1 Russia. 1 maggio. «Aerei militari russi hanno attraversato in volo

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1 Russia. 1 maggio. «Aerei militari russi hanno attraversato in volo
Dal blocco allegato di "Notizie dal mondo" 1-15 maggio 2006:
a) La Russia in effervescenza di potenza. Fa da cornice il discorso di Putin (10 maggio).
Dopodiché si vedano i rapporti tendenti al freddo con gli Stati Uniti (a partire dall’energia come
strumento di intervento geopolitico: vedere 4, 5) e al 6 un’interessante panoramica di Giulietto
Chiesa. Il Cremlino non guarda in faccia a nessuno se si tratta di tornare a contare: cfr.
Bielorussia (9) e Iran (2). Non meno rilevanti Cecenia e area caucasica (8), Kazakistan (6) e
tecnologie militari (1)
b) La Cina continua a correre e a ramificarsi su scala planetaria. Notizie a voluttà sui rapporti
USA / Cina al 5. Da prestare attenzione all’Africa (12).
c) Sull’Afghanistan vige pressoché il silenzio. Ne parliamo da diverse angolazioni: presunta
“ricostruzione” (2), ruolo dell’Italia su cui verificare il neogoverno di centrosinistra (6) e uno
scenario di prospettiva (14).
e) Notiziole sparse, ma significative:
1. i fondi della “missione di pace” dell’Italia in Iraq (5);
2. sul “mistero” euro (ma a chi serve?) stavolta ci fermiamo in Spagna (11);
3. Israele tra colonizzazione progressiva (5 e 11), ogive nucleari (10), apartheid (14).
Tra l’altro:
Irlanda del Nord (5 e 15 maggio).
Euskal Herria (14 maggio).
Catalogna (4, 7, 10,11 maggio).
Unione Europea (5 maggio).
Sudan (5, 6, 10 maggio).
Iran (9, 11 e 15 maggio).
Iraq (1, 2, 4 maggio).
Palestina (3, 4, 13, 15 maggio).
Azerbaigian (4 maggio).
USA (1 maggio).
Bolivia (1, 3, 4, 9 maggio).
Russia. 1 maggio. «Aerei militari russi hanno attraversato in volo, inosservati, lo spazio aereo
USA dell’Artico verso il Canada nel corso di una recente esercitazione militare». La notizia è stata
diffusa il 22 aprile 2006 dall’agenzia russa Novosti, che cita il generale Igor Khvorov, comandante
dei bombardieri strategici a largo raggio: «La Us Air Force sta investigando per capire perché non
è riuscita a scoprire i bombardieri russi. Non sono riusciti a identificare gli aerei né a vista, né col
radar». I bombardieri non visti sono il TU-160 e il TU-95, che hanno eseguito «con successo»
quattro lanci missilistici. Il TU-160, progettato negli anni ‘80, è entrato in servizio nel 2000, e si
ritiene che la Russia ne abbia oggi 14. Il generale Khorov ha annunciato che altri due
raggiungeranno la flotta di bombardamento strategico: con «molti miglioramenti rispetto al modello
sovietico», ad esempio la guida satellitare ed una preziosa tecnologia che gli consente di non
apparire sui radar statunitensi.
Russia. 1 maggio. Questa tecnologia si basa su un generatore di plasma che produce una «nube»
ionizzata, che le fa scomparire temporaneamente dai radar, mettendo a profitto un fenomeno
«indesiderato» notato nelle navette spaziali. Grazie allo schermo al plasma, la sezione frontale degli
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aerei russi appare sui radar cento volte più piccola del reale. Con costi infinitamente inferiori agli
“stealth” anti radar statunitensi. Il generatore è piccolo e leggero (sui cento chili), e trova
facilmente posto in un bombardiere. Anatoly Koroteyev, capo del centro di ricerca Keddish che ha
sviluppato la tecnologia, sostenne tempo fa di aver superato i problemi della nuova tecnologia: la
nube di plasma ionizzato disturbava i sistemi elettronici di bordo (specie il radar di tiro diventava
cieco) e impediva le comunicazioni radio.
Russia. 1 maggio. La credibilità ed affidabilità della tecnologia messa a punto da Mosca veniva
ammessa già da Jane’s, autorevole rivista militare del mondo, in un apposito articolo del 17 marzo
1999. È quasi certamente questa tecnologia ad aver reso invisibili ai radar statunitensi i grandi
Tupolev in esercitazione sull’Alaska: una dimostrazione delle loro capacità, ed un monito agli Stati
Uniti, che in un recentissimo numero di Foreign Affairs (rivista del Council on Foreign Relations)
affermavano che gli USA sono in grado di annientare la Russia con la loro superiorità nucleare,
senza che questa possa reagire. Una minaccia da guerra fredda cui Putin non ha tardato a
rispondere.
Iraq. 1 maggio. Washington ha deliberatamente enfatizzato il ruolo di Al Zarqawi in Iraq. La
clamorosa affermazione è del Washington Post del 10 aprile scorso. Funzionari dei servizi segreti
USA hanno sostenuto che alcune informazioni sulla forza dell’Al Qaeda di Zarqawi sono state ad
arte propalate anche allo scopo di presentare internazionalmente la resistenza irachena come un
prodotto di Al Qaeda. «Lo abbiamo reso più importante di quello che è», ha sottolineato in una
relazione citata dal quotidiano USA il colonnello Derek Harvey, che ha aggiunto: «solo una
piccola parte degli attentati è da attribuire a Al Zarqawi e agli stranieri».
USA / Banca mondiale. 1 maggio. Privatizzare l’acqua: è il diktat della Banca Mondiale presieduta
dal “neoconservatore” USA Paul Wolfowitz, uno dei principali sostenitori della guerra all’Iraq. In
un documento dell’istituzione finanziaria internazionale, firmato durante le sessioni del IV Foro
Mondiale dell’Acqua, tenuto a Città del Messico dal 16 al 22 marzo scorso, si minaccia il taglio di
finanziamenti per i paesi che rifiuteranno di privatizzare i servizi pubblici di acqua potabile e
fognature. Il documento è considerato come una minaccia per quelli che volevano scrivere nella
dichiarazione finale dell’evento che l’acqua è un diritto umano fondamentale e che gli Stati devono
renderlo effettivo. Wolfowitz ha ammonito i presenti ricordando quello che era accaduto in passato
con la Repubblica di Guinea. Nel 1999, lo Stato africano non aveva rinnovato un contratto di
appalto dei suoi servizi dell’acqua a imprese francesi per cui «vennero congelati gli investimenti nel
settore, e la Repubblica di Guinea non potrà contare sui contributi di Banca Mondiale e Fondo
Monetario Internazionale, che hanno preteso la vendita dei servizi di distribuzione e di riciclo di
acqua potabile come condizione per stanziare più aiuti».
Cuba. 1 maggio. Fidel Castro accusa: volevano uccidere me e Chavez. Parlando ad oltre un milione
di persone in “Plaza de la Revolucion” a l’Avana per celebrare il Primo Maggio, Fidel Castro, in
uniforme militare, ha affermato oggi che «l’organizzazione terroristica anticubana Alpha 66 stava
addestrando alcuni dei suoi membri per assassinare me ed il presidente venezuelano Hugo Chavez,
con la connivenza degli Stati Uniti». Lo riferisce l’edizione elettronica di Granma. Il lider maximo
ha in tal senso ricordato il recente arresto di Robert Ferro, membro di Alpha 66 ed ex membro delle
forze speciali USA: «trovato in possesso di un vero arsenale di guerra, ha spiegato che serviva per
compiere azioni contro Cuba». Per il Primo Maggio, il governo ha organizzato manifestazioni nelle
14 province dell’isola, tra le quali Santiago de Cuba, la seconda del Paese; qui il ministro della
difesa Raul Castro era alla testa di un corteo di circa 450mila persone. Secondo le previsioni
ufficiali, dei poco più di 11 milioni di abitanti del Paese, in questa occasione almeno sette milioni di
cubani sarebbero scesi per le strade per il Primo Maggio.
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Bolivia. 1 maggio. Come promesso in campagna elettorale, il presidente boliviano Morales ha
firmato il decreto 28701 con il quale ha nazionalizzato l’intero settore degli idrocarburi, attualmente
in mano straniere. La «storica cerimonia» è avvenuta nelle installazioni del giacimento petrolifero
di San Alberto, da dove si esporta il 70% del gas boliviano. Il decreto è dedicato alla memoria degli
“eroi del Chaco”, che sacrificarono la loro vita per difendere le risorse strategiche del paese.
Morales ha definito il decreto la «terza e definitiva» nazionalizzazione delle risorse energetiche,
dopo quelle del 1937 e del 1969, con cui lo Stato si riappropriò del petrolio sfruttato dalle
multinazionali USA Standard Oil e Gulf. Nel corso del suo intervento, Morales ha rivendicato «il
diritto di tutti i popoli di controllare le proprie risorse naturali». «Cominciamo dagli idrocarburi,
poi toccherà alle miniere, quindi alle foreste, quindi a tutte le risorse naturali che ci hanno lasciato
i nostri antenati. Infine sarà la volta della terra che è per tutti i boliviani», ha detto Evo Morales,
che prefigura pure un’Assemblea costituente per cambiare radicalmente le strutture statali,
amministrative, giuridiche e politiche.
Bolivia. 1 maggio. Il decreto di nazionalizzazione del settore degli idrocarburi è figlio della
mobilitazione popolare contro le politiche neoliberiste e volta alla riconquista dell’indipendenza e
sovranità nazionale violate da governi proni ad interessi oligarchici boliviani e soprattutto esteri.
Dalle mobilitazioni contro l’ex presidente Gonzalo Sánchez de Lozada, al referendum del 2004 (per
la nazionalizzazione o meno delle risorse energetiche), alla controversa legge degli idrocarburi
promulgata nel 2005 da Carlos Mesa, le recenti evoluzioni politiche in Bolivia sono contrassegnate
dalla lotta popolare per uno Stato pienamente sovrano. Morales non ha fatto altro che esprimere la
volontà del popolo boliviano, constatano alcuni commentatori in America Latina, stanco di
sopportare una povertà estrema mentre risorse energetiche di grande entità vengono esportate senza
che il paese in generale ne benefici.
Bolivia. 1 maggio. Fino ad oggi le imprese straniere che saccheggiavano le risorse boliviane
lasciavano una regalia del 18% allo Stato. Da oggi sarà invece il contrario: lo Stato tratterrà l’82%
della produzione, e lascerà alle imprese straniere che accetteranno le condizioni il 18%. Lo Stato si
riappropria dunque del controllo delle proprie risorse energetiche, smantellando le politiche
neoliberiste responsabili degli alti livelli di povertà nel paese e disposte soprattutto dall’ex
presidente Gonzalo Sánchez de Lozada, scappato dal paese nel 2003 in seguito alle mobilitazioni
popolari. Morales esorta i boliviani a mobilitarsi di fronte ad «eventuali intenti di sabotaggio di
alcune imprese», chiedendo al contempo alle multinazionali petrolifere che «rispettino questa
decisione del popolo boliviano. Se non la dovessero rispettare, noi useremo la forza, perché si
tratta di tutelare gli interessi del paese», ha avvertito Morales. Immediatamente dopo l’emanazione
del decreto, il presidente Morales ha disposto che l’esercito prendesse il controllo dei 56 giacimenti
di idrocarburi in tutto il paese. La Bolivia ha le seconde riserve di gas del continente e produce
40.000 barili di petrolio al giorno. Da oggi queste passano alla compagnia pubblica YPFB
(Giacimenti Petroliferi Fiscali Boliviani). Le multinazionali che li sfruttavano hanno 180 giorni di
tempo per consegnare la produzione alla YPFB, «che provvederà a commercializzarla nel Paese,
così come a farsi carico dei contratti di esportazione», quindi accettare i nuovi contratti o
andarsene.
Afghanistan. 2 maggio. Miseria, violenza, droga, guerriglia, mercenari ed imprese straniere che si
arricchiscono: ecco l’Afghanistan dopo 4 anni di occupazione. Se ne occupa William Fisher sul sito
Asiatimes. Fisher si avvale di un rapporto di CorpWatch stilato da un giornalista afghanostatunitense, Fariba Nawa, la cui conclusione era che i famigerati contractors (mercenari) stanno
facendo in Afghanistan «molti soldi (1.000 dollari al giorno) per uno sporco lavoro», e che le
multinazionali legate all’amministrazione Bush, così come in Iraq, stanno arraffando milioni di
dollari dal business della ricostruzione, tra la crescente frustazione e rabbia della popolazione.
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Afghanistan. 2 maggio. Nel suo rapporto, Fariba Nawa riporta vari esempi di presunta
“ricostruzione”: una strada principale che ha cominciato a sbriciolarsi prima che fosse conclusa; una
scuola con un tetto crollato; una clinica con l’impianto idraulico difettoso; una cooperativa di
agricoltori che questi non possono utilizzare. Nava riporta pure l’esempio della clinica sanitaria
costruita a Qalai Qazi, vicino Kabul, dal gruppo Louis Berger, assunto per costruirla –in aggiunta a
strade, dighe, scuole ed altre infrastrutture– in cambio di 665 milioni di dollari. Questa clinica,
presentata come modello di ingegneria USA, è già cadente: «il soffitto si è sbriciolato in varie parti;
l’impianto idraulico, quando ha funzionato, ha avuto pedite; il camino, costruito con materiale
scadente, ha minacciato di incendiare il tetto; e l’edificio puzzava di acque luride», è scritto nel
rapporto.
Afghanistan. 2 maggio. Gli Stati Uniti, gliene va dato atto, hanno tentato di porre rimedio a questi
palesi fallimenti. Ovviamente a modo loro: assumendo un certo numero di imprese di “pubbliche
relazioni” per propagandare presunti successi nella “ricostruzione”. Ad esempio il gruppo USA
Rendon, vicino all’amministrazione Bush, a cui il Pentagono ha assegnato più di 56 milioni di
dollari dall’11 settembre 2001 «come parte di uno sforzo coordinato volto a diffondere immagini
positive sull’America ed i propri militari nel mondo sviluppato». I contratti comprendono
l’assoldamento di reporter stranieri e pressioni (anche con uso di fondi) sulla stampa pubblicare
articoli favorevoli agli interessi statunitensi. Fariba Nawa rivela che al Rendon group è stato pure
assegnato nel 2004 un contratto finalizzato ad istruire il personale dell’ufficio del presidente Hamid
Karzai nell’arte delle “pubbliche relazioni”.
Afghanistan. 2 maggio. All’insegna della più completa corruzione e sfacelo il sistema di appalto
usato dai donatori internazionali. L’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID)
assegna i contratti alle aziende statunitensi, mentre la Banca mondiale ed il Fondo Monetario
Internazionale li assegnano alle aziende dei paesi donatori. Queste trattengono fette enormi delle
somme stanziate per i lavori che poi vengono cedute in sub-appalto a varie ditte beneficiarie di
fondi così ridotti. E dato che anche i sub-appaltatori vogliono la loro fetta di guadagno, il tutto
avviene a scapito della qualità dei lavori, a dir poco scadente. Non c’è dunque da stupirsi se cresce
il malcontento degli afghani: «ciò che la gente vede è una manciata di aziende straniere che
stabiliscono le priorità per ricostruzione: priorità che le fanno arricchire e che al contempo sono a
volte assurdamente contrarie a quello che è necessario». Fariba Nawa giudica l’aggravarsi
dell’instabilità nel paese «come risultato della frustrazione profonda e della diffidenza fra gli afgani
che non credono più alla Comunità internazionale che sta guardando solamente ai propri
interessi». Non bisogna dunque sorprendersi se i taliban stanno guadagnando consensi. In tutto
questo già sconcertante contesto, bisogna pure aggiungere l’uso degli odiati “signori della Guerra” e
di milizie in appoggio alla “ricostruzione”. «Le infrastrutture principali del paese sono allo sfascio.
Il commercio di droghe sta crescendo», scrive il rapporto. Questo è l’Afghanistan odierno: che farà
allora il ‘nostro’ centrosinistra? Ritirerano mai i militari dal paese?
Russia / Iran. 2 maggio. La Russia potrebbe, «in certe condizioni», appoggiare sanzioni contro
l’Iran per il suo dossier nucleare. Lo ha detto il capo della commissione esteri della Duma
Konstantin Kossaciov, secondo il quale il sostegno a sanzioni da parte di Mosca «è possibile se
l’AIEA constaterà che l’Iran rinuncia a collaborare o viola gli impegni assunti per la non
proliferazione nucleare».
Iran. 2 maggio. USA, Francia e Gran Bretagna vogliono che il Consiglio di Sicurezza approvi una
risoluzione (vincolante) perché l’Iran sospenda le attività di arricchimento: a quel punto sarà
possibile discutere di sanzioni o addirittura di intervento militare. Difficilmente però Russia e Cina
saranno d’accordo. «Sia in occasioni ufficiali, che durante colloqui diplomatici», ha detto il
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ministro degli Esteri iraniano, Manuchehr Mottaki, «Pechino e Mosca ci hanno detto di essere
contrari alle sanzioni e all’intervento militare».
Iran. 2 maggio. Il viceministro del Petrolio iraniano, Nejad-Hosseinian, a New Delhi per discutere
con il governo indiano di un progetto di condutture energetiche tra i due paesi (un progetto da 7
miliardi di dollari molto osteggiato dagli USA), non ha escluso la possibilità che gli Stati Uniti
sferrino un attacco contro il paese islamico. Teheran però non demorde dal proseguire il suo
programma nucleare. Il capo dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica, Gholamreza
Aghazadeh, ha annunciato il raggiungimento dell’arricchimento di uranio al 4,8%: un livello
sufficiente ad alimentare centrali nucleari, ma ben lontano da quello (80%) necessario per produrre
un ordigno. «L’arricchimento sopra al 5% non è tra i nostri obiettivi», ha detto. Lo scorso marzo il
Consiglio di sicurezza ONU aveva chiesto all’Iran di sospendere il programma di arricchimento
dell’uranio entro 30 giorni. Teheran non ha obbedito. Arricchire uranio per usi civili è perfettamente
consentito dal Trattato di non proliferazione nucleare, cui Teheran aderisce, al contrario di India,
Pakistan e soprattutto Israele. L’AIEA ribatte però che Teheran non ha ancora fornito tutti gli
elementi necessari a chiarire le sue attività passate: in tal modo, se non può accusare l’Iran di alcuna
violazione, non rilascia alcuna pagella di trasparenza.
Iraq. 2 maggio. Doveva essere una cerimonia da fiore all’occhiello. Ma ad Anbar centinaia di
reclute irachene hanno clamorosamente manifestato il proprio rifiuto. 978 soldati iracheni, per lo
più sunniti, avevano appena prestato giuramento a Camp Habbaniyah, 80 km Baghdad, per poi
cominciare a strapparsi le uniformi di dosso dopo l’annuncio che avrebbero prestato servizio contro
la resistenza.
