CS DUCHAMP - Museo Villa Croce

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CS DUCHAMP - Museo Villa Croce
MARCEL DUCHAMP: una collezione italiana.
Disegni, grafiche, fotografie e multipli del padre dell’arte contemporanea
Museo d’arte contemporanea Villa Croce – 11 maggio - 16 luglio 2006
La mostra “ Marcel Duchamp: una collezione italiana “ presenta per la prima volta in Italia la collezione di
Luisella Zignone; 150 opere tra disegni, grafiche, foto e readymade che documentano compiutamente
l’attività concettuale dell’artista francese, ineliminabile punto di riferimento per tutta l’arte contemporanea
dagli inizi del ‘900 ad oggi.
Per molti se non per tutti gli appassionati d’arte contemporanea, Marcel Duchamp è prima ancora che un
artista, il simbolo e lo stereotipo dell’arte “come idea”, l’insostituibile protagonista di un gesto dissacratorio
che sottrae al contesto un oggetto “indifferente” e gli attribuisce con ciò lo statuto di opera d’arte, il punto di
partenza del percorso dell’arte dal Novecento ad oggi, la sua giustificazione e il suo peccato originale che
l’ha per sempre allontanata dal paradiso terrestre di un rapporto integrato con la società e con i suoi valori,
a cominciare da quella categoria estetica del “gusto” a cui Duchamp deliberatamente si sottrae proprio con
la scelta estrema del ready-made. Così mentre un quadro di Picasso appare ormai a tutti, o quasi, un
capolavoro-feticcio da ostendere ed ammirare anche se non lo si comprende, lo scolabottiglie di Duchamp è
ancora vissuto dai più come un corpo estraneo nel mondo dell’arte e dagli appassionati come la bandiera di
una rivoluzione appena cominciata!
A partire dal 1911 Duchamp si allontana progressivamente dagli stili e dai soggetti dell’avanguardia cubista
e futurista per esplorare due grandi filoni tematici che rimarranno, da quel momento, fondamentali per la sua
ricerca artistica, pur sviluppandosi in modo indipendente l’uno dall’altro.
L’origine comune di questi due temi è la ricerca di una forma d’arte concettuale dove “la pittura non deve
essere solo visiva o retinica. Deve interessare anche la materia grigia, il nostro appetito di comprensione.”
(intervista a Duchamp di James J. Sweeney).
Il primo dei due filoni è espresso in una serie di lavori non convenzionali che portano Duchamp ad esplorare
molte possibilità creative diverse: i giochi verbali, gli scacchi, le incisioni, l’impaginazione di libri e di
cataloghi, l’ideazione di copertine, riviste e manifesti, la rilegatura di libri e soprattutto i Readymade.
I Readymade costituiscono un’innovazione formale tra le più dirompenti, capaci di cambiare il modo stesso
di fare arte: oggetti di uso comune, non progettati ma scelti dall’artista, presentati come opere d’arte.
Il secondo tema - al centro e fonte di tutto il lavoro futuro – è La Mariée mise à nu par ses célibataires,
même (La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche), opera nota come Grand Verre (Grande Vetro)
(1915 – 1923), poema visivo e cosmogonia laica, la cui epopea troverà, dopo mezzo secolo, la sua
conclusione nell’Etant donné, opera a cui lavora per gli ultimi vent’anni della sua vita (1946/1968).
Tra il 1915 - inizio del Grande Vetro - e il 1946 - esordio di Etant donné - nascono una serie di opere
preparatorie che avranno la loro collocazione in quest’ultimo lavoro, ritenuto il suo testamento spirituale.
LE OPERE
Nella collezione in mostra al Museo si trovano lavori che costituiscono una documentazione di massima
importanza delle tematiche affrontate dall’artista francese nel corso della sua attività artistica.
Nella sezione Readymade possiamo trovare 7 pezzi del 1964, realizzati in collaborazione con Arturo
Schwarz in edizione numerata e firmati, in occasione del cinquantesimo anniversario del primo ready-made.
Tra questi Egouttoir (Scolabottiglie), Fountain (Fontana), un vero e proprio orinatoio presentato senza
interventi ma solo ribaltato e firmato con uno pseudonimo (R. Mutt), uno dei lavori più universalmente noti di
Duchamp per la sua carica eversiva, e Why not sneeze Rose Sélavy (Perchè non starnutire Rose Sélavy?),
una gabbietta per uccelli contenente 152 cubetti che apparentemente sembrano zollette di zucchero, ma che
si rivelano essere di marmo, creando un effetto di spiazzamento.
Tra i pezzi più straordinari la celebre Door, 11 rue Larrey, del 1927, vera e propria porta dell’appartamento
parigino dell’artista, che contraddice ironicamente la massima secondo cui una porta deve necessariamente
essere aperta o chiusa e che Duchamp commentò con la nota "Il n'y a pas de solution parce qu'il n'y a pas
de problème" (Non c’è soluzione perché non il problema esiste).
Nella sezione delle Boîtes (scatole) sono esposte la Boîte Alert, la Boîte-en-valise (Scatola in valigia) del
1935-’41 e la celebre Boîte verte (Scatola verde) del 1934, un lussuoso cofanetto di velluto verde in cui sono
raccolti un assortimento di 93 fogli a stampa dei bozzetti del Grande Vetro, riprodotti da Duchamp dopo
essere venuto a conoscenza che la sua opera più importante si era frantumata.
La sezione Incisioni comprende 40 acqueforti dalla serie Morceaux Choisis I e II stadio, e The Large Glass I
e II stadio e alcuni Bon à Tirer, che testimoniano tra l’altro la propensione di Duchamp alla citazione o
meglio al “riuso” dell’iconografia della storia dell’arte (d’après Rodin, d’après Ingres, d’après Courbet).
In mostra è presente d’après Cranach con l’ironica variante fotografica di Man Ray “Marcel Duchamp e
Bronja Perlmutter come Adamo ed Eva” in Relâche intermezzo teatrale di Cinésketch con testo di Francis
Picabia e regia di René Clair, Parigi, 1924.
Accanto a queste le incisioni riferite ai congegni meccanomorfi del Grand Verre (la Sposa, i Nove stampi
maschili, i Setacci o Crivelli, i Testimoni oculari, il Mulino ad acqua, la Macinatrice di cioccolato) sottoposti ad
un analogo trattamento di “raffreddamento” e di smaterializzazione .
Nella sezione Fotografie ricordiamo cinque ritratti dell’artista eseguiti da Nicky Ekstrom del 1964, fotografie
di Man Ray (tra cui alcuni Rayogrammi e due ritratti di Duchamp) e alcuni ritratti realizzati da Ugo Mulas a
New York durante il suo primo soggiorno nel 1964 e nello stesso anno a Milano in occasione della mostra
“Omaggio a Duchamp” alla galleria Schwarz. Foto e altri documenti sono conservati nel Black Book
realizzato da Duchamp in occasione della retrospettiva alla Cordier&Ekstrom Gallery di New York nel 1964.
L’esposizione comprende inoltre 1 Rotorelief - un apparecchio con motore elettrico in edizione limitata in 12
pezzi (1935- 1963) - e documenti vari, tra cui lettere dell’artista, disegni, copertine di libri e cataloghi, inviti a
mostre.
La mostra è a cura di Sergio Casoli con un allestimento ideato da Massimiliano Fuksas.
Il catalogo edito da Skira è stato curato da Arturo Schwarz con testi di Sergio Casoli, Edoardo Sanguineti,
Arturo Schwarz, Sandra Solimano e con un disegno originale di Massimiliano Fuksas
La mostra è stata realizzata con il contributo di Costa Crociere, iGuzzini, ArtCeiling.
INZIATIVE ORGANIZZATE DURANTE LA MOSTRA
Sabato 20 maggio sino alle ore 23 nell’ambito de “La notte dei Musei”, performance del gruppo Coniglio
Viola, un omaggio contemporaneo al travestitismo di Marcel Duchamp con apertura straordinaria della
mostra.
Sabato 27 maggio alle ore 18 “Poesia e suono intorno a Marcel Duchamp”:
Recitazione di testi letterari ed esecuzione di brani scelti quali i “Mesostics” e il profilo di Marcel Duchamp
(che è in realtà una partitura). A cura dell’Accademia del Chiostro.
Giovedì 8 giugno alle ore 18 “Marcel Duchamp e il cinema”.
Proiezione di filmati sperimentali di Marcel Duchamp. A cura di Magazzino Sanguineti con la partecipazione
straordinaria di Edoardo Sanguineti
Marcel Duchamp: una collezione italiana
.
Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce
Via Jacopo Ruffini 3 - 16128 Genova
Tel. +39 010 585772 - 010 580069; fax +39 010 532482
E-mail [email protected]
www.museovillacroce.it
Date: dal 11 maggio al 16 luglio 2006
Orari: da martedì a venerdì (9.00 – 19.00);
sabato e domenica (10.00 – 19.00);
lunedì chiuso
ingresso: intero € 6.00; ridotto € 4.00
Visite guidate alla mostra (comprese nel costo del biglietto) su prenotazione tel.+39 010 585772
Ufficio Comunicazione Cultura ed Eventi
Palazzo Ducale - Piazza Matteotti 9 - Genova
Palazzo Ducale - Tel. 010.5574012-4047 - [email protected][email protected] - [email protected] [email protected]
Skira – Mara Vitali Comunicazione
Lucia Crespi tel. 02.73950962 – [email protected]
Testo A.Schwarz
Marcel Duchamp sempre attuale, anche
1. Marcel Duchamp, Leonardo del secolo scorso
Agli albori del secolo scorso, Guillaume Apollinaire ebbe alcune intuizioni profetiche che erano destinate a
realizzarsi prima ancora della sua fine prematura sopraggiunta il 9 novembre 1918. Egli ebbe quindi il tempo
di accorgersi che “nuovi fremiti percorrano la nostra atmosfera intellettuale” (cito a memoria). Nel 1913,
anticipando la svolta epocale che vide l’intrusione dell’oggetto comune nella tela del pittore, egli suggeriva
all’artista: “dipingete con qualsiasi materiali vi aggradi, con pipe, francobolli…candelabri… colletti” (1913:
38). Il 26 novembre 1917 (strana coincidenza, dall’altra parte dell’Europa iniziava la Rivoluzione d’ottobre), il
poeta faceva una conferenza al teatro del Vieux Colombier dal titolo Lo spirito nuovo, nel corso della quale
affermava che questo spirito nuovo “segnerà lo spirito universale e non intende limitare la sua attività a
questo o a quello” (1917: 9). Continuando, egli precisava anche che “lo spirito nuovo è nemico innanzitutto
dell’estetismo e delle formule” (id. 27). Con straordinario intuito, nelle sue Méditations esthétiques, egli
annunciava: “l’oggetto, reale o illusorio è chiamato, senza dubbio, a svolgere un ruolo sempre più
importante.”(1913: 35-6). Apollinaire anticipava così sia la liberazione da ogni canone estetico, sia l’odierna
globalizzazione dell’attività artistica, sia, infine, la diffusione di questo spirito nuovo in tutti campi tra cui
quello dei costumi, dei consumi e delle attività creative.
Per quanto riguarda Marcel Duchamp, Apollinaire, nel ben noto saggio Les Peintres cubistes – pubblicato
nel 1913, l’anno del primo Readymade: la Ruota di bicicletta – intuì che Duchamp “produrrà delle opere di
una forza della quale non abbiamo idea” aggiungendo “forse toccherà a un artista libero da preoccupazioni
estetiche come Duchamp, di riconciliare l’Arte e il Popolo.” (1913: 75, 76). Proprio Duchamp, infatti, riprese,
per proprio conto, un pensiero di Lautréamont che precorreva l’arte del secolo scorso: “sappiate che la
poesia si trova dovunque” (1869: 379). Un anno dopo, sempre Lautréamont, insisteva: “la poesia deve
essere fatta da tutti. (1870: 491). La vita e il lavoro di Duchamp – indissolubilmente legati – inciteranno
André Breton a constatare che, nel caso dell’amico Marcel, “viene a trovarsi contestata, e finirà poi
annullata, la distinzione fra arte e vita che a lungo si era ritenuta necessaria” (1950: 223).
Prima di proseguire mi sembra utile ricordare un tratto fondamentale del carattere di Duchamp. Intervistato
dagli amici George e Richard Hamilton, egli affermò: “Per me è molto importante non essere instradato su
alcun binario. Voglio essere libero, e voglio essere libero anzitutto verso me stesso” (Hamilton 1959: n.p.).
Questo desiderio imperioso di libertà ha condizionato un atteggiamento di tolleranza, di non dogmatismo, di
rifiuto di verità inconfutabili e di soluzioni nette. In questo senso è paradigmatica un’opera della raccolta
Zignone, la Porta: 11 rue Larrey (1927), una porta che, significativamente è sempre chiusa e aperta allo
stesso tempo. Mi spiego: Duchamp allestì personalmente il suo studio di rue Larrey. L’appartamento era
però così piccolo da non permettere l'esistenza di più d'una porta tra lo studio, la stanza da letto e la camera
da bagno. Per questo, Duchamp ideò una sola porta di legno naturale che apriva e chiudeva,
alternativamente, i tre vani dell'appartamento. Il detto francese “bisogna che una porta sia aperta o chiusa” si
trovava così sfatato definitivamente.
***
Due grandi temi corrono paralleli nell’opera di Duchamp; nascono entrambi nel 1911 e da allora si
sviluppano in modo più o meno indipendente l’uno dall’altro. Tuttavia, come insegna Einstein, le parallele
possono anche incontrarsi, come succede spesso con Duchamp, dato che i due filoni sono strettamente
connessi e interdipendenti e si intersecano. Entrambi i temi hanno la stessa origine: la ricerca di una forma
d’arte più concettuale che visiva. Ne conseguirà la scomparsa delle attività artistiche nel senso
convenzionale di quell’epoca, la liberazione dell’artista dalla gabbia della specializzazione elitaria imposta
dall’accademismo e l’affermazione di una libertà creativa illimitata.
Il primo dei due temi si è espresso in una serie di lavori non convenzionali che hanno portato Duchamp ad
esplorare molte e diverse possibilità creative. Tra queste i celebri Readymade definiti da André Breton
“oggetti di serie promossi dalla scelta dell’artista alla dignità di oggetti d’arte” (1935: p. 7). Nobilitare un
oggetto comune non era affatto un gesto gratuito e privo d’impegno; la trasmutazione era il frutto di una
complessa operazione sia concettuale che fisica, come vedremo tra poco. E' utile segnalare, tuttavia, che
l’operazione duchampiano era in linea con l’affermazione di Lautréamont per il quale l’arte come la poesia
poteva e doveva essere fatta da tutti (1869: p. 327). Coerentemente con quest’idea, Duchamp aveva
affermato, nel corso d’un intervista a Jean Schuster: “sono gli spettatori che fanno il quadro” ( 1957: p. 143).
anche i giochi di parole assumono una dimensione non solo ludica. Duchamp indagò molti altri campi
creativi: la falegnameria, le illusioni ottiche, le incisioni originali, gli scacchi, l’impaginazione di libri e di
cataloghi – a questo proposito è d’obbligo segnalare la presenza in questa raccolta di un rarissimo esempio
di rivoluzionaria impaginazione, il Some French Moderns Says MacBride che risale al 1929 – l’ideazione di
manifesti e di copertine per riviste, la rilegature di libri, ecc. Il grande merito di Luisella Zignone sta nel non
avere trascurato questo importante aspetto dell’opera duchampiana e nel documentare tanto compiutamente
l’attività artistica e concettuale di Duchamp da coprire l’intero arco della sua produzione: dal primo
autoritratto, Giovane triste in treno del 1911, all’ultimissimo lavoro Camino anaglifico del 1968.
Il secondo tema – centro e fonte di tutto il suo lavoro futuro – è La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli,
anche, opera nota, più brevemente, come Il Grande Vetro (1915-1923). Si tratta di un grande poema visivo
dipinto su due lastre di vetro sovrapposte, la cui epopea troverà la sua conclusione, quasi mezzo secolo
dopo, nell’environment che si può ritenere il suo testamento spirituale: Dati: La caduta d’acqua / 2. Il gas
d’illuminazione (Etant donné…). Duchamp lavorò a quest’opera per gli ultimi vent’anni della sua vita: dal
1946 al 1966, solo due anni prima di averci lasciati nel settembre del 1968. Anche in questo caso, la raccolta
Luisella Zignone propone l’intero corpus delle 35 acqueforti originali che illustrano entrambe queste opere
monumentali. Tra il 1915 – inizio del Grande Vetro – e il 1946 – inizio di Etant donné – sono nate una serie
di opere preparatorie che hanno trovato un collocamento in Etant Donné, molte delle quali sono
egregiamente rappresentate qui.
***
A proposito dei Readymade, dissipiamo l’impressione che chiunque, nel tentativo di imitare Duchamp, sia in
grado di scegliere un oggetto di serie e promuoverlo alla dignità d’un oggetto d’arte per il solo fatto di averlo
scelto e firmato. Troppo facile. Si dimentica che non vi è opera di Duchamp che non sia il frutto di quello che
ho definito “il rigore dell’immaginazione”. Ed è proprio questo rigore – con Duchamp sempre esacerbato –
che l’inciterà a promulgare quattro condizioni che governano il processo di trasformazione d’un oggetto
comune in un oggetto d’arte. E' necessario, innanzitutto, dare all’oggetto quello che Duchamp chiama “un
colore verbale” e cioè un titolo che non deve essere descrittivo ma tale da trasportare la mente dello
spettatore verso altre regioni più mentali: si tratta di scoprire la dimensione poetica dell’oggetto scelto.
Attratto dalla scultura innovativa del Woolworth Building, per esempio, si propose di farne un Readymade
(nota datata gennaio 1916 in Schwarz 1969a) ma non avendo saputo trovare un titolo appropriato, vi
rinunciò. Nel 1915, invece, scelse un semplice badile per la neve per il quale trovò un titolo che lo
soddisfaceva Anticipo per il braccio rotto. L’anno seguente attribuì alla fodera di una macchina da scrivere il
titolo Pieghevole da viaggio. Il 1917 è un anno fertile che lo vede scegliere due Readymade: un orinatoio che
chiama Fontana e un attaccapanni, Trabocchetto.
La seconda regola ha un carattere più evanescente. Per Duchamp è necessario pianificare un incontro con
l’oggetto “è una specie di appuntamento. Naturalmente bisognerà datarlo tale data, ora minuto” (Nota 54).
