Tempi duri per i governatori
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Tempi duri per i governatori
n. 23 Il Sole 24 Ore DOMENICA - 24 GENNAIO 2016 35 2014: «Il metodo laico» di Ignazio Visco A fine 2014 Ignazio Visco, dalle colonne della Domenica, invocava un «metodo laico» nelle strategie economiche, a partire dal bel manuale di Politica economica di Agnès Bénassy-Quéré, Benoit Coeuré, Pierre Jacquet, Jean Pisani-Ferry (il Mulino). www.archiviodomenica.ilsole24ore.com Economia e società imprenditoria italiana Borghesia, non classe dirigente di Valerio Castronovo L’ innovazione è il motore del capitalismo. E l’attitudine al cambiamento, alla realizzazione di nuovi metodi di produzione e di gestione più dinamici e competitivi, è il tratto distintivo di quanti s’affermano con la loro attività imprenditoriale in un’economia di mercato. Tuttavia ciò non significa, di per sé, che essi abbiano anche le caratteristiche e la vocazione di una classe dirigente, consapevole del proprio rango e delle relative responsabilità. In Italia si possono riscontrare queste specifiche connotazioni in uno strato di alta borghesia, relativamente coeso e conscio delle proprie prerogative, emerso nel secondo dopoguerra. Poiché, rilegettimatosi dai suoi trascorsi compromessi con il regime fascista grazie al suo contributo essenziale a una difficile ricostruzione post-bellica del Paese, si rese poi protagonista del “miracolo economico”, a capo di grandi industrie per lo più organizzate in base al sistema fordista e convertitesi alla progressiva liberalizzazione degli scambi nell’ambito del Mercato comune europeo. D’altra parte, a sancire le credenziali di questo gruppo al vertice dell’imprenditoria pubblica e privata furono due autorevoli istituzioni non solo finanziarie come la Comit di Raffaele Mattioli e la Mediobanca di Enrico Cuccia: all’insegna, peraltro, di un “capitalismo relazionale”, impersonato dagli esponenti di alcuni “salotti buoni”. Successivamente, fra gli anni Settanta e Ottanta, sovrastati da una conflittualità endemica nelle fabbriche e da una prolungata stagflazione, fu la prospettiva di un’“alleanza dei produttori”, fra grandi imprese e centrali sindacali, a tenere banco. E ciò al fine di scongiurare il rischio di un declino del siste- ma industriale. Ma di fatto fu l’irruzione sulla scena di tante piccole imprese, spuntate in parte dai fondali dell’economia sommersa, ad assicurare il rilancio della produzione e dell’occupazione su vasta scala. C’è tuttavia da chiedersi se, dopo di allora, sia venuta formandosi una nuova borghesia produttiva in possesso sia di alcune competenze di forte spessore sia di ampie visuali. Per rispondere a quest’interrogativo un’équipe di docenti e ricercatori, coordinata da Mauro Magatti, ha condotto una vasta indagine sulla base di determinate tipologie riguardanti comportamenti individuali, modelli di business, forme di internazionalizzazione, rapporti con il territorio, relazioni sociali e altri parametri significativi. Per realizzarla ci si è avvalsi di un questionario distribuito a un campione di 1.500 imprese nonché di una serie di interviste a un gruppo di titolari e manager delle aziende prese in esame, in quanto risultate rap- presentative di un’“avanguardia” in campo imprenditoriale. Si è così constatato che il criterio dimensionale, con riferimento alla consistenza piccola o grande dell’impresa, non è in grado di spiegare il successo delle singole aziende né quello del nostro sistema produttivo nel suo complesso. Perciò, come dimostrano i risultati di questa ricerca, è piuttosto una sorta di “terza via”, ovvero una combinazione di vari fattori di ordine qualitativo e di carattere innovativo, ad agire da propellente per la performance di quel 20% di imprese classificabili in posizioni preminenti per le loro potenzialità, rispetto al resto di quelle del campione che si trovano per lo più alle prese con angustie di vario genere. A rigore, non si può comunque dire che il nucleo imprenditoriale di maggior spicco identificato da questo sondaggio possieda una caratura e una capacità d’in- fluenza tali da costituire un’autentica classe dirigente. Per esserlo effettivamente, al di là di certe pur eccellenti competenze professionali, esso dovrebbe concepire e condividere una linea d’azione comune e agire in modo da fare rete, da propagare determinati valori e obiettivi nell’ambito della propria categoria e, più in