Nepal. 2 maggio. Il neo primo ministro, Koirala, ha formato un go verno di 7 ministri, riservandosi
di ampliarlo in un secondo momento. Tra le nomine: Sharma Oli, leader del partito comunista, vice
premier e ministro degli Esteri; Sharan Mahat, noto economista, ministro delle Finanze. Koirala ha
tenuto per sé la Difesa e una dozzina di dicasteri, non assegnati per alcune divergenze nell’alleanza
dei 7 partiti. i nuovi Ministri giureranno nell’ufficio del premier e non a Palazzo reale.
USA. 2 maggio. Manovre militari statunitensi nel Mar dei Caraibi in atto da aprile estese a fine
maggio. L’ambiasciatore statunitense in Venezuela, William Brownfield, le giudica una
dimostrazione di forza rivolte al Venezuela, dichiarando senza giri di parole: «non è la prima volta
che il governo degli Stati Uniti ha tenuto esercitazioni militari nei Caraibi e non sarà nemmeno
l’ultima». Insomma, il Mar dei Caraibi come “piscina di casa” degli USA. D’altronde, come dargli
torto se si pensa che il Canale di Panama era di proprietà USA fino agli accordi Carter-Torrijos del
1978, o che la base della cubana Guantánamo è occupata dal 1902? Era dall’ottobre 1983,
dall’occupazione dell’isola di Grenada, che il Mar dei Caraibi non era teatro di manovre militari di
tale portata.
USA. 2 maggio. L’operazione militare chiamata “Partnership of the Americas” suscita
preoccupazione nei governi del centro e sud America ostili o non del tutto allineati a Washington.
Le imponenti manovre militari coinvolgono i porti di Honduras, Nicaragua, Giamaica, Trinidad e
Tobago, Aruba e Curazao (isole caraibiche battente bandiera olandese) e San Cristóbal e Nevis, e
vedono l’impiego di centinaia di aerei, migliaia di forze dei gruppi speciali e svariati missili. Tali
operazioni sono sostanzialmente volte, come trapela anche dal linguaggio diplomatico di Mark
Fitzgerald, comandante della seconda flotta degli Stati Uniti, a studiare al millimetro la zona dei
Caraibi, in preparazione di future operazioni: la storia anche recente mostra che l’impiego di gruppi
d’assalto di marines è funzionale all’occupazione di territori i cui governi risultano molesti a
Washington. Hugo Chávez non ha dubbi sulle finalità dell’operazione. In una riunione con studenti
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nello Stato federale venezuelano di Falcón, ha affermato: «è una minaccia contro di noi, non solo
contro il Venezuela, ma anche contro Cuba».
USA / Venezuela. 2 maggio. Nel National Security Strategy della Casa Bianca dello scorso marzo,
si attacca esplicitamente Chavez, accusato di voler «destabilizzare la regione». Accuse ribadite dal
generale Bantz Craddok, uno degli organizzatori delle manovre militari di queste settimane, che ad
una Commissione del Senato è tornato ad accusare il governo chavista di costituire «un fattore di
destabilizzazione regionale», imputandogli anche i risultati elettorali in Bolivia ed Haiti. Chavez è
stato già oggetto di un tentativo di colpo di Stato nell’aprile 2002, che lo destituì dal potere per
alcuni giorni ed in cui rischiò di essere fucilato. Un golpe orchestrato dal Dipartimento di Stato,
l’opposizione oligarchica di Caracas e delegati militari statunitensi di stanza a Forte Tiuna. Due
imbarcazioni della US Navy entrarono in quei giorni nelle acque territoriali venezuelane per poi
ritirarsi in seguito al contro- golpe.
Francia / Palestina. 3 aprile. Il governo francese nega il visto a due esponenti di Hamas in tour per
l’Europa. Si tratta di Salah El Bardawil e Mohammed Rantisi, fratello, quest’ultimo, di Abdelaziz
Rantisi, esponente del movimento islamista assassinato nel 2004, invitati in Europa da un gruppo
francese, il Movimento popolare di solidarietà con la resistenza del popolo palestinese, per un tour
che avrebbe dovuto toccare Francia, Italia, Germania, Svezia, Norvegia e Austria. Lo ha segnalato
lo stesso gruppo francese, un cartello che riunisce una dozzina di organizzazioni di solidarietà con i
palestinesi. Alla fine di aprile la Francia aveva già negato il visto a un ministro di Hamas, il titolare
della pianificazione Samir Abu Eisheh, costretto a disertare una conferenza internazionale sul
dialogo tra Europa e mondo arabo.
Unione Europea / Bolivia. 3 maggio. L’Unione Europea critica la nazionalizzazione degli
idrocarburi in Bolivia, lanciando addirittura velate minacce. La decisione del presidente boliviano
Evo Morales per recuperare il controllo sulle riserve di gas e petrolio è stata incassata con molta
preoccupazione dalle multinazionali europee, dato che il nuovo decreto ne ridurrà
considerevolmente i profitti. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea,
Javier Solana, ha affermato addirittura che la misura «danneggerà il popolo boliviano e preoccupa
molto l’UE», che la nazionalizzazione «non porterà benefici al futuro politico ed economico della
Bolivia» ed alla fine saranno i boliviani a «soffrire» per tale decisione. Dichiarazioni che lasciano
intendere inquietanti ritorsioni.
Palestina. 3 maggio. Governo di Hamas? Allora niente medicine. La sanità palestinese al collasso
per il blocco israeliano dei fondi destinati all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Lo denuncia
Ambrogio Manenti, esperto di sanità pubblica e responsabile dei progetti dell’Organizzazione
mondiale della sanità (OMS) in Cisgiordania e Gaza. Da quando Israele ha bloccato il versamento
all’ANP dei fondi palestinesi derivanti dalla raccolta dell’Iva e dei dazi doganali (oltre 50 milioni di
dollari al mese) e Stati Uniti e Unione europea hanno sospeso gli aiuti diretti all’ANP dopo la
vittoria elettorale del movimento islamico Hamas, a rischio di collasso sono diversi servizi
essenziali, a cominciare dalla sanità. Manenti rileva che l’OMS fo rmalmente non avrebbe
impedimenti nell’avviare relazioni con membri di Hamas «perché l’ONU, a differenza di USA e
UE, non definisce Hamas una organizzazione terroristica. Tuttavia essendo dipendenti dai donatori
internazionali ed inoltre, come ONU, facendo parte del Quartetto per il Medio Oriente (USA,
Russia, ONU e UE, che ha imposto ad Hamas di riconoscere Israele e gli accordi già firmati e
terminare la lotta armata ndr), abbiamo vincoli politici e pratici che ci impongono (…) di evitare
fino a quando è possibile un rapporto diretto con rappresentanti di Hamas».
Palestina. 3 maggio. Quali le conseguenze sulla sanità palestinese del boicottaggio dell’ANP? «La
prima è nel bilancio del ministero della sanità che per il 40% si basa sui fondi palestinesi bloccati
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da Israele, per il 30% sulle donazioni internazionali e un altro 30% sulle tasse raccolte nei
Territori. Mancano due terzi del budget e il ministero della sanità comincia a non funzionare per
due motivi principali: il mancato pagamento dei salari ai dipendenti, compreso il personale medico
e paramedico, e la penuria di medicine tra cui farmaci essenziali e vaccini. Presto medici e
infermieri cominceranno ad abbandonare i loro posti per cercare alternative in grado di garantire
la loro sopravvivenza e questo porterà prima ad un declino e poi al collasso il sistema sanitario
pubblico. A noi già vengono fatte richieste, che non avevamo mai ricevuto in passato, che sono
tipiche di una drammatica emergenza, come il rifornimento di farmaci e di materiale di
laboratorio».
Palestina. 3 maggio. Per la popolazione civile le conseguenze sono devastanti. «I malati cronici,
come quelli con problemi renali o i diabetici, e coloro che sono affetti da altre patologie gravi non
riceveranno cure adeguate. Nel medio periodo ciò si tradurrà in un aumento dei decessi. Inoltre la
mancanza di fondi non consentirà la copertura delle cure all’estero per tanti palestinesi ammalati
gravi che sino ad ora veniva garantita dall’ANP. La mancanza di reddito per tante famiglie porterà
ad un peggioramento della qualità della vita e inevitabilmente delle condizioni ambientali ed
igieniche, con il rischio di un aumento delle malattie infettive».
Nepal. 3 maggio. Maoisti, non «terroristi». Il nuovo governo del Nepal ha annunciato oggi una
tregua a tempo indefinito, per contraccambiare il cessate il fuoco di tre mesi dichiarato la settimana
scorsa dal partito maoista guidato da Prachanda, e ha annunciato che annullerà i mandati d’arresto
internazionale dei suoi dirigenti. Il governo, presieduto dall’anziano Girjia Prasad Koirala, si è
insediato dopo settimane di rivolta popolare promossa dall’Alleanza dei sette partiti e anche dal
movimento maoista, che ha costretto re Gyanendra a cedere i poteri assoluti che si era arrogato e a
reinsediare il parlamento. I maoisti avevano chiesto di indire elezioni per una Assemblea costituente
che riscriva la legge fondamentale del paese, il che è già stato accettato dal governo e dal
parlamento reinsediati. Nella riunione odierna il governo Koirala ha anc he annullato le elezioni
municipali tenute in febbraio in stato d’emergenza e alcune nomine amministrative. Non ci sono
ancora reazioni ufficiali da parte maoista, ma un primo commento di Sunil, membro del Comitato
centrale, è positivo: saranno presto avviati colloqui di pace.
Giappone / Iraq. 3 maggio. Tokio comunica a Washington che si ritirerà dall’Iraq a breve. Lo ha
detto il responsabile della Difesa nipponica Fukushiro Nukaga, che lunedì ha siglato con le autorità
statunitensi la nuova strategia di cooperazione in materia di sicurezza dei due paesi, inclusa la
riorganizzazione delle forze USA che stazionano in Giappone.
USA. 3 maggio. Studio USA: Iraq, Afghanistan e Pakistan «falliti per la pace». Il magazine
statunitense US foreign policy e il think-tank Fund for peace hanno stilato una classifica degli Stati
più vulnerabili, prendendo in esame indicatori quali declino economico, pressione demografica,
flusso di rifugiati, criminalità, deterioramento dei servizi pubblici, violazioni dei diritti umani. I
primi in classifica sono Sudan, Congo, Costa d’Avorio e Iraq, con Pakistan e Afghanistan al nono e
decimo posto.
USA / Colombia. 3 maggio. Uribe propone di mettere sotto pelle ai lavoratori temporanei un chip
informatico, così da controllarli costantemente e impedire che, scaduto il permesso di soggiorno,
non tornino nel proprio Stato d’origine. A rivelarlo alla stampa senatori USA, intervistati sul
dibattito e le proteste contro la liberticida “legge per l’immigrazione” varata negli USA.
Bolivia. 3 maggio. Il governo boliviano ha deciso con decreto presidenziale un aumento del
13,63% del salario minimo, pari a 50 bolivianos in più (6 dollari). La misura era stata reclamata al
presidente Morales da tutte le principali organizzazioni sociali del Paese già durante la campagna
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elettorale. Il provvedimento, si legge nel decreto, è di applicazione obbligatoria per tutti i settori, sia
in ambito pubblico che privato.
Catalogna. 4 maggio. Puigcercós chiede al vertice dell’ERC un «no» allo Statuto. Il segretario
generale dell’ERC (sinistra repubblicana catalana), Joan Puigcercós, ha dichiarato ieri che bisogna
ascoltare il parere maggioritario della base del partito contraria allo Statuto ed anche il «no»
espresso martedì da «una maggioranza importante dei militanti» riuniti nelle assemblee territoriali
di ERC. Puigcercós ha spiegato, in conferenza stampa, che l’esecutivo del partito tornerà a riunirsi
venerdì per rivedere la posizione fissata la scorsa settimana per il voto nullo, anche se si avallavano
il «no» e la scheda bianca.
Kosovo. 4 maggio. NATO sotto accusa per la base USA di Camp Bonsteel, da alcuni definita la
“Guantanamo dei Balcani”. Il commissario europeo ai diritti umani per il Consiglio d’Europa,
Alvaro Gil Robles, denuncia deportazioni e torture su prigionieri provenienti da paesi terzi. Il centro
statunitense è in ambito KFOR (K force, forza internazionale del Kosovo) a guida NATO e con una
significativa presenza della Russia.
Polonia. 4 maggio. Andrzej Lepper e Roman Giertych, leader rispettivamente di Samoobrona
(Autodifesa) e Lpr (Lega delle famiglie polacche) sono i nuovi due viceprimi ministri polacchi. Li
ha nominati oggi il presidente Lech Kaczynski. Con l’ingresso di Lpr e Samoobrona nel governo
guidato dal premier Marcinkiewicz (PiS, Legge e Giustizia), il nuovo esecutivo dispone ora di una
maggioranza nella Camera Bassa del Parlamento con 240 deputati su un totale di 460. Finora
l’esecutivo era un governo di minoranza del solo PiS con l’appoggio esterno di Samoobrona, Lega
delle Famiglie Polacche ed il Partito dei contadini (PSL). Quest’ultimo rimane invece
all’opposizione (pur specificando che in alcune occasioni dovrebbe appoggiare i provvedimenti del
governo Marcinkiewicz) assieme a Piattaforma Civica (PO) e l’Alleanza della sinistra democratica
(SLD), sconfitta alle ultime elezioni legislative dello scorso autunno.
Polonia. 4 maggio. Negli ambienti europei si esprimono preoccupazioni per le evoluzioni nella
politica polacca. Con l’ingresso di Samoobrona, partito dei piccoli contadini, il governo polacco
accentua i suoi caratteri quantomeno “euroscettici”, ed a Bruxelles dubitano che Varsavia riuscirà a
varare le riforme economiche richieste. Andrzej Lepper, il leader di Samoobrona, è stato più volte
incriminato per aver definito «banditi» e «idioti» i governi polacchi succedutisi dal 1989 a oggi ed
in passato aveva guidato vibranti proteste contro l’ingresso della Polonia nell’UE e contro le
riforme neoliberiste. A Bruxelles si temono ora scontri con Varsavia: nei mesi scorsi l’esecutivo
polacco ha ribadito più volte che la propria priorità è quella di garantire gli interessi nazionali del
Paese, anche a costo di scontrarsi con l’Unione Europea. Nell’inverno scorso, il primo ministro
Marcinkiewicz si è reso protagonista di un duro braccio di ferro con il commissario europeo
Joaquim Almunia. Marcinkiewicz riteneva in sostanza che non fosse obbligatorio entrare nell’eurozona, mentre il commissario all’Economia replicava asserendo che l’ingresso nell’UE impone ai
nuovi entranti l’adesione alla moneta unica, e che Varsavia avrebbe dovuto in caso negoziare prima
dell’allargamento la possibilità di aderire o meno all’euro. Al momento, comunque, non è stata
ancora fissata una data di introduzione della moneta unica.
Russia. 4 maggio. Cheney accusa il Cremlino di voler usare l’arma del greggio e del gas come
strumenti di pressione politica sui renitenti vicini e che in Russia ai nemici della democrazia è stato
permesso di annullare le conquiste democratiche fatte nello scorso decennio. Così il vicepresidente
USA Dick Cheney a Vilnius, nel corso di un forum sui Paesi baltici e sull’area del Mar Nero.
Durissimo il Cremlino che definisce l’intervento di Cheney il più duro dalla fine del vecchio
“equilibrio del terrore”, paragonandolo al discorso di Fulton del 1946 col quale il premier britannico
Winston Churchill definì l’impero sovietico con la metafora della “cortina di ferro”. Anche l’ex
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presidente sovietico Mikhail Gorbaciov, ha protestato: quella di Cheney, ha detto il padre della
perestroika, «è stata una provocazione, sia nel contenuto, che nella forma, che nel luogo scelto per
farla. Ed è una indebita interferenza negli affari interni russi». Cheney ha avuto il plauso della
Casa Bianca: il suo intervento è «coerente con le posizioni da noi precedentemente espresse».
Azerbaigian. 4 maggio. Incontro a Baku tra il presidente azero Ilham Aliyev ed il suo omologo
iraniano Mahmoud Ahmadinejad a margine del summit dell’Organizzazione di Cooperazione
Economica (ECO). Ciò avviene quasi una settimana dopo la visita di Aliyev a Washington, durante
la quale ha affermato che l’Azerbaigian non sarà usato in alcuna eventuale operazione
d’aggressione all’Iran. Per l’agenzia di analisi geopolitica Stratfor, il presidente azero Ilham Aliyev
prova a rilanciare il proprio potere bilanciandosi tra USA ed Iran e sfruttando le proprie risorse
energetiche e posizione geostrategica. Commenta Stratfor: «Aliyev sa che concedendo agli Stati
Uniti di attaccare l’Iran dal proprio suolo, provocherebbe la rappresaglia iraniana contro
l’Azerbaigian», anche se l’agenzia di analisi geopolitica ritiene che le parole di Aliyev non
significano che l’Azerbaigian non concederà l’uso del proprio spazio aereo e addirittura delle basi
sul proprio suolo per il rifornimento dei velivoli statunitensi.
Azerbaigian. 4 maggio. Le tensioni storiche con l’Iran hanno il loro peso a Baku. La minoranza
azera in Iran è ben più consistente della popolazione azera dell’Azerbaigian. Teheran intende
prevenire ogni eventuale tendenza secessionista, ed i due paesi, recentemente, stanno provando a
migliorare i loro rapporti. Al contempo, Aliyev tiene in caldo i propri legami con gli Stati Uniti,
cresciuti dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Un esempio dell’importanza dello Stato caucasico
nelle strategie di Washington è l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che trasformerà l’Azerbaigian in
uno snodo decisivo delle risorse energetiche del Mar Caspio, «fonte a cui gli Stati europei, così
come gli Stati Uniti, stanno guardando come alternativa alla volatile Russia», rileva Stratfor. Dopo
le elezioni parlamentari del novembre 2005, in cui Washington sostenne il blocco dell’opposizione
azera, gli Stati Uniti hanno preso atto della leadership nel paese di Aliyev, che con l’aiuto allora
della Russia riuscì a resistere al potere e consolidare il suo controllo nel lucroso settore dell’energia.
Azerbaigian. 4 maggio. Aliyev desidererebbe comunque il supporto di Washington sulla questione
del Nagorno-Karabakh, enclave in territorio azero ma di popolazione armena. Aliyev, che aspira ad
un maggiore ruolo nell’area, non ha nascosto l’intento di usare i profitti derivanti dal passaggio
delle pipelines nel proprio territorio per riportare l’enclave sotto il controllo di Baku. Washington,
per ora, tace. Si farebbe forse coinvolgere se Baku supportasse gli obiettivi USA contro l’Iran.
Bisogna però segnalare l’influenza negli USA della comunità armena, «che sono più negli USA che
nel vecchio paese», ed il sostegno della Russia all’Armenia. Washington rimane perciò il più
possibile neutrale sulla questione del Nagorno-Karabakh, limitandosi ad aumentare le aperture
verso un Aliyev che in ogni caso non ha alcuna intenzione di inimicarsi la vicina Teheran.
