Testo dell`intervento prof. Lopes del 20 maggio 2016

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Testo dell`intervento prof. Lopes del 20 maggio 2016
Antonio Lopes
La piccola e media impresa nel Mezzogiorno e sistema finanziario ai tempi della
crisi. Questioni aperte e prospettive
Intervento al seminario “Finanziamenti alle piccole e medie imprese: sfide e
opportunità tra Italia e Regno Unito” organizzato dall’Ambasciata della Gran
Bretagna a Roma
Roma, 20 maggio 2016
1. Il quadro di riferimento
Al fine di contestualizzare le problematiche delle PMI meridionali in rapporto al sistema
finanziario occorre notare che, se nel complesso, l’economia italiana sta uscendo, pur con lentezza,
dalla crisi più lunga del dopoguerra, il Mezzogiorno ancora non vede segnali significativi di ripresa.
Secondo le valutazioni della SVIMEZ, l‘economia delle regioni meridionali è stata colpita dalla
crisi in misura molto più intensa rispetto al resto del paese. Cumulativamente dal 2007 al 2015 il
prodotto in questa area si ridotto quasi del 13%, il doppio della flessione registrata nel Centro-Nord
(-6,4%).
Le regioni meridionali hanno risentito non solo dello stimolo relativamente inferiore rispetto al
resto del Paese della domanda estera, ma anche della riduzione della domanda interna, associata al
calo della loro competitività sul mercato nazionale, che ha riguardato sia la spesa per consumi, la
cui flessione è attribuibile, per parte importante, al calo dei consumi pubblici, sia la spesa per
investimenti, che si è ridotta in misura molto più intensa che nel resto del Paese.
La crisi lascia quindi un Paese ancor più diviso del passato e sempre più diseguale. La flessione
dell’attività produttiva è stata molto più profonda ed estesa nel Mezzogiorno che nel resto del Paese,
con effetti negativi che appaiono non più solo transitori ma strutturali.
La forte riduzione degli investimenti ha diminuito la sua capacità industriale, che, non essendo
rinnovata, ha perso ulteriormente in competitività cui si sono aggiunte le migrazioni, specie di
capitale umano formato. Nel periodo di crisi la flessione della spesa per investimenti è stata
profonda in entrambe le parti del Paese, ma con intensità notevolmente maggiore al Sud. Nel
periodo 2008-2015 gli investimenti fissi lordi sono diminuiti cumulativamente nel Mezzogiorno del
-38,1%, circa 11 punti in più che nel resto del paese (-25,9%).
La caduta degli investimenti ha interessato tutti i settori dell’economia, assumendo dimensione
particolarmente ampia nell’industria in senso stretto, crollata al Sud nel periodo di crisi 2008-2014
di quasi il 60%, una riduzione tre volte maggiore rispetto a quella, pur di per sé assai grave, del
Centro-Nord (-17,1%). Il processo di accumulazione dell’industria meridionale aveva peraltro già
vissuto una tendenza alla riduzione nel periodo precedente alla crisi (-5,9% tra il 2001 e il 2007) in
presenza, invece, di un andamento positivo nel Centro-Nord (8,3%).
La lunghezza della congiuntura negativa, la riduzione delle risorse per infrastrutture pubbliche
produttive, la caduta della domanda interna sono fattori che hanno contribuito a “desertificare”
l’apparato economico delle regioni del Mezzogiorno.
Infatti i processi di selezione, che durante la crisi rinforzano il tessuto produttivo rimuovendo le
imprese più inefficienti e quindi migliorando l’allocazione delle risorse che sono destinate alle
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imprese migliori, non possono portare a buoni risultati se la debolezza del contesto compromette la
capacità di rimanere sui mercati delle imprese meno efficienti ma anche di quelle più dinamiche.
Una prova di questo proviene dall’analisi dei differenziali di produttività, espressi in termini di
produttività del lavoro, che sono una approssimazione, anche se rozza, del livello di competitività
dell’area che interessa soprattutto le microimprese sotto i 10 addetti. La produttività al Sud è
dell’ordine del 65% rispetto al resto del Paese per l’industria in senso stretto e del 75% per
l’economia nel suo complesso.
L’uscita dalla crisi non è semplice. Questo perché la spinta della domanda estera, che sta
attualmente trainando la debole ripresa del Centro-Nord, ha nel Sud un peso assolutamente
modesto. Al contrario, la domanda interna è ancora stagnate.