generale, del sistema imprenditoriale. Se così avvenisse, ne trarrebbe sicuramente vantaggio il nostro Paese che, pur essendo tuttora la seconda potenza industriale europea, deve misurarsi sempre più, a ranghi consistenti e con efficaci strategie, con le sfide cruciali poste dalla globalizzazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA La nuova borghesia produttiva. Un modello per il capitalismo italiano, a cura di Mauro Magatti, Guerini e Associati, Milano, pagg.164, € 16,50 ignazio visco modelli aziendali Tempi duri per i governatori Le virtù dell’impresa L’intelletto familiare più nitido OLYCOM Tre priorità: il rilancio di investimenti e occupazione, la vigilanza sui mercati e sui loro operatori, il compimento della Ue di Giorgio Barba Navaretti «L a banca centrale produce un bene impalpabile, ma essenziale, come la fiducia, di cui il capitalismo, basato com’è su una piramide di carta, quando non soltanto di poste elettroniche, ha un bisogno enorme». Questa citazione di Curzio Giannini, economista della Banca d’Italia, scomparso prematuramente oltre dieci anni fa, riportata nel nuovo libro di Ignazio Visco, spiega bene gli affanni del banchiere centrale. Si impiega un tempo infinito a costruire la fiducia e la si può perdere in un attimo. Chi è custode di un bene così intangibile, sempre sul punto di evaporare, esercitando una funzione tecnica e di difficile comprensione ai più, deve operare con grande cautela e competenza e soprattutto capire se, come e perché i tempi stiano cambiando. Visco usa la famosa canzone di Bob Dylan (The times they are a changin) come ouverture alla sua analisi dei mutamenti radicali e strutturali di questo ultimo decennio, indotti dall’abbraccio tra una crisi economica e finanziaria drammatica, il progresso tecnico e il mutamento repentino del quadro geopolitico globale. Il Governatore della Banca d’Italia scrive con un doppio occhio. Quello dell’accademico che esplora i fatti del mondo con libertà di penna e di pensiero. E quello del testimone che vive in prima persona la crisi finanziaria e la rivoluzione del quadro istituzionale di regolamentazione dei mercati che ne è seguito. Ne escono un’analisi oggettiva e accurata di alcuni passaggi chiave della crisi economica e, soprattutto, molti elementi per capire quanto queste trasformazioni abbiano reso ancor più complesso il mestiere delle banche centrali. La prima difficoltà riguarda il rilancio di icona La copertina del disco di Bob Dylan citata da Ignazio Visco nella sua analisi dei mutamenti radicali e strutturali dell’ultimo decennio investimenti e occupazione dopo la crisi. In parte questo è un problema di domanda afflitta dalla recessione e dalla necessità di ricostituire un livello di risparmi sostenibili. Ma sulla crisi si innesta anche la questione strutturale del progresso tecnico. Stiamo evolvendo verso una società senza lavoro? Visco è scettico su questa profezia. L’innovazione porterà nuovi lavori in direzioni e attività che non possiamo immaginare oggi. Ma solo se ci sarà una profonda trasformazione dell’istruzione, degli investimenti in ricerca, dell’organizzazione delle istituzioni economiche. E qui il banchiere centrale è quasi impotente. Può far poco per rilanciare la domanda se le trasformazioni epocali nel modo di produrre non vengono favorite da politiche fiscali e riforme strutturali. La seconda difficoltà riguarda i comportamenti degli operatori sui mercati e come questi possano mutare, in modo imprevedibile, al variare del contesto economico. In parte la crisi è nata dall’illusione che un’immutabile razionalità economica avrebbe portato il sistema finanziario ad autoregolarsi evitando eccessi distruttivi. Il che ha determinato un approccio di “benevolo distacco” da parte di chi doveva regolare e supervisionare i mercati, che non ha permesso di identificare e contrastare la folle corsa verso profitti di breve periodo e rischi elevatissimi. Le drammaticità della crisi e la lunga recessione che ne è seguita hanno dimostrato come la stabilità dei prezzi (che è l’obiettivo fondamentale della politica monetaria) debba essere perseguita congiuntamente alla stabilità dei mercati finanziari. Il che ha implicato una revisione radicale delle regole e della vigilanza bancaria. L’indispensabile passaggio dal benevolo distacco alla briglia stretta delle nuove regole prudenziali implica un ampliamento del ruolo della vigilanza (in molti contesti istituzionali