Iraq. 4 maggio. Mentre la cosiddetta “ricostruzione” è allo sbando, procede incessantemente quella
della «madre di tutte le ambasciate». Su il Manifesto, ne parla Stefano Chiarini, sulla scorta di un
rapporto della Commissione Esteri del Senato USA. La nuova ambasciata USA a Baghdad si
presenta come una città fortificata, più grande dello Stato del Vaticano e «più sicura del
Pentagono», circondata da mura spesse cinque metri, con sei ultrasicure porte di entrata e di uscita e
una settima di emergenza verso l’aeroporto, difesa da batterie di missili terra aria e terra terra e da
una grande caserma dei marines. Composta di 21 edifici, sarà completamente autosufficiente e
separata da Baghdad: avrà i propri pozzi per il rifornimento idrico, una centrale elettrica, un sistema
di raccolta e distruzione delle immondizie, un proprio sistema fognario, la più grande piscina della
città, ristoranti, tavole calde, cinema, palestre e un sistema di comunicazioni interno con ogni
comfort. Grande come 80 campi di calcio, ospiterà oltre 8mila tra diplomatici, funzionari e
dipendenti «e diventerà il cervello dell’amministrazione coloniale dell’Iraq, appena celato dietro
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alle facce locali dei vari leader iracheni impegnati a dividersi le briciole che cadono dalla tavola
degli occupanti». Secondo Chiarini, «il fatto che la nuova ambasciata sorgerà praticamente
accanto al palazzo di Saddam, che supererà per grandezza, maestosità e funzionalità, e agli edifici
dove si riuniscono il Parlamento e il governo iracheno è un chiaro messaggio al popolo iracheno, e
al mondo, su chi realmente governa il paese e sulle intenzioni di Washington di continuare ad
occupare l’Iraq per anni e anni».
Palestina. 4 maggio. Da Hamas segnali d’apertura all’esecutivo di Olmert: i suoi leader lasciano
trapelare la possibilità di riconoscere lo Stato sionista in cambio del ritiro al confine del ’67. La
guida suprema del movimento islamico, Khaled Mashaal, dalla Siria ha lanciato una nuova proposta
per una possibile intesa con Israele. Se Israele si ritirerà ai confini precedenti la guerra dei “Sei
Giorni”, inclusa Gerusalemme, abbatterà il muro che sta costruendo in Cisgiordania, riconoscerà il
diritto al ritorno per i profughi palestinesi (sancito dalla risoluzione 194 del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU) e metterà fine alle sue operazioni militari, allora «i palestinesi e gli arabi faranno un
passo parallelo a quello dei sionisti».
USA / Iran. 4 maggio. «Un attacco contro l’Iran sarebbe follia politica». Non usa mezzi termini
Zbigniew Brzezinski, autorevole politologo USA, ex consulente per la sicurezza nazionale sotto la
presidenza Carter (1977-1981) ed ideatore degli aiuti CIA ai mujaheddin afghani in funzione anti
URSS. Su Global Viewpoint, Brzezinski sostiene che un attacco unilaterale –non sanzionato dal
Consiglio di Sicurezza dell’ONU– all’Iran si ritorcerebbe contro gli US A, dato che «gli aggressori
saranno definiti fuorilegge dalla comunità internazionale», «l’economia mondiale subirebbe
contraccolpi e la responsabilità ricadrebbe inevitabilmente sugli Stati Uniti», «gli USA
diventerebbero ancora di più bersagli del terrorismo (…) mentre le prospettive di una possible
intesa tra Israele ed i suoi vicini si farebbero ancora più remote», e soprattutto la reazione iraniana
aggraverebbe i già precari equilibri geopolitici in Medio Oriente (Iraq ed Afghanistan su tutti, ma
anche Israele-Libano attraverso gli Hezbollah, eccetera), invischiando gli USA «in conflitti
regionali per un decennio e forse più. L’Iran è un paese di 70 milioni di abitanti e un conflitto in
questa zona rischia di far apparire banali le attuali disavventure americane in Iraq».
USA / Iran. 4 maggio. Nel prosieguo dell’articolo, da un attacco all’Iran Brzezinski paventa
indesiderate conseguenze persino sul predominio geopolitico degli USA, che «si avvierebbe a una
fine prematura», crescendo l’ostilità verso Washington. Secondo l’ex consigliere per la sicurezza
nazionale, in caso di conflitto prolungato gli USA non avranno «né il potere, né l’appoggio
dell’opinione pubblica interna», come insegnano le aggressioni in Vietnam ed Iraq. Inoltre constata
come i toni accesi verso Teheran stiano producendo l’effetto di rafforzare i consensi per il
presidente iraniano Ahmadinejad. Risultati concreti non sembrano produrre pure gli investimenti
finanziari in programmi anti governativi così come «l’invio di squadre di forze speciali nel Paese
per far sollevare le minoranze etniche, allo scopo di spaccare lo Stato iraniano».
USA / Iran. 4 maggio. Quale politica dovrebbe allora adottare l’amministrazione USA verso
Teheran? Secondo Brzezinski «è ora di raffreddare la retorica. Gli Stati Uniti non devono lasciarsi
guidare dall’emotività né da un senso di missione di stampo religioso. Né devono perdere di vista il
fatto che il deterrente ha funzionato egregiamente nei rapporti USA-URSS, in quelli USA e Cina e
tra l’India ed il Pakistan». Brzezinski confuta pure la tesi degli interventisti secondo cui un Iran
dotato di armi atomiche potrebbe in futuro «passare ordigni nucleari a qualche terrorista»:
un’azione siffatta «sarebbe un suicidio politico per l’intero Iran, innanzitutto perché il Paese
sarebbe il primo indiziato», e anche perché le analisi scientifiche renderebbero difficile mascherare
l’origine dell’ordigno. Per Brzezinski la tutela degli interessi imperiali USA richiede non di buttarsi
in «un’avventura sconsiderata», ma di «intavolare negoziati seri e costruttivi con l’Iran».
L’inasprirsi dello scontro con gli USA ha compattato i consensi verso la teocrazia dei mullah,
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mentre un allentamento della tensione potrebbe paradossalmente, è la speranza di Brzezinski,
riaprire spaccature e tensioni all’interno del Paese.
USA. 4 maggio. L’amministrazione Bush accelererà lo smantellamento delle vecchie ogive nucleari
già ritirate. Al tempo stesso Washington sta lavorando a sviluppare e a produrre una nuova
generazione di armi nucleari più affidabili e più «utilizzabili». Clay Sell, vice-segretario all’energia,
calcola che il numero delle ogive smantellate aumenterà del 50% l’anno. Il che, comunque, vuol
dire che ci vorranno tra i 30 e i 40 anni per eliminarle tutte.
Bolivia / Venezuela. 4 maggio. Morales e Chávez stringono un’”alleanza strategica” delle
rispettive compagnie petroliferi nazionali (la boliviana YPFB e la venezuelana PDVSA) per
sviluppare progetti di ricerca di nuovi giacimenti così come l’industrializzazione delle riserve
boliviane di gas naturale, per esportare elettricità, fertilizzanti ed altri prodotti ad alto valore
aggiunto.
Irlanda del Nord. 5 maggio. Bobby Sands. Il digiuno che rilanciò la causa repubblicana. Sono
passati 25 anni dalla morte di Bobby Sands in un carcere di massima sicurezza di Belfast, dopo un
digiuno di 66 giorni. I detenuti dell’IRA (Esercito Repubblicano Irlandese) e dell’INLA (Esercito di
Liberazione Nazionale Irlandese) chiedevano di essere riconosciuti come prigionieri politici ed
avanzavano cinque rivendicazioni (indossare propri vestiti e non l’uniforme carceraria; libera
associazione tra detenuti, normalizzare il lavoro nel carcere, organizzare le proprie attitività
educative e ricreative e poter ricevere lettere, visite ed un pacco a settimana ed infine il diritto di
remissione di tutte le pene). Era il 1981 e al governo c’era Margaret Thatcher: li considerava
criminali e assassini, definì lo sciopero della fame un ricatto, disse che non avrebbe ceduto. Così
fece: dopo Sands morirono altri 9 militanti i più dell’IRA, alcuni dell’INLA: Francis Hughes (12
maggio, dopo 59 giorni di protesta), Raymond McCreesh (21 maggio, 61 giorni), Patsy O´Hara (21
maggio, 61 giorni), Joe McDonell (8 luglio, 61 giorni), Martin Hurson (13 luglio, 46 giorni), Kevin
Lynch (1 agosto, 71 giorni), Kieran Doherty (2 agosto, 73 giorni), Thomas McElwee (8 agosto, 62
giorni) e Mickey Devine (20 agosto, 60 giorni).
Irlanda del Nord. 5 maggio. Lo sciopero della fame dei prigionieri repubblicani irlandesi durò dal
1° marzo al 3 ottobre, quando i prigionieri repubblicani ne annunciarono la cessazione. Tre
settimane prima di morire Bobby Sands era stato eletto deputato per Fermanagh/South Tyrone a
Westminster. Dopo lo sciopero altri due prigionieri ottennero un seggio. Nel movimento
repubblicano si sviluppò una nuova strategia che si materializzerà con la famosa espressione di
Danny Morrison al congresso annuale del Sinn Féin a fine 1981: «Chi dei presenti crede realmente
che possiamo vincere la guerra attraverso il voto? Ma c’è qualcuno che ponga obiezioni se, con
una scheda elettorale in una mano e l’Armalite (tipo di fucile, ndr) nell’altra, prendiamo il potere
in Irlanda?». Con il passare dei mesi, quel che Londra aveva presentato come una sconfitta del
movimento repubblicano si trasformò in uno dei pilastri di base delle sue successive vittorie. Il
sacrificio degli scioperanti è stato ricordato ieri dai repubblicani irlandesi nel nord e nel sud.
Italia / Iraq. 5 maggio. Nassiriya, quanto ci costi? La missione italiana in Iraq è tanto
«umanitaria» che all’Italia costa cento milioni di euro in spese militari ogni milione di euro di aiuti.
Lo rivela il settimanale l’Espresso, in un’inchiesta che fa le pulci alla contabilità dell’operazione
“Antica Babilonia”. «I conti mettono nudo la realtà che si vive a Nassiriya: non è una missione di
pace ma una spedizione in zona di guerra». Finora infatti, documenta l’Espresso, sono stati
stanziati 1.534 milioni di euro, poco meno di tremila miliardi di vecchie lire, per consegnare alla
popolazione della provincia di Dhi-Qar poco più di 16 milioni di beni: una proporzione di cento a
uno tra il costo del dispositivo militare e i beni distribuiti.
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Italia / Iran. 5 maggio. Cattolici italiani contro l’aggressione nucleare all’Iran. Il missionario
comboniano e pacifista Alex Zanotelli, in un comunicato diffuso dall’agenzia Misna, invita alla
mobilitazione contro i propositi di olocausto nucleare di Washington. «Il 28 aprile scorso è scaduto
l’ultimatum dell’ONU all’Iran. È un momento grave per l’umanità che potrebbe portarci ad una
guerra atomica. Siamo alla vigilia di un’altra guerra preventiva con l’aggravante dell’uso di armi
nucleari? I tamburi di guerra continuano a rullare: Bush, Condoleezza Rice, Blair, eccetera, non
perdono occasione per ripetere il loro messaggio di morte. Sono tanti gli esperti che sottolineano la
gravità della situazione in campo atomico. Per citarne uno, il fisico di Firenze Angelo Baracca,
afferma che mai come oggi il mondo è stato così vicino ad una guerra nucleare, neanche durante la
Guerra Fredda. Il dramma è che oggi abbiamo così tante bombe atomiche da far saltare il mondo
quattro volte per aria. Esse hanno una potenza pari a duecentomila volte la bomba atomica
sganciata su Hiroshima nel 1945».
Italia / Ira n. 5 maggio. Per Alex Zanotelli, di fronte al male ed al dramma rappresentato dal
possibile uso dell’arma atomica, le associazioni cattoliche e pacifiste sono chiamate ad unirsi ed a
mobilitarsi. Zanotelli delinea pure alcune modalità operative. «Mi sorprende il vedere la nostra
inerzia e le nostre divisioni. Com’è possibile che gloriosi movimenti e associazioni come il Mir,
Azione non violenta, Lega per il disarmo unilaterale, Pax Christi, Beati i costruttori di pace,
Asso.pace, Unione scienziati per il disarmo, Movimento nonviolento, Osm – Dpn, Pugwash, Cipax,
eccetera, non riescano a trovarsi insieme in chiave nazionale per dire una parola forte in questo
momento storico? Come mai uomini e donne di grande spessore morale e culturale che lavorano
sulla pace e sulla nonviolenza (L’Abate, Tonino Drago, Martirani, Rocco Altieri, Navarra, Porta,
Gallo, Nanni Salio, Mao Valpiana, Pontara, don Bizzotto, Baracca, Peppe Sini, Peyretti, Venditti,
per citarne solo alcuni), non riescono a darsi un appuntamento nazionale per dire insieme una
parola forte? (…) Queste personalità, in rappresentanza di tutti i gruppi e associazioni che
lavorano per la pace in Italia, potrebbero poi elaborare alcuni appelli, uno rivolto al Papa, e un
altro alla Conferenza Episcopale Italiana, chiedendo che la bomba nucleare venga dichiarata
peccato, e la guerra atomica tabù. Un terzo appello potrebbe essere rivolto al neo governo Prodi
perché ritiri immediatamente le truppe dall’Iraq e rifiuti risolutamente l’ipotesi di un’altra guerra
preventiva contro l’Iran e metta al bando quel centinaio di bombe atomiche attualmente presenti in
Italia».
Unione Europea. 5 maggio. La Commissione europea tenta di riportare la direttiva Bolkestein
(direttamente mutuata dall’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi Gats, promosso dal WTO)
sulla strada dell’iperliberismo: così titola l’edizione odierna di Liberazione. Roberto Musacchio
esprime questa valutazione dopo la lettura dei tre testi interpretativi della Bolkestein prodotti dalla
Commissione ed ispirati dal Dipartimento Mercato Interno. Il primo testo risale al 4 aprile, e
concerne il distacco dei lavoratori. «La Commissione rimprovera gli Stati membri proprio perché
pongono troppi ostacoli ai prestatori di servizi che vogliano impiegare lavoratori distaccati». In
sostanza, le già inadeguate norme a tutela di questi lavoratori sono giudicati «vincoli eccessivi per
la libera circolazione dei servizi». La seconda comunicazione, del 20 aprile, fa riferimento alla
«libertà di installarsi e di disimpegnarsi senza limiti dalle attività esportate nei vari Paesi». Da
ultima, il 26 aprile, ecco la comunicazione sui cosidetti servizi di interesse generale: «ogni Stato
membro è libero di definire cosa intenda per “servizi di interesse economico generale” e “servizi
sociali di interesse generale” che sono esclusi dal campo di applicazione della Bolkestein».
Sicuramente le interpretazioni più neoliberiste non mancheranno di essere supportate dalla
giurisprudenza dei Trattati e dalla Corte di giustizia europea.
Sudan. 5 maggio. Il governo sudanese e il principale movimento combattente attivo in Darfur,
l’Esercito/Movimento di liberazione del Sudan (SLA-M, Sudan Liberation Army/Movement),
hanno firmato l’accordo di pace presentato dai mediatori dell’Unione Africana. Il documento è stato
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però respinto dal secondo, anche se minore, gruppo ribelle protagonista del conflitto iniziato nel
febbraio 2003, il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM, Justice and Equality
Movement), e da una terza forza ancora più piccola, nata dopo una recente scissione interna allo
SLA-M. Oltre al capo negoziatore dell’Unione Africana, ai succitati gruppi e al governo di
Khartoum, hanno partecipato al negoziato, assieme a vari diplomatici, un rappresentante di Londra
ed uno di Washington: il vice segretario di Stato USA, Robert Zoellick.
Sudan. 5 maggio. Sulla questione Sudan, un’analisi dell’agenzia Misna mette in luce l’interesse
strategico del controllo del petrolio sudanese. Il Darfur (ovest del Sudan) non è la sola regione
oggetto di crisi. Negli anni passati, Khartoum aveva combattuto una guerra nel sud Sudan ricco di
petrolio (ed in cui operano varie multinazionali come quelle USA e cinesi) contro l’Esercito
popolare di liberazione del Sudan (SPLA): un conflitto conclusosi con un accordo benedetto dalla
“comunità internazionale”, che prevede un referendum per decidere sull’indipendenza, e con cui,
secondo Misna, «il governo sudanese rischia di perdere il controllo diretto di una vasta fetta di
territorio, ma soprattutto crea un precedente preoccupante rispetto alle altre popolazioni nere
dell’Ovest e dell’Est del Paese». L’agenzia denuncia che «gli interessi petroliferi hanno consentito
ai ribelli del Sud di fare il salto di qualità ottenendo fondi, armi e appoggi logistici e politici, ma
niente vieta che chiunque possa strumentalizzare il malcontento dei neri africani del resto del
Sudan per lottare contro Khartoum».
Sudan. 5 maggio. L’analisi dell’agenzia Misna lascia intendere che la chiave di spiegazione
quantomeno dell’attenzione degli USA nelle vicende del Darfur e del Sud Sudan risiede nel
controllo delle rotte petrolifere. L’intento fondamentale sembra essere quello, ancora una volta, di
chiudere possibili rubinetti di greggio per Pechino. Scrive Misna: «una delle ipotesi maggiormente
accreditate è quella che vede alcuni gruppi di potere e di pressione interessati a creare un
oleodotto che colleghi direttamente i pozzi del sud e centro Sudan (quelli contesi per vent’anni da
Khartoum e SPLA) con il gigantesco oleodotto, costruito dalla Banca Mondiale e dal Fondo
Monetario Internazionale, che porta il greggio dai giacimenti del Ciad meridionale fino al porto di
Kribi sulle coste atlantiche del Camerun per un totale di oltre 1100 chilometri di tubazioni. Questo
collegamento dovrebbe avvenire proprio passando attraverso la regione del Darfur (…) Per il
momento il petrolio sudanese prenderebbe la strada opposta dirigendosi verso oriente e la costa
sudanese sul Mar Rosso e quindi l’Oceano indiano dove il 40% del greggio sudanese partirebbe
per la Cina, presente in loco con le sue due imprese nazionali di idrocarburi da anni».
Israele. 5 maggio. Olmert parte in quarta. Nel corso del dibattito di fiducia al suo governo di
coalizione con laburisti, pensionati e sefarditi dello Shas, Olmert ha dichiarato: «le frontiere
israeliane che verranno segnate nei prossimi anni saranno molto diverse dai territori attualmente
sotto controllo israeliano». I principali blocchi d’insediamenti nei Territori occupati «saranno per
sempre una parte inseparabile dello Stato d’Israele». Due i chiari messaggi lanciati da Olmert, il
primo ad Hamas: «Un governo (quello palestinese, ndr) guidato da un’organizzazione terroristica
non rappresenterà un partner col quale negoziare». Il secondo ai coloni sparsi negli insediamenti
occupati nel profondo dei Territori: «Dobbiamo mantenere una solida e stabile maggioranza
ebraica nel nostro Stato». Secondo questa visione, non c’è più spazio per le colonie isolate a est
della linea verde, ma il territorio su cui sorgono i grossi insediamenti di colonie (Ma’aleh Adumim,
Modi’in Illit, Ariel, Gush Etzion), considerate illegali dal diritto internazionale, «faranno per
sempre parte dello Stato d’Israele insieme a Gerusalemme, la nostra capitale unita». Sarà inoltre
completata la “barriera di sicurezza”, come sono chiamati il Muro e i reticolati intorno alle
comunità palestinesi.