2. I prestiti bancari alle imprese italiane e dualismo
L’Italia è il Paese europeo più dipendente dai finanziamenti degli istituti di credito, con valori
che per le PMI (fino a 250 addetti) arrivano al 95-98%. Questa situazione crea un grosso problema
perché la crisi ha di fatto imposto alle banche un razionamento del credito.
La contrazione dei prestiti concessi alle imprese italiane è stata drastica e solo di recente, nel
novembre 2015 si è avuta una lieve inversione di tendenza con i prestiti alle imprese che su base
annua sono saliti dello 0,2%, a ciò si è accompagnato anche un processo di parziale allentamento
delle condizioni di accesso al credito.
Le operazioni messe in campo dalla Banca Centrale Europea (TLTRO, ossia Targeted LongerTerm Refinancing Operations e QE, Quantitative Easing) non sembrano aver sortito ancora nessun
effetto sulle PMI. Analizzando l’andamento degli impieghi vivi da fine agosto 2014 (periodo
antecedente alle operazioni TLTRO/QE) a fine ottobre 2015 era possibile evidenziare ancora il
segno negativo con le consistenze in discesa di 8,7 miliardi di euro per una contrazione percentuale
pari al 6,1%.
Gli effetti positivi di tali manovre sono da rivenire soprattutto sul versante dell’alleggerimento
del costo del servizio del debito per i governi che sono ora in grado di rifinanziare i debiti sovrani in
scadenza a tassi decrescenti.
Le difficili condizioni macroeconomiche si sono ripercosse soprattutto sulle imprese minori e su
quelle localizzate nelle aree più problematiche. Queste per loro natura più rischiose e meno
trasparenti rispetto alle altre imprese sono più difficili da vagliare in condizioni di incertezza,
pertanto sono quelle che hanno subito una maggiore contrazione del credito concesso.
Questo vale soprattutto per quelle con meno di 10 addetti dove, tra il quarto trimestre del 2011 e
il primo trimestre del 2015, la riduzione è stata più significativa nel Mezzogiorno, 30,3% contro il
27% per le imprese localizzate nel resto del paese. Occorre tenere presente che al Sud il 90% del
tessuto produttivo è formato da microimprese contro l’80% del resto del paese. Questo segmento di
imprese è anche caratterizzato al Sud da una maggiore prevalenza dei servizi (56% contro 50%) e
delle costruzioni (17% contro il 15%) rispetto all’industria in senso stretto (20% contro il 30%) se
confrontiamo queste percentuali con la media nazionale.
Per le imprese minori (comprese tra i 10 e i 50 addetti) si è avuta, nello stesso periodo una
flessione del 40,6% nel centro nord contro una riduzione 32,5% nel Mezzogiorno.
La più intensa contrazione riscontrata nelle regioni centro-settentrionali è riconducibile alla
presenza di persistenti e più selettivi criteri di valutazione del merito creditizio nelle regioni
meridionali. Ciò quindi consente alle banche che erogano credito in queste aree di ridurre in modo
meno intenso la concessione di finanziamenti ad una platea di imprese già molto più selezionata e
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ridotta di quanto non avvenga in altre aree del Paese, tuttavia al Sud la possibilità di espansione del
credito è molto più limitata di quanto non avvenga altrove.
Va inoltre considerato la rilevanza dei vincoli finanziari tenuto conto che – secondo le
rilevazioni del CERVED – per le imprese meridionali l’incidenza dei debiti finanziari sul capitale
netto è il 103% contro la media nazionale dell’88%.
Si assiste inoltre ad una polarizzazione tra le imprese in area di solvibilità la cui quota cresce
(siamo comunque al Sud al 40% contro il 46% a livello nazionale) e aumenta la quota delle imprese
nell’area della vulnerabilità 23% contro una media italiana del 20%).
La crisi, oltre ad aver ridotto i finanziamenti erogati dalle banche alle piccole e medie imprese,
ha cambiato profondamente i parametri guida per la concessione del credito. Esso sono ora
caratterizzati da una maggiore virtuosità delle imprese affidate rispetto al passato, dove per imprese
virtuose si intendono quelle più patrimonializzate, più efficienti, e con un elevato valore dei beni da
fornire in garanzia.