esercitato dalla Banca centrale), che entra in modo incisivo sull’operatività, la governance e la gestione delle banche e anche interviene per controllare le dinamiche dei mercati a livello aggregato (le misure macro prudenziali). Dato che comunque banche e finanza sono rischiose e che l’azione del supervisore rimane soggetta a molti vincoli istituzionali, questo, quando le cose vanno male, per quanto bene agisca, è esposto alla facile critica di omessa vigilanza. La difficoltà di anticipare i comportamenti degli operatori in periodi di crisi rende anche estremamente difficile la funzione classica del banchiere centrale: regolare la stabilità dei prezzi attraverso la politica monetaria. Per evitare il rischio di deflazione, oggi la Banca Centrale Europea deve anche utilizzare strumenti di politica monetaria non convenzionali, ossia che influenzino il comportamento degli operatori in modo più diretto e mirato degli interventi tradizionali sul mercato. Ma proprio la non convenzionalità di misure come il possibile acquisto di titoli pubblici sui mercati secondari (Outright Monetary Transactions), che sono state fondamentali a riportare la stabilità nei mercati finanziari e a ridare incisività all’azione monetaria, espongono il banchiere centrale a una valutazione costante sulla legittimità della propria azione. Il terzo grande tema è il completamento dell’Unione Europea. Visco è molto esplicito sulla necessità fondamentale di rafforzare l’Unione e l’integrazione dell’Eurozona. La crisi ha innescato un’accelerazione positiva del processo di unificazione. Sono state rafforzate le regole di bilancio e le procedure di controllo degli squilibri macroeconomici; sono stati varati strumenti per il sostegno finanziario degli stati membri; soprattutto è stata varata l’Unione Bancaria che definisce un quadro uniforme e integrato per la regolamentazione e la supervisione dei mercati bancari e per la gestione delle crisi. Ovviamente questi passaggi sono ancora incompleti e imperfetti e spesso infiammano le ansie nazionali sulla perdita di sovranità. Anche le banche centrali nazionali dell’area Euro sono obbligate ad una mediazione costante tra istanze nazionali e il quadro istituzionale dell’ Eurosistema. Ma Visco non ha dubbi che l’unificazione sia un percorso da proseguire rapidamente e che la sua accelerazione sia forse la migliore eredità istituzionale della crisi. Perché appunto i tempi stanno cambiando, sono difficili, ma il cambiamento è sempre occasione di progresso. [email protected] © RIPRODUZIONE RISERVATA Ignazio Visco, Perché i tempi stanno cambiando, il Mulino, Bologna, pagg. 136, € 12,00 politica L’era dei partiti personali di Gennaro Sangiuliano I l sistema dei partiti fu, a partire dal dopoguerra, per almeno tre decenni il motore della rinascita democratica e civile della nuova Italia repubblicana, spesso cerniera sociale fra le istanze dei territori e le decisioni della politica. Dopo la felice stagione del miracolo economico, dalla metà degli anni Settanta, i partiti degenerarono in apparati di puro potere, nella moltiplicazione delle poltrone, nell’occupazione dello Stato. Il giurista Giuseppe Maranini già aveva coniato il temine “partitocrazia” per condensare questa perdita di vitalità civile . Da un paio di decenni, da quando ha preso avvio la cosiddetta seconda repubblica, si è insinuata una certa vulgata secondo cui – dichiarata la «morte dei partiti» – sia possibile una «democrazia senza partiti». Un’idea, a dir poco pericolosa, «non essendo nota alcuna forma di democrazia che non sia la democrazia dei partiti», scrive il costituzionalista Sandro Staiano che ha curato il saggio Nella rete dei partiti. Trasformazione politica, forma di governo e network analysis. In altre parole, si è pensato, e l’esperienza italiana degli ultimi vent’anni sembrerebbe avallarlo, che leader forti possano prendere il posto dei partiti, relegati a un ruolo di «marginalità», aprendo la strada a una sorta di democrazia del caudillo, basata, come annota Staiano, su «rapporto diretto, o debolmente mediato tra leader e popolo». Si è giunti per questa via alla forma del «partito personale», totalmente determinato dal leader, mentre la tradizionale organizzazione del partito viene posta in una dimensione residuale. Questo schema, secondo l’analisi prospettata nel saggio, ha trovato una moltiplicazione, sia in termini di schieramento, perché dal partito personale di centrodestra