Drama Queen

Transcript

Drama Queen
Drama Queen
1 / 39
Drama
Queen
Nazlanmak di Feynman
There are no strangers here; only friends you haven't yet
met.
– William Butler Yeats
2 / 39
Nazlanmak
Pretending reluctance or indifference when you are actually willing or
eager; saying no and meaning yes
Era stata una giornata perfetta.
Nella vecchia scuola non andava a scuola di sabato e aveva impiegato tutto il
mese di settembre per abituarsi a quella novità. Svegliarsi presto di sabato mattina
era stato un vero disagio, per lei abituata a dormire fino a tardi, raggomitolata
sotto le coperte e stretta al suo peluche.
Il sabato uscivano all’una.
Andrea, Matteo ed Emanuele erano abituati a fermarsi a fare un giro,
mangiavano un pezzo di pizza e poi passavano il pomeriggio a cazzeggiare a
Villa con gli skateboard e il gruppo di Letizia Comassi. Il suo compagno di banco
nonostante le avesse raccontato quasi tutto sulle dinamiche della 5°D, era stato
alquanto riservato sul discorso “Letizia”; le aveva solo detto che avevano avuto dei
contrasti, l’anno precedente
«Sicura di non voler venire con noi, allora?» le aveva chiesto ancora, tenendole
la mano alla base della schiena, costringendola a una vicinanza fisica che non
riusciva ancora a gestire bene. .
Elsa aveva scosso la testa e lo aveva salutato sugli scalini.
Con le cuffie ancora attaccate al collo, mise in riproduzione casuale la playlist
sull’iPod, alzò gli occhi per evitare di sbattere contro le colonne in muratura del
cancello e lo vide.
3 / 39
Era in piedi, appoggiato annoiatamente contro il cofano di una macchina di
qualche professore e stava distrattamente fumando una sigaretta. Elsa ci pensò un
attimo di troppo e fu quell’esitazione che glielo infilò in culo: alzò la testa, si staccò
dal cofano e le andò incontro trascinando i piedi. In faccia il solito sorriso sghembo,
le mani infilate nelle tasche dei jeans, la stessa frangia davanti agli occhi che non
voleva mai tagliare.
«Ehi, Gin. È così che si salutano gli amici?»
Elsa si era costretta a non abbassare gli occhi, a non spostarsi di mezzo
millimetro dalla sua posizione. La mano sinistra congestionata attorno all’iPod e la
destra stretta a pugno, contro la coscia.
«Non mi aspettavo questa reazione, devo ammetterlo» le disse sorridendole
leggermente e allargando le braccia, aspettandosi che la ragazza gli si buttasse
addosso e infilasse il naso nel suo petto, bevesse l’odore del suo penetrante
profumo da uomo e gli chiedesse scusa, amandolo come aveva fatto per quattro
anni interi della sua vita senza ricevere assolutamente nulla in cambio.
«Cosa ti aspettavi, Edoardo?».
Alla fine riuscì a parlare, ad aprire la bocca e a non nascondere sotto il tappeto
tutta la violenza inespressa che sentiva dentro il cuore, nell’intervallo interminabile
fra un battito furente e l’altro. «Ti aspettavi, forse, una folle corsa verso di te?».
Non le interessava se si trovavano fuori scuola.
Non le interessava di star quasi urlando, del sangue che le correva violento
nelle vene e che probabilmente stava rischiando un altro attacco di cuore come
quello di aprile.
Non le interessava di morire, stavolta, con il cuore spaccato dalla stessa
persona che aveva causato quella prima ferita.
«Ad essere sincero sì, Gin» le rispose.
Aveva chiuso le braccia e infilato le mani nelle tasche, ma quel cazzo di sorriso
obliquo non glielo avrebbe mai cancellato nessuno. «Che c’è, ti sono bastati pochi
mesi per rimangiarti tutte le promesse? Non faresti più niente per me, Gin?».
Elsa l’aveva visto nei suoi momenti peggiori.
Edoardo Tofan, suo compagno di banco per quattro anni e puttaniere dal primo
giorno di scuola. Edoardo le aveva avute tutte; non si faceva scrupoli a uscire con
tre ragazze assieme, di usarle e buttarle via per i suoi comodi. Elsa però lo sapeva
4 / 39
quanta merda si nascondeva sotto quella faccia di bronzo, sotto quei muscoli
scolpiti da mesi di palestra e diete ferree. Edoardo Tofan era un narcisista
megalomane del cazzo. Uno con così tante paranoie sul suo fisico, da poter aprire
un centro di recupero solo per sé stesso. Edoardo Tofan era marcio dentro, aveva i
vermi nel cuore e la muffa nel cervello. Edoardo Tofan era stato il cancro di Elsa –
terminale, fino a pochi mesi prima.
Elsa strinse i pugni e gli si gettò contro, costringendolo a impattare addosso al
cofano della macchina dietro di lui. Gli occhi scuri del ragazzo lampeggiarono di
violenza, ma Elsa sapeva che lì sotto c’era solo la consistenza oleosa della paura:
Edoardo era un debole.
«Ti devi dimenticare il mio nome, stronzo» gli soffiò a mezzo centimetro dal
viso. Lui le mise le mani sulle spalle e l’allontanò, tolse della polvere inesistente dal
suo maglioncino da figlio di papà e tornò a guardarla.
«Hai idea della fatica che ho fatto per rintracciarti, Gin?»
«Vattene, Edoardo. Non voglio più vederti. Qui, sotto casa mia, in ogni luogo
che frequento e frequenterò. Non voglio più vederti»
Edoardo sbuffò e scostò la frangia nera dagli occhi.
«Pensi che basti un cazzo di messaggio per sparire? Nessuna spiegazione,
nessun modo per rintracciarti… hai cambiato perfino il numero di telefono, Gin» le
disse con voce carezzevole.
Elsa lo sapeva, lo avvertiva che sotto quella patina di affetto, sotto quel tono di
padre che parlava con la sua bambina di tre anni, c’era talmente tanta rabbia,
frustrazione per aver perso l’unica persona che lo avrebbe mai amato con
disinteresse, in qualsiasi caso.
Edoardo doveva pentirsi del tutto il male che le aveva fatto, di tutta la merda
che le aveva gettato addosso impunemente e per averle messo contro mezza
classe. Era arrivato il momento che anche lui soffrisse davvero ed Elsa aveva
riconosciuto in se stessa l’unica arma che avrebbe potuto utilizzare contro di lui.
Edoardo era debole, insulso, inetto, incapace, nonostante tutte le belle parole con
cui i professori erano soliti gonfiarlo. Edoardo era la nuova promessa della
letteratura italiana solo perché era in grado di mettere assieme più di due parole e
lei, per far emergere lui, si era nascosta, imbruttita, banalizzata, perché era lui che
doveva brillare e non lei.
Elsa aveva altri progetti per la sua vita, ma anche quelli erano stati distrutti.
5 / 39
«Non voglio più sentirti, Edoardo» gli disse e lo sorpassò, uscendo fuori dal
cancello e iniziando a camminare sul marciapiede. Il ragazzo la seguì e la bloccò
prendendole il braccio. La obbligò a voltarsi. La obbligò ad avvicinarsi al suo viso, a
sentirne il fiato caldo sul naso, sulle labbra.
«Tu non sei in grado di vivere senza di me, Elsa» le sussurrò a un niente dalla
sua bocca. Elsa sentiva l’odore forte di tabacco nel fiato di Edoardo. Sentiva la
presa salda sul suo braccio. Sentiva tornare il panico di un’intera esistenza da
vivere, senza lui al suo fianco.
No, non è panico.
Riconosci i tuoi sentimenti, Elsa. Focalizzali.
Non è panico.
È onnipotenza.
Si sentì libera e rise.
Rise forte e ogni spasmo dello stomaco, ogni stilettata agli addominali era un
ago di dolore e sofferenza che cadeva e la lasciava sempre più libera, felice,
leggera.
«Ti sbagli, Edoardo» gli rispose con ancora le labbra perfettamente stirate, in
un sorriso che raggiungeva gli occhi, l’anima intera. «Sei tu che non puoi vivere
senza me.»
Era arrivato alla fine quell’inevitabile contatto di labbra.
Quella vendetta che Edoardo tanto bramava.
Non avrebbe mai accettato di andarsene senza prima averle rubato la cosa che
custodiva con più cura di tutte: il suo primo bacio.
Aveva il carattere di lui: riottoso, violento, presuntuoso ed Elsa non lo sopportò.
Si staccò immediatamente. Edoardo aveva ancora gli occhi chiusi e un leggero
ghigno di vittoria stampato in viso, cancellato dal montante che la ragazza gli
riservò una frazione di secondo dopo.
6 / 39
Sentì la pelle delicata delle nocche spaccarsi ma mai dolore fu più piacevole in
vita sua. Il primo montante, sferrato con la mano sinistra, fece perdere l’equilibrio
a Edoardo. L’espressione stupita e dolorante.
La violenza che scatenò il secondo colpo sferrato con la destra, stavolta sullo
zigomo e la caduta rovinosa a terra del ragazzo che impattò contro il cemento del
marciapiede. Edoardo si teneva la mano sullo zigomo spaccato e piccole lacrime gli
si stavano formando ai lati degli occhi.