Israele / Palestina. 5 maggio. La politica di Sharon, ripresa dal leader di Kadima Ehud Olmert, ha
preso atto dell’insostenibilità militare ed econo mica di proseguire in una politica di insediamento
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disperso della Cisgiordania. La rimozione delle colonie isolate si combina così in un allargamento
ed integrazione di quelle più consistenti, situate in territori a più bassa densità palestinese. Ciò
significa ovviamente prosecuzione della demolizione di infrastrutture e case, umiliazioni ed
uccisioni indiscriminate, eccetera. In ogni caso, la rimozione delle colonie più esigue non significa
il termine dell’occupazione di quei territori. La costruzione del “Muro dell’Apartheid”, la realtà
insopportabile dei posti di blocco, il controllo dello spazio aereo, dell’acqua, dell’elettricità,
eccetera, farà dei restanti villaggi e città palestinesi dei veri e propri bantustan di sudafricana
memoria. Insomma, un complesso di lager a cielo aperto isolati l’uno dall’altro, a cui si vorrebbe
dare il nome di “Stato palestinese”. Date queste condizioni, Israele può riprendere il teatrino dei
negoziati di pace. Ecco così Olmert affermare che «la spartizione della terra fra israeliani e
palestinesi è la ciambella di salvataggio per il sionismo», ed il presidente palestinese Mahmoud
Abbas (Abu Mazen) auspicare la ripresa dei cosiddetti “negoziati”, da Israele sempre considerati
come una ratifica dei rapporti di forza sul campo e dei “fatti compiuti”.
Afghanistan. 5 maggio. L’afgano Hekmatyar si pone agli ordini di Osama Bin Laden. Gulbuddin
Hekmatyar, figura storica della guerriglia afgana già ai tempi dell’occupazione sovietica, annuncia
in un video trasmesso ieri dall’emittente Al Jazeera la sua disponibilità a combattere agli ordini di
Osama Bin Laden. Contro l’occupazione straniera del suo paese e di altre nazioni musulmane. Il
governo di Kabul ha tacciato di propaganda l’annuncio, realizzato dal massimo dirigente della
maggiore formazione politica afgana, Hizb-e-Islami.
USA / Iran. 5 maggio. Gli USA incalzano l’ONU sulla presunta «minaccia nucleare» iraniana.
Presentata una nuova “bozza di risoluzione”. Pronti all’uso della forza, i passi sono gli stessi della
guerra all’Iraq. La seconda bozza di risoluzione presentata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti,
in cui si chiede al governo di Teheran di sospendere le attività di sviluppo di combustibili nucleari,
ha toni molto più categorici di quella approvata due mesi fa, e menziona anche il “capitolo VII”
della Carta dell’ONU, lo stesso che venne invocato dagli USA e i suoi alleati/subalterni sia per
muovere guerra contro l’Afghanistan che contro l’Iraq.
USA / Russia / Cina. 5 maggio. «Insulti strategici di Washington»: è il titolo di un’analisi odierna
di Stratfor che evidenzia l’inasprimento dei toni dell’amministrazione USA verso Russia e Cina.
L’agenzia di analisi geopolitica rimarca l’attenzione su due recenti avvenimenti. Primo: i moniti
verso la Russia lanciati ieri da Cheney alla conferenza di Vilnius (che ha riunito le ex repubbliche
sovietiche del Baltico e del Mar Nero), che secondo un analista citato dall’agenzia Interfax ha
«eliminato le parvenze di relazioni strategiche tra Russia ed USA». Secondo: «l’umiliazione» di Hu
Jintao, che si è visto interrompere il suo discorso alla Casa Bianca da un’attivista di Falun Gong,
gruppo religioso che si ispira a tecniche buddiste e taoiste di meditazione, ginnastica e diete,
represso da Pechino che lo ha definito «un gruppo politico contro la Cina». Stratfor li considera dei
colpi in direzione di Mosca e Pechino, cui si lancia un serio monito: nonostante le difficoltà
politiche interne e l’impantanamento in Iraq, Washington presta sempre seria attenzione alle
dinamiche geopolitiche globali.
USA / Russia / Cina. 5 maggio. Per Stratfor, il 2006 sarà definito l’anno del confronto tra Russia e
Cina. L’agenzia di analisi geopolitica rileva che Mosca sta cercando di riguadagnare influenza
geopolitica in Caucaso ed Asia centrale, insidiata da Washington con l’insediamento di basi militari
e la promozione di “rivoluzioni colorate”. Pechino, invece, sta cercando di bilanciare instabilità
economica ed agitazione sociale interne con un’intelligente politica estera «volta a cercare leve da
usare per mantenere Washington in precario equilibrio o quantomeno evitare che questi approfitti
delle debolezze interne cinesi». Più in generale, Russia e Cina stanno rafforzando la propria
posizione approfittando dei conflitti politici interni agli USA e dell’impantanamento in Iraq ed
Afghanistan. Mosca e Pechino sembrano in sostanza far proprio il motto del libro di strategia
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militare del cinese Sun Tzu (contemporaneo di Confucio: VI° secolo a. C.) “L’arte della guerra”.
Secondo tale opera, regalata da Hu Jintao a Bush nel corso della sua visita negli States dello scorso
aprile, la migliore strategia in assoluto è «vincere senza combattere». In effetti, rileva anche
Stratfor, «il caso Iran costituisce per Washington semplicemente una distrazione in più, così com’è
stata prima la Corea del Nord, lasciando a Pechino e Mosca ancora più spazio per proseguire
nella propria agenda internazionale senza molta resistenza da parte degli USA».
USA / Russia. 5 maggio. Da parte sua, continua Stratfor, Washington si è astenuta da fare
significative pressioni contro Russia e Cina, anzi ha ricercato il loro sostegno in date circostanze ed
ha offerto spazi di cooperazione, «essenzialmente cercando di modellare, piuttosto che contenere,
le aspirazioni delle due potenze eurasiatiche». Solo che Washington, commenta l’agenzia
geopolitica USA, «ha giudicato le recenti azioni russe e cinesi essersi spinte forse un po’ troppo
oltre». La Russia, infatti, sfruttando l’arma energetica, mira a riaffermare la propria presenza
all’estero, cercando al contempo di proteggersi i fianchi. Mosca sta infatti riguadagnando influenza
in Ucraina (vedasi vicenda delle forniture di gas e le elezioni parlamentari di marzo, che hanno
visto il partito filorusso di Janukovic conseguire la maggio ranza relativa) ed in Asia centrale: il
ruolo di Mosca nello smantellamento della base aerea in Uzbekistan, l’arma delle forniture di gas
del monopolio statale Gazprom sono alcuni esempi. Stratfor evidenzia poi che anche il governo
kirghizo insediatosi dopo la “rivoluzione dei Tulipani” promossa da Washington si è ben guardato
dal peggiorare le buone relazioni con Mosca. I sentimenti anti-russi permangono comunque forti in
Georgia, inaspriti in seguito all’embargo agricolo disposto da Mosca.
USA / Cina. 5 maggio. Pechino si mette invece in evidenza per la sua politica globale di ricerca di
idrocarburi e materie prime. La Cina è reduce da intensi viaggi d’affari in Africa. Mentre si
approfondiscono le relazioni in America Latina e Medio Oriente, nel Sud Es t asiatico aumentano le
cooperazioni con Pechino, non percepito più come un attore troppo ingombrante. Il peso economico
della Cina sta crescendo rapidamente. Mentre sussistono contraddizioni interne, l’assorbimento
cinese di materie prime e prodotti primari, la relativa capacità di influenzare i prezzi globali dei
prodotti (favorendo così anche paesi sulla lista nera di Washington come Venezuela ed Iran) ed il
relativo surplus commerciale con gli States generano ulteriori attriti con Washington. Nel mentre
questi fomenta in funzione anti Pechino l’alleato giapponese, la Cina studia profondi intese con la
Corea del Sud e continua ad avere influenza su una Corea del Nord che rimane una mina vagante
nell’area. Atti che potrebbero rimodellare l’equilibrio di sicurezza nel nord-est asiatico, quantomeno
a livello regionale.
USA / Russia / Cina. 5 maggio. La conclusione dell’analisi di Stratfor: «I colpi retorici assestati a
Russia e Cina vogliono ammonire le due potenze regionali che Washington, apparentemente
distratta, è certamente bene informata di che cosa stia accadendo globalmente e non è impaurita
dall’intraprendere una lotta con Cina e Russia –in apparenza anche simultaneamente». A breve
termine, Washington mira ad ottenere da Mosca e Pechino un ripensame nto delle loro strategie,
avvisandoli che non avranno strada libera da qui al termine della Presidenza Bush tra due anni e che
le opzioni di pianificare ed investire nuove “rivoluzioni colorate” (soprattutto in Russia) sono
sempre lì sul tavolo. E Mosca e Pechino? «Saggiamente hanno ingerito senza fiatare questi affronti,
ma osservano se Washington faccia sul serio o meno. È ragionevole attendersi da entrambi che
intraprendano dei passi –sia positivi che negative– per testarlo».
USA / Cina. 5 maggio. Ad integrare ed avvalorare le conclusioni del rapporto di Stratfor sugli
intenti sempre più aggressivi di Washington verso Pechino è di qualche utilità l’analisi della rivista
online QuadrantEuropa dello scorso aprile, “Il Pacifico futuro terreno di scontro tra Pechino e
Washington”. Lo scorso mese a Pearl Harbor la Marina USA ha presentato alla stampa cinese ed
“occidentale” la sua più moderna nave da guerra, l’incrociatore Chung-Hoon. «La nave, il cui nome
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si richiama all’ammiraglio Gordon Chung-Hoon, eroe della seconda guerra mondiale, di origini
hawaiane e cinesi, è adatta a combattere contemporaneamente contro aerei, navi e sommergibili
nemici». Il significato della base militare navale delle Hawaii di Pearl Harbor sembra destinato a
crescere, rileva QuadrantEuropa.
USA / Cina. 5 maggio. Nel febbraio di quest’anno, infatti, il Pentagono ha pubblicato le linee guida
della politica militare di Washington, la Quadrennial Defense Review Report, uno studio che viene
aggiornato ogni quattro anni. Il Pacifico è sempre più area calda nelle strategie di Washington. «Da
un lato, il numero delle portaerei da combattimento disponibili in questo potenziale punto di crisi
globale passa da cinque a sei. Se si nota che la Marina diminuirà il numero complessivo degli
incrociatori a sua disposizione, che passeranno da dodici a undici, si capisce il significato di
questa mossa. Dall’altro, i sottomarini attualmente attivi nell’Atlantico verranno ritirati per essere
schierati nel Pacifico (…) Il tradizionale equilibrio del 50% –al momento la flotta è dislocata in
uguale misura nell’Atlantico e nel Pacifico– si sposterà di un 10% verso il Pacifico». Se si
aggiunge che da tempo la Us Navy ha spostato tre sommergibili al largo di Guam, nel Pacifico
occidentale, dove sono present i bombardieri ad ampio raggio di volo e bombardieri invisibili tipo
B-52, «in grado, in caso di conflitto, di scaricare sui bersagli asiatici un numero enorme di bombe,
in tempi record», il significato delle mosse USA è chiaro: «i più moderni mezzi bellici americani
devono trovarsi vicino ai supposti teatri di battaglia del futuro e mantenere le capacità, in caso di
necessità, di colpire il nemico con attacchi rapidi e decisivi». Gli USA, dunque, si preparano
sempre più ad un futuro conflitto con la Cina in piena ascesa militare ed economica.
USA / Cina. 5 maggio. Secondo il Quadrennial Defense Review Report, la Cina è la sola potenza
che abbia la capacità di insidiare militarmente gli USA. Commenta QuadrantEuropa: «Già ora il
riarmo di Pechino minaccia l’equilibrio regionale. Ma ciò che irrita di più Washington non sono
tanto le spese militari di Pechino, molto basse a paragone di quelle USA, ma la crescita delle spese
per la difesa, caratterizzate da un tasso molto più alto di quello dell’economia complessiva del
Paese». La Cina, in sostanza, lavora intanto per difendersi efficacemente da attacchi esterni. «Gli
esperti militari osservano stupefatti anche la velocità con cui la Cina, grazie alla collaborazione
russa e allo sviluppo della propria marina da guerra, riesce a modernizzare la flotta dei suoi
sommergibili. Il vice-ammiraglio americano in pensione Albert Konetzni, che fino al 2004 ha
comandato la flotta subacquea del Pacifico, ha reso, davanti al Congresso USA, dichiarazioni
allarmate. Secondo il suo punto di vista, in caso di guerra per Taiwan, sarà molto difficile per gli
Stati Uniti schierare i propri sommergibili nelle zone teatro del conflitto».
USA / Cina. 5 maggio. Non sono casuali le considerazioni su Taiwan, considerate la miccia che
potrebbe innescare uno scontro futuro tra Washington e Pechino. «Washington, pur accettando la
politica di una sola Cina, è sia contro l’indipendenza di Taiwan che contro l’annessione violenta di
Taipei da parte della madrepatria continentale. Nel Taiwan Relations Act del 1979, gli USA si sono
vincolati ad armare Taiwan per scopi solamente difensivi e per rendere l’isola in grado di resistere
a un attacco da parte della Repubblica popolare». Lo stesso ammiraglio Fallon, capo del Comando
delle forze del Pacifico meridionale, in una conferenza stampa non ha potuto negare che «il
riposizionamento militare rispecchia le nuove sfide del mondo contemporaneo» e che gran parte
della strategia militare «punta non solo ad anticipare possibili azioni militari cinesi verso Taiwan,
ma anche ad impedire eventuali controreazioni di Pechino a mosse non particolarmente gradite di
Taipei».
USA / Cina. 5 maggio. L’ostilità USA verso Pechino è oggetto anche di un altro documento
fondamentale statunitense, la National Security Strategy pubblicata lo scorso marzo. In questo
studio, Washington afferma, senza giri di parole, che il comportamento della Cina suscita
apprensioni non solo nella regione, ma in tutto il mondo. La Cina non sarà in grado di restare sulla
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strada della pace se i suoi leader restano vincolati a schemi mentali vecchi e inadeguati alla
comprensione del presente, affermano gli estensori del documento. Concretamente, il documento
strategico della Casa Bianca attacca il riarmo militare cinese (la cui velocità preoccupa Washington)
e la visione mercantilistica della politica commerciale di Pechino. «Nella conclusione del rapporto
si può leggere che l’America vuole incoraggiare Pechino a compiere le “migliori scelte
strategiche” ma nello stesso tempo Washington si dice pronta a far fronte a “qualsiasi altra
eventualità”». In altri termini, Washington «è già preparata al confronto».
Cile / Haiti. 5 maggio. La neopresidente della Repubblica cilena, Michelle Bachelet, ha chiesto al
Parlamento di prorogare di sei mesi la permanenza a Haiti dei 600 uomini inviati da Santiago
nell’ambito della Missione di stabilizzazione dell’ONU (Minustah).
Bolivia. 5 maggio. Kirchner, Lula, Morales e Chávez hanno risolto tutti i malintesi nati in seguito
alla nazionalizzazione degli idrocarburi. Morales ha garantito l’approvvigionamento del gas ai paesi
vicini e sono stati decisi incontri bilaterali per fissare i prezzi. Il presidente Kirchner ha letto ai
giornalisti un comunicato nel quale si afferma che i quattro sono favorevoli all’integrazione
energetica regionale e ad investimenti congiunti per lo sviluppo boliviano.
Svezia / Cecenia / Russia. 6 maggio. La polizia chiude un sito degli indipendentisti ceceni in
Svezia. Mosca aveva accusato il sito internet del Centro Kavkaz di sostenere il «terrorismo»,
riferiscono oggi fonti ufficiali e mezzi di comunicazione.
Sudan. 6 maggio. «Un giorno bello e significativo per il popolo del Darfur, ma per il momento
soltanto un primo passo». Così il vice segretario di Stato USA Robert Zoellick ha commentato
l’accordo di pace tra il governo di Khartoum e l’Esercito di liberazione del Sudan (SLA-M), il
principale dei movimenti combattenti attivi in Darfur, la regione occidentale sudanese teatro dal
febbraio 2003 di una guerra interna. Soddisfazione hanno espresso pure il segretario generale delle
Nazioni Unite, Kofi Annan, che auspica il dispiegamento in Darfur di un contingente ONU
(opzione fortemente avversata da Khartoum) ed il responsabile della politica estera dell’Unione
Europea, Javier Solana, il quale invita i gruppi che non hanno firmato l’accordo di ieri –il
Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM) e una costola minoritaria dello SLA-M– a
rivedere le proprie posizioni.
Sudan. 6 maggio. La tempistica del disarmo delle truppe legate a Khartoum è probabilmente il
punto di maggior soddisfazione degli USA e della subalterna UE. Secondo una sintesi pubblicata
sul sito del Dipartimento di Stato USA e divulgata in ampi stralci dall’agenzia Misna, l’accordo
prevede «il disarmo completo e verificato delle milizie Janjaweed (sostenute da Khartoum, ndr) al
più tardi entro la metà di ottobre del 2006». Sempre sulle milizie considerate alleate del governo
sudanese nella guerra del Darfur, il documento fornisce poi indicazioni chiare
«sull’accantonamento dei Janjaweed e di altre milizie armate in alcune zone delimitate e
specificate, prima che il processo di disarmo abbia inizio». «Un calendario dettagliato», si legge
ancora dagli stralci del documento, «assicura che i Janjaweed dovranno essere disarmati prima che
le forze ribelli preparino l’ammassamento delle loro truppe e il conseguente disarmo». Da passaggi
dell’accordo forniti alla stampa si apprende che «un referendum popolare, da tenersi al più tardi
entro il luglio 2010, deciderà l’eventuale trasformazione del Darfur in un’unica entità
amministrativa». Attualmente la regione occidentale sudanese del Darfur è divisa i 3 stati: Darfur
meridionale, settentrionale e occidentale. Ai ribelli, spiega un altro passaggio dell’accordo relativo
alla «condivisione del potere», è stata affidata la «quarta più importante carica del governo d’unità
nazionale sudanese: l’assistente principale del presidente» e la «presidenza della neonata Autorità
regionale di transizione per il Darfur».