Un esempio classico è il Pettine ((1916) sul dorso del quale Duchamp scrisse con la biacca bianca, in
caratteri minuscoli, il titolo e la data: 3 ou 4 gouttes de hauteur n’ont rien à faire avec la sauvagerie Feb 17
1916 11 A.M.
La terza regola stabilisce che bisogna ‘spaesare’ l’oggetto, riproponendolo con l’angolo visuale di percezione
cambiato al fine di ‘de-contestualizzarlo’. Con Einstein e la sua teoria della relatività si è raggiunta una
maggiore consapevolezza dell’importanza assunta dal punto d’osservazione dello spettatore. Il Principio
d’indeterminazione di Heisenberg ha messo ancora più in evidenza l’importanza di questo fattore obiettivo: il
mezzo di osservazione è importante quanto il suo punto di osservazione. Esempi paradigmatici di tali
Readymade sono la Ruota di bicicletta (1913), montata su uno sgabello da cucina, Fontana (1917) dove
l’orinatoio è poggiato sul dorso e, dello stesso anno, Trabocchetto: dove un comune attaccapanni da parete
è inchiodato al pavimento.
Infine, la quarta regola che Duchamp s’impone proprio per non scadere nell’atto ripetitivo, egli quindi si
propone di “limitare il numero dei Readymade scelti in un anno” (nota 53). Più tardi spiegherà: “Molto presto
mi resi conto del pericolo di ripetere indiscriminatamente questa forma di espressione e decisi di limitare a
un piccolo numero di pezzi la produzione annuale di Readymade. A questo punto comprendevo che più per
lo spettatore che per l’artista l’arte è una droga che dà assuefazione, e volevo proteggere i miei Readymade
contro una simile contaminazione” (1966: 47).
Questa precisazione mi sembra necessaria dato l’uso indiscriminato e sempre più frequente di tali creazioni
e perché credo che il mondo dell’arte stia vivendo una contraddizione mortale. Si sta manifestando un odio
delle arte plastiche che esigono un certo grado di manualità e che sono frutto di un'autentica esigenza
interiore. Con il pretesto di volere respingere il formalismo dell’arte per l’arte, si è giunti ad una forma d’arte
contro l’arte. Questa auto-proclamatasi avanguardia ha tutte le caratteristiche della più trita accademia:
ripetizione, al massimo con lievi varianti, sia del tema che della forma, ricorso al monumentale e allo
smisurato, accento sul decorativo, ambizione di épater le bourgeois, in una parola, scandalizzare,
preoccupazione di “far soldi” ad ogni costo e mancanza totale d’ispirazione.
Credo sia utile soffermarsi su un’altro apporto duchampiano, l’utilizzo cosciente del fattore caso nel processo
creativo. Conosciamo l’importanza cardinale che ha avuto il fattore caso per la poetica delle avanguardie
storiche e delle generazioni successive. E' Arp a ricordarlo, il caso “è un ordine di cui ignoriamo le leggi”.
Duchamp fu certamente il primo artista del secolo scorso ad intuirne l’enorme importanza tanto che il fattore
caso è stato un elemento primordiale anche dell’opera che sta al centro di tutta la sua creatività, il già citato
Grande Vetro. Dal 1913 in poi, il caso interviene nella praxis duchampiana, in molte opere ta cui i 3
Rammendi-tipo dello stesso anno e nei Pistoni di corrente d’aria dell’anno successivo.
Impossibile chiudere queste annotazioni senza accennare ad un aspetto dell’opus duchampiano raramente
evocato e costantemente sottovalutato, e penso all’attività letteraria che costituisce l’espressione più
compiuta della sua preoccupazione di elaborare una forma di attività artistica più mentale che visiva.
Questa attività va di pari passo con quella plastica e ne costituisce, anzi, a volte la dimensione esegetica e
poetica. Esempi classici della volontà di fornire uno sfondo, sia letterario sia esegetico, all’opera che
costituisce il punto focale della sua vita – il Grande Vetro – sono le raccolte di appunti che hanno preceduto
e accompagnato la sua elaborazione. Questi appunti costituiscano una documentazione insostituibile per
una comprensione dell’epopea sviluppata nel Grande Vetro. Ulteriore pregio della raccolta Zignone è di
presentare il corpus completo di questi appunti. La prima scarna raccolta degli stessi, la Scatola del 1914, fu
incorporata 30 anni dopo, ne la Scatola Verde (il cui titolo originale riprende quello del Grande Vetro, ma
senza la virgola finale: La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli anche), rappresentata qui dall’edizione di
lusso che si fregia di un suo collage in prima e quarta di copertina. Vale la pena di ricordare come Duchamp
descrisse il modo in cui riunì i vari componenti (77 note e schizzi e 17 riproduzioni di opere) della Scatola
Verde: “Dopo dodici anni che avevo finito o piuttosto messo da parte il mio Vetro, ho trovato per caso gli
appunti di lavoro scribacchiati alla meglio su un centinaio di pezzetti di carta. Desideravo riprodurli il più
esattamente possibile, feci così litografare tutto con lo stesso inchiostro che era stato adoperato per gli
originali. Per trovare la carta identica dovetti rovistare tutti i cantucci e i buchi più inverosimili di Parigi.
Dovemmo poi ritagliare trecento copie di ogni litografia aiutandoci con i modelli di zinco che seguivano il
contorno degli originali” (Sanouillet 1954: p.5).
Questo modo di presentazione conciliava due pulsioni conflittuali in Duchamp – quella di dare una chiave di
lettura del Grande Vetro – proposito, questo, comune ad ogni creatore che vorrebbe che la propria opera
fosse capita e apprezzata – e quello di oscurarne il significato, dato il contenuto autobiografico della stessa.
Questa modalità, inoltre, era consone con il suo modo di pensare. Duchamp non crede che le cose abbiano
un ordine naturale e non desidera quindi imporre un ordine artificiale ai suoi pensieri. Se ricordiamo le sue
parole: il Vetro è, al tempo stesso, “un matrimonio di reazioni mentali e visive” e “un‘accumulazione d‘idee” è
chiaro il rapporto del Vetro con le note. Il fatto è che “alcune idee richiedono un linguaggio grafico per non
essere violate: così è per il mio Vetro. Ma alcune note di commento possono essere utili come le diciture
sotto le fotografie in un catalogo delle Galeries Lafayette. Questa è la raison d’être della mia scatola”
(loc.cit).
Le note riunite nella Scatola verde (1934) – e nella successiva A l’infinitif (del 1967, detta anche “Scatola
Bianca”) arricchita, quest’ultima, da una serigrafia originale sulla copertina di plexiglass – sono così un corpo
di prosa poetica parallelo allo spirito del Vetro – o viceversa – piuttosto che un commento al Vetro stesso.
Inoltre, dato che note e Vetro implicano due modi espressivi diversi, non tutte le note hanno trovato una
soluzione grafica nel vetro; così come non tutti gli elementi del Vetro hanno una loro espressione letteraria
nelle note. Dato poi che la contraddizione è insita nella natura del processo creativo – insieme al fatto di
essere soggetto a regressioni, esitazioni e improvvisi chiarimenti – anche le note, a volte, si contraddicono.
Non dimentichiamo che sono state scritte nel corso d’un periodo lungo dieci anni circa e che nel frattempo
diversi progetti furono abbandonati mentre altri subirono un evoluzione nel senso d’una maggiore semplicità
o complessità. Le contraddizioni che riscontriamo nelle note sono in rapporto alla molteplicità delle funzioni
di ogni elemento del Vetro e al fatto che ognuno di questi elementi può – o forse deve? – essere interpretato
in modo diverso e spesso antitetico dato che la loro essenza stessa è polivalente e polisemantica. A questo
proposito, ricordiamoci quello che Breton intuì per primo, con Duchamp “le parole smettono di giocare. Le
parole fanno l’amore (Breton 1922: p.14). Questa digressione mi pare necessaria dato che ritengo che la
Scatola verde e A l’infinitif costituiscono un’opere indivisibile e centrale e dobbiamo essere grati a Luisella
Zignone per non averne sottovalutato l’importanza.
2. Marcel Duchamp, padre dell’arte contemporanea
Tornando all’importanza del caso come fattore d’un opera d’arte, il pensiero va subito a John Cage. Mi si
lasci evocare l’atmosfera della New York che ho conosciuto negli anni cinquanta. In quell’epoca (è forse utile
ricordare che Duchamp, nato nel 1887, era allora un giovane sessantenne) andavo spesso a New York per
lavorare con lui alla monografia che sarebbe stata pubblicata vent’anni dopo. Tornare a quegli anni mi dà
l’occasione per ricordare alcuni degli indimenticabili personaggi che mi ha fatto conoscere, per citare alcune
delle opere documentate nella splendida collezione Luisella Pignone e per soffermarmi sui lavori compresi
nella più vasta e significativa rassegna dell’opus duchampiano in Italia.
Uno dei più assidui habitué di Casa Duchamp era il non ancora quarantenne John Cage. Insegnava al
celebre Black Mountain College frequentato da giovani artisti molti dei quali destinati a sconvolgere il
panorama dell’arte contemporanea. Cage componeva musica prevalentemente per strumenti a percussione
avvalendosi, per produrla, oltre che dei suoi famosi pianoforti preparati, anche di strumenti totalmente non
convenzionali (tazzine di riso, cerchioni d’automobile, latte di benzina, ecc.): veri e propri Readymade.