Elsa focalizzò la presenza di un piccolo gruppetto di fronte a lei, con Andrea in
prima fila, ma li ignorò tutti quanti perché i suoi occhi erano solo per l’invertebrato
che aveva finalmente ai suoi piedi.
«Sparisci, pezzo di merda.»
♠
Era il suo momento preferito di tutto l’anno, l’autunno.
La città si scrollava dalle spalle la pesante cappa di umidità estiva e vestiva
vento freddo da abbinare a una brillante giornata di sole. Il sabato era
completamente dedicato al suo passatempo preferito. Spegneva il telefono,
arrotolava le cuffiette e le riponeva nella tasca dei jeans, estraeva il pesante
blocco da disegno comprato a poco da Tiger e impugnava il suo bel carboncino
nero per ritrarre e imprimere tutte le persone che l’avrebbero colpita.
Era così che raccoglieva le idee per le sue storie: osservando le persone e
filtrando il mondo attraverso i loro occhi.
Tante cose si sarebbero potute dire di Lucrezia Centuria, ma nessuno l’avrebbe
definita con l’aggettivo “attenta”; era, invece, una di quelle persone perennemente
distratte, con la mente oltre le nuvole e con la velocità di crociera inserita. Viveva
in una realtà completamente sua la maggior parte del tempo, con un’espressione
sognante e persa dipinta sul viso, gli occhi assenti e focalizzati sui mondi nascosti
nel pulviscolo e sui loro incredibili misteri.
7 / 39
Lucrezia era stata cresciuta da sua madre a pane e mitologia.
Le sue storie della buonanotte furono le imprese di Achille, l’astuzia di Ulisse, le
passioni forti di Zeus e tutta quella magia con cui la madre accompagnava ogni
suo pasto fin dalla più tenera età. Lucrezia era un’abitudinaria del sogno, ma
un’ospite speciale e inatteso del sonno.
Il suo cervello perennemente attivo non la lasciava in pace un secondo; le
suggeriva sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di entusiasmante e nessuno era in
grado di starle dietro.
Un passo avanti a tutti.
Solitaria nella via.
Era concentrata a tracciare i dettagli del collo rugoso di una signora seduta
sulla panchina di fronte che gettava delle briciole di pane a un piccolo stormo di
piccioni, quando una macchia rossa le passò davanti agli occhi e la costrinse ad
alzare lo sguardo.
Una ragazza con una cascata di capelli ricci e blu che fendevano l’aria. Il suo
passo non era incerto, ma si notava che quell’andatura lenta non si adattava alle
mani strette a pugno, la schiena dritta e il passo pesante che sentiva echeggiare,
nonostante il ronzio del traffico pomeridiano. Lucrezia cercò subito il lampo di
rosso che aveva attirato la sua attenzione e lo trovò in corrispondenza delle nocche
della mano destra. La pelle della ragazza era arrossata e sanguinolenta, come se
solo pochi secondi prima avesse sferrato un potente attacco contro un nemico
immaginario. La mente di Lucrezia sostituì subito i jeans con gambali, la felpa che
la copriva divenne una lucente armatura nera che assorbiva i raggi solari sul
campo di battaglia. La sua figura divenne più tozza, i bicipiti si gonfiarono e la
mano ferita stava tenendo con forza e decisione un’ascia bipenne affilata e sporca
di sangue colante.
La Guerriera prese posto sulla panchina accanto alla sua, tirò fuori dalla borsa
una busta di plastica di una farmacia. Aveva comprato delle bende sterili, un
flacone di disinfettante e dell’ovatta bianca che subito trasformarono la Guerriera
in una street fighter in canotta bianca, coperta di tagli sul viso e lividi in
corrispondenza delle braccia. Lucrezia notò immediatamente che entrambe le
mani erano state offese e che ogni singolo movimento le disegnava una smorfia di
fastidio e dolore sul viso.
8 / 39
Le sue mani, da sole, cambiarono foglio e senza toglierle gli occhi di dosso ne
disegnò in fretta i tratti decisi del volto, il naso dalla punta leggermente all’insù, i
denti che stavano aprendo il tappo del disinfettante mentre teneva in equilibrio
sulle gambe accavallate un paio di batuffoli d’ovatta.
Lucrezia poté giurare di sentire la pelle ferita sfrigolare e arricciarsi,
accompagnata dal risucchio del fiato che produsse l’altra. Immediatamente, la
ragazza andò a coprire la mano destra con il lembo di garza che arrotolò quasi tre
volte attorno alla mano e la stoffa di tinse all'istante di rosso cupo. Aveva gli occhi
arrossati, segno che un momento prima di sedersi a quella panchina doveva aver
pianto. Lucrezia pensò che quelle ferite sulle mani non se le era procurate per
piacere, forse non era rimasta nemmeno soddisfatta di aver picchiato qualcuno o
di aver colpito una parete, per rabbia. Si pentì immediatamente di non aver portato
con sé i pastelli, ma solo quella matita a carboncino: il ritratto frettoloso non le
dava giustizia e quei punti di colore che subito l’avevano attratta non erano stati
impressi sul foglio.
Mugugnò insoddisfatta e più rumorosamente di quanto immaginasse. La
ragazza della panchina accanto alzò la testa e la guardò. Aveva ancora in mano la
garza avanzata e stava riponendo il disinfettante con l’ovatta. Non le sorrise, la
guardò e basta, ma Lucrezia sentì un moto irrefrenabile alla bocca dello stomaco,
una spinta verso quella panchina come se la ragazza la stesse attirando verso di
lei.
Sta gridando.
«Il primo comandamento del Fight Club è non parlarne, giusto?» le disse, ma si
pentì subito. Non c’era un altro modo, magari senza fare riferimento alla pelle
spaccata delle mani, per iniziare una conversazione con una perfetta sconosciuta?
Lucrezia era sempre stata brava a fingersi spiritosa quando l’occasione lo
richiedeva, ma per qualche strano motivo le sembrò di poter dire qualsiasi cosa
alla Ragazza in Blu.
A sorpresa, la ragazza le sorrise e finì di sistemare le sue cose. Lucrezia pensò
che non le avrebbe mai risposto – o meglio, lei non lo avrebbe mai fatto – ma la
sentì dire qualcosa, molto sommessamente e provò il desiderio di sapere cosa
avesse detto.
«Cosa?»
«Ho detto che non è stato altrettanto interessante, come incontro» e le sorrise.
I suoi occhi rimasero tristi, ma le guance si gonfiarono leggermente facendole
9 / 39
rimpicciolire gli occhi, dietro gli occhiali. L’immagine della Ragazza in Blu assunse
tratti più felini, come quelli di uno di quei gatti grassi – non che la Ragazza in Blu
fosse grassa ma… le sembrò infinitamente più morbida, dopo aver sorriso.
«Evidentemente lo meritava» le rispose Lucrezia, incassando leggermente la
testa all’interno delle spalle. Aveva sempre quel moto di difesa, quando stava
parlando con qualcuno, come se si dovesse perennemente scusare delle parole
che pronunciava.
L’altra le fece spallucce e si voltò a guardare la piccola piazza circondata dal
parco. Durante l’ora del pranzo, dopo l’uscita delle scuole, non c’era molta gente.
La città era quasi deserta a quell’ora, perché tutti erano tornati a casa, chi stava
lavorando riempiva i locali per consumare la pausa pranzo in un luogo che non
fosse l’ufficio.
Lucrezia poggiò l’album da disegno accanto a sé sulla panchina e si mise anche
lei ad osservare la piazza, provando a indovinare cosa l’altra stesse pensando,
immaginare cosa potesse essere accaduto alle sue mani e perché fosse arrivata a
farsi del male.
«Non sono molto brava con i ritratti, sai?»
Il flusso di pensieri di Lucrezia subì una violenta frenata.
Scosse la testa, sbatté più volte le palpebre e infine si voltò verso l’altra. Stava
ancora guardando la piazza ma sorrideva leggermente, come se avesse detto una
cosa divertente o avesse fatto riferimento a qualche bel ricordo. Da quella
angolazione non riusciva a vederne gli occhi, ma Lucrezia sperò immediatamente
che non fossero tristi e che quel sorriso non nascondesse una punta d’amarezza o
di rimpianto.
«Anche tu disegni?» chiese e si convinse che glielo aveva chiesto per
continuare a sentire la sua voce graffiante e dolce assieme, come l’ossimoro in una
poesia che sembrava dissonante, ma che nella posizione perfetta sembrava
insostituibile.
La ragazza annuì e si voltò dall’altra parte, estrasse un album da disegno quasi
identico al suo, se non fosse stato per la copertina nera completamente ricoperta
da disegni con del pennarello indelebile bianco e glielo porse, invitandola a
prenderlo e a dargli un’occhiata.
«Davvero posso?»
«Se la vista non mi inganna, quella è la borsa che danno agli studenti
dell’artistico qui dietro, quindi il tuo parere sarebbe il più tecnico che potrò
10 / 39
ricevere, al momento» le sorrise di nuovo e inclinò la testa a destra. Un paio di
ciocche blu le coprirono il viso ma lei si affrettò a riportale indietro. «Posso vedere
il ritratto che mi hai fatto?».