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Russia / Kazakistan. 6 maggio. «Ritorna il grande gioco del Caspio», titola il quotidiano russo
Moscow Times. In questa vasta regione dell’Asia centrale, fra le più ricche del pianeta in greggio e
metano, Stati Uniti, Russia e Cina combattono una nuova “guerra fredda”. Quella per il controllo
delle risorse energetiche. Così il vicepresidente USA Cheney si è recato in visita in Kazakistan per
convincere il presidente Nazarbaev a far confluire il greggio dei ricchi giacimenti di Kaghan verso
l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, la cui costruzione è stata finanziata dagli USA per scavalcare la
Russia, finora monopolista dei transiti energetici da quella regione. «Altro che rispetto della
democrazia», tuonano i giornali russi. «In nome del petrolio, la Casa Bianca stringe legami con
regimi come quello del Kazakistan e dell’Azerbaigian in mano a dinastie familiari», dimenticando
però di rilevare gli stretti rapporti tra Putin e Nazarbaev ed il sostegno decisivo dato al presidente
azero Aliyev nelle scorse elezioni legislative. Greggio e gas kazako fanno gola sia alla Cina –che
l’anno scorso ha acquistato la PetroKazakhstan, dalla quale riceve il greggio tramite un nuovo
oleodotto– sia alla Russia. Mosca ha grosse quote nel consorzio per lo sfruttamento del petrolio del
Caspio e sta cercando di incrementare il suo già vasto monopolio del metano, con accordi col
Turkmenistan e altri produttori.
Russia / USA. 6 maggio. La Guerra fredda numero due tra Russia ed USA è già cominciata.
Giulietto Chiesa concorda con le dichiarazioni di Mikhail Gorbaciov su La Stampa. Sulle cause,
Chiesa individua due fattori. Primo: la strategia aggressiva USA, «che ha polverizzato l’illusione di
Putin di poter restare ancora a lungo fuori dal mirino di Washington». Secondo: le conseguenze
dell’impennata del prezzo del petrolio, «che non ha cessato di riversare generosamente sullo zar
del Cremino un fiume di dollari di gigantesche proporzioni, tale da consentirgli di risolvere alcuni
problemi sociali interni e di avviare un programma di riarmo e di modernizzazione militare di
dimensioni cospicue, da grande potenza».
Russia / USA. 6 maggio. Chiesa esamina ognuno dei due fattori. «Giunto al potere nel 2000, zar
Vladimir Putin si è comportato come socio subalterno, accettando il dato rappresentato dagli Stati
Uniti come unica superpotenza. Ne conseguiva l’accettazione della supremazia altrui e il
ripiegamento su prudenti posizioni di attesa. Tattica dettata anche, in via secondaria, da ragioni
interne, di consolidamento del potere a Mosca, e di rapporti delicati con gli oligarchi filooccidentali». Ecco così Mosca non interferire nell’aggressione USA in Afghanistan, solo che
«George Bush (…) si prese mezza Asia Centrale ex sovietica, installò le sue basi in Uzbekistan,
Kirghizistan e Tagikistan, dislocò trentamila uomini là dove mai gli Stati Uniti avevano ficcato il
naso. Non ci fu reazione significativa a Mosca, dove la cosa non passò tuttavia inosservata, ma
prevalse l’idea di restare “fuori dal mirino”». Per Chiesa, Bush non ha fatto altro che seguire la
linea di Clinton di penetrare fin dentro i “cortili di casa” della Russia. «Bill Clinton aveva liquidato
la Jugoslavia, Bush mette al potere a Tbilisi il suo uomo, liquidando perfino un alleato fedele come
Eduard Shevardnadze. E qui il nervosismo di Mosca ha cominciato a diventare alto. È difficile
stare fuori dal mirino se il mirino t’insegue in continuazione. Poi venne l’Ucraina e la rivoluzione
cosiddetta arancione (ovvero la cosiddetta rivoluzione arancione) e qui fu chiaro che Washington
aveva precisamente messo Mosca nel suo mirino e stava sparando bordate molto pesanti».
Russia / USA. 6 maggio. Secondo Chiesa, «dal momento in cui Janukovic è costretto a rinunciare
alla vittoria (sicuramente rubata) e si ripetono le elezioni che porteranno alla vittoria di
Jushenko», Vladimir Putin inizia a reagire: «oltre non vi lasciamo andare». Ed ecco utilizzare
l’arma delle risorse energetiche. «Verrà l’inverno e Putin presenterà la bolletta del gas all’Ucraina,
e tutto diventa improvvisamente più chiaro anche ai polacchi e ai baltici, che avevano soffiato (e
ancora soffiano) nelle trombe per conto di Washington. Nel frattempo, per gli ex paesi fratelli e
cugini del Baltico, Putin preparava la seconda pillola amara. Il gasdotto sotto il mare, che
consentirà di portare energia in Germania bypassandoli tutti in un colpo solo. Grande operazione
strategica che libererà Mosca dalla necessità di chiedere permesso a vicini assai ostili e molto
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“americani” per portare il suo gas agli utilizzatori europei». Insomma, secondo Chiesa
l’aggressività USA, mettendo sempre più con le spalle al muro la Russia, non ha prodotto che
l’effetto di crearsi «un antagonista sempre più riottoso. Tanto più riottoso perché non avrebbe
voluto farlo. Per lo meno, non in tempi così ravvicinati».
Russia / USA. 6 maggio. Chiesa rileva quindi che «la Russia è la seconda grande potenza
energetica del mondo. La prima se si esamina il combinato composto di gas e petrolio». Con il
prezzo del petrolio alle stelle, Putin sta accumulando favolose risorse monetarie «per armarsi, ma
anche per tornare a esercitare la sua influenza politica anche più lontano dai suoi attuali confini».
È ovvio che, per ragioni sia geo-politiche che economiche, Mosca confligga inevitabilmente con le
strategie di Washington. Ciò che preoccupa non è soltanto la forza militare in sé della Russia, ma il
decisivo aiuto che Mosca può dare a partner come Iran e Cina, influendo sulle evoluzioni
geopolitiche in maniera non confacente ai desiderata di Washington. «L’Iran, sotto tiro di
Washington, ha già avuto da Mosca missili cruise di nuova generazione, in grado di affondare tutte
le petroliere che escono dal Golfo Persico. Il che significa che l’Europa si troverebbe senza
benzina nel corso delle due settimane dopo l’inizio dei bombardamenti americani. Sul piano
diplomatico, Russia e Cina non permetteranno al Consiglio di Sicurezza di dare il via libera ad
alcuna azione militare di Washington. Il che riprodurrà, nel momento in cui Washington deciderà
l’offensiva, la stessa situazione di completa illegalità (oltre che di isolamento politico) che
caratterizzò l’inizio della guerra irachena».
Russia / USA. 6 maggio. Le ultime vicende segnalano che Putin sta guadagnando influenza
geopolitica. Portati a miti consigli gli oligarchi sul piano interno, Putin ha imp edito il
rovesciamento di Lukashenko in Bielorussia e si è distinto per l’invito ai palestinesi di Hamas.
Intanto, «sul fronte più orientale, oleodotti e gasdotti russo-cinesi stanno già attraversando le
immense distese delle steppe siberiane, da ovest a est e da nord a sud. Aveva ragione Zbignew
Brzezinski, nel 1987, quando scrisse, nella “Grande scacchiera”, che la supremazia dell’America
sul mondo avrebbe dovuto passare, inesorabilmente, attraverso la demolizione della Russia (non
dell’Unione Sovietica soltanto). È accaduto però che, nonostante tutti gli sforzi messi insieme da
tre presidenti americani, Bush padre, Clinton, e Bush figlio, la Russia non è stata demolita. Il che
significa che la supremazia dell’America sul mondo non è stata raggiunta. Brzezinski pensava che,
liquidata la Russia, trasformata in una federazione “leggera” di tre Stati –Russia Europea senza il
Caucaso, Siberia occidentale, Estremo oriente– gli Stati Uniti avrebbero potuto omologare
abbastanza agevolmente la Cina, inserendola nel sistema di dominio del “consenso
washingtoniano”. Diciannove anni dopo la Russia è di nuovo un giocatore mondiale e la Cina è un
gigante al di fuori del controllo di chiunque».
Afghanistan. 6 maggio. A Kabul l’Italia è in guerra al seguito della NATO: no n è una missione “di
pace”. Il tragico attentato di Kabul contro i militari italiani non è un incidente di percorso in un
contesto di pace. Enrico Piovesana, di PeaceReporter.net, fornisce alcune cifre. I primi tre anni di
“dopoguerra” hanno visto un progressivo indebolimento della resistenza talebana e un calo
dell’intensità dei combattimenti: 1.500 morti nel 2002, mille nel 2003, settecento nel 2004. Poi il
vento è cambiato. «I talebani rifugiati in Pakistan si sono riorganizzati, grazie al sostegno dei
servizi segreti di Islamabad (Isi), all’appoggio dei movimenti integralisti pakistani e alle armi
acquistate con gli incassi del raccolto d’oppio 2004. Così nel 2005, i guerriglieri del mullah Omar
sono dilagati dal confine pakistano riprendendo in pratica il controllo dell’Afghanistan
meridionale e infiltrandosi anche nelle maggiori città». Il 2005 si è chiuso con il bilancio più
pesante: duemila morti, di cui la metà talebani (o presunti tali), 330 civili, 430 militari afghani, 99
soldati USA (il doppio che negli anni precedenti) e 30 soldati del contingente Isaf-NATO (contro i
6 del 2004). E nei primi quattro mesi del 2006 si contano già 751 morti, di cui 148 civili, 265
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talebani, 302 militari afghani, 26 soldati USA e 10 del contingente Isaf-NATO. Con la novità degli
attentati suicidi, ormai quasi quotidiani.
Afghanistan. 6 maggio. Il drastico aumento delle perdite nel corso del 2005 –politicamente
insostenibile se sommato a quelle irachene– ha costretto gli statunitensi a ritirarsi dalle zone più
pericolose (Kandahar, Helamand e Uruzgan), lasciando agli alleati della NATO il compito di
combattere i taliban al posto loro. Questo significa far cambiare definitivamente la natura della
missione ISAF, forza internazionale costituita su mandato del Consiglio di Sicurezza ONU nel
dicembre 2001: da missione cosiddetta “di pace e stabilizzazione”, insediata prevalentemente a
Kabul per proteggere il governo Karzai, a missione di guerra. «Una rivoluzione che in Italia è
passata sotto silenzio, ma in altri paesi coinvolti ha suscitato aspri dibattiti e incontrato non poche
resistenze, che alla fine, però, sono state messe a tacere. Londra, Ottawa e Amsterdam hanno
invitato nel sud dell’Afghanistan 7.400 soldati (3.500 britannici, 2.300 canadesi e 1.600 olandesi),
consentendo agli USA di smobilitare migliaia di soldati». I nuovi arrivati hanno capito subito che
aria tirava. I taliban li hanno accolti a colpi di agguati, attentati suicidi, attacchi missilistici. Le
ultime vittime il 22 aprile, quattro soldati canadesi, uccisi a Kandahar da una bomba artigianale
proprio come gli italiani a Kabul. «Nonostante il silenzio, l’Italia è coinvolta in questa nuova
guerra in quanto membro della NATO. Il nostro impegno militare è aumentato, non in termini di
uomini ma di mezzi da combattimento. Si è saputo a febbraio ed è stato di recente confermato dal
capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, generale Leonardo Tricarico, che l’Italia invierà in
Afghanistan sei cacciabombardieri Amx per attività di supporto alle truppe a terra, impegnate
anche in missioni di combattimento».
Catalogna. 7 maggio. Il Consiglio Nazionale dell’ERC ha ratificato la decisione di venerdì
dell’esecutivo di votare «no» al referendum sullo Statuto previsto per il 18 giugno. Il nuovo Statuto,
modificato in profondità da un accordo separato tra i moderati di destra catalani (CiU) ed il governo
di Zapatero, non è quello uscito originariamente, con oltre il 90% dei consensi, dal parlamento
catalano. La decisione è stata presa nonostante i due partiti alleati al governo ‘regionale’ abbiano a
più riprese avvertito l’ERC che questa decisione avrebbe significato la crisi dell’esecutivo.
Russia / USA. 7 maggio. Non si spengono sulla stampa russa le polemiche per le dichiarazioni del
vicepresidente statunitense Dick Cheney, che aveva accusato il governo di Mosca di essere poco
democratico e di ricattare i Paesi vicini. Il quotidiano finanziario russo Vedomosti ha ventilato
l’ipotesi di ritorsioni economiche: la compagnia aerea di Stato Aeroflot potrebbe preferire, per
rinnovare la sua flotta, il consorzio europeo Airbus, penalizzando il costruttore statunitense Boeing.
L’importo del contratto è stimato in circa tre miliardi di euro. Altro settore ad essere interessato è
quello della cooperazione energetica. La Russia potrebbe in particolare «prendere una decisione
negativa» sulla partecipazione USA al progetto di sviluppo dell’enorme giacimento di gas russo
Chtokam.
USA. 7 maggio. Il vicepresidente USA Cheney spezza una lancia a favore dell’ingresso di Croazia,
Albania e Macedonia nella NATO e poi nell’Unione Europea. Cheney, in visita nella croata
Dubrovnik, ha detto che i tre Stati balcanici contribuirebbero a «ringiovanire» i due «club di paesi
occidentali». Il vicepresidente statunitense, intervenendo al vertice fra i tre paesi che formano la
Carta dell’Adriatico, ha poi dato un giudizio positivo sulle riforme da questi intraprese.
Venezuela. 7 maggio. Il presidente venezuelano, Hugo Chávez, ha annunciato ieri che numerose
persone senza risorse economiche provenienti dagli Stati Uniti si recheranno nel paese per essere
operate gratuitamente agli occhi, nel quadro della cosiddetta Missione Milagro, una delle iniziative
sociali promosse su scala nazionale dal governo di Caracas.
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Russia / Cecenia. 8 maggio. L’esercito russo ha annunciato grandi manovre nel Caucaso del Nord.
Il suo comandante, il presidente Putin, ha confessato la sua preoccupazione per una sollevazione di
tutta la regione. La resistenza cecena, guidata dal successore di Mashkadov, Abdul Karim
Saidulaiev, avrebbe concluso un’alleanza strategica con il resto del Caucaso sotto la bandiera
dell’Islam e dell’opposizione anti russa. Dalla Cecenia, la resistenza potrebbe dunque estendersi
all’area caucasica che va dall’Adighezia al Daghestan. Già l’anno passato, Abdul Karim Sadulaiev
aveva dichiarato aperto ufficialmente il fronte caucasico, ma recentemente ha reso pubblici degli
ordini concernenti la coordinazione di questo fronte, dall’ambito politico a quello militare.
Russia / Cecenia. 8 maggio. Dopo dodici anni di conflitto russo-ceceno, interrotto dagli accordi di
Khasavjurt del 1996 firmati da Lebed e Maskhadov, i ceceni sono coscienti che è impossibile
vincere da soli il gigante russo, il quale, dopo il disastro della prima guerra, intraprese nella seconda
una feroce campagna di repressione. La storia del Caucaso dà forza alla nuova strategia cecena, una
storia di resistenza al colonialismo russo che ha registrato rivolte coordinate di tutti i popoli di fede
musulmana del nord del Caucaso: da Mansur Ushurma, nel XVIII secolo, alla Confederazione delle
Nazioni Caucasiche, uno Stato indipendente di fatto in piena guerra civile dopo il trionfo della
Rivoluzione di Ottobre del 1917. Vari analisti, leggendo i comunicati rilasciati dal leader ceceno,
affermano che Sadulaev prova a cercare un equilibrio, non facile, tra le due tendenze della
resistenza: quella «islamista», condotta dai noti comandante Shamil Basayev e da Movladi Udugov,
che lo avrebbero riconosciuto come “Imam del Caucaso del nord”, e quella dei settori più
«nazionalisti». Sadulaev –succeduto a Maskhadov dopo la sua uccisione nel marzo 2005 da parte
dei servizi segreti russi dell’FSB, che gli tesero una trappola utilizzando come esca un invito per
negoziare– ha ora ultimamente rivendicato il patrimonio comune storico e religioso dei popoli del
Caucaso. Per il presente, si appella all’unità del Caucaso contro la Russia. «L’estate sarà veramente
calda. Tutto esploderà. La questione è quando», prevede Pavel Felgenhauer, specialista militare
russo.
Nepal. 8 maggio. Lo aveva promesso e lo sta facendo: il nuovo governo nepalese ha cominciato ad
annullare molte decisioni prese dal re Gyanendra. Nel mirino le decisioni assunte dopo lo
scioglimento del parlamento nel 2002. Il primo passo, secondo un comunicato ufficiale del governo,
è stato il richiamo in patria e il licenziamento di 12 ambasciatori (tra questi, quelli negli USA, Gran
Bretagna, Francia, India, Giappone) e il trasferimento d’ufficio di numerosi alti burocrati
ministeriali. Nei giorni scorsi il nuovo esecutivo ha annullato le elezioni municipali tenutesi circa
tre mesi fa. A breve sono attese altre misure.
USA. 8 maggio. Riserve sulla designazione del generale Hayden a direttore della CIA sono state
espresse da esponenti di rango del Congresso USA. Pochi negano ad Hayden doti di competenza,
ma c’è chi s’interroga sull’opportunità di avere un militare alla testa dell’intelligence civile e c’è chi
gli rimprovera il ruolo avuto nel programma, considerato per molti versi illegale, di intercettazioni,
senza l’avallo della magistratura, di comunicazioni telefoniche o via posta elettronica fra cittadini
statunitensi.
Russia / Bielorussia. 9 maggio. Come si spiega la sicumera dei fedelissimi di Putin, sicurissimi
della permanenza al potere dell’attuale presidente russo nonostante il secondo e non rinnovabile
mandato scada nella primavera del 2008? La risposta si chiama unificazione di Russia e Bielorussia:
Putin resterebbe al Cremlino non come presidente russo, ma come capo della nuova federazione.
Per attuare questo progetto, però, bisogna ottenere il consenso del presidente bielorusso
Lukashenko, appena rieletto dopo le contestate elezioni presidenziali di due mesi fa. Ecco allora la
Gazprom russa, dopo le elezioni, mutare atteggiamento verso la Bielorussia ed annunciare a
Lukashenko che dal primo gennaio 2007 dovrà pagare il metano a prezzi di mercato: 145 dollari
rispetto agli attuali 45. Secondo l’edizione odierna del quotidiano Kommersant, Putin avrebbe poi
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firmato una direttiva in cui si ordina la fine di qualsiasi sovvenzione diretta o indiretta a Minsk.
L’economia bielorussa, che dipende per le sue forniture energetiche e per le esportazioni dei propri
prodotti dalla Russia, è messa con le spalle al muro. A Mosca si prevede ora che il riottoso
Lukashenko, che non ha ovviamente alcuna sponda in Europa, cederà ai diktat di Mosca e firmerà il
progetto di unificazione. La Russia, insomma, sta rifacendo sentire la sua voglia d’Impero.
Iran. 9 maggio. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha inviato una lettera al suo
omologo statunitense Bush, lanciando pesanti accuse sull’operato USA nello scenario
internazionale giudicato in totale contraddizione con gli insegnamenti dei profeti e gli stessi valori
liberali. Come si può, afferma il presidente della Repubblica Islamica, definirsi seguaci di Gesù
Cristo mentre al contempo «i paesi vengono aggrediti, la vita, l’intimità e l’esistenza degli individui
perde ogni valore e per esempio, solamente per la presenza di qualche criminale in un villaggio,
una città o in mezzo ad un gruppo, tutto quel villaggio, quella città e quel gruppo viene bruciato»,
domanda il presidente iraniano, con chiaro riferimento a vicende in Iraq ed Afghanistan.