Conversando, Cage mi confermò l’importanza cardinale che ebbe sul suo pensiero, oltre al concetto del
Readymade, anche l’opera di Duchamp Erratum musical. Elaborata nel 1913, questa fu la prima
composizione musicale frutto dell’utilizzo del caso: Duchamp mise delle note musicali in un cappello e poi,
estraendole a caso, le annottava su la partitura destinata ad essere cantata dalle sorelle Yvonne et
Magdeleine e da se stesso. Così John Cage, per le sue composizioni di musica aleatoria, utilizzò il fattore
“caso”, con l’intento di ridurre al minimo l’aspetto soggettivo del processo compositivo. Cage, inoltre, non era
alieno dall’accettare le imperfezioni casuali della carta nello scrivere le sue partiture.
Ospiti abituali di Casa Duchamp erano quelli che sarebbero diventati i protagonisti dell’arte americana, tra gli
altri, Jasper Johns (1930) e Robert Rauschenberg (1925), entrambi ventenni. Il primo noto per i suoi “ritratti”
di oggetti Readymade, quali la serie dedicata alla bandiera americana (Flag, 1954-55), e le sculture,
contemporanee a questa serie, in bronzo dipinto di oggetti comuni, quali le ben note lattine di birra. Egli
eseguiva allora anche dei ritratti satirici utilizzando, per esempio, uno spazzolino da denti che diventava The
Critics Smile, (1959) o un paio di occhiali che intitolava The Critics See (1961). Prendeva, poi, come modelli
altri oggetti quotidiani e così sono nate le serie delle carte geografiche (Map, 1961), delle lettere
dell’alfabeto, dei numeri, ecc.
Anche Robert Rauschenberg fecce un uso costante di elementi Readymade nei suoi ben noti combine
paintings (1955), in parte collage e in parte assemblati. Creò, inoltre, sculture con elementi di scarto e a volte
utilizzò anche elementi meccanici (Ventilator) o sonori (Oracle, 1963). Sarebbe inutile, soffermarmi
ulteriormente sull’influenza determinante che ha avuto l’opera e il pensiero di Marcel Duchamp sui
movimenti e gli artisti della nostra epoca.
Per quanto riguarda gli artisti, mi sembra che i tre nomi ricordati siano abbastanza paradigmatici. Prima di
soffermarmi sulle opere del Duchamp precursore dell’inizio del secolo scorso, devo tuttavia citare almeno
alcuni movimenti – assieme ai loro protagonisti e teorici – direttamente debitori nei confronti della sua
filosofia e fortemente influenzati: Arte nucleare, Milano (1951: Baj e Dangelo); Arte cinetica, Parigi (1955:
Agam, R. Bury, Calder, Jacobsen, Soto, Tinguely); Happenings, New York (1957-58: A. Kaprow, J. Dine, C.
Oldenburg e R. Rauschenberg); Azimuth, Milano (1959: Manzoni e Castellani); Nuovo Realismo, Parigi
(1960: Pierre Restany con Arman, César, Dufrêne, Hains, Y. Klein, Raysse, Rotella, Spoerri, Tinguely,
Villeglé); Fluxus (1961, Colonia: Maciunas; Wiesbaden: Vostell; New York: G. Brecht, La Monte Young, C.
Moorman, N.J. Paik; Nizza: Ben, Filliou); Minimal art, New York (1964: Carl André, R. Judd, Sol LeWitt, A.
Martin, R. Morris, R. Ryman); Installazioni, New York (1965: B. Rose con D. Judd, R. Morris, R. Serra, R.
Smithson); Conceptual Art, New York, 1967 (Barry, Huebler, Kosuth); Art and Language, Londra (1967: T.
Atkinson, M: Baldwin, D. Bainbridge, H. Hurrell; New York: D. Graham, J. Kosuth, Sol LeWitt); Arte povera,
Genova (1967: Germano Celant, con Boetti, L. Fabbro, Pascali, G. Zorio); Body Art (1965, Vienna: R.
Schwarzkogler; 1967, Londra: Gilbert & George; 1969, New York: Vito Acconci; 1971, Parigi: Gina Pane); e
infine la Transavanguardia, Roma (1979: Achille Bonito Oliva con Chia, Clemente, Cucci, N. de Maria,
Paladino).
Ma torniamo ad esempi più specifici. In Appuntamento per Domenica 6 febbraio 1916 vediamo, come in
molte altre opere successive, un diretto antecedente delle preoccupazioni linguistiche del gruppo Art and
Language. Con Pulled at Four Pins, 1915, una ventola di latta rotante per cammino, egli anticipa l’arte
cinetica. Nella stessa direzione si collocano le sue macchine visive rotanti del 1920, 1925 e 1935. La
Scultura da viaggio (1918) offre il primo esempio di una “scultura” che contraddice il concetto stesso di
scultura come forma statica da collocare su una base. Si trattava, in effetti, di strisce ritagliate da cuffie da
bagno di diversi colori, incrociate casualmente, incollate e poi legate a spaghi legati agli angoli del suo studio
ubicato al numero 33 della 67ma Strada Ovest. Donald Judd, teorico delle Installazioni, senz’altro ispirato da
questo esempio, scriverà nel 1965 (o 1966, non ricordo): “tutti gli oggetti tridimensionali possono intrattenere
una relazione con il muro, il pavimento, il soffitto, la stanza o l’esterno o non avere alcuna” (Art News, New
York).
La Body Art venne anch’essa anticipata da Duchamp quando ha pensato di utilizzare la propria testa come
mezzo di espressione artistica; iniziativa questa documentata dalle fotografie Tonsura (1919), Belle Haleine
e Rose Sélavy (entrambe del 1921), Obbligazione per la roulette di Montecarlo (1924) e altre successive. Mi
fermo agli esempi citati che riguardano solo una decade dell’attività creativa di Duchamp perchè penso che
bastino per giustificare il titolo di questo capitolo. Non credo sia necessario ricordare quanto l’odissea
artistica di Duchamp sia posta sotto il segno dell’arte concettuale. Penso che egli condividesse senz’altro
questo pensiero di Platone: “La bellezza della mente è più onorevole della bellezza della forma”. Vorrei
citare un suo pensiero che conferma questa consonanza. Nel corso di due interviste con James Johnson
Sweeney egli disse: “l’arte dovrebbe volgersi verso una espressione intellettuale” (1945: 19-21); qualche
anno più tardi ribadirà lo stesso concetto: “la pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva;
dovrebbe aver a che fare con la materia grigia della nostra comprensione” (1955: 149-61).
Ora, nelle schede delle opere comprese nella raccolta Luisella Zignone, potremo verificare quanto detto e
l’estremo interesse di una raccolta che – fedele allo spirito duchampiano – è tutto fuor che convenzionale e
conformista. Segnalo, per concludere, la presenza di un corpus di rarissimi ritratti di Duchamp e di alcune
fotografie di suoi lavori ad opera di Man Ray; una serie di scatti di Ugo Mulas che ha saputo rivelarci l’artista
nell’intimità della sua casa a New York e farlo rivivere mentre visita la prima grande retrospettiva europea
svoltasi alla galleria Schwarz nel 1964; e il portafoglio di fotografie scattate da Nicky Ekstrom, testimone
della prima importante retrospettiva di Duchamp in una galleria privata statunitense: la galleria Cordier &
Ekstrom di New York nel 1965.
Bibliografia
Apollinaire, Guillaume
1913 Les Peintres cubistes / Méditations esthétiques. Paris, Eugène Figuière
1917 L’esprit nouveau et les poètes. Reprint: Jacques Haumont, Paris 1946
Breton, André
1922 “Les mots sans rides”, in Littérature (Paris), n.s. n.7 (dicembre)
1935 “Le Phare de la mariée” in Minotaure (Paris), II:6 (Inverno)
1950 Anthologie de l’humour noir. Traduzione italiana di Mariella Rossetti e Ippolito Simonis: Antologia dello
humour nero. Einaudi, Torino 1970
Duchamp. Marcel
1961 Apropos of Readymades, conferenza al Museum of Modern Art, New York, pubblicata in Art and
Artists (Londra), I:4 (luglio 1966) p. 47
Hamilton, George H. – Hamilron, Richard
1959 Marcel Duchamp Speaks, intervista, con brevi commenti di Charles Mitchell, trasmessa dalla BBC,
Terzo Progr5amma, nella serie Art, Anti-Art.
Lautréamont, comte de (Isidore Ducasse)
1869 Les chants de Maldoror. Traduzione italiana di Ivos Margoni: I canti di Maldoror. Poesie. Lettere.
Einaudi, Torino 1967, 1995
1870 Poésies. Idem
Sanouillet, Michel
1954 “Dans l’atelier de Marcel Duchamp”, intervista in Les Nouvelles Littéraires (Paris), n.1424 (16 dicembre
1954)
Schuster, Jean
1957 “Marcel Duchamp, vite”, in le surréalisme, même (Paris), n. 2 (Primavera)
Schwarz, Arturo
1962 Arte Nucleare. Galleria Schwarz, Milano [con lo pseudonimo Tristan Sauvage]
1969 The Complete works of Marcel Duchamp. Harry Abrams, New York; 3° edizione rivista e ampliata,
Thames & Hudson, Londra 1998. Traduzione italiana parziale: La Sposa messa a nudo in Marcel Duchamp,
anche. Einaudi, Torino 1974
1969a Notes and Projects for the Large Glass. Thames & Hudson, Londra
Sweeney, James Johnson
1946 Eleven Europeans in America. The Museum of Modern Art Bulletin (New York), XIII:4-5, pp. 19-21
1955 A conversation with Marcel Duchamp. Colonna sonora del film di 30 minuti girato nel 1955 dalla NBC.
Estratti adattati e tradotti in francese da Michel Sanouillet: Marchands du Sel. Le Terrain Vague, Paris 1959,
pp. 149-61
Duchamp come Che Guevara: se la mitologia prevale sulla conoscenza.
