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Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, sede di Forlì Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori Corso di laurea in Comunicazione Interlinguistica Applicata Anno Accademico 2007/2008 Corso di Ermeneutica Testuale Prof. Francesco Giardinazzo Dal mito delle sirene omeriche a quello di Lighea: la voce come fonte di seduzione Laura Avanzolini 0000 250906 Introduzione Specchio dell’anima, espressione dell’unicità dell’essere umano, strumento al servizio della parola e del linguaggio, elemento intrinsecamente affascinante, la voce umana sembra aver rivestito un’importanza essenziale nella vita dell’uomo a partire dal suo stato primordiale. Fin dai primi momenti di vita infatti, l’embrione comincia ad essere immerso in un universo sonoro che lo accompagnerà durante tutti i nove mesi della gestazione: dal battito cardiaco al flusso sanguigno, dalla velocità respiratoria alle vibrazioni della voce materna, l’universo vitale del feto sembra essere scandito dai suoni materni, veicolo privilegiato del contatto d’amore tra madre e bambino. Il tutto culmina nel pianto della nascita, ovvero la prima manifestazione fonatoria, che rappresenta lo stato di panico determinato dal repentino e totale cambiamento delle condizioni di vita del feto ed il primo contatto con il mondo. Dal vagito al repertorio di fonemi e sillabe emessi nei primi mesi vita, dall’articolazione della prima parola alla transizione dalla pubertà all’età adulta, la vocalità riveste indubbiamente un ruolo chiave nella parabola esistenziale di ciascuno tanto da segnarne alcune tappe fondamentali . Una volta raggiunta la propria maturità vocale, l’essere umano diventa padrone di uno strumento potentissimo che tradizionalmente si polarizza ora sul versante del significato, concentrandosi sulla comunicazione di pensieri ed idee, ora su quello del significante, esaltando la capacità ammaliatrice delle sonorità al di là dell’aspetto semantico. Non a caso fu il genio degli antichi Greci ad intuire le potenzialità espressive della voce, e a canalizzarle ora nel teatro, ora nella retorica, ora nel canto dei poemi epici, ora nella filosofia classica. Alla luce delle riflessioni e degli studi portati a termine sull’ontologia della voce rispetto al linguaggio, il presente lavoro intende rendere omaggio al potere ammaliatore della voce facendo un salto nel passato, tra la Grecia classica e l’antico mito delle sirene. 2 Il rapporto tra sfera visiva e sfera acustica nella filosofia classica «Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci»1. In un racconto Italo Calvino narra la storia di un re che vive inchiodato al proprio trono in continuo ascolto dei suoi sottoposti: abita in un fantastico palazzo a forma di orecchio fatto proprio a somiglianza dell'organo dell'udito, dove gli ambienti assomigliano a timpani, chiocciole, labirinti; i servitori ne sono consapevoli e tutti i loro discorsi sono intrisi di un conformismo portato agli estremi. Sentendo per caso da una finestra il canto di una voce femminile, il re si ritrova a provare un piacere sconosciuto e a fantasticare sul vero volto della cantante misteriosa. Non gli importa la bellezza della canzone, ma della voce, concentrandosi così sull'aspetto vocalico e non sull'aspetto semantico di ciò che capta per mezzo del senso dell’udito. A questo proposito vale la pena soffermarsi più a lungo sull’essenza di un sistema estremamente complesso, il primo dei cinque sensi a svilupparsi nel feto e a permettere il contatto col mondo, come precedentemente accennato. Eppure, nonostante la sua indiscussa centralità, una predilezione della sfera dell’occhio rispetto a quella dell’orecchio pervade tutta la cultura greca, basata fin dai tempi di Omero sul binomio vedere-sapere. Se la vista è fortemente deittica, ancorata al tempo e allo spazio, l’udito rimanda all’evanescenza e alla dinamicità; se la vista si fonda sulla percezione contemporanea degli oggetti, l’udito invece sulla