Lucrezia balbettò una risposta affermativa e le passò il suo album da disegno
ancora aperto, dove faceva bella mostra il ritratto a carboncino della ragazza. La
vide analizzarlo per bene ed evitando di toccare direttamente il tratto, ne percorse
idealmente le linee e a Lucrezia parve di assistere alla cosa più intima che avesse
mai visto: era assorta come se si stesse scoprendo per la prima volta, come se in
casa sua non ci fossero specchi e si vedesse. Lucrezia sentì il desiderio
irrefrenabile di poterla vedere sempre, la Ragazza in Blu, per poter disegnare e
imprimere su carta ogni minima espressione che solcava il suo volto, ogni piega
della bocca, ogni sorriso, ogni ruga di pensiero fra le sopracciglia.
Scosse la testa e distolse lo sguardo.
Aprì l’album e ne sfogliò le pagine, trovando solo disegni di paesaggi, belvederi
della città, luoghi completamente inventati. Alcuni sembravano bozzetti o
scenografie per film di fantascienza, altri erano di un qualche paesaggio
immaginario nel Far-west, altri ancora tipicamente giapponesi ed evidentemente
ripresi da manga scolastici. Il suo tratto non era perfetto e la sua tecnica era
sommariamente corretta, ma quello che la colpì di più fu l’impressione di far parte
della scena, come se ogni volta che girasse pagina si trovasse catapultata in un
ambiente diverso dal precedente. I disegni, alcuni colorati altri lasciati in bianco e
nero, sembravano inglobare l’osservatore e invitarlo ad entrare e iniziare a scrivere
la propria storia, come se fossero decine di mondi diversi in connessione fra loro
attraverso dei portali…
Ho avuto un’idea
Si voltò verso l’altra ma quando aprì la bocca per iniziare a parlare di cosa le
aveva fatto venire in mente, venne anticipata dal suono prepotente del cellulare di
lei – cornamuse? – e la vide rispondere dopo averlo lasciato squillare per una
ventina di secondi buoni. Aveva stretto le labbra che si erano trasformate in una
ferita rossa e perfettamente rettilinea sul suo viso. Gli occhi si incupirono quasi
immediatamente e quando rispose non aveva assolutamente nulla della ragazza
che era stata prima.
«Non ho voglia di parlarne. No. Andrea, non sono affari – è ovvio che non ti dirò
dove sono! Senti, lasciami in pace.»
11 / 39
Pigiò forte sullo schermo del telefono e la sua mano si strinse con forza, quasi
come avesse il desiderio di spaccarlo e di rendersi irraggiungibile. Lucrezia pensò
immediatamente che l’unica cosa che sembrava volere era una piccola dose di
serenità.
La ragazza infilò il telefono nello zaino, ammirò per un ultimo istante il ritratto
che le aveva fatto e si voltò verso di lei, restituendole l’album chiuso.
«Un disegno davvero bellissimo, complimenti» le sorrise. «Mi spiace solo che il
soggetto non sia dei migliori.»
Lucrezia fu sul punto di obiettare, ma vide che la ragazza si era già messa una
bretella dello zaino sulla spalla e continuava a guardarla.
«Oh, il tuo album, certo.»
«Non sono un genio del disegno, come hai potuto notare.»
Lucrezia scosse con forza la testa.
«La tua tecnica è incredibilmente buona e… l’atmosfera che riesci a creare è
fantastica, davvero.»
La Ragazza in Blu le sorrise e si riprese l’album che Lucrezia le stava passando
e se lo strinse gelosamente al petto. «Magari, ci incontreremo di nuovo.»
Lucrezia le sorrise.
«Magari… sì»
La vide allontanarsi, la Ragazza in Blu e sparire dietro la fila di alberi del parco.
Lucrezia sospirò e si ritrovò ad accarezzare distrattamente la copertina del suo
album e improvvisamente, una volta abbassato lo sguardo, si rese conto di
qualcosa che spuntava da una delle pagine. Rimase interdetta perché non era
solita infilare fogli esterni lì dentro, per paura di rovinare i disegni. Aprì l’album alla
pagina segnata e notò che era quella del ritratto della Ragazza in Blu, ma il foglio
era un normale A4 ripiegato e bianco, senza nulla scritto sopra. Lo prese in mano e
lo girò un paio di volte, ma quando abbassò lo sguardo per rimetterlo a posto, vide
che al lato destro in basso, sotto la sua firma, era stato scritto qualcosa a matita.
Elsa
12 / 39
334 *******
Chiamami, quando vuoi parlare delle cose che ti sono venute in mente.
♠
Aveva impiegato quasi venti minuti per convincere la sorella di Elsa, Sonia
Tranelli, a dirle dove abitassero.
«Sono un compagno di classe di Elsa» le aveva detto, «dammi il tuo indirizzo di
casa.»
Sonia aveva distolto lo sguardo e si era morsa il labbro inferiore. Glielo leggeva
in faccia che non voleva dirgli dove abitavano. L’aveva vista anche lei la scena di
Elsa e di quel ragazzo, fuori dal cancello, che si era beccato prima un montante e
poi un paio di ganci ben assestati che lo avevano fatto cadere a terra, con uno
zigomo spaccato e il naso sanguinante. Elsa Tranelli si era trasformata sotto gli
occhi di tutto il liceo scientifico Tesla; professori, studenti, bidelli e passanti
l’avevano vista picchiare quel ragazzo alto dai capelli neri. Andrea le era stato
dietro per quasi tutta la scena, quando lo aveva visto avvicinarsi ed Elsa aveva
incassato le spalle, spinto via e urlato contro di andarsene, che non voleva
vederlo.
Poi lui l’aveva baciata e l’aveva vista trasformarsi.
Gli occhi scuri due pozzi di violenza, le mani strette a pugno e pronte ad
esaudire ogni suo comando.
Andrea le era corso dietro, ma lei era salita di fretta sul primo autobus che era
passato alla fermata davanti la scuola. L’aveva chiamata per raggiungerla,
ovunque fosse, e lei gli aveva chiuso il telefono in faccia. Aveva detto a Matteo ed
Emanuele che non voleva più uscire, che doveva trovarla e loro non avevano
capito.
Loro pensavano fosse innamorato di lei.
Voglio solo aiutarla, si era detto la prima volta che l’aveva vista. Erano sempre
13 / 39
stati in numero dispari in classe e lui non aveva mai avuto un compagno di banco
fisso. Quell’anno, il primo giorno di scuola, il caso volle che si trovasse da solo, in
terza fila.
Lei si era presentata con voce ferma, aveva detto il suo nome e la Airone le
aveva detto di prendere posto vicino a lui. La Airone, la loro professoressa di latino,
lo aveva fatto con tutti i nuovi arrivati: costringerli a presentarsi all’intera classe, in
piedi, davanti la lavagna e poi indicava loro un posto libero con il braccio teso e
l’indice puntato.
Si era seduta e non l’aveva guardato.
Se ne stava chiusa nel suo mondo, con gli occhi fissi sulla lavagna fra le spalle
di Matteo ed Emanuele. I capelli blu e ricci, gli occhiali spessi e dalla montatura
nera, una maglia a maniche corte con un disegno di Totoro e un paio di jeans.
Sembrava normale, una ragazza anonima, non come le altre della sua classe;
diversa diametralmente da Letizia, Lisa, Caterina. Diversa da tutte e con una
tristezza inespressa negli occhi ancora fissi e persi nel vuoto.
Avevano iniziato a parlare solo in seconda ora.
O meglio, lui aveva iniziato a parlarle perché Elsa non aveva spiccicato parola,
ma aveva accettato di rispondere al suo saluto e da quel giorno, era quasi un mese
che Andrea non aveva mai cambiato posto, se non per cedere alla ragazza il lato
della finestra.
Alla fine Sonia aveva accettato ma non gli aveva garantito la presenza della
sorella a casa.
«Quando succedono queste cose» gli aveva detto «Elsa tende a tornare di sera
tardi».
Così era andato a quell’indirizzo, aveva suonato al citofono del condominio e
non aveva ricevuto una risposta. Aveva deciso di rimanere lì sotto, seduto sullo
scalino del portone d’ingresso. Le persone gli passavano accanto ed entravano,
qualcuno gli chiedeva se dovesse salire e lui scuoteva la testa e basta,
continuando a controllare l’ora, preda dello scorrere del tempo.
Si erano fatte le quattro del pomeriggio e provò a chiamarla di nuovo. Dopo un
paio di squilli a vuoto, Elsa gli rispose e la voce gli arrivò a due intervalli diversi.
«Dove sei? Ti sento male.»
14 / 39
Poi sentì qualcuno picchiettargli in testa a intervalli regolari, tre volte. Andrea
sollevò la testa e incontrò gli occhi scuri di Elsa, la bocca leggermente stirata in un
sorriso e il cellulare accanto all’orecchio. Andrea chiuse la chiamata e si alzò dallo
scalino, Elsa si scostò per evitare lo scontro e lui si fermò dall’abbracciarla, anche
se sentiva il bisogno di ascoltarla respirare piano. Non era riuscito a spiegarsi
perché fosse diventato così dipendente da quella ragazza, ma aveva bisogno di
sapere che stesse bene anche se Elsa non sembrava apprezzare le sue attenzioni.
