. La più famosa di queste “vedute in movimento” è quella del treno che arriva alla stazione della Ciotat, che fu proiettata il 28 dicembre 1895 al Café des Capucines e che segna la nascita ufficiale del cinematografo. La posizione diagonale della cinepresa rispetto al binario produce una profondità di campo in virtù della quale la locomotiva in arrivo sembra davvero piombare addosso agli spettatori sconcertati e impauriti. Il fatto che la prima immagine del cinema rappresenti un treno non è casuale. Infatti, anche la pellicola scorre trascinata dai dentini di un rocchetto, anche essa segue dei binari lungo i quali corre avanti, un particolare che farà stabilire a Wenders una equazione tra motion ed emotion. Da notare che le riprese per le vie parigine delle “vedute” non erano occultate, ma avvenivano con la consapevolezza dei passanti, i quali spesso si fermavano a salutare in direzione dell’obiettivo, tanto che esse possono considerarsi anche come una “auto-rappresentazione” degli abitanti di Parigi dell’epoca, i quali poi correvano nei cinema per rivedersi sul grande schermo. Louis Lumière girò anche delle brevi scene a soggetto spesso divertenti basate su trovate o gag di facile comprensione, come nel caso di L’innaffiatore innaffiato. Non mancavano momenti di vita familiare, come quello della coppia di genitori con bebè a tavola intitolato Le repas de bebè, un idillico quadretto che stupì gli spettatori non tanto per la presenza del neonato imboccato dal padre, quanto per le foglie dell’albero agitate dal vento sullo sfondo con un effetto realistico mai visto prima. Il cinematografo diventa più sofisticato rispetto al naturalismo dei Lumière con l’arrivo dei trucchi elaborati da Georges Méliès. Quest’ultimo si serve delle risorse ottiche che possono essere utilizzate dal nuovo mezzo per produrre meraviglia e stupore. Le sue prime opere sono vere “attrazioni” che consistono in effetti illusionistici basati su sparizioni e metamorfosi ottenute con procedimenti tecnici quali le sovrimpressioni, l’arresto della ripresa e lo spostamento della cinepresa avanti o indietro per alterare le dimensioni degli oggetti, cosa che si vede, ad esempio, in L’uomo con la testa di caucciù. Ben presto dai film consistenti in un solo “quadro”, Méliès passò a realizzare opere composte di più quadri, articolandole grazie a un montaggio magari ancora ingenuo, ma senza dubbio efficace. Questo progresso gli consente di costruire una forma primitiva di “racconto”, come dimostra l’avventura fantastica narrata in Il viaggio nella Luna, progenitore storico datato 1902 del futuro cinema di fantascienza. La rappresentazione è ancora di impianto teatrale e si basa sui fantasiosi fondali dipinti e sui numeri derivati dal music-hall ma presenta,comunque,un arco narrativo compiuto che unifica l’insieme delle scene “meravigliose”,ciascuna autonoma nel suo svolgimento. Il dualismo Lumière-Méliès esprime le due anime del cinema, quella documentaria e quella visionaria. In realtà, bisogna dire che le due dimensioni del cinema sono sempre intrecciate, anche se a volte prevale l’una e altre volte l’altra. Se è vero che-come ha osservato Godard- “Lumière ha scoperto lo straordinario nell’ordinario, mentre Méliès ha trovato l’ordinario nello straordinario”, la conclusione è che il cinema parte sempre dal realismo per giungere all’irrealismo, e in questo consiste il suo fascino esclusivo. Angelo Moscariello