successione dinamica, sulla sequenza di suoni. Ancora, mentre è possibile sottrarsi alla vista di qualcosa, non si può fare altrettanto con l’udito, dato che non abbiamo la facoltà di “distogliere l’orecchio” dai paesaggi sonori che risuonano nell’ambiente circostante a prescindere dalla nostra percezione sensoriale. Se è vero che nella cultura greca il senso della vista rimanda alla conoscenza e alla verità, ed è altrettanto vero che nella metafisica platonica tra vocalico e semantico è il secondo a prendere il sopravvento, è facile intuire per quale ragione la sfera acustica sia subordinata a quella visiva. Le teorie platoniche sostengono infatti che la componente fonica della parola costituisca il limite della parola stessa, e che sia dunque necessario spogliare quest’ultima della sua matrice fonica per assurgere al puro significato, al mondo delle idee. Tale processo, definito posteriormente devocalizzazione del logos, è dunque finalizzato ad eliminare la pellicola acustica che riveste il pensiero e a fare della parola 1 “Un re in ascolto”, pp. 55-57, Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, Milano, Mondadori, 2001. 3 un mero guscio acustico dell’idea. Il carattere imperfetto della componente fonica rispetto a quella semantica si deve inoltre al fatto che i suoni sono saldamente legati alla corporeità, e sono dotati di un potere deduttivo che ammalia gli ascoltatori. La voce, che Platone paragona al flauto, viene condannata proprio perché non fa altro che sollecitare le passioni e gli istinti, sviscerando la parte più intima dell’essere umano in maniera incontrollata. Benché riconosca nel Simposio l’eccezionalità vocalica del maestro Socrate, abile artefice di logoi che producono lo stesso effetto del flauto penetrando le orecchie dei suoi interlocutori che ne rimangono inevitabilmente estasiati, Platone finisce per opporre al logos socratico parlato quello scritto, puntualizzando nuovamente il primato del significato sul significante. La sola alternativa secondo Platone è quella di fuggire da Socrate, proprio come Ulisse e i suoi compagni di avventura si sono tappati le orecchie per salvarsi dalle Sirene. Nonostante tutti gli sforzi platonici atti ad eliminare la componente pulsionale della vocalità, è impossibile prescindere dall’effetto che la voce esercita sugli ascoltatori: l’antico mito delle Sirene, nato con l’epica omerica e poi arrivato fino ai giorni nostri, sembra voler esaltare la sfera acustica, affiancandola a quella visiva. Da donne-uccello a donne-pesce : la metamorfosi delle sirene e la tensione tra voce e parola A partire dalle incantatrici del mare incontrate da Ulisse nell’Odissea fino ad arrivare a Partenope, Lighea e Leucosia che abitavano la Magna Grecia, dalle Undine germaniche alla favola di Andersen, le sirene sono le protagoniste di un lungo percorso sonoro trasversale, che abbraccia il bacino del Mediterraneo così come le terre nordiche. Motivo ispiratore di una letteratura sconfinata, il loro nome deriva dal greco antico Seirenes, che a sua volta viene da seirà, che significa catena o legame, mentre il verbo seirazein significa legare, imprigionare. Nate nella Grecia classica, le sirene erano originariamente donne-uccello dall’aspetto repellente con ampie ali di rapace. Creature terrene e ultraterrene allo stesso tempo, legame fra terra e cielo, la loro arma era il canto con il quale catturavano gli uomini e, secondo una certa mitologia, erano compagne di Demetra e Persefone per cercare la quale avrebbero assunto ali e corpo da uccello. È proprio Omero a fornire la prima testimonianza letteraria dell’incontro tra un mortale e Le Sirene grazie alla figura dell’arguto Ulisse, che nel libro XII dell’Odissea segue 4 scrupolosamente i consigli della maga Circe, otturerà con la cera gli orecchi dei compagni e si farà legare all’albero della nave per resistere agli effetti nefasti del piacere instillato dal canto ammaliatore delle sirene. «Ascolta le mie parole, dice la seduttrice all'eroe: nel tuo viaggio per