Si era bendata le mani.
Notò la busta di plastica di una farmacia e sorrise al pensiero che Elsa fosse
andata a comprare del disinfettante con le nocche insanguinate. Chissà cosa
doveva aver pensato chi l’aveva servita.
«Perché ridi?» gli chiese e Andrea le sorrise, in risposta. Elsa si rabbuiò e si
appoggiò al cofano della macchina parcheggiata lì davanti.
«Come hai fatto a sapere dove abito?»
«Me l’ha detto tua sorella» le rispose e tirò fuori dalla tasca dei jeans l’angolo di
un quaderno. Sonia l’aveva scritto di fretta, con la prima matita che le aveva
passato una sua compagna di classe. Glielo aveva consegnato e gli aveva chiesto
di non esagerare con Elsa, che aveva passato un brutto momento.
«Mi ha detto di andarci piano, con te.»
Elsa ridacchiò leggermente e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Vogliamo farci due passi?»
Andrea annuì e la seguì mentre faceva il giro del palazzo e finiva nel piccolo
parco del quartiere: due altalene e uno scivolo, giusto per far star zitte le madri
che si lamentavano dell’assenza di spazi verdi. Tra i cespugli si intravedeva il brillio
di qualche ago di siringa, preservativi usati e buttati alle basi delle siepi di
recinzione. Elsa tirò fuori dallo zaino un pacchetto di Marlboro rosse e Andrea
risucchiò tutto lo stupore che premeva per venir fuori. Aprì il pacchetto e notò che
era già quasi a metà, glielo offrì aperto ma lui scosse la testa, rifiutando.
«Chi era quel tizio?»
Elsa espirò il fumo e lo guardò disperdersi nell’aria, mischiarsi con l’aria.
Molecole che si legavano fra loro, colpevoli di migliaia di civiltà scomparse, erose
dai legami chimici.
«Un mio vecchio compagno di scuola. Edoardo. Eravamo amici, poi abbiamo
litigato e lui non ha accettato il fatto che abbia cambiato scuola.»
15 / 39
«Hai cambiato scuola perché hai litigato con lui?»
Ridacchiò e il fumo le rimase incastrato fra i denti, come fosse un drago ormai
calmo, senza più voglia di sputare fuoco e gridare di violenza.
«Ovviamente no. Ho cambiato scuola perché i problemi che ho ignorato per
quattro anni erano comparsi tutti assieme, gli ultimi mesi dello scorso anno»
«E così…»
«Così è intervenuta mia madre. Ho passato tutto il mese di maggio a casa,
sotto le coperte, con il terrore di uscire di casa e incontrarli. Non volevo più andare
a scuola. Lei mi ha fatto rialzare in piedi, con la promessa che avrei frequentato
l’ultimo anno da un’altra parte.»
Elsa sputò fuori l’ultima boccata di fumo e spense la cicca sotto la pianta della
scarpa. Il sole stava tramontando dietro i tetti dei condomini. Andrea non c’era mai
stato in quella zona della città: era un quartiere proletario, condomini-alveare dove
la gente tornava a dormire e basta, per poi il giorno dopo tornare a lavorare. I muri
pieni di graffiti, il parco vandalizzato, le bottiglie di birra vuote ai lati dei
marciapiedi e Andrea pensò che nessun altro luogo sarebbe stato perfetto per Elsa,
così distrutta eppure tanto combattiva, ancora. L’odore del fumo incastrato fra i
capelli e le mani fasciate, Andrea si rese conto che forse non aveva nemmeno
bisogno di lui, ma che erano sempre stati di altri ad avere bisogno di lei.
Elsa si alzò dalla panchina e lo guardò dall’alto in basso.
«Vorrei non dicessi queste cose a nessuno. Lunedì si saranno già dimenticati di
tutto.»
«Letizia ha…»
«So cosa ha fatto Letizia, ma non verrà a chiedermi niente, se non vuole
ritrovarsi come Edoardo» gli confidò e gli fece segno di alzarsi. Andrea le ubbidì e
si alzò, la seguì per la stessa strada che avevano fatto fin davanti il portone in ferro
e con il vetro smerigliato e opaco.
«Tu potresti consigliarla in proposito, visto che sembrate tanto affiatati.»
Lui abbassò la testa e si morse il labbro inferiore.
«Abbiamo… i nostri trascorsi, ma-»
Elsa lo interruppe e gli mise una mano sul braccio. Andrea alzò la testa e la
16 / 39
guardò: quella era la prima volta che Elsa lo toccava di sua spontanea volontà.
«Io ero pronta a farti un riassunto, per non annoiarti, del perché quel coglione
oggi le ha prese. Tu non sei obbligato a parlarmi di te e Letizia – non mi devi un
favore, Andrea.»
Il ragazzo annuì.
Elsa tirò fuori le chiavi di casa e inserì la più grande nella serratura, girò un paio
di volte e aprì il portone.
«Ci vediamo lunedì, de Grassi.»
«A lunedì, Elsa.»
17 / 39
Koy no yokan di Feynman
Koi no yokan
The sense one has upon meeting another person that they will fall in love
Venti minuti di fronte allo specchio del suo bagno, con lo spazzolino in mano e
un rivolo di acqua e dentifricio sciolto che le correva lungo un lato della bocca. Si
era imbambolata così e in un antro perduto della sua mente, una voce la stava
pregando di riprendersi, di muovere il braccio per evitare che iniziasse a
formicolare da un momento all’altro.
Il giorno precedente, domenica, quando si era alzata dal letto, dopo aver
passato la notte praticamente insonne, aveva deciso di uscire e di passare da
Concetta, l’amica di sua madre che forniva il materiale per parrucchieri sottobanco
a quasi tutto il quartiere. La donna di mezza età amava far finta di entrare in
possesso di quel materiale attraverso azioni illecite, ma sua madre le aveva
spiegato che il suo era solo un modo fantasioso per dar sfogo alla mente creativa
con la quale era nata. Elsa non aveva ancora capito se quella fosse la verità o le
mezze bugie con cui le madri erano solite rassicurare i figli, per non farli
preoccupare.
Anche Concetta non dormiva quasi mai di notte, per questo si poteva trovarla
sveglia alle sette del mattino sul terrazzo in qualsiasi stagione dell’anno. Una MS
mezza spenta in bocca e cadente fra le labbra, i capelli sempre più biondi per
nascondere l’arrivo di quelli bianchi, una vestaglia dalla fantasia orientale lasciata
aperta sul seno, senza vergogna. Concetta aveva origini meridionali, ma aveva
perso totalmente l’accento e non ne aveva assunto alcuno, nemmeno quello
locale, nonostante vivesse da trent’anni in quel quartiere. La voce della donna era
impostata come quella di un’attrice di teatro, scandiva le parole come la
registrazione del navigatore.
Sua madre non le aveva rivolto mezza parola ed Elsa sospettava che non si
fosse nemmeno accorta che si fosse svegliata. Nonostante il loro appartamento
fosse minuscolo, accadeva spesso che sua madre non si rendesse conto delle cose
che le accadevano intorno; magari era troppo presa a pensare, a guardare il sole
sui tetti del quartiere oppure a lavorare al computer. Sua madre compieva gli anni
d’estate, solo che ai tempi del liceo era stata una Letizia Comassi e uno dei suoi
compagni di classe le anticipò il regalo di compleanno, regalandole lei.
18 / 39
Tranelli era il cognome di sua madre.
Suo padre, Elsa non l’aveva mai conosciuto, ma si ricordava del padre di sua
sorella Sonia.
Sua madre non aveva avuto per niente fiuto con gli uomini, dato che entrambi
si erano rifiutati di riconoscerle.
La scusa del padre di Sonia era il fatto che avesse già una famiglia, era un
uomo importante e non poteva far scatenare uno scandalo nell’azienda. Sua
madre, allora, aveva vestito completamente i panni della puttana e lo aveva
ricattato, dicendogli che alla fine del suo tirocinio l’avrebbe assunta nell’azienda.
Lui, che era un senza palle, glielo aveva concesso, ma Flora Tranelli aveva deciso
di non trasferirsi in un appartamento più grande o in un quartiere migliore. Risaliva
ai tempi di quando era nata Elsa, quando era stata cacciata di casa per aver fatto
la cazzata e la nonna di Elsa aveva anticipato i primi sei mesi d’affitto di
quell’appartamento. Alla fine aveva ingranato, ma dopo quattro anni era arrivato
quell’altro uomo, il padre di Sonia, e tutto era ricominciato daccapo.
Elsa riceveva molti regali e per un po’ di tempo seppe cosa voleva dire avere
entrambi i genitori, anche se solo di sera tardi, quando sua madre rincasava
dall’ufficio in sua compagnia.
Lui era semplicemente scomparso, a un certo punto.
Sonia non aveva fatto in tempo a costruirsi dei ricordi con suo padre, Elsa era
rimasta con un peluche come sostituto di un affetto che non avrebbe mai
ritrovato.