si è andati al partito personale di centrosinistra, sia in una valutazione territoriale, con l’emergere di una serie di partiti personali regionali. Il tema è molto più ampio e denso, parte se vogliamo dalla crisi della forma di governo che, in tutto il mondo occidentale, è diventata crisi della nozione di sovranità. Eppure, il giurista Carl Schmitt individua come tratto peculiare dello Jus Publicum Europaeum uno stretto rapporto fra Stato e sovranità. La Costituzione italiana all’articolo 49 consacrò il ruolo di concorso democratico dei partiti alla politica nazionale, del resto Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e le altre democrazie liberali poggiano tutte, sia pur con diversità, su un sistema di partiti, mentre la storia dimostra che ogniqualvolta si è ristretto il ruolo dei partiti ne è seguito un deficit di democrazia. Appare evidente, e l’indagine scientifica lo chiarisce, che su questo terreno si inter- secano prospettive sociologiche e politologiche da una parte, ed altre più eminentemente giuridiche, perché poi è il diritto, il sistema delle leggi, ad essere chiamato a garantire la legalità funzionale del sistema. La Social Network Analysis interdisciplinare appare, dunque, uno strumento indispensabile per misurare i fenomeni reali e il rapporto delicato fra politica e sovranità. Oggi i partiti vengono percepiti, complici alcuni manierismi dei giornalisti, come il luogo della casta, fonte prima delle inefficienze e dell’insoddisfazione del cittadino. Tuttavia, non sembra che la prospettiva della «torsione monocratica» o «dell’homo novus» come la chiama Staiano abbia prodotto una maggiore qualità dell’azione di governo e della funzionalità del sistema democratico. Forse i partiti, al netto di alcune evidenti degenerazioni, non sono il male in sé. Per essi vale quello che Churchill diceva della democrazia: «È stato detto che è la peggior forma di governo ma non ne conosco di migliori». © RIPRODUZIONE RISERVATA Sandro Staiano, Nella rete dei partiti. Trasformazione politica e forma di governo, Jovene Editore, Napoli, pagg. 276, € 30,00 di Marco Ferrando D ietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna, secondo un detto banalmente maschilista. Si parva licet, si può azzardare che dietro a una grande azienda c’è sempre un grande manager. Vale per tutte le aziende, ma per quelle familiari - che in Italia rappresentano il 60% della Borsa di Milano e la metà delle società con fatturato superiore ai 50 milioni - può essere più difficile applicarlo: non sempre, infatti, la famiglia che le controlla è in grado di esprimere il manager giusto al momento giusto. E così c’è da pescare fuori dal mazzo. Con tutta la fatica che portano con sé le scelte non scontate. Ma se funziona, funziona davvero: la famiglia guadagna, l’azienda cresce, il manager si accredita dentro e fuori. C’è un teorema da applicare? Più di uno, come illustrano con dovizia di particolari Bernardo Bertoldi e Fabio Corsico nel libro dedicato, appunto, ai Manager di famiglia. Però a leggere le quattro lunghe interviste al cuore del volume emerge chiaramente che questi insoliti matrimoni a tre sono d’interesse ma anche di sentimenti, e di valori. Come la fiducia che traspare dal racconto di Aldo Bisio dei suoi anni in Ariston, scanditi da incontri settimanali, rigorosamente al venerdì mattina, con Paolo Merloni. O il rispetto di e per Paolo Scaroni, «amico e coetaneo» di Gianfelice Rocca, con cui «abbiamo fatto un’ira di Dio di cose» durante i suoi 12 anni in Techint. E poi Lorenzo Pelliccioli, che nel tratteggiare il profilo di Marco Drago - «una combinazione di talento, intelligenza, carineria, fermezza e tante altre cose che servono a tenere unita la famiglia, che arrivata alla quarta generazione è un organismo complesso. Poi è un vero imprenditore» - denota qualcosa in più di un semplice rapporto tra manager e imprenditore. A svelare il segreto, però, è Gianni Mion: «Con tutti gli imprenditori con cui ho lavorato ho sempre cercato di capire quali fossero le caratteristiche dell’imprenditore e poi di proporre quello che pensavo fosse il suo interesse», prova a sintetizzare dopo anni al fianco dei Marzotto prima e del Benetton poi; confidando infine che è Leonardo Del Vecchio un altro imprenditore con cui avrebbe voluto lavorare, «un fuoriclasse». Il libro si propone come un manuale per capi-famiglia e manager, fornendo agli uni strumenti utili per scegliere