mare, tu verrai alle Sirene che tutti gli uomini seducono col loro canto soave» (thelgousin aoidè, Odissea, XII, v. 44). La voce suadente, melliflua a cui accenna Circe sembra prescindere da contenuti verbali, da significati precisi, tanto che il canto mortale delle sirene viene a configurarsi come puro godimento acustico che uccide gli uomini. Eppure queste creature mostruose narrano cantando, celebrano le imprese relative alla guerra di Troia, forti di un fascino che deriva esclusivamente dal loro canto, dato l’aspetto ripugnante che le contraddistingue. Ecco allora che l’epifania sonora delle sirene omeriche si serve dell’effetto suadente della voce femminile, a prescindere dalla loro bellezza, per tramandare conoscenza, all’insegna del binomio phonè -semantikon tipico dell’epica omerica. Si instaura così una tensione tra voce e parola, tra piacere e intelletto, in cui la centralità della vocalità sembra rispondere ad una delle peculiarità del genere epico, ovvero l’esecuzione poetica dell’aedo. Questa obbedisce innanzitutto a leggi ritmiche e metriche, dove il vocalico domina sul semantico, con la finalità di favorire la memorizzazione di quanto cantato e procurare piacere a chi ascolta. Alla luce di quanto detto fin ora, trova una facile spiegazione l’ostilità che Platone nutre tradizionalmente nei confronti di Omero, dovuta essenzialmente alla tensione dell’epica verso il mondo del vocalico, all’aspetto corporeo e incantatorio. Tale avversione si acuisce se consideriamo che nel caso delle sirene omeriche la capacità di ammaliare raccontando viene affidata al canto femminile, usurpando la specialità maschile del logos. Con il passaggio da Omero a Platone, non a caso la centralità della sfera acustica viene sostituita da quella visiva, attribuendo alla voce un ruolo meramente ancillare rispetto al linguaggio. L’evoluzione del mito delle sirene nell’iconografia classica potrebbe inserirsi nell’ottica della transizione dal primato della voce omerico a quello dell’occhio platonico. Incerta è l’origine della radicale metamorfosi subita dalle sirene, sebbene tradizionalmente la trasformazione da donna-uccello a donna-pesce si faccia risalire al Liber Monstruorum del II secolo d.C. , rappresentazione che continuò ad avere fortuna fino al Medioevo. Consegnate al mondo acquatico, da mostri inquietanti a creature 5 dotate di una bellezza sfolgorante, le sirene cominciano a configurarsi come corpo e voce inarticolata, rispondendo dunque ad un modello stereotipico per il quale la donna deve essere bella e muta, pura phonè, mentre all’uomo spetta il puro semantikon. Da questo momento in poi la sirene emetteranno suoni privi di significato, vocalizzi puri, svuotati da ogni forma di logos. Le ipotesi sul perché di questa trasformazione dalle penne alle pinne sono due: da una parte essa è probabilmente da attribuirsi alla diffusione del Cristianesimo che vede in queste creature l’incarnazione diabolica del male, da cui la perdita delle ali che solo gli angeli erano degni di avere; un’ altra teoria ipotizza invece che la metamorfosi sia semplicemente il frutto di un errore di trascrizione. In latino, infatti, la differenza tra pinnis (pinne) e pennis (penne, piume) consiste in una sola vocale, e l’errata trascrizione di un amanuense avrebbe perciò potuto indurre un disegnatore di un bestiario medievale a dare alle sirene l’aspetto di donne-pesce che popolano l’immaginario collettivo odierno. Nell’immaginario simbolico medievale le sirene hanno chiome lunghe e ondulate e sono raffigurate con uno specchio e un pettine, simboli che rafforzano il senso della vista a scapito dell’udito, la contemplazione dell’aspetto estremamente attraente a scapito dell’ascolto. Conservando la loro natura ibrida – dove la metà femminile rimanda alla terra, mentre quella ittica al mare, simbolo dell’inconscio – le sirena diventano metafora della duplicità del rapporto amoroso, fatto ora di fascino e desiderio, ora di prigionia e morte. Il sortilegio della voce di Lighea Pubblicato da