Un più accentuato utilizzo da parte delle banche di scoring statistici basati su soli aspetti
oggettivi si è registrato specialmente nei segmenti nei confronti delle imprese minori e delle
famiglie. Per questa tipologia di impieghi, la minore dimensione dei fidi, l’ipotizzata maggiore
omogeneità e indipendenza dei rischi dei prenditori, le esigenze di automatizzare l’acquisizione dei
dati e di comprimere costi e tempo di analisi, spingono non solo a formalizzare il processo
elaborativo ma anche a restringere lo spettro delle informazioni richieste in fase di istruttoria.
Tuttavia il nuovo approccio alla valutazione del rischio di credito che le banche hanno dovuto
adottare si scontra molto spesso con la scarsa capacità e/o volontà delle imprese di minori
dimensioni di fornire alla banca, in modo standardizzato, un’informativa corretta e trasparente,
spesso a causa del ruolo residuale rivestito dalla funzione finanziaria per le PMI.
Va inoltre osservato che la dinamica degli impieghi sperimentata dalle due aree del Paese tra il
2012 e il 2014 presenta delle differenze abbastanza marcate se si analizza anche la dimensione delle
banche che concedono i prestiti. Si nota infatti che gli istituti di credito di maggiori dimensioni
tendono a ridurre gli impieghi alle imprese meridionali in misura maggiore di quanto avviene nel
resto d’Italia, al contrario le banche piccole e minori aumentano gli impieghi al Sud in misura di
gran lunga maggiore di quanto non facciano nel Centro-nord.
Rispetto alla prima fase della crisi, durante la seconda fase della crisi è aumentata la rilevanza
del funding gap: le banche di minori dimensioni, caratterizzate da una minore incidenza della
raccolta all’ingrosso, hanno registrato tassi di variazione del credito più elevati rispetto alle altre;
l’impatto è stato più intenso in connessione con la crisi dei debiti sovrani, quando si sono
intensificati i rischi di liquidità degli intermediari.
Ne segue che rispetto ai grandi istituti di credito, nel corso della crisi le banche di minori
dimensioni hanno registrato un tasso di ingresso in sofferenza dei prestiti al settore produttivo più
elevato; tuttavia, all’interno di questo comparto, le banche locali sono state caratterizzate da una
migliore qualità del credito presumibilmente grazie ai vantaggi informativi sulla clientela che esse
detengono.
Questi dati sostanzialmente confermano che, a distanza di più un decennio dal consolidamento
del sistema bancario nel Mezzogiorno, le grandi banche organizzate secondo il modello della bancarete operanti al Sud tendono a selezionare più severamente le imprese da finanziare, soprattutto
quelle di minori dimensioni.
Ne segue che quelle ammesse sono meno rischiose e quindi meno soggette a fenomeni di
razionamento; naturalmente tale risultato si traduce, comunque, nella completa esclusione di un
segmento non trascurabile di imprese minori che trova maggiore difficoltà ad interagire con la
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grande banca ma può trovare un interlocutore più attento nelle residue banche locali di dimensioni
ridotte che ancora operano nelle regioni meridionali.
Accanto alla riduzione dell’offerta di credito va anche segnalata una riduzione della domanda di
credito che è strettamente correlata al ridimensionamento dell’attività imprenditoriale poiché uno
dei fattori che maggiormente spiega il fenomeno è la riduzione degli investimenti fissi: fenomeno
che ha interessato tutto il paese ma che ha colpito – come si è già ricordato – in misura maggiore le
imprese meridionali.
Parallelamente si segnala un aumento della domanda di credito per ristrutturazione dei debiti
pregressi; questo fenomeno ha interessato tutte le aree del paese ma in misura maggiore le imprese
meridionali.
A seguito del forte deterioramento della congiuntura economica i crediti in sofferenza si sono
ulteriormente impennati. Il tasso di ingresso in sofferenza delle imprese meridionali è passato dal
2,1% del 2007 a un massimo del 5,1% nel 2014, con un divario che si è fortemente ampliato
rispetto alla media nazionale (da +0,9% a +2%). Si segnala ora una riduzione dei tassi di ingresso in
si sofferenza che comunque resta significativamente più elevato rispetto alla media. L’andamento
delle sofferenze, come è stato già ricordato, riflette tipicamente la qualità degli impieghi in essere e
a sua volta è riconducibile alla rischiosità delle imprese affidate – in misura non trascurabile dovuta
anche ad una componente ambientale – e alla qualità dell’attività di screening e di monitoring
realizzata dagli intermediari nel rispetto dei vincoli di natura patrimoniale sempre più stringenti.