Da Concetta si era fatta dare un nuovo flacone di ossigenante e della tinta
nuova. Si era stufata di quel coloraccio che stava diventando sempre più
verdognolo. Quei capelli da pony fatato erano durati abbastanza, adesso doveva
assolutamente tornare ad essere la vecchia Elsa, perché non era il colore dei
capelli a determinare che tipo di persona sarebbe diventata. Aveva pagato
Concetta e se n’era tornata a casa.
La finestra della cucina di casa sua, al sesto piano, era stata aperta.
Evidentemente Sonia si era svegliata e non aveva sopportato la puzza di fumo già
presente in casa. Sonia non le sopportava, lei e sua madre. Le aveva fatto una
scenata da madre sua sorella, quando aveva scoperto che aveva iniziato a fumare,
mentre sua madre l’aveva scoperto un po’ di tempo dopo, quasi per caso: lei e sua
sorella passavano molto tempo senza la madre dentro casa ed Elsa aveva preso
l’abitudine di fumare in casa. I primi tempi faceva attenzione ad arieggiare la sua
stanza ogni volta, a buttare la cenere senza che sua madre se ne rendesse conto,
mentre quel giorno se ne era dimenticata. Sua madre le fece sapere di esserne
venuta alla conoscenza, chiedendole un accendino e offrendole una sigaretta.
19 / 39
Non immaginava sarebbe stato difficile abituare di nuovo l’occhio al rosso, che
aveva abbandonato solo alcuni mesi prima. Le aveva fatto impressione non
riconoscere pienamente il suo viso: da quando aveva lasciato il nuoto agonistico, si
stava ammorbidendo sempre di più e il viso era stato il primo ad ingrassarsi. Le
guance si erano gonfiate, gli zigomi si erano ricoperti di grasso, così come i muscoli
delle braccia erano stati rivestiti da strati disgustosi di carne. Elsa sentì l’acido
salirle lungo l’esofago e si mosse d’istinto verso il water, ma si fermò a metà strana
reggendosi con una mano al bordo del lavello. Si era ripromessa che non avrebbe
più vomitato tutto ciò che ingeriva. Il suo corpo aveva bisogno di rinforzarsi e non
poteva permettersi di farsi così del male, di nuovo.
L’ultima volta che si era vista con i capelli rossi li aveva appena raccolti in uno
chignon e coperti con due cuffie, per non far scappare via le ciocche. Aveva
indossato uno dei suoi costumi preferiti per partecipare all’ultima gara della
stagione, alla quale come ogni anno si era piazzata con i migliori tempi. Aveva
completamente ignorato la sua salute psicologica, però. L’importante era il fisico,
l’allenamento duro e nient’altro a cui pensare se non il ritmo del respiro sotto
l’acqua e la conta delle bracciate. Erano passati due mesi dal litigio con Edoardo e
lei non doveva pensare di fermarsi nemmeno un attimo, adesso che aveva ripreso
dopo due settimane di stop volontario. Aveva sentito una mano sulla spalla, si era
voltata e aveva visto il suo allenatore sorriderle ma non era riuscita a recepire
quello che le stava dicendo. Elsa, per non farlo insospettire, gli aveva sorriso
passandogli l’accappatoio e aveva preso posizione al blocco di partenza per il
tuffo.
Il respiro si bloccò lungo la trachea.
Sentì la saliva bloccarsi a metà della gola e un nuovo fiotto di acido le salì
prepotentemente dallo stomaco. Lo sterno le faceva male e in bocca aveva il
sapore corrosivo dei succhi gastrici misti al mentolo del dentifricio.
«Elsa sbrigati o faremo tardi anche stamattina!»
«Ho fatto… sto… sto arrivando»
Uscì dal bagno con un leggero mal di testa ma arrivò fino alla sua stanza senza
cedere alle vertigini. Prese lo zaino sopra al letto e scese in fretta le scale. Sua
madre quella mattina era dovuta uscire prima per sistemare alcune commissioni
per l’azienda. Le aveva detto di aver lasciato il pranzo nel forno e che avrebbe solo
dovuto riscaldarlo. Sonia aveva le prove del teatro, dunque non sarebbe rientrata a
casa con lei. Scese in fretta le scale dell’ultimo piano e il telefono le vibrò contro la
coscia quando atterrò sull’ultimo scalino, pronta per scattare fuori dal portone e
20 / 39
rincorrere l’autobus lungo la discesa. Non vedendo la vettura arrivare, scese la
strada con calma, prese il telefono e lo accese.
Scusa se non mi sono fatta sentire prima
-L
Iniziavo a preoccuparmi, infatti
-E
Pensavo di aver fatto il passo più lungo della gamba
-E
Io non avevo capito di essere così interessante, invece
- L
Pensavo fosse uno scherzo…comunque, mi chiamo Lucrezia
- L
Elsa.
E non sono solita scherzare in questo modo.
- E
…sta scrivendo
…
online
Silenzio.
21 / 39
Elsa chiuse la chat e rimise il telefono in tasca.
Sonia dal suo metro e settantacinque d’altezza, la stava guardando dall’alto
con i suoi freddi occhi da husky, ma poco dopo distolse lo sguardo e tornò a
controllare la strada. Elsa sospirò e si mise le cuffie avviando la riproduzione
casuale.
Lasciare il numero a quella ragazza era stato decisamente un azzardo, ma
quando credi di aver avuto la cosa più vicina a un colpo di fulmine,
improvvisamente ti dici che devi fare di tutto per non perderla, quella persona lì.
L’unica cosa che poteva fare era lasciarle il suo numero senza che se ne rendesse
conto e poi si era detta che avrebbe aspettato. Quarantuno ore dopo finalmente
era arrivato il primo messaggio.
Si chiamava Lucrezia e frequentava il liceo artistico, quello vicino al parco del
Mercato. Quella era sempre stata la loro zona: uscivano tutti lì quelli dell’artistico,
ben differenziabili da tutti gli altri studenti. Erano una carovana di colori, loro, e
portatori di odori forti di fumo ed erba.
Non tutti, forse.
Ma quelli che conosceva Elsa erano così.
Lucrezia aveva i capelli ramati, quasi arancioni ed erano incredibilmente
boccolosi, morbidi. Le scendevano a cascata lungo le braccia, attorcigliandosi sulla
schiena e incastrando particelle di luce. Sabato indossava una felpa rosa invasa da
piccoli unicorni neri ed era molto più alta di lei, come tutte le ragazze che
conosceva. Aveva gli occhi scuri e lo sguardo caldo, autunnale. Avevano trascorso
assieme poco meno di due ore, ma Elsa aveva sentito come uno strappo all’altezza
dell’ombelico, la sensazione fortissima di doverle parlare e l’aveva notata con la
coda dell’occhio, dando l’impressione di non guardarla, che le stava facendo un
ritratto perché era lo stesso sguardo perso nel vuoto che vestiva Edoardo quando
era concentrato nell’analisi di qualcuno. Eppure, quando stava guardando i suoi
disegni, i suoi occhi si erano fatti improvvisamente vaghi, persi nei mondi fra i
granelli infinitesimali di pulviscolo.
L’aveva trovata bella e qualcosa in più, anche.
Bella era un aggettivo talmente riduttivo, per Lucrezia.
«Vos» inquit «uideritis quid illidebeatur: ego me etsi peccato
absoluo, supplicio non libero; nec ulla deinde impudica Lucretiae
exemplo uiuet.»
22 / 39
Chissà se Lucrezia conosceva il significato del nome che portava.
L’importanza che aveva per gli antichi romani e per le generazioni di donne
successive ad essa. Lucrezia era stata presa da esempio: si era uccisa per punire il
peccato di qualcun altro, un uomo empio che la violò nell’intimo. Lucrezia si era
sentita sporca, colpevole, nonostante fosse stata violentata da Sesto Tarquinio e
aveva capito che l’unica maniera per sentirsi pura nuovamente era il sangue – il
suo.
Sonia la spinse sopra all’autobus ed Elsa scosse la testa con violenza, per
togliersi dalla mente quegli strani pensieri. Ricordava a memoria interi pezzi di
versioni di latino fatte durante gli anni. La storia di Lucrezia veniva raccontata da
Tito Livio, nell’Ab urbe condita e riusciva a ricordarsene interi stralci, come se la
sua mente non fosse già troppo piena di parole, numeri, gesti e odori che la
portavano in altri luoghi. Sua sorella la guardò con sufficienza e raggiunse il suo
nuovo gruppo di amiche. Elsa le considerava ragazzine senza futuro, troppo deboli
per intraprendere qualsiasi strada, incoscienti nei riguardi della vita. Pensavano
bastasse quel minimo per sbancare, un velo di bellezza e le labbra pitturate come
le puttane nell’Ottocento. Quattordici anni e le vite già rovinate dalle scelte che
inconsapevolmente avevano compiuto.
Indossò le cuffie e il telefono vibrò di nuovo.
Tre volte.
Non avevo ancora incontrato nessuno con questo nome
-L
Sabato eri al parco per sbaglio o abiti in zona?
-L
Non rispondere se pensi sia una domanda personale
-L
23 / 39
Storse il naso.
Non abito esattamente in quella zona. Sto all’acquedotto, nel complesso di condomini, edificio
G, sesto piano, interno C.