Feltrinelli nel 1961, frutto del lavoro degli ultimi mesi di vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Ligha è un racconto che sta a metà tra l’allegorico e l’onirico, che attraverso la figura mitica della sirena passa dalla realtà al sogno, dalla terra al mare, dalla vita alla morte. Il tessuto narrativo di Lighea è basato sul “racconto nel racconto”: un racconto cornice, ovvero quello reale, dell’amicizia instauratasi nel 1938 a Torino tra il giovane redattore Paolo Corbera e l’anziano ellenista, nonché senatore, Rosario La Ciura; e un racconto quadro, surreale, la reminescenza dell’amore fantastico tra il senatore e una creatura femmineo – marina. Grazie alla rievocazione della Sicilia, terra natia per entrambi, il giornalista e il professore superano lo scoglio anagrafico, l’abisso culturale che li separava e l’iniziale incompatibilità caratteriale per instaurare 6 un rapporto amichevole e cordiale, in cui il giovane e il vecchio si fanno portatori ciascuno delle proprie esperienze, che vengono generosamente messe al servizio dell’altro. Sullo sfondo di questa insolita amicizia, il tema della voce riveste una certa importanza. Come afferma il giovane Paolo Corbera infatti, La Ciura «aveva una voce quanto mai coltivata, l’accento impeccabile […] una voce stranamente musicale» 2. Analogamente, fu proprio il sortilegio della voce della sirena a stregare il senatore durante una torrida estate siciliana, mentre si preparava per sostenere un concorso per la cattedra universitaria di Letteratura greca. Oltre al sortilegio del sorriso, espressione della gioia di esistere più autentica, e a quello dell’odore, un profumo magico di mare, il professore fu ammaliato dal «terzo, maggiore sortilegio, quello della voce»3. La vocalità si configura dunque come tema dominante sia del racconto-cornice che del racconto-quadro, in cui la voce leggermente gutturale della sirena gioca una parte essenziale nella seduzione. Figlia di Calliope, Lighea parla greco e persuade La Ciura a non credere alle leggende che vedono nelle sirene creature maligne, poiché la sua unica intenzione è quella di amare. Legata indissolubilmente all’universo acquatico, Lighea esercita un fascino incredibile sul professore proprio in virtù della sua natura selvaggia, incontaminata e allo stesso tempo della sua grande saggezza ed esperienza. Stretto nella sua morsa voluttuosa, il professore si dona completamente a Lighea, dotata di un innato vitalismo al quale non è possibile rimanere indifferenti. Quasi ciclicamente, l’avventura fantastica termina così come è cominciata, con un richiamo uditivo, questa volta quello degli abissi del mare cui Lighea non può resistere: « ‘Li senti? Mi chiamano’. Talvolta mi sembra davvero di udire una nota differente. […] Suonano le loro conche, chiamano Lighea per le feste della bufera».4 Per uno scherzo del destino, la bufera che celebrerà il ritorno della sirena alla sua dimora sarà la stessa che accoglierà il corpo e l’anima del professor La Ciura, rendendo possibile il ricongiungimento dei due amanti dopo la morte. Concludendosi con la notizia della scomparsa del vecchio professore comunicata al giovane Corbera, il racconto-cornice ed il racconto-quadro finiscono per sovrapporsi per ricongiungersi, così come Lighea e Rosario La Ciura si sono ritrovati negli abissi del mare. “Lighea”, p 57 e 60, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Racconti, Milano, Feltrinelli, 1961 Ibidem, p. 85. 4 Ibidem, p. 92. 2 3 7 Bibliografia V. Capossela, Non si muore tutte le mattine, Milano, Feltrinelli, 2007 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma - Bari, Editori Laterza, 2003 A. Cavarero, A più voci – Filosofia dell’espressione vocale, Milano, Feltrinelli, 2003 Omero, Odissea, Traduzione di G. Aurelio Privitera, Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1991, pp. 353-379 G. Tomasi di Lampedusa, I racconti, Milano, Feltrinelli, 1961 P. Zunthor, La presenza della voce – Introduzione alla poesia orale, Bologna, Il Mulino, 1984 8