Iran. 9 maggio. Sull’Iraq, Ahmadinejad dedica molti passi nella sua lettera. «A causa della
possibile esistenza di armi di distruzione di massa in un certo Stato, questo viene occupato, circa
100.000 persone uccise, le sue risorse idriche, la sua agricoltura e la sua industria distrutte,
180.000 soldati stranieri spiegati a terra, la sacralità delle case private dei cittadini profanata e il
Paese catapultato indietro di 50 anni. A che prezzo? Centinaia di miliardi di dollari spesi dalle
casse di un paese e di alcuni altri paesi e decine di migliaia di giovani uomini e donne –le truppe di
occupazione– messi in pericolo, strappati alle loro famiglie e ai loro cari, le loro mani sporche del
sangue altrui, soggetti a così tante pressioni psicologiche che ogni giorno qualcuno si suicida e
quelli che tornano a casa soffrono di depressione, si ammalano e devono far fronte a ogni tipo di
malattia, mentre altri sono uccisi e i loro corpi vengono recapitati alle famiglie». Ahmadinejad
ricorda insomma che la guerra in Iraq è causa di tante sofferenze anche per i cittadini statunitensi:
come soldati o come familiari delle truppe o come contribuenti.
Iran. 9 maggio. «Con la scusa dell’esistenza delle armi di distruzione di massa, questa grande
tragedia ha travolto i popoli sia dei paesi occupati che degli occupanti. Poi fu rivelato che non
c’erano le armi di distruzione di massa per cui tutto era iniziato. Naturalmente Saddam era un
dittatore assassino. Ma la guerra non venne mossa per rovesciare lui, l’obiettivo annunciato della
guerra era trovare e distruggere le armi di distruzione di massa. Lui è caduto incidentalmente, ciò
nondimeno la gente della regione è contenta di questo. Puntualizzo che durante gli anni della
guerra all’Iran, Saddam fu appoggiato dall’Occidente». Ahmadinejad non nasconde insomma che
la caduta di Saddam non ha dispiaciuto Teheran, che ancora ricorda la guerra d’aggressione
condotta dall’ex leader iracheno. Il Presidente iraniano si sofferma poi sulla vicenda della base
militare USA di Guantanamo e delle prigioni segrete USA in Europa, ponendo legittimi
interrogativi sulla loro fondatezza gíuridica ed etica: «Ci sono prigionieri a Guantanamo che non
hanno avuto un processo, che non hanno assistenza legale, le loro famiglie non li possono vedere e
sono tenuti in una terra straniera lontana dalla loro patria. Non c’è controllo internazionale sulle
loro condizioni e sul loro destino. Nessuno sa se si tratta di prigionieri, prigionieri di guerra,
imputati o criminali. Investigatori europei hanno confermato l’esistenza di prigioni segrete anche
in Europa. Io non conosco alcun sistema giuridico che permetta il sequestro di persona o la
prigionia in carceri segrete. E non capisco nemmeno come queste azioni possano corrispondere ai
valori delineati all’inizio di questa lettera, per esempio gli insegnamenti di Gesù Cristo (la pace su
di lui), i diritti umani e i valori liberali».
Iran. 9 maggio. «60 anni lo Stato d’Israele non esisteva», prosegue la lettera. «Dopo la guerra,
sostennero che 6 milioni di ebrei erano stati uccisi (…) Supponiamo che questi eventi siano veri.
Questo deve logicamente tradursi nella fondazione dello stato di Israele nel Medio Oriente o nel
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sostegno a questo Stato?» E rivolgendosi esplicitamente a Bush: «Sono sicuro voi conosciate come
–e con quali costi– Israele è stato fondato. Diverse migliaia di persone sono state uccise nel
processo di fondazione; milioni di abitanti originari sono diventati rifugiati; centinaia di migliaia
di ettari di fattorie, di oliveti, di paesi e villaggi sono stati distrutti. Questa tragedia non è esclusiva
del tempo della fondazione, purtroppo sta andando avanti da 60 anni. È stato fondato un regime
che non prova pietà nemmeno per i bambini, distrugge case con dentro gli inquilini, annuncia in
anticipo la lista e i piani per assassinare personaggi palestinesi e tiene migliaia di palestinesi in
prigione (…) Perché questo regime viene sostenuto? Il supporto a questo regime è in linea con gli
insegnamenti di Gesù Cristo (la pace su di lui) o Mosè (la pace su di lui) o dei valori liberali?».
Iran. 9 maggio. Ahmadinejad commenta pure la vittoria di Hamas alle recenti elezioni legislative:
«il governo palestinese recentemente eletto ha ricevuto da poco l’incarico. Tutti gli osservatori
indipendenti hanno confermato che questo governo rappresenta gli elettori. Incredibilmente, hanno
messo sotto pressione il governo eletto e gli hanno imposto di riconoscere Israele, abbandonare la
lotta e seguire i programmi del precedente governo. Se l’attuale governo palestinese avesse
presentato questo programma, il popolo palestinese l’avrebbe votato? Ancora, si può conciliare
tale posizione presa in opposizione al governo palestinese con i valori precedentemente abbozzati?
La gente si chiede anche: “perché su tutte le risoluzioni di condanna di Israele del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite è stato posto il veto”?».
Iran. 9 maggio. «Le nazioni dell’America Latina», ha continuato Ahmadinejad, «hanno il diritto di
chiedersi perché ci si oppone ai governi eletti da loro, mentre i golpisti sono sostenuti. E gli
africani che vivono in povertà e miseria possono chiedersi perché si saccheggiano le loro ingenti
ricchezze e miniere mentre loro stessi ne hanno bisogno più di chiunque altro. Questa misura
corrisponde forse agli insegnamenti del Cristo e alla dottrina dei diritti umani? (…) Per quanto
tempo ancora il sangue di uomini, donne e bambini innocenti sarà versato sulle strade, e le case
delle persone saranno distrutte sulle loro teste?». In un altro passaggio della lettera, il presidente
iraniano ricorda pure che il popolo iraniano ha le sue lagnanze da fare sulla politica statunitense: «il
colpo di stato del 1953 e la successiva caduta del legittimo governo di quel periodo, l’opposizione
alla Rivoluzione islamica, la trasformazione di un’ambasciata in un quartier generale di supporto
alle attività degli oppositori della Repubblica islamica (esistono diverse migliaia di pagine di
documenti a conferma di ciò), il sostegno a Saddam nella guerra mossa contro l’Iran,
l’abbattimento di un aereo civile iraniano, il congelamento dei beni della nazione iraniana,
l’escalation di minacce, stizza e malcontento di fronte ai progressi scientifici e nucleari della
nazione iraniana (proprio mentre tutti gli iraniani esultano e collaborano al progresso del loro
paese), e molte altre ingiustizie che non riporterò in questa lettera».
Iran. 9 maggio. Il presidente iraniano ricorda che «chi si trova al potere ha un mandato con una
scadenza, e non governa per sempre. Però i loro nomi saranno registrati nella storia, e verranno
giudicati costantemente, nel futuro prossimo e lontano. La gente sottoporrà le nostre presidenze al
proprio giudizio». Incalza dunque il presidente iraniano: «siamo riusciti a portare la pace, la
sicurezza e la prosperità per il popolo, oppure insicurezza e disoccupazione? Abbiamo avuto come
scopo quello di stabilire la giustizia, oppure abbiamo semplicemente sostenuto gruppi particolari
d’interesse? Abbiamo difeso i diritti di chi non ha privilegi, oppure li abbiamo trascurati? Abbiamo
difeso i diritti di tutti i popoli del mondo, oppure abbiamo imposto loro guerre, interferito
illegalmente nei loro affari, costruito carceri infernali in cui abbiamo rinchiuso persone? (…) La
storia ci insegna che i regimi oppressivi e crudeli non sopravvivono».
Iran. 9 maggio. A conclusione della lettera, Ahmadinejad afferma che «se i miliardi di dollari spesi
per la sicurezza e le campagne militari e per muovere i soldati venissero invece spesi per
investimenti e assistenza ai paesi poveri, la promozione della salute, la lotta contro diverse
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malattie, l’istruzione e il miglioramento della salute mentale e fisica, il soccorso alle vittime di
disastri naturali, la creazione di opportunità di lavoro e di produzione, lo sviluppo di progetti e la
riduzione della povertà, l’instaurazione della pace, la mediazione nelle dispute tra stati, e per
spegnere le fiamme dei conflitti razziali, etnici e altro, dove si troverebbe il mondo oggi? Il vostro
governo e il vostro popolo non sarebbero giustamente orgogliosi? La posizione politica ed
economica della vostra amministrazione non sarebbe più forte? E, mi dispiace molto dirlo, ci
sarebbe questo crescente odio globale verso i governi statunitensi?».
Corea del Sud / Iraq. 9 maggio. La Corea del Sud ha cominciato a ritirare dall’Iraq le sue truppe,
il terzo maggiore contingente straniero dopo quelli USA e Gran Bretagna. Nel darne notizia fonti di
stampa sudcoreane precisano che il ritiro avverrà in cinque fasi: la prima prevede la partenza di un
migliaio di uomini entro la fine dell’anno. La Corea del Sud ha attualmente in Iraq 3.200 soldati, di
stanza nella regione settentrionale di Arbil. Finora il contingente non ha mai subìto alcuna perdita.
Venezuela. 9 maggio. Il presidente venezuelano Hugo Chavez ha annunciato una nuova tassa sul
petrolio all’interno di una riforma fiscale. La nuova tassa si chiamerà «imposta d’estrazione» e
dovrebbe garantire entrate di circa un miliardo di dollari.
Bolivia. 9 maggio. E ora la riforma agraria. Il presidente Morales ha chiesto la cooperazione dei
movimenti contadini in vista della “nazio nalizzazione delle terre” e l’abolizione del latifondo:
l’avvio di «una seconda riforma agraria» costituisce infatti la prossima sfida del suo governo.
Morales ha poi denunciato atti di spionaggio avvenuti all’interno dell’esecutivo, con l’intento di
carpire notizie sul decreto di nazionalizzazione degli idrocarburi. «Persino nella nostra équipe di
lavoro c’era gente infiltrata che vendeva informazioni su quanto stavamo preparando per le
transnazionali». Proprio in seguito a ciò, il capo dello Stato ha deciso di allontanare nove
componenti del suo gabinetto. «Dall’esterno vogliono cospirare contro il nostro governo, contro la
democrazia, non accettano che noi indigeni nazionalizziamo gli idrocarburi», ha concluso Morales.
Catalogna. 10 maggio. La camera alta del parlamento spagnolo ha approvato, con 128 voti
favorevoli e 125 contrari, lo statuto di autonomia della Catalogna. Il Congresso l’aveva approvato
dopo modifiche lo scorso marzo, rivedendo al ribasso quanto approvato dal parlamento catalano. Il
testo, che entrerà ora in vigore, riforma il sistema di finanziamento locale e nel preambolo cita il
termine «nazione» anche se riconosce la regione autonoma solo come «nazionalità». Il prossimo 18
giugno i catalani si esprimeranno tramite referendum sul testo.
Russia. 10 maggio. Putin nel suo discorso alla nazione: dobbiamo armarci come gli USA. Lotta
alla corruzione, energia, incentivi in danaro per favorire un aumento delle nascite e soprattutto
riarmo. Questa la ricetta proposta ieri da Vladimir Putin nel suo discorso sullo stato della
Federazione pronunciato di fronte ai due rami del parlamento riuniti in seduta straordinaria al
Cremlino. Il presidente ha affermato che per la Russia è venuto il momento di un robusto riarmo
all’insegna della qualità: nel 2008 due terzi dell’ex Armata rossa saranno costituiti da militari di
carriera, saranno presto messi in servizio nuovi sottomarini atomici e in generale il materiale bellico
sarà sviluppato in base alle tecnologie più avanzate. Bisogna prendere atto, ha detto, che la guerra
fredda è finita ma «la corsa agli armamenti continua». Al presidente non va giù che la Russia postcomunista ritorni in auge soltanto come impero del gas e del petrolio. Il prezzo stellare dell’energia
gli consente il finanziamento dell’ambizione a ritornare grande potenza. Durante il discorso Putin
ha evitato diatribe dirette con l’amministrazione Bush sulla presunta involuzione democratica della
Russia odierna. Insistendo però sulla necessità di potenziare le forze armate, ha paragonato con
sottile ironia gli Stati Uniti al «compagno lupo» di un aneddoto sovietico che «mangia, non ascolta
nessuno e non ha alcuna intenzione di ascoltare. Quando si tratta dei propri interessi finisce
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l’entusiasmo sulla necessità di difendere i diritti umani e la democrazia. Così tutto diventa
possibile, non ci sono freni»
Sudan. 10 maggio. Continuano gli sforzi diplomatici internazionali per convincere la fazione
dell’Esercito di liberazione del Sudan (SLA), guidata da Abdel Wahed Mohammed al-Nur, e il
Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM), a sottoscrivere la proposta di pace presentata il
25 aprile e firmata venerdì scorso dal governo di Khartoum e dalla principale fazione dello SLA
guidata da Minni Arcua Minnawi. I mediatori dell’Unione africana ha nno scritto una lettera aperta
alle due parti in cui tentano di spiegare l’accordo punto per punto: «Non è perfetto», viene scritto,
«e non esaudisce tutte le richieste dei movimenti, ma è molto efficace su ognuna delle tre principali
questioni: la condivisione dei poteri, la distribuzione delle risorse e l’intesa sulla sicurezza». A
poco è valso l’incontro tenutosi ieri tra il presidente nigeriano Olusegun Obasanjo e al-Nur, il quale
ha ribadito le sue richieste per una più ampia rappresentanza dei movimenti combattenti nelle
istituzioni regionali e nazionali del paese.
Israele. 10 maggio. Israele potrebbe contare su un significativo numero di ogive nucleari.
L’agenzia britannica di informazione specializzata Jane’s stima tra le 200 e le 300 il numero di
testate nucleari che ha Israele. Dal canto suo, l’Istituto Internazionale di Studi Strategici (IISS)
stima in 200 il numero di artefatti ottenuti in maniera clandestina. Secondo l’organizzazione
statunitense Iniziativa sulla Minaccia Nucleare (NTI), l’arsenale israeliano è comparabile, «in
quantità e qualità», a quello della Gran Bretagna e della Francia.
Palestina / Svezia. 10 maggio. Hamas a Stoccolma. Ieri un ministro del governo Hamas, Atef
Aduan, si è incontrato con vari parlamentari svedesi, nonostante le proteste israeliane.
Cuba. 10 maggio. Cinesi a caccia di greggio nel mare al largo della costa Nord di Cuba, di fronte
alla Florida. In corsa anche i russi. Le torri di trivellazione made in China sostituiscono ormai quelle
della canadese Sherrit International, che ha gia segnalato giacimenti sfruttabili. Anche la spagnola
Repsol si è buttata a capofitto nella ricerca di petrolio e gas off-shore nelle acque cubane del Golfo
del Messico dove, nel lotto “Santa Cruz”, ha trovato un giacimento con riserve stimate di 100
milioni di barili di greggio (ma di bassa qualità avendo un’alta percentuale di zolfo). L’affare
petrolio e gas dunque è grosso. Fidel Castro ha già annunciato l’anno scorso che sono finiti i tempi
della dipendenza energetica: Cuba oggi produce 78mila barili di greggio al giorno, la metà del
fabbisogno nazionale. E nei prossimi anni l’isola potrà essere esportatrice di greggio.
Cuba / Cina / USA. 10 maggio. L’amministrazione Bush, sostenitrice del quasi cinquantennale
boicottaggio di Cuba, già stizzita dal comportamento di canadesi e spagnoli, sono ora infuriate per
la bandiera rossa cinese che sventola al limite delle acque territoriali della Florida. Stati Uniti e
Cuba hanno firmato nel 1977 un trattato che stabilisce il “confine marino” tra i due paesi. Ora,
nell’area marittima a nord di Cuba, lo Unites States Geological Survey stima che vi siano
consistenti giacimenti, divisi dal governo di Fidel in 59 lotti, una ventina dei quali sono già stati
assegnati o sono in trattative per la perforazione. Oltre alle canadesi Sherrit e Perbercan, la spagnola
Repsol e la cinese (statale) Sinopec, già operanti, sono in corsa anche la brasiliana Petrobras, la
russa Lukoil e l’indiana IndianOil. L’amministrazione USA guarda con crescente insofferenza
all’attivismo di Pechino: «La Cina sta agendo come se volesse impossessarsi delle riserve
energetiche» dall’Africa, all’America Latina al Medio Oriente (vedasi caso Iran). La Casa Bianca
scalpita, ma ha le mani legate. L’embargo impedisce alle compagnie petrolifere USA (assai
interessate) di concorrere all’assegnazione di lotti nelle acque cubane. Per il senatore repubblicano
Larry Craig, bisognerebbe invece «far concorrenza ai cinesi». E dunque le compagnie petrolifere
statunitensi dovrebbero essere esentate dall’embargo a Cuba.
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Ecuador. 10 maggio. Migliaia di indigeni delle regioni amazzoniche sono tornati in piazza a Quito,
chiedendo la nazionalizzazione degli idrocarburi e l’espulsione dal paese dell’impresa petrolifera
statunitense Oxy, accusata di aver violato il contratto di sfruttamento del greggio sottoscritto con il
governo. «Siamo qui per consegnare alle autorità un manifesto approvato da tutte le comunità di
Pastaza, Morona Santiago, Sucumbíos, Napo, Zamora e Chinchipe in cui esortiamo l’esecutivo a
rescindere l’accordo con la Oxy e a non firmare il Trattato di libero commercio con gli Stati
Uniti», ha detto Guadalupe Llori, prefetto della provincia di Orellana. «Non permetteremo un’altra
farsa ai danni degli ecuadoregni. La Oxy deve andarsene perché ha palesemente scavalcato le
leggi vigenti», le ha fatto eco Gilberto Talahua, coordinatore del Movimiento Pachakutik, ala
politica della Confederazione delle nazionalità indigene (Conaie). La Procura generale ha contestato
all’impresa statunitense di aver venduto, senza consultare lo Stato ecuadoregno, il 40% dei suoi
diritti di estrazione del greggio in un giacimento amazzonico alla canadese Encana: dopo aver
insistito sull’annullamento del contratto, nei giorni scorsi la stessa Procura ha però ipotizzato una
sua rinegoziazione per consentire all’azienda di continuare ad operare in territorio ecuadoregno. In
cambio, la Oxy ha offerto 20 milioni di dollari di risarcimento per i danni causati a Quito e il 50%
degli utili eccedenti per il rialzo del prezzo del petrolio sul mercato mondiale. Una proposta
giudicata «irrisoria» anche dalla statale Petroecuador.
Argentina. 10 maggio. Il 74% degli argentini sarebbe favorevole alla nazionalizzazione degli
idrocarburi, come deciso in Bolivia dal presidente Evo Morales, secondo un sondaggio
commissionato dal quotidiano Pagina 12. La maggioranza degli intervistati ritiene che la gestione
statale del sistema energetico «sia parte integrante della sovranità di un paese» e che «contribuisca
a migliorare le condizioni di vita dei cittadini». L’ondata di privatizzazioni in Argentina accelerata
sotto l’amministrazione di Carlos Menem negli anni ’90, ha comportato, tra l’altro, la perdita
dell’impresa Yacimientos Petrolíferos Fiscales, ceduta alla spagnola Repsol.