Sandra Solimano
Quando Sergio Casoli mi propose di realizzare a Villa Croce questa mostra di Duchamp fui divisa tra
l’entusiasmo di presentare al museo un mito dell’arte del Novecento e l’inspiegabile inquietudine di
circoscrivere un mito nello spazio e nel tempo reale di una mostra. Per me, come credo per molti se non per
tutti gli appassionati d’arte contemporanea, Marcel Duchamp è prima ancora che un artista, il simbolo e lo
stereotipo dell’arte “come idea”, l’insostituibile protagonista di un gesto dissacratorio che sottrae al contesto
un oggetto “indifferente” e gli attribuisce con ciò lo statuto di opera d’arte, il punto di partenza del percorso
dell’arte dal Novecento ad oggi, la sua giustificazione e il suo peccato originale che l’ha per sempre
allontanata dal paradiso terrestre di un rapporto integrato con la società e con i suoi valori, a cominciare da
quella categoria estetica del “gusto” a cui Duchamp deliberatamente si sottrae proprio con la scelta estrema
del ready-made. Così mentre un quadro di Picasso appare ormai a tutti o quasi un capolavoro-feticcio da
ostendere ed ammirare anche se non lo si comprende , lo scolabottiglie di Duchamp è ancora vissuto dai più
come un corpo estraneo nel mondo dell’arte e dagli appassionati come la bandiera di una rivoluzione
appena cominciata!
Se il problema espositivo ha cessato per me di essere un problema, delegato al curatore e al progetto di
allestimento firmato da Massimiliano Fuksas, la mostra, mi ha costretto ad un incontro ravvicinato con
l’artista e quindi a una rilettura più filologica , e meno incline alla mitologia, del suo lavoro che di fatto si
contestualizza nella straordinaria stagione delle avanguardie dei primi decenni del ‘900. Il filo rosso- manco
a dirlo- ce lo fornisce più che la vasta bibliografia, inevitabilmente mimetica della complessità del
personaggio, lo stesso Duchamp non tanto nelle dichiarazioni-manifesto o nelle interviste ufficiali, che sono
anch’esse parte integrante e consapevole della costruzione del mito, quanto in testimonianze “minori” come
le trascrizioni da conferenze e lezioni di cui fornisce ampia documentazione l’antologia “Marcel Duchamp”
(Marcos yMarcos edizioni) curata da Elio Grazioli.
Così con un occhio alla cronologia delle opere e uno allo story-board “A proposito di me stesso” (Estratti da
note per una conferenza al City Art Museum di Saint Louis-1964) ritroviamo nella vicenda di Duchamp il
percorso tipo del giovane talento di inizi Novecento: pittore a 15 anni, influenzato dagli Impressionisti negli
anni liceali a Rouen, scopre inevitabilmente Cézanne e se ne innamora tra il 1909 e il 1910 per tradirlo poco
dopo con i più trasgressivi Fauves , “belve selvagge dello zoo della pittura” e approda infine al Cubismo,
quello analitico, di cui - racconta lui stesso- lo “attrae l’approccio intellettuale”, ma anche, nel suo intrecciarsi
con il futurismo di Balla e con le cromofotografie di Muybridge, la potenzialità di traduzione visiva del
movimento. E’ il 1911 e Duchamp a 24 anni firma il Nu descendant un escalier n.1 ,seguito dal Nu n.2 del
1912.
Sono anni cruciali ed affollati: dal Ritratto di Vollard di Picasso (1910/1911) al Dinamismo di un cane al
guinzaglio di Balla (1911) alla Tour Eiffel di Delaunay (1912), la contrapposizione tra una spazialità statica e
cartesiana e lo spazio dinamico della forma in movimento divide ricerche apparentemente vicine che
Duchamp metabolizza in una sorta di metamorfismo meccanico e simbolico insieme, destinato a trovare la
sua massima e più enigmatica espressione nel lungo work in progress del Grande Vetro cui comincia a
lavorare nel 1913. I colori del Nudo sono terrosi e spenti come nel Cubismo, le forme arrotondate e
meccaniche come in Automobile da corsa (1913)
di Giacomo Balla, il movimento è bloccato in una
sequenza di fotogrammi in parziale sovrapposizione come nella sperimentazione fotografica, ma il Nudo che
scende la scala , non a caso rifiutato come eretico al Salon des Indépendants di Parigi, appartiene già alla
dimensione simbolica ( e surrealista) dello slittamento della forma e del significato e dell’ambiguità del reale,
con una sintonia assai più marcata di quanto appaia tra il lavoro ancora “pittorico” e il ready-made! Il readymade – lo sappiamo- non è ancora nato all’epoca, almeno come nome e come teoria concettuale, ma nel
1912 Duchamp assiste alla commedia di Raymond Roussel “Impression d’Afrique” e si innamora delle
bizzarre creazioni verbo-visive che Roussel realizza con l’omofonia, prendendo una parola a caso e
distorcendola per trarne immagini come in un rebus. E il suo primo ready made, “la roue de bicyclette” si
trasforma, con analogo procedimento, in omaggio a Roussel grazie alla presenza di due oggetti: la roue e la
selle (ruota e sgabello). L’apparente casualità della scelta dell’oggetto(“nel 1913 ho avuto la felice idea di
fissare una ruota di bicicletta su uno sgabello e di guardarla girare”) corrisponde in realtà alla sua
potenzialità di veicolare un messaggio verbale del tutto svincolato dall’oggetto reale. Del resto la centralità
dell’oggetto come elemento neutro e al tempo stesso scatenante di un processo di metamorfosi simbolica
del dato oggettuale è ben presente nella Macinatrice di cioccolato n.1 (1913), primo tassello del Grande
Vetro di cui realizza nello stesso anno un bozzetto su carta da ricalco. Paradossalmente l’uscita da quella
che Duchamp stesso definisce “la camiciola cubista” si attua tramite quel processo di acquisizione di una
porzione di realtà che è alla base del cubismo sintetico, ma con un significativo ribaltamento di metodo che
sostituisce alla realtà acquisita la realtà rappresentata proprio attraverso la visione prospettica tradizionale
che il cubismo aveva inteso negare e superare. Come osserva Jean–Christophe Bailly , l’incontro con una
autentica macinatrice di cioccolato nella vetrina di una confetteria di Rouen e la sua appropriazione in un
“disegno assolutamente secco” che evoca il virtuosismo prospettico dei grandi innovatori del Quattrocento
italiano, è il primo ready made mentale dell’artista.
In fondo il “mitico” gesto dell’artista che preleva un oggetto e lo rinomina come opera d’arte avviene in
parallelo anche nella dimensione virtuale del Grande Vetro che appare ad una analisi formale come un
complesso assemblaggio di oggetti e di figure tra loro incongrue prelevate da contesti diversi e
ricontestualizzate in una struttura che la lettura iconologica di Maurizio Calvesi riconduce all’iconografia
della Vergine Assunta, con la tradizionale bipartizione tra la metà inferiore (la zona terrestre) fisica e
prospettica, affollata e agitata, e la metà superiore (la zona celeste), a-prospettica e bidimensionale,
rarefatta e simbolica. Inutile sottolineare come questa decriptazione , che si intreccia e si completa con la
“spiegazione” alchemica, prenda le mosse ancora una volta da una lettura omofona del titolo “La Marie est
mise à nue par céli-batteurs” che ci riconduce al principio ispiratore del ready made. Del resto, a parte il
notissimo intervento sulla Gioconda, Duchamp ha paradossalmente affermato che “ essendo i tubetti di
colore oggetti industriali preesistenti ogni quadro può essere inteso in senso lato come un ready made o un
assemblaggio” e ha d’altro canto dimostrato una significativa propensione alla citazione o meglio al “riuso”
dell’iconografia tradizionale ai livelli più bassi come la paradigmatica Pharmacie del 1914 e ai livelli più alti
come in Battesimo e in Il cespuglio (entrambi 1910/1911) o nelle molte incisioni presenti anche in questa
mostra: d’après Cranac (con l’ironica variante fotografica di Man Ray “M. Duchamp e Bronja Perlmutter
come Adamo ed Eva”), d’après Rodin, d’après Ingres, d’après Courbet , che convivono “indifferenti” , per
usare un termine caro a Duchamp, con i congegni meccanomorfi della Sposa, dei Nove stampi maschili, dei
Setacci o Crivelli, dei Testimoni oculari, del Mulino ad acqua, della Macinatrice di cioccolato, sottoposti ad un
analogo trattamento di “raffreddamento” e di smaterializzazione dalla comune tecnica incisoria. Il repertorio
della storia dell’arte è dunque come la realtà quotidiana un serbatoio di immagini di cui appropriarsi per
sottoporle al meccanismo concettuale dell’ omofonia che le trasforma e le deforma semanticamente.