3. La regolamentazione prudenziale post crisi e l’effetto sulla disponibilità di credito
L’attività di intermediazione creditizia, in particolare quando è combinata con l’emissione di
passività a vista con funzione monetaria, richiede che siano prudentemente gestite. In primo luogo il
rapporto fra attivo rischioso e patrimonio. Il rapporto deve essere sempre superiore all’unità,
altrimenti non si realizzerebbe una significativa intermediazione e la riserva di capitale è più costosa
delle altre passività detenute dalla banca in quanto l’azionista richiede una maggiore remunerazione
per il rischio assunto.
Inoltre l’equilibrio tra il passivo, ovviamente considerato nella sua struttura per scadenze, e la
componente liquida dell’attivo, ossia la riserva di liquidità. Tale riserva di liquidità è costosa, nel
senso proprio del costo-opportunità, poiché comporta la rinuncia a impieghi alternativi più
remunerativi, anche se più rischiosi.
A parità di ogni altra condizione, quando il banchiere aumenta le leve espande il volume
dell’intermediazione creditizia, riuscendo così ad ottenere maggiore redditività, ma ciò a costo di un
maggiore rischio. Il banchiere, soggetto privato ed esposto alle pressioni di un mercato competitivo,
è fisiologicamente incentivato ed orientato a operare ai confini della prudenza.
Per contro la regolamentazione di vigilanza, pone alla banca il rispetto di vincoli prudenziali,
cioè il rispetto dei requisiti minimi di patrimonio e di liquidità ritenuti congrui, in un dato contesto,
con sufficiente grado di prudenza.
I requisiti regolamentari, posti a presidio della stabilità finanziaria, finiscono per diventare dei
fattori esogeni che di fatto limitano la produzione e l’offerta di credito.
A seguito della crisi, molte sono state le istituzioni bancarie che hanno richiesto ingenti
interventi pubblici al fine di arginare le esternalità negative che dai loro default sarebbe potuto
derivare. Per arginare gli effetti della crisi l’UE ha consentito, eccezionalmente e per un periodo di
tempo limitato, di derogare parzialmente alla disciplina che nell’UE vieta gli aiuti di Stato.
Il dato registrato dall’Ufficio statistico dell’Unione europea rileva che a fine 2014 erano stati
varati aiuti di stato per 5.763 miliardi di euro, di questi, gli interventi effettivamente realizzati sono
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stati pari a 1.540 miliardi di euro suddivisi in garanzie, ricapitalizzazioni, bad bank.
L’irrobustimento patrimoniale delle banche in diversi paesi dell’Unione europea ha permesso al
sistema di fronteggiare la crisi, ma è stato realizzando pesando sulle finanze pubbliche.
Alla fine del 2014, gli aiuti di Stato concessi alle banche ammontavano a 238 miliardi di euro in
Germania (8,2% del PIL), 52 miliardi in Spagna (5%), 42 miliardi in Irlanda (22,6%), 40 miliardi in
Grecia (22,2%), 36 miliardi nei Paesi Bassi (5,5%), 28 miliardi in Austria (8,4%), 19 miliardi sia in
Portogallo (11%) sia in Belgio (4,6%). In Italia, per contro, si è deciso di non far gravare le perdite
delle banche sui bilanci pubblici e a fine 2014 era di solo 1 miliardo di euro il sostegno pubblico
fornito alle banche.
Gli interventi effettuati all’estero sono stati per lo più completati prima che fossero adottate le
più stringenti regole europee previste, dal 2013, dalla disciplina sugli aiuti di Stato e dalla direttiva
sul risanamento e la risoluzione delle banche.
Infatti, proprio per evitare che la crisi delle banche potesse ancora pesantemente gravare sui
bilanci pubblici, sono state varate nuove norme nell’UE che attualmente, di fatto, rendono non più
perseguibile l’uso del sostegno statale alle banche.