gli altri, e a questi ultimi alcuni spunti per sopravvivere a lungo e in armonia nelle aziende familiari. Ma potrebbe anche aprire un nuovo interessante dibattito, capace di andare oltre i luoghi comuni sulle aziende famigliari e di mettere finalmente a fuoco un passaggio fondamentale: la scelta del manager e la sua valorizzazione all’interno dell’impresa familiare. Il tema finora è stato sottovalutato, forse perché impone alle famiglie uno sforzo non facile di chiarezza e coerenza sui valori e le intuizioni che compongono il dna delle aziende di cui sono proprietarie. Ma ne va di quella maggior resilienza di cui solitamente danno prova rispetto alle public company: un buon motivo, questo, per ragionarne a fondo. @marcoferrando77 © RIPRODUZIONE RISERVATA Bernardo Bertoldi, Fabio Corsico, Manager di famiglia, prefazione di Gian Maria Gros-Pietro (in parte anticipata dal Domenicale lo scorso 6 dicembre), Edizioni Gruppo 24 Ore, Milano, pagg. 226, € 15,00. Il volume sarà presentato domani a Torino alle 17,45 alla Fondazione Crt (via XX Settembre, 31) da Alessandro Benetton, Fabio Gallia, Federico Ghizzoni, Maurizio Molinari e Salvatore Rossi la biblioteca di Giorgio Dell’Arti R agionamento economico. «L’oggetto della nostra analisi non è di fornire una macchina, o un metodo di cieca manipolazione, che ci dia una risposta infallibile, ma di fornirci un metodo organico e ordinato di escogitare problemi particolari; e, dopo di avere raggiunto una conclusione provvisoria isolando a uno a uno i fattori complicatori, dobbiamo ritornare su noi stessi e tener conto come meglio possiamo delle probabili reazioni reciproche dei fattori considerati. Questa è la natura del ragionamento economico» (Keynes, Occupazione, interesse e moneta, Teoria generale) Anagrafe. John Maynard Keynes, nato a Cambridge nel 1883, primo figlio di John Neville Keynes, professore a Cambridge, e di Florence Brown, scrittrice e attivista. Famiglia di classe medio-alta, frequentò Eton e lavorò per il governo britannico fino alla fine della Prima guerra mondiale. Sposato felicemente con una ballerina russa, Lydia Lopokova, che non gli diede figli. Considerato il padre della macroeconomia. Versailles. Finita la guerra, Keynes fu nominato capo della rappresentanza del ministero delle Finanze britannico ai negoziati di pace di Versailles. Era incaricato di contrattare le condizioni specifiche che i tedeschi dovevano accettare. Nel suo ruolo di funzionario del Tesoro britannico, Keynes aveva calcolato che la Germania non sarebbe mai stata in grado di pagare i danni di guerra che le venivano imposti. Al contrario, avrebbero costretto un Paese già umiliato in una situazione di forte miseria. Questa situazione divenne per lui insopportabile, tanto che disse: «Io lavoro per un governo che disprezzo, e il cui obiettivo è criminale» e si dimise nel giugno del 1919, abbandonando le trattative per la pace. Nel corso dei successivi tre mesi scrisse il libro Le conseguenze economiche della pace, che lo rese noto al grande pubblico. Stupido. «L’intelletto di Keynes era il più nitido e chiaro di quelli da me incontrati. Quando ho discusso con lui, ho sentito che dovevo mettere in campo tutta la mia vitalità e, non di rado, mi sono sentito alla fine leggermente stupido» (Bertrand Russell, Autobiografia). Posizione. Keynes ebbe una posizione centrale negli anni Trenta: era redattore dell’importante rivista economica britannica «The Economical Journal» e dipendente del King’s College, uno dei più antichi e ricchi college di Cambridge. Era inoltre membro del Circolo Bloomsbury (che tra gli altri comprendeva Virginia Woolf e Lytton Strachey) per il quale nulla era sacro al di là dell’«Amore, Bellezza e Verità». Teoria. «[...] Immagino nel frattempo che quel libro sulla teoria economica che sto scrivendo rivoluzionerà – non subito ma nel corso di un decennio – il modo in cui il mondo pensa i problemi economici. Quando la mia teoria sarà stata incorporata e fusa con la politica, le passioni e l’ideologia [...] grandi cambiamenti saranno possibili» (da una lettera a Bernard Shaw risalente a quasi un anno prima del completamento della sua Teoria Generale). Keynesiani. «Adesso siamo tutti keynesiani» (Richard Nixon agli inizi degli anni Settanta). © RIPRODUZIONE RISERVATA Notizie tratte da: Jesper Jespersen, John Maynard Keynes. Un manifesto per la «buona vita» e la «buona società», Castelvecchi, Roma, pagg. 156, € 17,50