Rinunciando con qualche rammarico alla mitologia dell’unicità del genio appare evidente che anche questa
fase cruciale e fondamentale del lavoro di Duchamp si inserisce in un clima di passaggio dal simbolismo al
surrealismo che lo stesso Arturo Schwarz rimarca nella citazione di Apollinaire ad inizio del suo testo e che
viene del resto esplicitamente sottolineata da Maurizio Calvesi sia a proposito de “i riferimenti (non certo
religiosi ma laicamente mitologici) alla Vergine… non infrequenti e casuali nel surrealismo…da Breton a
Eluard, a Picabia, Max Ernst, Salvador Dalì…” sia riguardo alla centralità del tema della femminilità e
dell’erotismo che percorre tutta l’opera di Duchamp sino all’opera ultima e più esplicita, Etant donnés, ma
che è rintracciabile, pur se in parte criptizzata dall’ironia dadaista, anche negli interventi apparentemente più
beffardi, la già citata Gioconda il cui titolo L.H.O.O.Q. veicola attraverso un’omofonia dissacratoria il
riferimento ad una nuova lettura alchemica, o il celebre Orinatoio che rimanderebbe all’Urinal dell’alchimista
Flamel e dunque ancora al “ventre alchemicamente materno”.
E’ evidente che non sto dicendo nulla di nuovo o di sconosciuto rispetto ai rapporti ufficiali e a tutti noti di
Duchamp con il Surrealismo, ma mi pare utile rimarcare che una lettura di questo tipo, che traduce
l’immagine in simbolo e coinvolge in egual modo l’universo dei simboli oggettuali e verbali, riporta il readymade nella dimensione surreale dell’oggetto e della circolazione mentale dei significati e dunque in qualche
modo indebolisce la lettura “eversiva” del gesto arbitrario dell’artista in virtù del quale l’oggetto assume lo
statuto di opera d’arte. In altre parole l’oggetto di Duchamp è molto più vicino all’oggetto di Man Ray o agli
oggetti di Meret Oppenhein o alle scatole di Joseph Cornell di quanto non lo sia alle lattine di birra di Jasper
Johns o agli assemblaggi di Rauschenberg e dei Nouveaux Réalistes o ai Fluxus-kit di Maciunas & C., per
non parlare delle tautologie linguistiche e oggettuali del Concettuale e dell’Arte Povera. Questo non significa,
naturalmente, che , come sottolinea Schwarz, questi e altri artisti abbiano guardato a Duchamp come ad un
imprescindibile punto di riferimento. Credo che rispetto a questo processo di identificazione tra Duchamp e
tutte o quasi le neo-avanguardie, la lunga permanenza di Duchamp in America abbia giocato un ruolo
fondamentale sia nel favorire la dimensione mediatica dell’artista che si pone e si propone come modello di
artista globale ( basti pensare alle interviste su riviste e televisione per non parlare delle fotografie che a tutti
gli effetti fanno parte della sua opera) sia nell’indurre Duchamp ad affrontare con ampio anticipo le
problematiche della riproducibilità dell’opera d’arte così come il concetto di multiplo e l’edizione d’artista , la
Scatola Verde(1934),la Boite-en-valise (1936-1941),la Scatola Bianca(1967),poi rivisitate da Maciunas nella
valigetta del venditore porta a porta. Anche la frequentazione della sua casa di New York da parte degli
artisti dell’avanguardia americana, Cage e gli altri di cui parla Schwarz, deve aver comportato non un
passaggio univoco da Duchamp ai suoi “figli”, ma uno scambio che ha prodotto un’ ulteriore e forse
involontaria decontestualizzazione degli oggetti di Duchamp, dall’alveo surrealista in cui erano nati alla
cultura visiva dell’America tra anni ’50 e ’60 fortemente orientata all’oggetto,per arrivare, successivamente,
al ritorno in Europa del modello Duchamp , veicolato proprio dai frequenti viaggi tra America ed Europa di
Cage e dei Fluxers e dai loro contatti con Beuys, Vostell, Ben Vautier, Daniel Spoerri, senza voler citare
ancora una volta Arturo Schwarz e il suo ruolo insostituibile sia rispetto alla conoscenza di Duchamp sia
rispetto alla circolazione delle idee artistiche in Europa e in Italia.
Per usare una metafora desunta dalla cronaca attuale, il virus Marcel si è diffuso e modificato come
l’influenza aviaria in ragione di migrazioni e contro-migrazioni artistiche che hanno costruito il nuovo DNA
dell’arte contemporanea. Duchamp del resto ha sempre teorizzato quella che una recente Biennale di
Venezia ha definito “la dittatura dello spettatore”( “Un’opera d’arte è determinata dalla reazione di chi la
guarda” affermava in una conversazione con Dore Ashton, pubblicata nel 1966 a Londra su “Studio
International”) e ha legittimato negli anni ’60, anche in virtù della edizione di multipli curata da Arturo
Schwarz, l’interpretazione più “ideologica”e contemporaneista del suo lavoro. Tuttavia, pur confortata da
questo “viatico d’artista”, non posso non sottolineare come l’ottica sincronica, ancor oggi prevalente rispetto
a più di un secolo di ricerca artistica (Novecento e recenti propaggini), tenda inesorabilmente ad appiattire
lo scenario e ad azzerare i percorsi storici producendo stereotipi e semplificazioni che fanno di Duchamp,
come Che Guevara, l’icona trasversale di una generica “rivoluzione” di cui ciascuno si appropria. Se per un
capriccio del caso la tribù dell’arte prendesse a praticare i riti di massa delle tribù della politica o dello sport,
la bella faccia di Duchamp, immortalata da Man Ray, comparirebbe su magliette e gadget dei fans e magari
a Duchamp non dispiacerebbe, anche!
Rotorilievi
Edoardo Sanguineti
E’ presente un aspetto importante e sovente trascurato nell’attività di Duchamp, che è quello dei suoi
interessi verso il mondo cinematografico. Duchamp non ha particolare vocazione filmica, infatti parte da
esperimenti di tipo ottico e cinetico ed è molto affascinato dal tema dei cerchi rotanti. Dapprima costruisce
dei cerchi, immagini che è possibile rendere mobili – sono una sorta di dischi, ma non da ascoltare, perché
non c’è inciso niente, ma da far ruotare in un giradischi, in modo che si abbia questo cerchio messo in
movimento. Dopo qualche tentativo fallito, perché si guasta la pellicola, perché si appiccica tutto, nel 1926
Duchamp gira per la prima volta un film, e si potrebbe dire che è la prima ed unica volta, per lo meno riuscita
e risolta: il titolo è Anémic cinéma, e questo è già un gioco di parole, perché sarebbe “cinema anemico”, ma
“anémic” è anagramma di “cinéma”, come se il termine fosse visto a specchio. Acquista così un senso
ulteriore, ma a Duchamp piacevano enormemente i giochi di parole, e l’esempio più noto è quello della
Gioconda con i baffi con la famosa scritta che letta in francese Vuol dire “ lei ha caldo al culo”, poiché le
lettere in francese danno questo risultato. Anémic cinéma nasce da questa idea, quindi non è un cinema
anemico, ma c’è naturalmente il gioco di parole. Cosa succede in questo film? Ci sono cerchi rotanti, che
stando alle dichiarazioni di Duchamp hanno esclusivamente l’interesse di un esperimento ottico; egli
vorrebbe uscire da qualsiasi tipo di raffigurazione e le intenzioni sono quelle di un’operazione molto
sperimentale sulle tecniche del vedere, sulle possibilità della percezione visiva. Studiando i rapporti con
questo tema del cerchio, sono nate molte interpretazioni, particolarmente insistenti sull’aspetto
implicitamente erotico, e quindi si è parlato di mammella, di vagina, di immagini del coito; cose di questo
genere sarebbero suggerite dall’idea di un cerchio che ruota, che si allunga e si allarga, oltretutto, poiché
l’immagine non è precisa, ruotando avviene una specie di pulsazione dell’immagine. Detto questo, il film è
bellissimo, dura pochi minuti e propriamente Duchamp non fa altro dal punto di vista cinematografico, ma
questo è un film di grandissimo interesse. Il secondo film, che si può mettere in relazione con l’artista, non è
girato da Duchamp, anche se collabora alla realizzazione ed è di molto posteriore a Anémic cinéma; siamo
negli Stati Uniti nel 1947 e il gruppo dei surrealisti in esilio con i loro amici gira un film “Sogni che il denaro
può comperare” (è il titolo con il quale si traduce “Dreams that money can buy”). A dirigere questo film è un
famoso artista dell’ambiente dada surrealista, Hans Richter. Riprende i rotorilievi che Duchamp aveva
fabbricato nel 1935, questi rotorilievi sono sei dischi appunto da far girare sul giradischi, ma si possono
mettere da una parte e dall’altra, non sono da ascoltare, sono da vedere, sono dodici immagini, sei da una
parte e sei dall’altra, così si ottengono particolari effetti di rotazione. Richter filma questi dischi trasformando
appunto in una pellicola quello che era un effetto affidato da Duchamp al giradischi tradizionale. Il film è fatto
di sei episodi e questo è il quinto episodio. Sono, come dice il titolo, dei sogni e per dare un’idea, il primo è
fatto da Ferdinand Léger, il famoso pittore, una specie di balletto meccanico in cui si hanno dei manichini
che danzano in abito da sposa; il secondo è girato da Max Ernst, parte da un suo disegno, secondo il suo
gusto tipico del collage, è un breve episodio di un uomo che cerca di accostarsi ad una ragazza
addormentata, separata da una gabbia (è il tipico sogno alla Buñuel, l’oscuro oggetto del desiderio, non
raggiungibile, il desiderio frustrato); tra l’altro Max Ernst interpreta la parte del protagonista. Il terzo episodio
è di Alexander Calder, scultore, e anche lì sono presenti sfere in movimento con fili che le collegano e si
torna all’astratto, anzi si giunge per essere precisi all’astratto. Tutti gli episodi sono a colori. Al film
collaborano musicisti importanti: la musica dell’episodio di Calder è di Edgar Varèse. Il quarto episodio è di
Hans Richter, storia di un uomo chiamato Narciso che ha fantastiche avventure. Anche qui la parte è tenuta
da Max Ernst, il quale, quando è necessario un attore nei diversi episodi, si fa carico dei diversi ruoli. Il sesto
è di Man Ray, intitolato Ruth rose and revolvers, si tratta di una satira del cinema, in questo caso le musiche
sono di Darius Milhaud. Gli episodi sono molto brevi, il film in totale dura poco meno di 100 minuti;
nell’episodio di Duchamp la musica è di Cage. Questo è un tratto molto importante perché stringe due che
molto spesso rinviavano l’uno all’altro. Cage scrive un pezzo che dura cinque minuti per pianoforte
preparato.