Nello stesso periodo, le autorità di vigilanza a livello internazionale, hanno varato nuove norme
che obbligano le banche ad adottare più stringenti requisiti patrimoniali e di liquidità. Il disposto di
Basilea 3, unito ad altre importanti misure intraprese dai regolatori, impongono ora, a scopo
prudenziale, criteri più restrittivi di gestione, costringendo le banche a ridurre i rischi di credito e di
liquidità assunti entro i confini della disponibilità di patrimonio e di liquidità.
Con le norme imposte alle banche, i nuovi prestiti, come quelli già in essere, devono essere
ponderati per il rischio al fine di determinare l’adeguatezza del patrimonio rispetto alla capacità di
assorbimento delle perdite che, a seguito di insolvenze, la banca potrebbe essere costretta a
sopportare.
Al contempo la banca è tenuta a rispettare un requisito minimo di liquidità dell’attivo rispetto al
passivo (liquidity coverage ratio) e un requisito minimo di stabilità delle fonti di raccolta rispetto
alla struttura per scadenze dell’attivo (net stable funding ratio).
La banca pertanto può concedere nuovo credito solo se, nella composizione dell’attivo e del
passivo, i parametri indicati sono superiori ai requisiti minimi imposti dalla regolamentazione.
Tali pesanti vincoli, posti per condivisibili finalità prudenziali, sono più restrittivi di quelli che
probabilmente le banche discrezionalmente sarebbero disposte ad assumere come criteri fisiologici
di equilibrio patrimoniale e finanziario della gestione.
Pertanto sono proprio questi obblighi, in buona sostanza, a limitare in questo frangente la
produzione di nuovo credito.
In questa situazione le banche si mostrano restie ad espandere le linee di credito tenuto conto che
lo stato attuale dell’economia, temono i rischi di non restituzione, mentre dall’altra sono le stesse
imprese che, scontando una congiuntura che è ancora molto incerta, non richiedono nuove risorse.
La politica di tassi di interesse sempre più bassi riduce poi fortemente i loro profitti, che
normalmente sono importanti quando i tassi sono elevati; per di più, gli istituti di solito traggono
profitti prendendo a prestito il denaro a breve termine e impiegandolo a lungo, mentre oggi le
differenze fra i due tassi sono molto ridotte. D’altro canto, interessi tendenzialmente negativi
scoraggiano i depositanti dal versare risorse nelle banche e rendono problematica l’espansione della
stessa raccolta.
Diversamente da come nell’opinione corrente spesso viene sostenuto, l’attuale situazione non
dipende dalla volontà delle banche di non far circolare la liquidità che possiedono. Sembra piuttosto
che, sebbene le banche abbiano attualmente maggiore liquidità, grazie anche al sostegno della BCE,
non sono però di fatto nella condizione di offrire, in condizioni di equilibrio gestionale, il credito
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che servirebbe all’economia reale e ciò con particolare enfasi vale per il credito alle PMI. Questo
ovviamente vale in misura maggiore per le imprese localizzate nelle aree più problematiche del
Mezzogiorno.
Con riferimento alla situazione italiana pare ragionevole ritenere che fra le principali cause di
razionamento del credito alle PMI siano da annoverare: i maggiori requisiti patrimoniali e di
liquidità richiesti dalla regolamentazione prudenziale, l’aggravamento del rischio accumulato nelle
banche per i prestiti in essere, e infine le modalità con cui si è evoluto il rapporto fra banche e PMI.
Comunque le politiche monetarie non sono in grado, da sole, di suscitare lo sviluppo, dal
momento che la politica fiscale espansiva resta impraticabile in Europa a causa dell’ austerità
imposta a tutti dalla Germania.
4. Il nodo delle sofferenze bancarie. gli interventi: gli obiettivi e i problemi aperti
Il livello dei crediti in incagliati del sistema bancario italiano ammonta oggi ad oltre 360 miliardi
di euro, pari a più del 20% del totale dei prestiti. Come si è visto essi siano dovuti prevalentemente
alla crisi dell’economia, ma non vanno trascurati fattori connessi a inefficienze nella concessione
dei fidi e a pratiche di mala gestio.