-E
Forse era stata brusca, ma non pensava davvero che quelle fossero
informazioni riservate. Sentì come se fosse pronta a raccontarle la sua intera vita e
che non aspettasse altro che Lucrezia le raccontasse la sua. Non la conosceva
minimamente, ma voleva farlo. Voleva conoscere le sue abitudini, i suoi pensieri,
voleva disegnare assieme a lei e perdersi in compagnia, mai più sola in giro per la
città a scoprire meraviglie che non poteva condividere con nessuno.
Si era ripromessa di eliminare i drammi dalla sua vita, che non voleva più
entrare in nessuna dinamica. Sapeva, se lo sentiva dentro, che Lucrezia l’avrebbe
sicuramente trascinata in una spirale di sentimenti e nuovi dolori, nuove gioie,
nuove esperienze di una vita che non aveva ancora vissuto e lo sapeva che era
ancora in tempo, nonostante tutto.
Quindi frequenti l’Einstein
-L
Non più. Adesso sono al Tesla
-E
24 / 39
Continuarono a mandarsi messaggi finché Lucrezia non le disse di dover
entrare a scuola. La lasciò con la promessa che forse si sarebbero sentite in
giornata, se Elsa ne avesse avuto il piacere. A quel punto le propose di vedersi al
parco del Mercato, dove si erano viste il primo giorno. Lucrezia le rispose di sì, che
le avrebbe fatto immensamente piacere ed Elsa scese dall’autobus con un piccolo
saltello, un po’ più felice del giorno prima, un po’ più felice dopo tre mesi di buio.
♠
Durante l’ora di educazione fisica condividevano la palestra con il 5°A. Gestire
una trentina di persone tutte in un solo posto così grande, metteva alla prova
l’infinita pazienza delle due professoresse. Giocavano a pallavolo a rotazione;
quattro squadre che si davano il cambio, mentre i rimanenti si ammassavano
attorno al tavolino da ping-pong, obbligati a non rimanere senza fare nulla.
Andrea era un pallavolista quasi di professione, lo schiacciatore titolare della
squadra cittadina e tenuto d’occhio dai talent scout di squadre più importanti a
livello nazionale.
Matteo sotto rete con Emanuele e Andrea come schiacciatori. Vincere una
partita di un quarto d’ora contro l’altra classe, per loro era quasi una questione di
principio.
Il 5°A non aveva giocatori provetti ma compensava la mancanza di tecnica con
la superiorità di forza fisica, avendo in squadra solo ragazzi. La formazione di
Andrea, invece, era mista e ne soffriva in difesa, con due ragazze in ricezione e
Fabrizio come centrale.
Giocare in squadra con Letizia voleva dire sopportare le pressanti occhiate che
lanciava al suo sedere e le continue lamentele sulle unghie rovinate. Il tipo in
battuta dell’altra quinta, Terenzi Massimo, lanciò uno dei suoi soliti bolidi. La palla
finì diretta fra le braccia pronte e tese di Fabrizio che la passò a Matteo, in
posizione per alzarla ad Andrea. Il ragazzo si stava preparando a saltare, con le
braccia all’indietro per lo slancio in alto e le gambe piegate. Andrea, però, percepì
con la coda dell’occhio il movimento del muro avversario e fece segno a Matteo di
servire Emanuele, dall’altro lato. L’alzatore seguì le sue indicazioni, Emanuele saltò
quasi all’ultimo secondo ma sorprendentemente la palla venne fermata dal muro
25 / 39
delle braccia del ragazzo dall’altra parte.
Nikita Bykov fermò la schiacciata e la palla cadde fra i piedi di Emanuele,
ancora nel mezzo della discesa dal salto. Nikita sorrise soddisfatto, guardò Andrea
e gli fece l’occhiolino. Non si era reso conto che il ragazzo dall’altra parte fosse
intento ad osservarlo giocare. Gli sorrise leggermente di rimando ed Elsa, a bordo
campo, fischiò la fine della partita.
La Forte, nonostante l’esonero, non le permetteva di stare totalmente senza far
nulla, perciò aveva il compito di arbitrare le partite e quando era lei a farlo non si
faceva sfuggire nemmeno un’azione.
Andrea lasciò il campo all’altra squadra.
Fabrizio gli diede il cinque mentre Andrea prendeva un fazzoletto che Elsa gli
stava porgendo, per asciugarsi il sudore. Aveva i capelli biondi legati in una coda
alta e gli scendevano morbidamente lungo la schiena. Il fisico di Andrea era
asciutto, i muscoli ben definiti e scattanti. La struttura di un pallavolista era diversa
da quella del nuotatore; lui se ne era accorto osservando gli studi anatomici di Elsa
sul suo album da disegno. La ragazza inizialmente si era vergognata della scoperta
di Andrea, ma lui le aveva detto che non gli dava fastidio ed Elsa aveva continuato
a disegnarlo. Faceva piacere venir osservati con tanta dedizione da qualcuno e,
ogni tanto, Andrea si metteva di proposito in posizioni che evidenziavano i muscoli
dorsali, allora vedeva Elsa prendere in fretta il blocco e abbozzare le prime linee
guida da definire in un secondo momento e con più calma. Andrea aveva notato
che Elsa aveva una particolare fissazione per la linea del collo, le mani e la
mandibola quando ritraeva qualche ragazzo che la colpiva, mentre gli studi
femminili erano a trecentosessanta gradi: riportava fedelmente le linee morbide, i
punti duri, gli spigoli di qualche corpo più asciutto e muscoloso ma sempre
incredibilmente armonioso.
Elsa stava per dirgli qualcosa ma improvvisamente si bloccò e chiuse la bocca,
si allontanò leggermente da lui e Andrea, insospettito, si voltò e vide che alle sue
spalle c’era Bykov.
Nikita Bykov era stato bocciato l’anno precedente per cattiva condotta, causata
da due sospensioni: una per aver guidato l’occupazione e l’altra per aver picchiato
Tom – Tommaso Pulli – suo compagno di classe e centrale della squadra di
pallavolo di Andrea.
Nikita era arrivato al Tesla durante il terzo anno, parlava l’italiano con un duro
accento russo. Entrambi i suoi genitori appartenevano all’alta borghesia italiana:
sua madre, italiana, era l’amministratore delegato di un’importante azienda di
import-export, mentre suo padre era un magnate russo. Era sembrato a tutti il
classico figlio di papà viziato e cresciuto in mezzo agli agi.
26 / 39
Aveva i capelli neri e lunghi fino al collo, leggermente mossi, la pelle bianca
come la neve della sua terra e gli occhi azzurro pallido come quelli di un husky.
«Bella partita» disse dopo essere stato un’eternità di tempo a fissarlo e
studiarlo. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni della tuta. Andrea lo guardò e
gli sorrise.
«Concordo.»
Nikita annuì e fece per andarsene, Andrea si voltò per tornare a parlare con
Elsa che, notò, era improvvisamente scomparsa e gli aveva lasciato il fianco
scoperto. Non fece in tempo a cercarla con gli occhi che sentì un tocco deciso sul
gomito: di nuovo Nikita.
«Nikita Bykov, comunque.»
«Andrea de Grassi.»
«Sei bravo.»
Andrea rise.
Nikita era un bel ragazzo.
Tutte parlavano di lui nei corridoi e gli riservavano gli stessi sguardi che
riservavano ad Andrea, del suo accento così esotico ed eccitante.
Il suo corpo era compatto. Per niente slanciato e quasi femmineo come quelli di
Andrea, nonostante fosse di poco più basso di lui. I muscoli delle braccia erano
possenti e facevano tendere piacevolmente la maglia nera a maniche corte che
indossava. Andrea lo aveva osservato molte volte durante l’ora di educazione e
anche fuori, beandosi di quella visione così piacevole che il Caso gli aveva
regalato.
Dopo due anni passati in Italia, l’accento di Nikita si era piacevolmente
addolcito.
«Gioco a pallavolo da quando cammino, praticamente, quindi per me è
naturale.»
Nikita annuì e si grattò la nuca. La parte superiore dei capelli era tirata indietro
con un codino, lasciando la maggior parte delle ciocche lungo il collo, che si
arrotolavano in leggeri onde a causa del sudore.
27 / 39
Andrea volle pensare, per un attimo, che il ragazzo stesse cercando argomenti
di conversazione per continuare a parlare con lui, nonostante i compagni della sua
classe continuassero a chiamarlo.
«Anche tu sei bravo, comunque» gli disse. Nikita si voltò verso di lui,
puntandogli addosso quei dannati occhi chiarissimi. Brividi di freddo lungo la
schiena e pelle d’oca alle braccia che fu costretto a incrociare per dissimularla.
«Non era chissà quale tattica, ma di solito ci casca perfino Pulli, che è abituato
a giocare con me.»
«Ho solo tirato a indovinare» ammise. «Non sapevo se avresti davvero
consigliato a Tortora quell’azione. Ho solo pensato che quella sarebbe stata la
tattica che avrei scelto io.»
Andrea ridacchiò leggermente e si costrinse a non sentirsi stupido perché
riusciva ad avere solo quel tipo di reazione. Non era abituato a parlare così tanto
con degli sconosciuti, soprattutto con gente che aveva pestato dei suoi amici. Tirò
un sospiro di sollievo al pensiero che Tom fosse assente: i rapporti tra Bykov e
Tommaso non erano dei migliori, nonostante fossero stati costretti a risolvere le
divergenze a parole. Tommaso non gli aveva voluto dire perché si erano picchiati a
scuola, l’anno precedente e Andrea non glielo aveva più chiesto.