Tutte queste ricerche di tipo ottico si appoggiano in gran parte sul readymade, grande invenzione di
Duchamp. Nel senso che quando le configurava dapprima, secondo questa mitologia dei cerchi, come
oggetti che contenevano immagini visive, che sperava di mettere in movimento ma inizialmente erano in una
situazione statica (era una sorta di optical art anticipata), Duchamp si serviva di pezzi di oggetti riciclati per
montare il tutto. Anche se in qualche modo marginalmente rientrava in quel gusto che avrà tutti i suoi
sviluppi nella famosa fontana orinatoio, che rende poi completamente anonima l’opera, e in fin dei conti
ciascuna di queste può diventare assolutamente seriale (se io trovo un orinatoio identico a quello, ne ho una
copia precisa, se voglio conservare la concettualità della cosa, vado alla toilette, prendo un orinatoio
maschile d’oggi e concettualmente la cosa rimane anche se è imparagonabile). Altrove invece l’oggetto è
modificato, ma questo avveniva anche con procedimenti da collage, penso a Max Ernst, tutti i cicli per
esempio della Settimana della bontà, l’artista prendeva delle vecchie incisioni, le combinava insieme e
ricostruiva un’immagine assolutamente oniroide, fantasticata, a certi livelli non veniva nemmeno toccata
l’immagine, in altri casi la integrava con qualche operazione diretta. Molti film di Man Ray nascono dal
trattamento su pellicola. Per fare un altro esempio, i famosi quattro minuti di Cage, dove registra il silenzio,
naturalmente il silenzio non è mai così perfetto e ascoltare il silenzio vuol dire, in ogni occasione, rinnovarlo
in qualche modo: anche in questo caso, non c’è che mettere un registratore e per tot tempo si sente il fruscio
del registratore e qualche elemento sonoro che disturba. Sul trattamento di questi materiali è sufficiente
pensare a Warhol, e alle sue serie di immagini colorate diversamente e manipolate. Tutto quello che in largo
senso si può chiamare new dada o post surrealismo si muove poi portando all’estremo e sviluppando questi
principi dell’oggetto trovato (objets trouvés) o della manipolazione di ciò che già è dato.
Quando Richter filma questi rotorilievi abbiamo una sorta di trattamento di oggetti, manipolati e ricombinati, a
partire da qualcosa che già esiste, a sua volta riciclato, e il processo può quindi andare all’infinito. Quello che
a Duchamp interessava era proprio la possibilità di ottenere effetti di movimento. Il punto di origine è l’idea di
Maybridge, il primo che stabilì come correva un cavallo al galoppo, attraverso una serie di fotografie
(eseguite a Palo Alto 1878). E naturalmente questa azione del cavallo al galoppo non si sapeva
assolutamente, perché l’occhio umano non riesce a percepirla, vede solo le gambe in movimento. Quando
nasce il cinematografo non occorre più fare tutta la serie bloccata, e Duchamp studia molto questo
precedente, considerandolo un punto di partenza per costruire visioni appunto: per questo può interessarlo il
film, poiché è un modo di mettere in movimento una realtà bloccata. Dapprima questa ossessione del
cerchio è pura ottica, dopo diventa un mezzo per creare suggestioni che uno interpreta liberamente, e di cui,
secondo alcuni, Duchamp sarebbe perfettamente consapevole, e peraltro anche disinteressato, come
dicevo, del carattere erotico fondamentale, ma interessato invece ad una sorta di battito. Questo può
ricordare ancora una volta Buñuel; quando insieme a Dalì decidono di fare Un Chien Andalou, l’importante è
che non capiscano loro per primi, a partire dai due sogni dell’uno e dell’altro (l’occhio tagliato e le formiche
sulla mano), perché mai segua quella sequenza, e se avevano solo il sospetto di poterlo capire, questo
voleva dire che l’operazione non funzionava, quando invece non capivano assolutamente il montaggio della
sequenza l’operazione era da considerarsi riuscita. Dopo naturalmente nascevano le diverse interpretazioni,
mai significativamente smentite. E’ legittimo pensare quindi che quella sia l’interpretazione corretta: il caso
tipico è il solito tema dell’oggetto oscuro, del desiderio irraggiungibile (che attraversa tutto il surrealismo). Per
me l’importante è quello che psicanaliticamente sarà detto l’animale desiderante, l’uomo come incarnazione
del desiderio, ma irrealizzabile nella forma desiderata, e quindi prende corpo l’impossibilità di raggiungere la
soddisfazione erotica, la qual cosa spegnerebbe il desiderio. Allora la frustrazione diventa il tema
fondamentale. Per esempio la si vede nella scena quando aggredisce una ragazza che è in un angolo e
cerca di difendersi; la ragazza ha una racchetta da tennis, che agita minacciosamente. Mentre si dirige verso
la ragazza, raccoglie due funi che sono in mezzo alla stanza e si avvicina quindi faticosamente alla ragazza,
trascinando queste funi, che portano un pianoforte a coda, e sul pianoforte a coda a sua volta c’è un asino
morto, in disfacimento.
Se poi, per esempio, quasi a livello di storiografia artistica, proviamo a pensare al binomio Duchamp
Picasso, seguendo le indicazioni della lettura di Adorno della coppia Stravinsky Schönberg, sono necessarie
immediatamente una serie di cautele: i due musicisti non sono in opposizione se non per un’invenzione di
Adorno. Io insisto sul fatto che il tema originario di tutti e due, evolvono tutti e due in mille modi diversi, ma è
lo stesso tema, quello su cui ha tanto indugiato Starobinski per le arti figurative e la letteratura ma senza
occuparsi di musica. Starobinski scrisse quel famoso libro Ritratto dell’artista da saltimbanco, che pubblica in
francese e viene tradotto anche in italiano, dove considera
tutta la grande passione che gli artisti hanno per il clown, per il teatro di strada, i pagliacci, le maschere
tradizionali e rituali, come quella del toreador, perché opportunamente, secondo Starobinski, l’artista si
identifica nel saltimbanco, una sorta di suo alter ego, poiché entrambi sono giocolieri, in quanto la
mercificazione riduce l’arte ad una sorta di superfluità gratuita e in questo modo nasce una fratellanza tra le
due figure. Picasso, nel periodo blu iniziale e nel periodo rosa, era sempre con centrato su queste figure di
saltimbanchi, di circo, di clown, e via dicendo; e, senza seguirli uno a uno, si arriva ad Aspettando Godot di
Beckett, dove ci sono due barboni-clown, dove tutto è molto clownesco, è presente un incrocio tra
barbonismo e clownismo, in questo teatro grottesco. In Italia Palazzeschi è un altro caso tipico, infatti
scrive“sono il saltimbanco dell’anima mia”, la poesia diventa beffarda, grottesca, si fonda sul degrado, infatti
scrive con i relitti sonori delle poesie, con quello che avanza dalle altre poesie.
Allora, Stravinsky e Schönberg partono entrambi da un’indagine del clownesco, del pagliaccesco: Adorno
contrappone Stravinsky e Schönberg, intendendo Petruska come forma di reificazione alienata e di
sottoscrizione alla reificazione, quindi esprime una posizione da reazionario conservatore. Schönberg
sarebbe invece il progresso e la ricerca innovativa in nome dell’interiorità e della profondità individuale. I due
sono per contro profondi gemelli, da un lato il saltimbanco di Petruska, il pagliaccio, dall’altro lato il Pierrot
lunaire, che è giustappunto un pierrot, la destinazione originale è per voce di cabarettista, e non di cantante,
e nasce lo Sprechgesang, il parlato cantato, non definito esattamente. Allora sono molto più fratelli che altri.