Per quanto riguarda specificatamente i crediti in sofferenza, dal valore nominale di 210 miliardi
di euro, al netto degli stanziamenti ai fondi rischi essi risultano alla fine pari a 84 miliardi. Ora,
attraverso la loro vendita eventuale sul mercato, si potrebbero ricavare, nella condizione attuale,
circa 40 miliardi; resterebbe uno squilibrio di 44 miliardi, più le eventuali perdite sui 150 miliardi di
crediti incagliati. Si può quindi stimare che complessivamente in fabbisogno sia pari ad almeno 50
miliardi, ma essa potrebbe rivelarsi anche come più elevata.
Il capitale del fondo Atlante dovrebbe aggirarsi intorno ai 5 miliardi di euro. Le banche in
sostanza precettate contribuiranno con circa 3 miliardi. I capitali pubblici, attraverso la Cassa
Depositi e Prestiti (CDP) e la Sga, la bad bank a suo tempo costituita per il salvataggio del Banco di
Napoli, per altri 500. Inoltre è previsto l’intervento di fondazioni, assicurazioni ed altri investitori.
Il fondo ha due obiettivi operativi: da una parte quello di contribuire alla ricapitalizzazione degli
istituti con il 70% delle risorse stanziate e per il resto quello di rilevare una parte dei prestiti
deteriorati. A questo proposito esso interverrebbe nella tranche junior degli stessi, mentre, come è
noto, a quella senior si ricorrerebbe al meccanismo di garanzia pubblica Gaecs, varato in
precedenza.
Anche se il fondo si può indebitare, aumentando così i mezzi a disposizione, resta molto ampio il
divario tra esigenze di ricapitalizzazione e di salvataggio e i fondi stanziati. Il fondo è quindi molto
lontano dal coprire il le esigenze attuali di nuove risorse come visto in precedenza.
Al varo del fondo si dovrebbero comunque accompagnare delle nuove norme sulle procedure
fallimentari in modo da accelerare i tempi di incasso degli stessi crediti, oggi molto alti. Anche se la
nuova legislazione potrebbe migliorare in astratto di parecchio il valore dei crediti in difficoltà, da
una parte il governo aveva già approvato nel 2015 delle norme in proposito che si sono poi rivelate
inefficaci, dall’altra i tempi di messa in opera reale della nuova procedura potrebbero rivelarsi
molto lunghi e non riuscire quindi a dare un contributo reale alla soluzione del problema.
Va infine ricordato che le grandi banche nazionali da una parte cominciano ad essere coinvolte in
troppe iniziative di salvataggio, rischiando di entrare loro stesse in difficoltà, dall’altra che il loro
intervento potrebbe innescare importanti conflitti di interesse. Le banche che partecipano al fondo
potrebbero esercitare delle pressioni sul medesimo per vedersi riconosciuto un valore più elevato ai
crediti deteriorati ceduti. Andrebbe anche definito il ruolo della CDP, oltre che degli altri soggetti
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pubblici o semipubblici come la SGA e quindi sarebbe necessario un ampio dibattito, che trovasse
poi il suo sbocco in Parlamento.
5. Interventi volti al sostegno finanziario delle PMI
In Italia, oltre alle manovre varate dalla BCE, con lo stesso obiettivo di riduzione della stretta
creditizia, ha operato nel contempo la Banca d’Italia che nel 2015, con il fine di migliorare la
situazione di liquidità delle banche e insieme agevolare la concessione di credito alle piccole e
medie imprese, ha ulteriormente ampliato la gamma dei prestiti che gli intermediari possono
utilizzare a garanzia delle operazioni di rifinanziamento presso l’Eurosistema, con modalità tali da
incentivare il credito alle piccole e medie imprese.
Anche il ministero per lo Sviluppo Economico ha agito nel contempo con diversi strumenti per
contrastare il fenomeno. Solo per citare alcune delle misure più recenti, è da menzionare che è stato
rafforzato il Fondo di garanzia per i crediti alle PMI, includendo nuove categorie di prenditori e
consentendo di assicurare portafogli di prestiti ed emissioni di obbligazioni.
Ancora, alle piccole e medie imprese è stata data la possibilità di accedere a finanziamenti a
tasso agevolato per l’acquisto, anche mediante operazioni di leasing finanziario, di macchinari,
impianti e attrezzature nuovi di fabbrica ad uso produttivo. Tali finanziamenti sono concessi, a
valere su un plafond di provvista presso la gestione separata della Cassa depositi e prestiti.