Catalogna. 11 maggio. Sullo Statuto è crisi nel governo. Il presidente della Catalogna, Pasqual
Maragall, ha oggi deciso di escludere dal governo gli esponenti di Sinistra Repubblicana di
Catalogna (ERC), partito che ha annunciato il voto contrario al nuovo statuto di autonomia al
referendum del 18 giugno, e di convocare elezioni anticipate. Con la cacciata dell’ERC dal governo,
è la fine del tripartito. La sinistra repubblicana catalana (ERC) accusa il PSC (socialisti catalani) di
Maragall di essersi subordinati al PSOE sul nuovo Statuto. Il presidente dell’ERC, Josep-Lluís
Carod-Rovira, si è detto convinto che molti catalani esprimeranno nel referendum sullo Statuto il
loro rifiuto alla «subordinazione della Catalogna agli interessi della Spagna». Le elezio ni
anticipate, ha detto ieri Maragall, non potranno celebrarsi almeno fino a metà del prossimo
settembre. La legge stabilisce che devono passare come minimo 90 giorni dalla data del referendum
del 18 giugno .
Spagna. 11 maggio. Madrid a ‘rischio’ uscita dall’euro. Lo paventa oggi il quotidiano finanziario
britannico Financial Times, che giudica l’economia spagnola «sull’orlo del baratro». «Di recente la
Banca Centrale Europea ha previsto che nel 2007 l’incidenza del deficit di partite correnti (parte
significativa della bilancia dei pagamenti, costituita dalla bilancia commerciale, da quella dei servizi
e dei redditi e da quella dei trasferimenti unilaterali come le rimesse degli emigrati, ndr) della
Spagna sul PIL crescerà al 9%: sarà il più elevato dell’eurozona». Avendo adottato l’euro e la
politica monetaria ‘comune’ imposta dalla BCE, Madrid non può più far ricorso alla svalutazione
della propria moneta per cercare di invertire gli squilibri sui flussi commerciali e finanziari con
l’estero. I bassi tassi di interesse nominali (addirittura negativi quelli reali, cioè al netto
dell’inflazione rilevata statisticamente) hanno soprattutto alimentato una bolla nel mercato
immobiliare. Mentre si esaurivano le opportunità di investimento in Spagna, «le imprese spagnole
hanno iniziato sempre più a cercare all’estero occasioni di crescita e acquisizioni, come dimostrato
da gruppi quali Santander e Ferrovial». Intanto «l’indebitamento della famiglie è cresciuto al 110%
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del reddito disponibile». Secondo il Financial Times, «correggere questa situazione sarà
impegnativo». Per il quotidiano finanziario, occorre frenare ulteriormente la crescita dei salari,
giudicata la causa della «lenta ma inesorabile perdita di competitività della Spagna (…) che rischia
di esacerbare il deficit di partite correnti con un calo delle esportazioni». A chi sostiene in Spagna
che la propria economia vanta abbastanza capacità di resistenza per disavanzi con l’estero di questi
livelli, il Financial Times ammonisce: «potrebbero avere ragione per il breve termine, ma non
possono cammuffare il dilemma che il governo deve affrontare. Se non verrà fatto, una eventuale
uscita dall’euro appare meno inconcepibile».
Israele. 11 maggio. L’organizzazione pacifista israeliana Peace now contro la costruzione del
“Muro dell’Apartheid”. Secondo un rapporto appena pubblicato, l’imminente Muro in costruzione
(anche) attorno a Gerusalemme risponde a tre obiettivi strategici per Israele. Anzitutto rafforzare i
confini municipali della Città santa, stabilendo una frontiera concreta, rappresentata dal Muro.
Questa barriera però –rileva Peace now– ha l’effetto di «separare i palestinesi dai palestinesi»,
rendendo difficili le loro vite. Il secondo scopo, secondo l’organizzazione pacifista, è quello di
«alterare gli equilibri demografici». In questo senso, soprattutto nel nord e nella parte orientale
della città, è evidente l’intento di «massimizzare la quantità di popolazione ebraica e minimizzare
la percentuale di arabi». Il terzo obiettivo è quello di demarcare la «Grande Gerusalemme»,
espandendo la città verso nord e verso est.
Palestina. 11 maggio. Il Quartetto: aiuti a Ramallah scavalcando il governo Hamas. Il Quartetto per
il Medio Oriente (USA, Russia, Unione Europea e ONU), per riprendere a fornire gli aiut i ai
palestinesi, intende aggirare il governo di Hamas giudato da Ismail Haniyeh e rilanciare il ruolo del
presidente Abu Mazen, destinato a diventare sempre più un semplice esecutore di decisioni prese a
Washington e Bruxelles, oltre che a Tel Aviv. Delusione da parte di Hamas. «Il governo», ha
dichiarato il portavoce del primo ministro Ghazi Hamad, «apprezza gli sforzi compiuti dalle diverse
parti internazionali per alleggerire la crisi economica del nostro popolo ma si rammarica
profondamente per l’insistenza del Quartetto a porre delle condizioni all’esecutivo palestinese.
Avremmo desiderato una posizione più positiva del Quartetto riguardo alle relazioni con il governo
palestinese che è stato nominato dopo elezioni libere e democratiche». Hamad si è anc he detto
«stupito della mancanza di serietà (del Quartetto, ndr) riguardo alla parte israeliana che continua
ad occupare e controllare la Cisgiordania, a mantenere i blocchi delle colonie e completare la
costruzione del muro di separazione razzista, che distrugge così ogni possibilità di accordo politico
giusto».
Palestina. 11 maggio. I ministri degli esteri di USA, UE, Russia e ONU, riuniti a New York,
hanno «espresso la volontà di avviare un meccanismo internazionale temporaneo, che sia limitato
negli obiettivi e nel tempo, che operi con trasparenza totale e con possibilità di controllo, e
garantisca qualsiasi tipo di aiuto al popolo palestinese». Per un periodo di tre mesi gli aiuti
verranno versati ad un’istituzione internazionale (probabilmente la Ba nca Mondiale del
“neoconservatore” USA Paul Wolfowitz) che a sua volta provvederà a distribuirli appoggiandosi
all’ufficio della presidenza palestinese, ossia ad Abu Mazen. Quest’ultimo farà molto poco ma agli
occhi dei palestinesi passerà come l’unico in grado di far arrivare le donazioni internazionali ai
Territori occupati.
Libano. 11 maggio. Contro l’austerità made in USA prescritta dal Fondo Monetario Internazionale
al governo Siniora. Almeno 250mila dimostranti (500mila per gli organizzatori) hanno partecipato
ieri a Beirut alla manifestazione indetta dai sindacati e dalle forze filo siriane contro il progetto di
riforme socio-economiche del governo del premier Fouad Siniora filo-USA e filo-Parigi. La
protesta era appoggiata dagli sciiti di Hezbollah e Amal, dalla corrente patriottica libera del leader
cristiano Michel Aoun (nella sua piattaforma: superamento del confessionalismo, difesa della
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sovranità libanese contro le ingerenze degli USA, rifiuto di usare il Libano per destabilizzare
Damasco), dal Partito comunista libanese, dal Partito social nazionalista siriano. L’inedita alleanza
«nazionale» tra gli Hezbollah sciiti e l’ex generale cristiano maronita ha evitato sino ad oggi il
ritorno dei fantasmi della guerra civile e sparigliato le carte degli USA che vorrebbero la cacciata
dal governo degli Hezbollah e di tutti coloro che si oppongono al «nuovo Medioriente» di George
Bush. Sostengono le misure economiche del premier Siniora –già braccio destro di Rafiq Hariri,
l’ex premier ucciso in un attentato il giorno di San Valentino dello scorso anno– la maggioranza dei
partiti al governo (il Future Movement, il partito di Saad Hariri, figlio di Rafiq, il leader druso
Walid Jumblatt, il capo delle Falangi libanesi, Geagea, uno dei massimi responsabili del massacro
di Sabra e Chatila). Sono movimenti schieratisi a favore dell’agenda di Washington e Parigi che
vogliono riprendere il controllo del paese dei cedri, disarmare la resistenza libanese e palestinese,
arrivare ad una pace separata con Israele, isolare e assediare la Siria.
Iran. 11 maggio. I cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Russia, USA, Cina,
Gran Bretagna e Francia), oltre alla Germania, torneranno a riunirsi il 19 maggio a Londra per
esaminare le prossime mosse: un pacchetto di incentivi per l’Iran, a condizione che riprenda i
negoziati sul programma nucleare, altrimenti linea dura. Secondo l’agenzia iraniana Fars, questa
linea prevederebbe sei punti: se approvati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mirerebbero a
paralizzare l’economia iraniana. Riguarderebbero l’isolamento finanziario ed economico di tutte le
strutture iraniane coinvolte nei progetti militari e il blocco di tutti i beni appartenenti ai dirigenti
politici e ai vertici dell’economia del paese islamico, oltre al congelamento totale dei conti intestati
al governo e alle istituzioni della Repubblica Islamica presso le banche straniere.
Iran / USA. 11 maggio. Come ampiamente previsto, George Bush ha respinto al mittente la lettera
del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «Non risponde alla principale domanda che il
mondo sta facendo all’Iran, vale a dire: quando vi libererete del vostro programma nucleare?», ha
affermato Bush ieri durante una tavola rotonda con diversi quotidiani della Florida. Immediata la
risposta di Ahmadinejad: la preoccupazione dei Paesi occidentali per la questione iraniana non è
altro che frutto di «ipocrisia e di una grande menzogna». «L’Iran è l’unico Paese membro
totalmente trasparente, e la nostra attività nucleare è pienamente pacifica». Il presidente iraniano
era in visita ufficiale in Indonesia, il più popoloso paese islamico del mondo che potrebbe rivelarsi
un importante alleato diplomatico di Teheran. Il presidente Susilo Bambang Yudhoyono infatti si è
detto favorevole alla prosecuzione del programma nucleare «pacifico» degli ayatollah e ha offerto
la sua mediazione per risolvere la crisi.
Kenya. 12 maggio. «I ministeri dell’Energia e dell’Agricoltura devono trovare rapidamente nuove
vie di collaborazione per sviluppare il potenziale offerto dai biocombustibili e dal biodiesel»: lo ha
detto Peter Kegode, uno specialista di industria dello zucchero e di etanolo in Kenya, aggiungendo
che questo potrebbe anche contribuire ad alleviare la povertà in cui versano i produttori di
granoturco e zucchero nel paese, oltre che a diversificare le fonti di energia del paese. Da entrambi
è possibile ricavare l’etanolo, un biocombustibile liquido, fonte trainante di bioenergia rinnovabile.
Grazie alla sua produzione di canna da zucchero e di granturco, così come di piante erbacee come il
sorgo, il Kenya avrebbe l’opportunità di diventare un grande esportatore di combustibili estratti da
risorse naturali rinnovabili. Anche perché la produzione di zucchero, per esempio, si scontra con la
chiusura dei mercati europei per questo prodotto: la scorsa settimana Bruxelles ha limitato le quote
del Kenya a 5.000 tonnellate l’anno, molto meno del potenziale locale.
Uganda / USA. 12 maggio. Abusi sessuali e maltrattamenti sono stati denunciati da contractors
ugandesi impegnati in Iraq nella base militare statunitense ad Alasad, una delle più grandi strutture
statunitensi, nel nord-ovest del paese arabo. Lo scrive oggi il quotidiano Monitor di Kampala,
citando alcune testimonianze. Almeno due ugandesi avrebbero riportato gravi conseguenze fisiche
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per i «brutali assalti» subiti da alcuni ufficiali dopo essersi lamentati per le condizioni del proprio
contratto; altri sarebbero stati ricoverati in un ospedale da campo all’interno della base. Secondo il
giornale, i circa 600 ugandesi assoldati dagli USA –molti dei quali impegnati per la prima volta
all’estero– avevano organizzato anche una manifestazione di protesta, rinviata grazie all’intervento
dei dirigenti della società di sicurezza di cui sono dipendenti. L’ambasciata statunitense a Kampala,
citata dal Monitor, afferma di non poter confermare né smentire e rinvia a comunicazioni del
Pentagono. Il giornale scrive che gli ugandesi –addetti alla sicurezza in basi USA, autostrade,
aeroporti, strutture petrolifere– guadagnano 900 dollari netti, rispetto ai 4.000 dei loro colleghi di
altre nazionalità. Una quindicina di ugandesi sarebbero stati fermati dalle autorità militari
all’interno della base USA con l’accusa di aver fomentato le proteste.
Nepal. 12 maggio. Sono complessivamente cinque gli ex ministri del precedente governo nominato
da re Gyanendra a essere stati arrestati oggi per ordine del ministero dell’Interno del nuovo
esecutivo, dominato dall’opposizione. Lo riferisce la stampa nepalese, precisando che i fermati
sarebbero l’ex ministro dell’Interno Kamal Thapa, quello degli esteri, Ramesh Nath Pandey, e i loro
ex colleghi Shrish Shumshere Rana (Informazione e comunicazione), Tanka Dhakal (Sviluppo
locale) e il vice- ministro della Salute Nikshya Shumsher Rana. Tutti sarebbero stati arrestati dalla
polizia di Kathmandu e sembrano destinati a rimanere in carcere per i 90 giorni previsti dalla legge
per gli accertamenti del caso e per non inquinare le eventuali prove. Oggi la Commissione
giudiziaria ha raccomandato al governo di sospendere dal loro incarico il capo della polizia, Shyam
Bhakta Thapa, e quelli delle forze armate, Sahabir Thapa, e dei servizi segreti, Devi Ram Sharma.
Cina / Sudan. 12 maggio. Sull’edizione odierna di la Repubblica, Lucio Caracciolo ci avverte che
il continente africano è già un terreno di scontro addirittura risolutivo nella lotta tra USA e Cina per
la supremazia globale. Caracciolo data l’avvio della penetrazione cinese in Africa al 1996. È l’anno
in cui «la Cnpc –gigante petrolifero cinese– inaugura la penetrazione in Sudan, che oggi esporta la
metà del suo greggio verso Pechino». Caracciolo considera il Sudan una quasi dipendenza
d’oltremare della Cina. «Dalle infrastrutture agli armamenti, le aziende cinesi hanno preso in mano
l’economia sudanese, fino ad influenzarne profondamente le scelte politiche. Nel Consiglio di
Sicurezza dell’ONU, Pechino ha usato il suo diritto di veto per proteggere il potere di al-Bashir»
sulla vicenda del Darfur. Insomma, il più grande paese africano è «un modello della geopolitica
Africana dell’Impero di mezzo. La priorità è economica: approvvigionarsi di petrolio, gas, minerali
preziosi, legnami. La modalità è il total package: soldi, tecnologia, armi e protezione politica, ma
anche peacekeepers, (ossia soldati e spie), medici e istruttori, in cambio dell’accesso privilegiato
alle ricchezze locali».
Cina / Africa. 12 maggio. Per Caracciolo, la Cina sta incrementando notevolmente la propria
influenza nel continente. Pechino assicura sostegno politico ai vari regimi e dittature, il suo ingresso
nella scena geopolitica non è al momento contrassegnata dall’arroganza tipica degli USA, e
soprattutto «è in vantaggio anche nella partita della corruzione delle elite –assolutamente
necessaria per qualsiasi intrapresa nel continente nero, e non solo– non fosse che per l’enorme
liquidità di cui oggi dispone, a differenza degli americani». Conclude Caracciolo: «L’invasione
cinese ha investito ogni quadrante africano. Segui le tracce del petrolio, del gas o del rame, tra
deserti, foreste o savane, e scoprirai invariabilmente un cinese all’opera. La direttrice principale
va dal Mar Rosso al Golfo di Guinea, dal Corno d’Africa alla Nigeria fino all’Angola e alle regioni
australi. Le due aree di maggior frizione con gli interessi economici e geopolitici americani sono il
Sudan ed il delta del Niger».
USA. 12 maggio. Decine di milioni di telefoni sotto controllo: è il risultato dell’inchiesta di Leslie
Cauley di USA Today, che rischia di compromettere la nomina, voluta da Bush, di Michael Hayden
a capo della CIA. Hayden è stato il capo della National Security Agency dal 1999 al 2005, e ha
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gestito il programma con cui, dopo l’11 settembre 2001, si sono ottenuti dalle principali compagnie
telefoniche degli States (Verizon, AT&T e BellSouth Corporation) i tabulati delle telefonate che
ogni giorno intercorrono nelle città ed in ogni Stato federale degli USA. Bush si è difeso
richiamando, senza entrare nel merito della questione, la «lotta al terrorismo». Perplessità anche
all’interno del Partito Repubblicano.
Venezuela. 12 maggio. «Il presidente degli Stati Uniti andrebbe processato davanti a un tribunale
internazionale per genocidio in Iraq. Non è possible accettare nelle relazioni internazionali la
teoria della Guerra preventiva, per cui se tu mi guardi male io ti bombardo e poi ho anche il diritto
di ricostruirti. Occorre reagire perché il nord America va fermato per tutti gli orrori che sono stati
commessi negli anni. Gli Stati Uniti rappresentano un pericolo per tutti. Chi ha armato bin Laden?
Chi può decidere chi deve possedere l’atomica? Perché l’Iran no e Israele sì? (...) Se aggrediscono
l’Iran non ci sarà più petrolio per nessuno, come ha detto Ahmadinejad». Sono alcuni dei passi
dell’intervista di Hugo Chavez rilasciata a la Repubblica, che ricordato che Chavez vende petrolio
sottocosto e a rate ai paesi del centroamerica e dei caraibi, e che con Argentina ed Uruguay ha
firmato contratti per fornire petrolio in cambio di oncology, mucche ed incubatrici.
Venezuela / Haiti. 12 maggio. È atteso per questa mattina a Haiti l’arrivo di un cargo venezuelano
con a bordo 100.000 tonnellate di diesel e gasolio che Caracas ha deciso di vendere a un prezzo di
favore all’isola caraibica in occasione del giuramento e dell’entrata in carica del nuovo presidente
della Repubblica René Préval. «La consegna del combustibile non è un regalo ma rappresenta una
forma di cooperazione a condizioni vantaggiose e favorevoli» per Haiti, ha precisato il vicepresidente venezuelano José Vicente Rangel, che domenica mattina dapprima assisterà all’inizio
dello scarico dei barili di combustibile, quindi guiderà la delegazione di Caracas in occasione del
giuramento di Préval. La capitale Port-au-Prince «ha solo due ore di luce elettrica al giorno e gli
ospedali non hanno risorse» ha spiegato Rangel per motivare la decisione di Caracas.
Corsica. 13 maggio. Ondata di attacchi dinamitardi in diversi centri dell’isola. Tra la notte di
giovedì e la mattinata di ieri una quindicina di attentati hanno colpito edifici pubblici e simboli della
Francia (dalle strutture del Tesoro al rettorato ad Aiacciu, all’impresa di elettricità di Stato EDF).