Picasso e Duchamp per certi riguardi sono completamente diversi, Picasso si muove sempre su un terreno
sostanzialmente figurativo perché anche il cubismo non è mai estratto (sarà sempre una chitarra, ad
esempio, vista da vari punti di vista simultaneamente ripresi), infatti Picasso non ha mai fatto una sola opera
che sia astratta. Duchamp tende assolutamente verso figurazioni astratte, anche nel famoso Mariée mise a
nù par ses célibataires, même ou Grand Verre (La sposa messa a nudo dai suoi celibatari o Grande Vetro),
non c’è niente di figurativo, si allude esclusivamente a forme varie. Da questo punto di vista le cose sono
apparentemente opposte, in realtà sono sufficienti i giochi verbali che abbiamo visto fare, o queste tematiche
di abbassamento, per portare le cose su un terreno unico, quello del grottesco. Mettere i baffi alla Gioconda
e scrivere quella scritta vuol dire trovarsi in una situazione molto parallela a quella della beffa, del circo, del
gioco di parole e via dicendo. Sono molto più integrabili e paralleli anche se uno risulta diversissimo
dall’altro.
Il testo è il frutto di una conversazione su Duchamp tra Edoardo Sanguineti e i componenti del Magazzino
Sanguineti, in occasione della mostra “Marcel Duchamp. Una collezione italiana”e dell’installazione di un
primo nucleo del Magazzino Sanguineti / Laboratorio della Contemporaneità presso il Museo di Arte
Contemporanea di Villa Croce. La trasformazione del Magazzino da mostra temporanea a permanente è il
risultato di un lungo lavoro, per il quale si ringraziano Giuliano Galletta, Franz Prati, Matteo Ricchetti,
Sandra Solimano e Franco Vazzoler, il DIPARC e il DIRAS dell’Università di Genova che hanno accettato di
dar vita, insieme a Francesco Frassinelli, Davide Perfetti, Marta Oddone, Erminio Risso e Valter Scelsi, al
comitato operativo del Magazzino Sanguineti / Laboratorio della Contemporaneità. Con loro, si ringraziano
tutti gli artisti e i musicisti che hanno prontamente aderito al comitato scientifico.
Premessa
Sergio Casoli
Come giocatore di scacchi mi domando come mai un immenso artista come Marcel Duchamp fosse tanto
appassionato di questo gioco, e avesse quasi interrotto una carriera così fantastica per un passatempo così
razionale e militare?
Una mostra di M.D. si dovrebbe fare o vedere una volta all’anno: M.D. inserisce il mondo dell’arte in tutte le
tecniche, arti, filosofia, ecc., tutte quelle possibili e immaginabili.
Egli non è solo l’inventore del Readymade, di cui tutta l’arte contemporanea è figlia, o del Grande Vetro, cioè
una meravigliosa domanda a cui non si sa dopo ottant’anni ancora rispondere o decifrarne correttamente
altro, se non la monumentale bellezza.
M.D. è anche il creatore dell’arte tascabile, dell’arte da viaggio, degli appunti moltiplicati come multipli, cioè
mentre l’oggetto di serie diventa arte, il pensiero trascritto su un pezzo di carta viene riprodotto seriale per
difendere una memoria anche gestuale (1934), tanto prima o poi avrebbero inventato il computer.
M.D., l’artista che è riuscito ad allargare i limiti dell’arte all’infinito senza porre domande o affermazioni, è
riuscito a dare un valore alla firma dell’artista più alto dell’opera stessa, attribuendo un peso al pensiero,
maggiore del peso di una pennellata.
Come giocatore di scacchi penso che M.D. si fosse soffermato su questo gioco per annullare il problema
spazio/tempo e per tenere in qualche modo i “piedi per terra”, perché quando il pensiero viaggia così
bellamente è meglio avere un’ancora che ti tiene.
OPERE IN MOSTRA
SALA D’INGRESSO
- “Dada: 1916-1923”, manifesto-catalogo per la mostra
SALA N. 1
Materiali di documentazione: manifesti, articoli, volumi, cataloghi tra cui
- Lettre de Marcel Duchamp à Tristan Tzara, 1921 (1958), volume
- Le Surréalisme au Service de la Révolution, 1930-1933, volume
- L’opposition et les cases conjuguées sont réconciliées, 1932, volume
- Transition, 1937, rivista
- VVV Almanach for 1943, 1943, volume
- Sur Marcel Duchamp, 1955, volume
- Possible, 1958, volume
- Quatre inédits de Marcel Duchamp, 1960, volume
th
- Poster per la mostra 50 Anniversary of the Famous International Armory Show 1913, New York, 1963
- The Clock in Profile, 1964, pliage di cartone
- The Bride Stripped Bare by her Bachelors Even, 1966, volume, edizione di lusso firmato da Marcel
Duchamp e realizzato da Richard Hamilton
SALA N.2
Black Book : opere assemblate dall’artista in occasione della sua retrospettiva alla galleria Cordier &
Ekstrom, New York, 14 giugno-13 febbraio 1965, con firma autografa “Marcel Duchamp – 1964”
- Annuncio della retrospettiva alla galleria Cordier & Ekstrom, 1965, New York
- Invito per la mostra all’ ICA, Londra, 1959
- A l’Etoile Scellée, 1952, volantino per la prima mostra della galleria di André Breton a Parigi
- Marcel Duchamp & Francis Picabia, 1954, catalogo della mostra alla galleria Rose Fried, New York
- Ombres portées de Ready mades - / Marcel Duchamp N. Y. 1917, foto
- Chèque Tzanck (dentiste) 1919 Paris
- Photo de chez Roché – Why not Sneeze 1921, foto
- Dettagli della Boîte-en-valise, 1941, foto
- Ubu Roi, di Alfred Jarry, 1935, foto
- Marcel Duchamp riceve la laurea ad honorem alla Wayne University a Detroit, 1961, foto
- 5 ritratti di Marcel Duchamp realizzati da Nicky Ekstrom, 1964, foto
- 16 ritratti di Marcel Duchamp realizzati da Ugo Mulas, 1964, foto
- 29 foto (tra cui 3 ritratti di Marcel Duchamp, 3 Rayograf e 10 ritratti di pittori surrealisti) e 1 incisione
di Man Ray
SALA N.3
- Apparecchio disegnato da Duchamp per visionare i Rotorilievi, 1935, (1963)
- Visore per film stereoscopici e fotogrammi, 1920, (1973)
- Couple of Laudress’s Aprons, 1959, ready-made
- Mantelpiece in Cadaqués, 1968, 2 fotogrammi e 2 foto
- To be looked at (from the Other Side of the Glass) with One Eye, Close to, for Almost an Hour“, 1918, foto
SALA N. 4
7 ready made realizzati nel 1964:
- Fountain, 1917
- Bottle Dryer, 1914
- Why not sneeze Rose Sélavy, 1921
- In Advance of Broken Arm, 1915
- Fresh Widow, 1920
- Underwood, 1916
- 3 Standard Stoppages in the box, 1913-1914
SALA N.5
- Door, 11 rue Larrey, Paris, 1927, porta in legno
SALA N.6
- A l’Infinitif, (White book), 1967
- La Mariée Mise à Nu par ses célibataires, même, (The Green Box), 1934, scatola contenente 1 tavola a
colori e 93 tra note, disegni, foto e fac-simili
- From or by Marcel Duchamp or Rose Sélavy (The Box in a Valise), 1935-1941, (1961), repliche in miniatura
e riproduzioni a colori di opere di Duchamp, in una scatola racchiusa in una valigia
- Boîte Alerte!, 1959, edizione di lusso del catalogo della mostra Exposistion International du Surealisme
- Documentazione varia
SALA N.7
Incisioni dalla serie del Grande Vetro e Gli Amanti:
- The Bride, 1965, acquaforte I e II stato
- The Sieves, 1965, acquaforte I e II stato
- The Nine Malic Moulds, 1965, acquaforte I e II stato
- The Oculist Witnesses, 1965, acquaforte I e II stato
- The Water Mill, 1965, acquaforte I e II stato
- The Chocolate Grinder, 1965, acquaforte I e II stato
- The Top Inscription, Summer 1965, Cadaqués The Top Inscription, 1965, acquaforte I e II stato
- The Large Glass, 1965, acquaforte I e II stato
- The Large Glass completed, 1965, acquaforte colorata
-
Morceaux choisis d’après Cranach et Relâche, 1967, acquaforte Ie II stato
Morceau choisis d’après Ingres, 1968, acquaforte Ie II stato
Morceaux choisis d’après Rodin, 1968, acquaforte Ie II stato
Morceaux choisis d’après Courbet, 1968, acquaforte I e II stato
Après l’amour, December 1967, acquaforte Ie II stato
King and Queen, 1968, acquaforte Ie II stato
La Mariée Mise à Nu par ses célibataires, même, 1968, acquaforte I e II stato
The Bec Auer, 1968, acquaforte I e II stato
4 Bon à tirer: 2 D’après Ingres, D’après Rodin, Après l’amour
- Pulled at 4 Pins, 1915 (1964), acquaforte
- Un robinet original revolutionnaire, 1964, acquaforte, I, II e III stato
- Certificat de Lecture, 1964, collage e litografia
- Four Readymades, 1964, litografie
- Coeur volants, 1936 (1961), serigrafia
- Marcel Duchamp e Bronja Perlmutter in Relàche, 1924, foto di Man Ray (inserita nel Black Book)