Nikita lo guardò assorto e Andrea si sforzò di nascondere la sua perplessità in
quel momento. Nikita stava per riprendere il discorso che avevano lasciato in
sospeso, ma venne interrotto da uno dei suoi compagni che gli mise un braccio
attorno alle spalle, facendo forza per spingerlo via da lì e raggiungerli attorno al
tavolino da ping-pong.
Andrea stava sistematicamente ignorando la voce petulante di Letizia, invece,
che continuava a chiamarlo per raggiungerla. Bykov non fece in tempo ad
aggiungere niente.
Andrea lo salutò con un cenno della mano e raggiunse Elsa, sulle scalinate,
impegnata a disegnare furiosamente qualcosa.
Era stata circondata da diverse persone, sugli spalti. Era passato quasi un mese
dal primo giorno di scuola e Andrea riusciva a vedere i primi cambiamenti in Elsa:
stava molto di meno sulle sue, parlava con Lisa ogni tanto, cercava di ignorare le
occhiate pesanti di Letizia. In quel momento era seduta sul gradino sopra ad Elsa e
la stava occhieggiando da sopra, assieme a Cecilia e Serena, le sue due migliori
amiche e stavano parlottando. Andrea aveva sempre avuto cattivi presentimenti
quando quelle tre mettevano in contatto i cervelli. Quando si avvicinò abbastanza,
Letizia stava raccontando ad alta voce il fatto che avesse iniziato a sentirsi con
questo fantomatico Edoardo dell’Einstein e Andrea ebbe l’orrenda sensazione di
sapere perfettamente di chi stesse parlando la Comassi. Andrea notò
28 / 39
immediatamente che Elsa si stava facendo forza per ignorarla: aveva la mascella
stretta, le dita della mano sinistra convulsamente strette attorno alla matita nera e
il telefono che continuava a vibrare accanto a lei e illuminarsi.
Lucrezia
Lucrezia
Lucrezia
«Perché non ci spostiamo?» le chiese una volta averla raggiunta. Elsa sollevò la
testa, Letizia si voltò verso di lui e lo stesso fecero Cecilia e Serena.
«E dove vorresti andare, de Grassi? La lezione è quasi finita» gli fece notare
Elsa tornando a disegnare distrattamente. Letizia sogghignò leggermente ed
Andrea si sedette vicino ad Elsa, giocando con il fazzoletto che gli aveva portato
prima.
«Edo mi ha raccontato tutto. La Tranelli è una vera pazza… e poi l’avete vista
come lo ha picchiato, no? Non capisco cosa ci trovi Andrea in una come lei».
Andrea era pronto per scattare all’indietro e iniziare a urlare contro quell’oca di
Letizia che dopo un anno ancora non voleva lasciarlo in pace, ma Elsa lo bloccò
con una mano sul braccio e gli sorrise leggermente.
«Di’, ti piace?».
La ragazza gli passò il blocco da disegno e le mostrò il ritratto di una ragazza.
Aveva le guance piene, il viso a cuore e le labbra perfette, disegnate come quelle
di una statua. I suoi occhi, nonostante fossero stati disegnati solo con una semplice
matita nera, erano grandi e incredibilmente luminosi. I denti si intravedevano
leggermente fra le labbra e le donavano un’espressione maliziosamente infantile.
Andrea annuì e rimase in contemplazione del disegno.
«Si chiama Lucrezia e diventerà la mia migliore amica.»
29 / 39
Soigné di Feynman
Soigné
Possessing an aura of sophistication in dress,
manner or design; presented or prepared with an
elegance attained through care for the finer details
Era trascorsa una settimana dalla prima volta che lei ed Elsa si
erano incontrate per caso, al parco del Mercato. Lucrezia la stava
aspettando alla stessa panchina dello scorso sabato, ripensando al
poco tempo che era trascorso e ai messaggi che in soli sei giorni si
erano già scambiate. Lucrezia ancora non riusciva a digerire il modo in
cui Elsa si era imposta nella sua vita, ricavandosi i suoi spazi nella
giornata.
I primi messaggi di Elsa le arrivavano al mattino, quando lei stava
salendo sul tram ed Elsa usciva di casa per prendere l’autobus.
Lucrezia abitava nei pressi del porto, mentre Elsa era esattamente alla
periferia opposta, quella delle fabbriche, dei condomini alti e
dall’intonaco uguale, dei muri di recinzione presi d’assalto dai graffiti e
spaccati dalle erbacce. Lucrezia portava l’aria del mare, mentre Elsa
l’odore delle acciaierie poco lontane da casa sua. Non erano solite
mandarsi messaggi per tutto l’arco della giornata: Elsa aveva saputo il
lunedì stesso dei laboratori di pittura pomeridiani che Lucrezia
frequentava e lei non l’aveva disturbata, finché non era stata Lucrezia
30 / 39
a mandarle un messaggio. In realtà, lunedì si erano sentite anche di
mattina, appena prima del suono della seconda ora. Elsa era stata
telegrafica dicendole che stava per prendere a pugni una ragazza della
sua classe, Lucrezia sul momento non l’aveva presa sul serio, poi si era
ricordata delle mani che dovevano essere ancora fasciate e si era
sentita in colpa, ma Elsa non le aveva più risposto.
Il messaggio successivo le era arrivato il pomeriggio del lunedì. Un
ritratto. Elsa le aveva detto che aveva acquistato alcuni libri sulla
teoria del disegno dal vero, mentre Lucrezia si era offerta di insegnarle
alcune cose, al che Elsa le aveva chiesto di uscire.
Elsa non era il tipo di ragazza che parlava tanto, lo aveva scoperto
durante quella settimana. Lucrezia era abituata a parlare al telefono
con le amiche – le due che aveva fin dal primo anno – mentre Elsa non
l’aveva mai chiamata, aveva sempre scritto messaggi e Lucrezia era
arrivata a pensare che già l’odiasse e che si fosse pentita. Alla fine
glielo aveva detto Elsa, il perché: si sentiva a disagio a parlare al
telefono. Non le piaceva, preferiva i messaggi. Le parole le uscivano in
maniera molto più semplice e fluida, scrivendo. Elsa non era mai stata
brava a parlare con le persone e i più grandi casini che aveva fatto nei
suoi diciotto anni di vita, li aveva causati parlando. Lucrezia non aveva
ancora avuto il coraggio di chiedere di raccontarle tutta la storia di
sabato, del perché avesse picchiato qualcuno e chi. Elsa l’aveva tenuta
informata con delle foto sulla situazione delle sue mani, mandandole
anche i progressi che stava facendo con il disegno dal vero e Lucrezia
l’aveva riempita di consigli su come disegnare al meglio l’anatomia
umana. Le aveva detto fin da subito che da grande le sarebbe piaciuto
lavorare in tantissimi campi quante erano le sue passioni: avrebbe
voluto pubblicare un libro prima dei venticinque anni, lavorare a una
serie di graphic novel, scrivere una sceneggiatura per il cinema, girare
il mondo. Lucrezia aveva voluto immaginare Elsa sorridere davanti lo
schermo del cellulare e un bisbiglio indistinto le attraversò la mente:
profumava di futuro.
31 / 39
Stava scuotendo la testa per liberarsi da quei pensieri quando una
massa rossa e morbida le invase la visuale, la solidità di un corpo che
stava riscoprendo le morbidezze femminili, delle braccia ancora forti e
scattanti le circondarono il collo e una voce, nell’orecchio, che le
chiedeva se l’avesse fatta aspettare tanto. Un’improvvisa sensazione
di calore invase lo stomaco di Lucrezia, le scaldò il petto come un sorso
di cioccolata calda e profumava di zenzero e arancia. Elsa si staccò dal
suo corpo e le sorrise. Aveva il naso rosso e la vicinanza le permise di
notare delle piccolissime efelidi arancioni sotto gli occhi.
«Stai aspettando da tanto?»
Lucrezia scosse la testa e spostò il braccio dal fianco di Elsa
all’incavo fra le sue gambe, imbarazzata.
«No, sei in anticipo.»
«Non sembra nemmeno essere passata una settimana! Hai visto il
disegno che ti ho mandato?»
Lucrezia realizzò che quell’Elsa che aveva davanti, era
completamente differente dall’Elsa della settimana precedente. Il
cambiamento lo aveva avvertito anche nel tono dei messaggi, ma
pensava fosse stata solo una sua sensazione e niente di più. Due giorni
prima si era fatta più dolce, più premurosa. Le sue risposte si erano
allungate e arricchite di parole, la sua curiosità era aumentata e le
aveva fatto tante di quelle domande sulla sua vita, le sue abitudini, le
sue passioni. Lucrezia non era abituata a tutta quell’attenzione: le sue
amiche parlavano con lei quando avevano bisogno di sfogarsi,
32 / 39
uscivano spesso assieme e andavano a mangiare, poi si intrattenevano
nello shopping, sempre chiacchierando delle loro ultime uscite, dei loro
ragazzi, delle loro esperienze che Lucrezia non aveva ancora
sperimentato. Non pensava di essere migliore di loro, rimanendo a
casa a disegnare, a finire i compiti e a scrivere tutte quelle idee che le
venivano in mente all’improvviso. Tutti i consigli che Lucrezia
dispensava, li aveva raccolti dai libri, dai comportamenti dei
personaggi e attraverso le loro storie, i loro pensieri, i loro modi di
agire aveva filtrato la realtà circostante, riuscendo a comprendere un
po’ meglio le persone che la circondavano.