La scorsa settimana colpita, a Corti, una gendarmeria.
Palestina. 13 maggio. Primo incontro ufficiale di un ministro palestinese di Hamas con un
rappresentante di un governo occidentale, la Norvegia. Atef Edwane, che cura gli affari dei rifugiati
per il suo governo, ha avuto oggi a Oslo un colloquio con un alto funzionario del ministero degli
Esteri, e un incontro a Stoccolma con parlamentari svedesi. Il ministro è entrato in Europa
attraverso la Svezia con un visto Schengen. Dopo Svezia e Norvegia visiterà altri due paesi. Gli
USA hanno protestato. È la prima volta che un governo ‘occidentale’ rompe il boicottaggio
diplomatico contro il governo democraticamente eletto di Palestina. Il boicottaggio, promosso da
Israele, è sostenuto da Stati Uniti ed Unione Europea. La Norvegia –ha annunciato ieri il ministro
degli Esteri, Jonas Gahr Stoere– aumenterà del 50% gli aiuti economici ai programmi dell’ONU per
il popolo palestinese, portandoli quindi a 19,2 milioni di euro.
Euskal Herria. 14 maggio. ETA conferma «la sua volontà e impegno» per la pace ma sottolinea
che la «tregua permanente» potrebbe non essere «irreversibile». In un’intervista in euskara (lingua
basca) a Josu Juaristi, direttore del quotidiano indipendentista basco Gara, che l’ha poi pubblicata
in versione integrale in un supplemento speciale di 16 pagine in euskara e castigliano, due esponenti
incappucciati dell’organizzazione avvertono che «si sbagliano di grosso» coloro che pensano che
dietro la tregua ci sia «la debolezza» dell’ETA. ETA ritiene che «è arrivato il momento di
materializzare gli impegni nel processo democratico» e invita ad avviare questo processo. A suo
avviso la chiave di questo processo sta nel dibattito democratico che deve realizzarsi in Euskal
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Herria: «l’accordo dovrà essere una formulazione condivisa intorno alla territorialità e
all’autodeterminazione». ETA è convinta che si stia per passare da un quadro di imposizione ad un
altro democratico, ma –avverte– «se gli attacchi degli apparati degli Stati proseguiranno, sarà
impossibile continuare oltre in questo processo». In altri termini: nessuna pace se continuerà la
repressione cont ro gli indipendentisti. Tanto per cominciare.
Afghanistan. 14 maggio. Peace keeping NATO? Una finzione. L’allargamento della NATO nel
sud dell’Afghanistan porterà ad un coinvolgimento, a fianco degli USA, nella guerra ai talebani. Ne
è convinto il prof. Alessandro Colombo, esperto di NATO, docente all’Università di Milano e
autore di “La lunga alleanza. La Nato tra consolidamento, supremazia e crisi”, intervistato oggi da il
Manifesto. All’inizio di luglio le truppe della missione ISAF (autorizzata dalle Nazioni unite, ma a
guida NATO) passeranno da 9mila a 16mila. Tra luglio e agosto si arriverà a 32.500 unità, compresi
i soldati della NATO. Dal loro limitato campo operativo (finora Kabul e zone nord-occidentali e
nord-orientali), inizieranno a dispiegarsi nel sud dell’Afghanistan. Secondo Colombo, sarà «una
missione rischiosissima, che nello stesso tempo misurerà la vitalità dell’Alleanza per due motivi.
Anzitutto perché accerterà la capacità della NATO di confrontarsi con uno scenario extraeuropeo
del dopo Guerra fredda. In secondo luogo perché si tratterà di una missione estremamente
pericolosa, anche se continuerà a operare nella finzione di un’operazione di peace keeping. Questo
secondo elemento, se rappresenta un vantaggio dal momento che fornisce all’Isaf legittimazione
ufficiale, d’altro lato –quando inizieranno ad arrivare le prime vittime– svelerà l’ipocrisia di fondo
di un’operazione che è anche di guerra mascherata da missione di pace».
Afghanistan. 14 maggio. Tra i rischi principali, Colombo individua «il collasso di quella specie di
Stato messo in piedi dopo l’invasione americana del 2001 e quindi un ritorno a un’insurrezione
generalizzata in Afghanistan. Un altro rischio è dato dalla confusione con Enduring Freedom, la
missione statunitense a caccia di taleban e combattenti di Al Qaeda. Quest’ultima è ufficialmente
un’operazione militare separata dall’ISAF. Solo formalmente però, perché come possono essere
distinte due missioni militari che operano nella stessa area, contro lo stesso nemico?». E quando, a
regime, tra luglio e agosto la presenza militare straniera arriverà a 32.500 unità? Colombo è
perentorio: «In quel paese 30.000 soldati non sono sufficienti nemmeno a mantenere la stabilità. La
contraddizione tra l’obiettivo dichiarato e lo strumento militare per raggiungerlo è stridente. In
realtà l’Afghanistan è diventato una camera di compensazione delle tensioni sull’Iraq. Gli USA
hanno già fallito in Iraq e per loro un secondo disastro in Afghanistan equivarrebbe a perdere la
faccia. Se loro quindi iniziano un disimpegno graduale, gli altri paesi vengono a dare man forte.
Chi non partecipa alla cosiddetta “coalizione dei volenterosi” in Mesopotamia e chi si è ritirato o
si sta ritirando, rafforza la propria presenza militare a Kabul: è il caso dell’Italia, della Germania
e della Spagna, che così riaffermano la propria fedeltà alla NATO. In questo senso un ritiro delle
truppe italiane, anche da parte di un governo di centro-sinistra, non è ipotizzabile».
Israele. 14 maggio. La Corte suprema israeliana conferma la legge sulla cittadinanza razzista varata
dal governo Sharon e ufficializza l’apartheid : vietati i matrimoni tra cittadini israeliani e palestinesi
dei territori occupati. Una legge simile nel 1980 non l’aveva avallata nemmeno l’Alta Corte del
Sudafrica dell’apartheid, perché la ritenne troppo discriminatoria e razzista. L’avvocato Hassan
Jabarin, direttore dell’associazione Adalah di Nazareth, ieri non nascondeva la sua preoccupazione
per la decisione presa domenica dai giudici della Corte Suprema di confermare la validità della
legge che proibisce il ricongiungimento familiare per i palestinesi dei Territori occupati sposati con
arabi israeliani. «Siamo di fronte ad una deriva antidemocratica molto pericolosa e nessuno sa cosa
affronteremo in futuro», ha denunciato il direttore di Adalah che assieme all’Associazione
israeliana per i diritti umani aveva presentato appello contro l’emendamento del 2003, confermato
l’anno scorso, della “Legge sulla cittadinanza” fortemente criticato anche da Amnesty International
e dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale (Cerd).
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Israele. 14 maggio. La Corte Suprema ritiene i palestinesi di Cisgiordania e Gaza «stranieri di
un’entità nemica» e che costituiscano una minaccia alla sicurezza dello Stato. Eppure le statistiche
parlano chiaro: secondo il servizio di sicurezza interna israeliano, lo Shin Bet, appena 25 coniugi di
arabi israeliani sono stati implicati negli ultimi anni in «attività terroristiche» sugli oltre 100mila
palestinesi che si sono insediati in Israele. Non solo. Tanti ebrei arrivano in Israele da paesi nemici
dichiarati dello Stato ebraico e, nonostante ciò, ottengono subito la cittadinanza. Il punto perciò non
è lo «Stato nemico» o le questioni di sicurezza, ma il fatto che a richiedere la cittadinanza sono i
palestinesi. L’avvocato Orna Cohen, legale delle famiglie colpite dalla legge, ha immediatamente
centrato il punto. «Questo argomento serve da pretesto per limitare la popolazione araba di Israele
con una legge razzista, che ha conseguenze tragiche per migliaia di famiglie», ha commentato. «È
inconcepibile» –ha aggiunto il deputato Ran Cohen (Meretz, sinistra sionista)– «che giudici ebrei
abbiano accettato una legge che ha radici razziste».
Haiti. 14 maggio. Aristide torna con Preval? Alla cerimonia di insediamento del nuovo capo dello
Stato, René Preval, nell’aula dell’Assemblea Nazionale, non c’è stato alcun riferimento al deposto
presidente Aristide. Ma la sua figura è presente soprattutto nelle aspettative della popolazione, che
vede nell’assunzione al potere di Preval (antico alleato dell’ex capo dello Stato) il primo passo
verso il ritorno di Aristide. Preval aveva già guidato il paese dal 1996 al 2001.
Venezuela. 14 maggio. Chavez avverte: un’azione militare USA contro l’Iran potrebbe far passare
il prezzo del grezzo a 3 cifre. Questo riferisce l’agenzia Reuters, uno dei passaggi significativi del
disocrso del presidente venezuelano Hugo Chavez a un migliaio di membri dei sindacati operai
britannici. «In caso d’attacco americano, gli iraniani per reazione taglieranno la loro produzione
di petrolio e noi anche, se fossimo attaccati, faremmo la stessa cosa». Chavez, il cui paese è il
quinto esportatore di petrolio, dopo la sua partecipazione al vertice America-UE a Vienna, si è
recato in Gran Bretagna. Il presidente venezuelano ritiene poi che l’attuale situazione in Iraq è per
gli Stati Uniti il Vietnam del XXI° secolo ed ha sottolineato che se gli Stati Uniti attaccano l’Iran, la
situazione sarà peggiore che in Iraq.
Irlanda del Nord. 15 maggio. È stato arrestato ad Alicante Sean O’Feach dirigente della “Real
IRA”, formazione dissidente contro il processo di pace in Irlanda del nord. Lo indicano fonti citate
dalla versione elettronica del quotidiano El Mundo. O’Feach, secondo le fonti, sarebbe il capo della
Real Ira in Spagna. Nei giorni scorsi erano già stati arrestati altri due membri: Thomas Philip C. e
Aaron William J. Secondo la polizia O’Feach si dedicava al contrabbando di tabacco per finanzia re
l’attività del gruppo.
Irlanda del Nord. 15 maggio. Riparte in Irlanda del Nord il difficile processo per ricreare un
governo condiviso: il Parlamento si riunisce dopo quattro anni. Era l’ottobre 2002 quando la
“devoluzione” nordirlandese fu sospesa dopo le accuse di spionaggio nei confronti dell’IRA. Quelle
accuse risultarono false. Blair e Ahern puntano ad un governo comune tra repubblicani e unionisti
entro il 24 novembre, pena una gestione diretta dell’Ulster da parte di Londra e Dublino, come
prevedono gli accordi di pace. Ora il processo di pace riprende il cammino e la carica di primo
ministro potrebbe essere assunta da Ian Paisley, il sacerdote protestante ritenuto il simbolo dell’ala
più intransigente degli unionisti. Ad appoggiare la candidatura c’è anche Gerry Adams, esponente
del Sinn Fein: il DUP ha un numero di deputati maggiore, quindi Paisley sarebbe primo ministro e
Martin McGuinness (Sinn Féin) vice primo ministro. Per l’Irlanda del Nord, ha dichiarato Gerry
Adams, «è il momento di trovare davvero la via dell’unità nazionale». Il dialogo tra cattolici e
protestanti non si annuncia comunque facile, nonostante l’IRA abbia deposto le armi e rinunciato al
conflitto armato dalla scorsa estate. Paisley, infatti, vorrebbe rinegoziare il documento del 1998, ma
su questo punto il Sinn Féin non sembra disponibile.
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Irlanda del Nord. 15 maggio. Il DUP consulterà la base unionista sulla possibilità di condividere
con i repubblicani il potere, ha detto Peter Robinson, il secondo di Ian Paisley, che ha spiegato che
non avrebbe senso iniziare un processo finché esistono tanti dubbi nel partito. Robinson condiziona
questa consulta ad una relazione della Commissione di Verifica che confermi che l’IRA ha cessato
le sue attività. Per parte sua, il massimo esponente del partito, il reverendo Ian Paisley, ha detto che
il Sinn Féin deve rispettare il servizio di polizia nordirlandese se desidera formare un governo con
gli unionisti, ed ha aggiunto che il suo partito intende rinegoziare l’Accordo del Venerdì Santo
(1998). Il 24 novembre è la data limite posta da Londra e Dublino per l’elezione dell’esecutivo.
Irlanda del Nord. 15 maggio. Per i repubblicani, la nuova Assemblea è un «modello inferiore» a
quella precedente, con meno poteri e adattata alle esigenze del DUP, la cui intenzione è «diluire i
concetti» dell’Accordo del Venerdì Santo (1998). Gerry Adams ha detto che non è l’Assemblea
dell’Accordo, ma quella di Peter Hain (segretario di Stato britannico per l’Irlanda del Nord), che
non soddisfa le aspettative repubblicane né il dettato dell’accordo. Per questo i deputati del Sinn
Féin non prenderanno parte ai dibattiti sull’educazione, la sanità o l’introduzione di tariffe per l’uso
dell’acqua, giacché «non ha senso» nel contesto di un’Assemblea senza potere esecutivo. Il DUP
continua a fasi alterne ad accusare il Sinn Féin di Gerry Adams di essere implicato «in attività
paramilitari e delittuose», nonostante gli organi di controllo corrispondenti abbiano certificato
l’impegno dei repubblicani nel processo di pace. Analisti ritengono poco probabile che i 108
parlamentari che formano l’Assemblea raggiungano un patto di governabilità durante la prima tappa
del nuovo Parlamento di Stormont. Da oggi, i deputati dispongono di sei settimane per eleggere il
futuro esecutivo autonomo. Se non sarà raggiunto un accordo, Londra sospenderà l’Assemblea in
estate, quantunque i deputati abbiano poi, al rientro estivo, altre settimane per cercare di formare
l’esecutivo. Le condizioni per il ripristino parziale dell’Assemblea stabiliscono che le formazioni
possono dibattere certi aspetti di politica locale (educazione, sanità, consumo), ma non legiferare
finché non sia eletto un esecutivo autonomo. Data limite il 24 novembre. Dopo, Londra sospenderà
indefinitamente l’Assemblea, ritirerà gli stipendi ai deputati e procederà all’applicazione degli
accordi di pace in collaborazione con Dublino.
Gran Bretagna. 15 maggio. Depressione, ansietà e stress postraumatico sono aumentati «in
maniera esponenziale» tra i soldati britannici dall’invasione dell’Iraq di tre anni fa. Lo scrive il
quotidiano The Observer citando uno studio del ministero della Difesa. L’inchiesta afferma anche
che questo fenomeno supera gli effetti causati dalla precedente aggressione all’Iraq nel 1991.
Allora, migliaia di militari britannici lamentarono sintomi come affaticamento, febbre, nausee e
depressione (la cosiddetta sindrome della Guerra del Golfo). Un altro quotidano, stavolta lo
statunitense The Hartford Courant (Connecticut), ha denunciato nella sua edizione di ieri che il
Pentagono invia in Iraq e mantiene in combattimento nel paese occupato soldati con problemi
psicologici gravi. La proporzione di suicidi tra i soldati occupanti ha raggiunto cifre record in questi
anni.
Palestina. 15 maggio. I palestinesi commemorano oggi la Nakba (catastrofe), ovvero la perdita
della terra e l’esilio forzato di oltre 700mila persone in seguito alla proclamazione dello Stato di
Israele nel 1948. Raduni e manifestazioni nei Territori occupati. A Ramallah, al suono delle sirene,
la popolazione ha osservato alcuni minuti di raccoglimento. Subito dopo si sono avute cerimonie
solenni, una delle quali in Parlamento. Stesse scene a Gaza. In Galilea molti palestinesi si sono
recati in visita ai ruderi di villaggi arabi distrutti dopo il 1948.
Palestina. 15 maggio. «Esporteremo l’Intifada»: un duro monito agli Stati Uniti è stato lanciato
oggi dalle Brigate dei Martiri al-Aqsa (al-Fatah). Se l’assedio economico e politico ai palestinesi
non sarà subito revocato, avvertono le Brigate al-Aqsa, l’Intifada attraverserà i confini della
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Palestina e colpirà anche all’estero. Le Brigate al-Aqsa accusano gli USA di volere, assieme con
Israele, «affamare i palestinesi» e precisano: «Nessuno riuscirà a mettere in ginocchio il popolo
palestinese».
Iran. 15 maggio. «Sono sorpreso che un gruppo di persone si riunisca in nostra assenza per
prendere delle decisioni per noi». È quanto ha detto il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. I
Paesi occidentali, ha aggiunto, credono di essere «ancora in un’atmosfera coloniale». «Quello che
decidono in riunioni in cui noi non siamo presenti», ha affermato, «non ha alcun credito dal punto
di vista legale. Qualsiasi proposta che ci obblighi a fermare le nostre attività pacifiche non sarebbe
valida», ha specificato ieri Ahmadinejad riferendosi alla proposta di mediazione che potrebbe
essere formulata dai ministri degli Esteri dell’UE (Unione Europea). Francia, Germania e Gran
Bretagna stanno mettendo a punto un pacchetto di incentivi da offrire a Teheran per convincerla a
sospendere le attività di arricchimento dell’uranio, che l’Iran afferma avere scopi puramente civili.
Insieme agli incentivi, dovrebbero essere presentate una serie di penalizzazioni se Teheran non
accetterà la richiesta, come ha già fatto respingendo un invito del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Gli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza oltre a Francia e Gran Bretagna, cioè USA,
Cina e Russia, attendono di vedere quale sarà la reazione iraniana al nuovo pacchetto di proposte
prima di prendere in esame eventuali altre azioni. Ciò che avverrà in una riunione dei cinque
membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania in programma a Londra il 19
maggio.
USA. 15 maggio. Cresce il malcontento di più di 500mila veterani, che devono riadattarsi alla vita
civile, dopo aver combattuto nella guerra irachena. Il numero dei caduti si avvicina oramai a quota
2500. Il numero dei feriti a 18mila, e molti di questi sono rimasti handicappati, chi senza una
gamba, chi senza la vista. Bus h intanto fronteggia altri problemi, che peggiorano costantemente. Lo
scandalo delle mazzette sui contratti militari ha coinvolto vari deputati repubblicani, e ha costretto
alle dimissioni uno dei vicedirettori della CIA. Lo scandalo del Ciagate, cioè l’inchiesta sulla
possibilità che la Casa Bianca abbia reso noto il nome dell’agente segreto Valerie Plame per
punirne il marito che era stato critico della guerra in Iraq, sta sfiorando il vicepresidente Cheney, e
potrebbe portare questa settimana all’incriminazione di Karl Rove, consigliere privato di Bush.
Infine, ultimo arrivato ma quasi più grave degli altri, lo scandalo delle intercettazioni, destinato a
ingigantirsi questa settimana, quando si terranno le udienze per la conferma del generale Michael
Hayden alla guida della CIA. Hayden è già stato capo della NSA, l’agenzia accusata di aver
accumulato i tabulati di milioni di telefonate di privati cittadini. Nel corso delle udienze, si
presenterà anche Russell Tice, un ex impiegato della NSA, che a porte chiuse promette di
raccontare quanto più gravi ed estese siano state le iniziative di intercettazione e spionaggio interno.
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