La CDP ha ampliato il suo ruolo attraverso l’assunzione di quote societarie, direttamente o
indirettamente tramite fondi equity (Fondo Italiano di Investimento delle PMI), (Fondo Strategico
Italiano). La CDP nel 2015 è inoltre entrata nella Società di servizio per la patrimonializzazione e
ristrutturazione delle imprese.
Per di più, tramite i decreti emanati nell’ultimo triennio, si è cercato di favorire per le PMI il
ricorso a canali di finanziamento alternativi a quello bancario. Mediante l’emissione di obbligazioni
e titoli di debito a medio-lungo termine (i cosiddetti minibond), sono state estese alle società non
quotate alcune facilitazioni in passato previste solo per le aziende presenti sui mercati
regolamentati, tra cui la deducibilità degli interessi passivi nella misura del 30% e l’esenzione della
ritenuta alla fonte sui proventi corrisposti.
Negli ultimi mesi è cresciuto il ricorso a questi strumenti da parte delle aziende più piccole,
anche se il 56% delle emissioni fin qui realizzate fa capo a realtà che fatturano più di 50 milioni.
Va tuttavia osservato che al contrario di quanto si è osservato in altri paesi, in Italia l’accresciuto
intervento a sostegno delle condizioni finanziarie delle imprese, in particolare quelle più piccole,
non si è sviluppato all’interno di un quadro organico di politica industriale nel quale la priorità fosse
rivolta al sostegno delle imprese meridionali.
Le misure messe in campo dai diversi governi sono state affidate a enti o soggetti operanti in
maniera talora indipendente gli uni dagli altri; una tale frammentazione può aver ostacolato un
efficiente utilizzo dei diversi strumenti da parte delle imprese per cui la quota di risorse
effettivamente giunta alle imprese localizzate al Sud è stata molto modesta.
Altro capitolo è rappresentato dall’azione di rafforzamento dello strumento dei confidi che sono
società di consorzi privati, in parte ricettori di fondi pubblici, deputati da un lato a erogare
finanziamenti ad aziende a tasso particolarmente agevolato e dall’altro a offrire garanzie alle
banche che erogano il finanziamento alle imprese.
In questo modo soddisfano sia le esigenze delle aziende di avere quantità, costo e durata del
finanziamento a condizioni più vantaggiose, sia quelle delle banche, che si vedono
maggiormente garantite nell’erogazione del finanziamento anche dalla conoscenza dell’azienda e
dei progetti di sviluppo collegati.
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Le indagini effettuate dalla Svimez evidenziano che al Sud ci sono più Confidi ma sono erogate
meno garanzie di quanto avviene nel resto del Paese, inoltre i Confidi meridionali si dimostrano
poco capaci di selezionare ed assistere le imprese con maggiori capacità di espansione.
Non a caso, anche il raggio d’azione territoriale del Confidi meridionale è in media molto più
ristretto della media italiana. Limitato nel Mezzogiorno il volume anche delle garanzie medie: 17,7
milioni di euro, circa un quarto di quanto erogato in media da un Confidi del Centro-Nord (97
milioni di euro).
I Confidi erogano garanzie più a imprese dei servizi che a industria e costruzioni. A
Nord come a Sud, sono soprattutto le PMI sotto i 20 addetti ad essere maggiormente
destinatarie dell’assistenza del Confidi. Ma si tratta comunque sempre di minoranze: a livello
nazionale soltanto il 10% delle PMI viene assistito dai Confidi, quale media compresa tra
l’8,7% delle imprese al Sud e il 13,5% del Nord Est.
Per quanto concerne gli interventi occorrerebbe invece predisporre un modello di
programmazione pluriennale degli interventi con una banca dati nazionale che censisca i
programmi di intervento e misuri l’impatto sui beneficiari; adottare il modello organizzativo
“federale”, basato sull’interazione tra Confidi centrali e locali, e i “contratti di rete” per creare
sinergie e condivisioni di attività tra i Confidi; rafforzare i servizi prestati dai Confidi alle
imprese predisponendo una consulenza finanziaria continuativa, con pianificazione finanziaria
e controllo direzionale.
Fermo restando la priorità di rafforzare sul fronte del patrimonio i Confidi, riorganizzando
e concentrando la rete delle strutture sul territorio, così da evitare che siano le imprese
peggiori a ricorrere alla garanzia dei Confidi.
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