In alcuni momenti, Lucrezia non era davvero certa nemmeno di
volere una relazione come quella che avevano le altre: baciarsi, fare
sesso, sembravano cose talmente lontane da quel mondo che si era
costruita da non sapere se voleva davvero sperimentarle.
Sicuramente, voleva sapere com’era innamorarsi di qualcuno. Avere
lo stomaco chiuso e in subbuglio, la mente appannata e in corpo
talmente calore da irraggiarlo. Voleva vedere le sue stesse sensazioni,
negli occhi di qualcun altro.
«Ehi, ci sei?» le chiese Elsa, agitandole una mano davanti alla faccia
e continuando a sorriderle. Alle sue compagne non faceva piacere
vederla assente e sovrappensiero, invece.
«Stavi… stavi dicendo qualcosa?»
Elsa annuì e fece segno a qualcuno dietro di lei di raggiungerle.
Lucrezia fece capolino dietro la spalla dell’amica ed ebbe la sensazione
che i suoi occhi fossero stati scelti per ammirare tanta meraviglia.
33 / 39
I capelli del ragazzo erano biondi, di un tono più chiaro del grano
dorato, lunghi fino ai gomiti e lisci come il crine di un cavallo. Gli
incorniciavano il viso lungo e sottile dove erano incastonate due ambre
luminose. Lucrezia realizzò di avere la bocca aperta e quando il
ragazzo le raggiunse, la chiuse esattamente quando l’altro decise di
sorriderle.
«Lui è Andrea. Il mio compagno di banco. Ha rotto talmente tanto il
cazzo, che sono stata costretta a portarmelo dietro.»
Lucrezia fu sul punto di chiedere al ragazzo – Andrea – di scostare i
capelli dalle orecchie per verificare che non fossero appuntite come
quelle di un elfo, altrimenti sarebbe stato fin troppo perfetto.
«Deve incontrarsi con un suo amico per gli allenamenti di pallavolo
e mi ha chiesto di passare un paio d’ore assieme. Ti dà fastidio?»
Elsa aveva leggermente inclinato la testa e stava continuando a
sorriderle. Era stata talmente catturata dalla visione del ragazzo-elfo,
da non aver processato quanto il rosso le stesse bene e si abbinasse
con l’arancione delle lentiggini.
«In realtà» iniziò il ragazzo «ero curioso di conoscere la ragazza che
faceva sorridere così tanto Elsa, solo con dei messaggi». La sua voce
assomigliava al rumore dell’acqua di un ruscello contro le rocce, una
moto che sgasava all’improvviso e rombava potente lungo la strada,
un tuono in lontananza.
34 / 39
Lucrezia sentì un tocco leggero sotto il mento e sentì i denti
sbattere gli uni contro gli altri. «Andrea è il modello dei disegni che ti
ho mandato, sai?»
Lucrezia deglutì ed Elsa rise forte.
Andrea non sembrava imbarazzato, nonostante Lucrezia sentisse la
sua faccia in fiamme e le sue dita tremassero. I bozzetti anatomici che
Elsa le aveva mandato erano praticamente perfetti: la muscolatura
piena e scattante, proprio come piaceva a lei, e guardando Andrea era
un vero peccato che la nascondesse sotto quelle felpe più grandi e
sformate.
«È perfetto, gliel’hai mai detto?»
«Sono già in troppe, a dirglielo. Se mi ci aggiungo anche io, finisce
per crederci davvero» e Lucrezia vide Elsa sorridergli e Andrea
ricambiare il sorriso. Elsa le aveva raccontato che Andrea era stata la
prima persona a parlargli, poiché era capitata vicino a lui. Non l’aveva
lasciata un attimo in pace, quasi costringendola a parlargli. Lucrezia
pensò, per un attimo, che Elsa fosse innamorata di lui, ma poi notò il
suo sguardo, il modo in cui lo guardava, e non c’era niente del genere.
Sembrava solo che condividessero un segreto, una confessione che
Elsa stava solo aspettando di ricevere.
Lucrezia fu gelosa, per un attimo, e sentì una punta amara, acida, in
fondo alla gola che la stava spingendo a costringere Elsa a distogliere
lo sguardo da Andrea e riportarlo su di sé, ma realizzò
immediatamente quanto fosse stupido e inutile, dato che Elsa era già
tornata a parlare con lei.
35 / 39
La suoneria del telefono di Andrea la riportò immediatamente nel
mondo reale. Il ragazzo rispose al telefono dopo essersi scostato, con
un colpo deciso della testa, i lunghi capelli dall’orecchio.
«Tom? Sì… il parco del Mercato… sì, quello del – perfetto. A tra
poco, allora.»
«Già ve ne andate?» scappò a Lucrezia, quasi con tono dispiaciuto.
Andrea le sorrise. «Tommaso ha avuto un accesso di socialità e ha
deciso di alzare il culo un paio di ore prima.»
«Non capisco come tu riesca ad essere amico di Pulli.»
Lucrezia guardò l’amica interrogativa e accavallò le gambe. «Perché
dici così? Ha qualcosa che non va?»
«Elsa non parla con quelli che non sono in grado di fare discorsi
filosofici alle otto del mattino.»
«Be’» si intromise Lucrezia, prima che Elsa riuscisse a rispondere
«nemmeno lei è in grado di farli, alle otto del mattino.»
36 / 39
Elsa incrociò le braccia e rispose, quasi piccata. «Non si tratta di
discorsi filosofici, si tratta di un minimo di introspezione.»
«Tommaso è un mio compagno di squadra, il mio migliore amico. È
piacevole starci insieme, ma non me lo devo mica sposare.»
«Chi ti ha fatto una proposta di matrimonio?»
Lucrezia ebbe la dannata tentazione di avvicinarsi ad Elsa e
chiederle per quale cazzo di motivo non le aveva detto che sarebbero
uscite con due dei ragazzi più belli che avesse mai visto in vita sua.
Tommaso si era aggiunto agganciando un braccio attorno alle spalle di
Andrea, nonostante l’evidente differenza di altezza: Tommaso, infatti,
gli arrivava solo alle spalle. Aveva i capelli corti e castani, dello stesso
colore degli occhi. Non era una bellezza quasi apollinea come quella di
Andrea, il tipo di bellezza che affascina e si fa invidiare da una ragazza.
Tommaso aveva la mascella squadrata e le spalle ampie, un velo di
barba sulle guance e il lato sinistro della testa rasato quasi a pelle. Sul
sopracciglio sinistro aveva un piercing e un altro sotto il labbro
inferiore, sul lato destro del viso. La sua pelle era leggermente
olivastra.
«Cosa ti ha convinto ad uscire prima del solito, Pulli?» gli chiese
Elsa, con un sorriso beffardo sulle labbra.
«Il pensiero di vederti anche di venerdì pomeriggio, Tranelli» le
rispose l’altro, sganciandosi da Andrea. «Qualcuno ha intenzione di
fare le presentazioni?»
37 / 39
Andrea sospirò e scosse la testa, quasi sconfitto. Elsa continuava a
sorridere e Lucrezia ci impiegò un attimo di troppo per capire che ce
l’aveva con lei.
«Lucrezia…Centuria. Sono un’amica di Elsa.»
«Tommaso» le rispose sorridendole e stringendole delicatamente la
mano. «Non pensavo qualcun altro riuscisse ad essere amico suo.»
«Pulli, vuoi finirla di parlare di te stesso?»
Lucrezia ridacchiò e lasciò la mano ancora tesa di Tommaso, mentre
lui emise un verso di disappunto. «Avevate intenzione di fare qualcosa
in particolare?»
Elsa tirò fuori il pacchetto di sigarette già vuoto a metà, ne tirò fuori
una e lo passò a Lucrezia quasi d’istinto. La ragazza aveva ammesso di
fumare, la maggior parte delle volte a scrocco, e Elsa le aveva
promesso intere fumate in compagnia. Una volta che Elsa ebbe acceso
la sua, passò l’accendino a Lucrezia che alzò il viso e notò che
Tommaso, mentre Andrea ed Elsa parlottavano delle cose che
avrebbero potuto fare, adocchiava il pacchetto con cui Elsa stava
giocherellando. L’altra lo notò con la coda dell’occhio e glielo lanciò fra
le mani.
38 / 39
«Possiamo anche rimanere qui, se non abbiamo alternative»
propose Tommaso e Lucrezia vide che la stava guardando. Pensò
volesse che qualcun altro gli appoggiasse l’idea, perciò si limitò ad
annuire. Elsa sospirò e sorrise, Andrea si mise seduto a terra fra le
gambe di Elsa, mentre Tommaso prese posto sulla panchina accanto a
Lucrezia.
39 / 39
Powered by TCPDF (www.tcpdf.org)