Primo piano - Università per Stranieri di Siena

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Primo piano - Università per Stranieri di Siena
Comitato Pari Opportunità dell’Università per stranieri di Siena
I edizione del premio di scrittura Parole diverse: Per un mondo di diritti
e pari opportunità
Racconto primo classificato
Primo piano
di Silvia Sferruzza
Sei bella. E non potrò dirtelo mai: anche adesso non mi esce fuori del tutto. “Si ha
più da dire a qualcuno che si conosce o a qualcuno che non si conosce?” ha
chiesto una volta la mia scalpitante adolescenza in vena di sofismi; “a qualcuno che
si sta conoscendo” è stata la risposta, sicura e fin troppo illuminante, di una
persona che stavo conoscendo. È così riposante, così spedito conoscersi:
assomiglia a un piano inclinato, e inclinandomi trabocco l’asserzione più
incontenibile, la più distillata: sei bella. Ma a rendere terribilmente ruvido quello che
sarebbe scivoloso c’è lui, naturalmente, e c’è che io sono una donna.
A quanto pare cammini tanto. Camminare con te sarebbe imbarazzante, sarebbe
troppo veloce. Ho già l’affanno, ho già l’assillo di trovare degli argomenti che ti
facciano sorridere. Ma non fingerò con te: sarò noiosa se noiosa sarò, mi lascerai
indietro e rimarremo in silenzio, ma non giocherò.
Ho voglia di giocare con te. Come si gioca lì da te? Sarebbe divertente uscire
insieme, divertente per qualcun altro che ci vede da fuori, saremmo divertenti,
saremmo anche molto belle io credo.
Qual è la tua città preferita? C’è un posto da cui vorresti essere sorpresa? Vorrei
conoscerlo. Cosa fai prima di andare a dormire, quali sono i tuoi riti? Li temo, non
voglio saperli, probabilmente non potrò mai entrarci. Anche tu dipingi mondi, come
me. Sei una rivale, o sei uno specchio? O sei un mondo perpendicolare? Ci
toccheremo mai? I nostri angoli avranno spigoli? Cucina per me.
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Scommetto che quando litighi un sorriso ironico ti attraversa la guancia. Eppure
nelle cose ti ci immergi, e ne esci intirizzita. Ho deciso che mi comprerò una
coperta, per me, per dormire il pomeriggio sopra il letto rifatto; la sceglierò
chiedendomi quale possa piacerti, non per fartela vedere mai, ma per darmi la
sensazione che tu mi abbia fatto un regalo.
Ho notato come guardi. Gli oggetti, i dettagli. La tua intelligenza a volte lascia le
cose su cui si posa lucide, ed è sudore. Hai quella grazia imbranata che mi
costringe a sorridere, anche controvoglia; controluce sei bellissima.
La tua voce sottovoce mi cullava tenendomi sempre più sveglia, l’altra sera. A getto
continuo, abbiamo parlato con delicatezza, delicatamente addentando la nostra
reciproca novità. “Madonna...” continuavi a intercalare: ho voluto interpretarlo come
un segno di coinvolgimento. La sentivi anche tu, la meraviglia di trovarci, di starci
perdendo – nell’ora tarda e nelle parole, o piuttosto nei toni bisbigliati e negli
sguardi sbiechi – di starci conoscendo pian piano e con voracità?
Non sei bella, forse non sei propriamente bella: le tue mani dalle pieghe decise e i
tuoi occhi che sanno imbarazzarsi teneramente e sanno concentrarsi saggiamente,
oh i tuoi occhi. Ho registrato in memoria il battito veloce delle ciglia quando ti fermi
a pensare a una cosa che ti ho detto, le sopracciglia lievemente aggrottate, sopra.
Non sei bella, sei terribilmente magnetica: non riuscivo a trattenermi dallo sfiorarti
le dita con quel pezzettino di carta. Non ci sarebbe spazio vitale se solo restassimo
bloccate in un ascensore e dovessimo passare il tempo raccontandoci le nostre
vite.
Ma dove sono arrivata, a quale piano sono salita, fermami. Sei semplicemente
bella, bella è la bustina di zucchero quando ci gesticoli, gesticola anche con me per
favore.
È fiducioso, naturalmente, è fedele ed affettuoso. Mi hai fatto vedere una foto dei
tuoi vestiti disordinati per la stanza: sembravi fiera. Sembri una bambina, quando
sei fiera, e quel disordine era il tuo trofeo, la tua tenera sommossa di
autodeterminazione.
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Quelle ciocche che tornano davanti agli occhi, indocili, vogliono forse proteggermi?
O definitivamente assuefarmi a quel gesto, glorioso, con cui le tue due dita le
scostano via? I polpastrelli toccano la fronte, non sarebbe necessario, c’è come un
desiderio di contatto.
Te ne accorgi, di come ridi quando ridi e di come sei seria quando sei seria? Hai
un’ottima memoria, ho notato: attenta e istintiva, agganci a te qualunque cosa
reputi ferrea abbastanza, o abbastanza divertente. Sempre come ubriaca, sempre
crudamente lucida: resto incantata dalle tue fossette e dal tuo dolore. Il tuo volgere
da un distacco granitico a quell’inerme disponibilità che mi lusinga è repentino, è
una collana che ti decora di corallo il collo. Tieni a mente anche le tue, di
espressioni? Sono una donna, e ti immagino con tenerezza ricoprirti di dolcissime
rughe.
Ce la faccio, certo che ce la faccio a non chiamarti. Riassaporo coincidenze,
giocherello con motivi, ma non ti chiamo. Ho i miei libri io, ho i miei ritmi. Mi fermo e
decido di pensarti, ma è una scelta, mia e non tua, mica mi vieni in mente ad ogni
passo. Certo che ce la faccio a non pensarti. Cerco su internet notizie sulla tua
città.
Non ti stai trattenendo anche tu, lo so. Non chiami. Stitica, statica, scrivi di viaggi e
risparmi soldi ed emotività per quando partirai. O scrivere o vivere, è così, no? Io
che addento pagine e vita, forse goffamente, forse non potrò mai né vivere né
scrivere appieno? Maceri, le maceri dentro le cose, stai macerando anche me
forse, lasci decantare e poi arrivi a scrivere, a vivere semmai dopo se ne parla,
semmai dopo. Io che ho sete di sudore, io che voglio ubriacarmi di stanchezza, io
che ti ho trovata senza cercarti, io sto rinunciando a un inchiostro distillato? Sto
sprecando per gola le prelibatezze dell’esistenza, non paziente di aspettarne
l’estratto? Mi sto perdendo la raffinatezza impagabile della cottura a fuoco lento?
Su internet non dicono niente di come si mastica nella tua città, di come si ama.
Mi piacciono i primi piani. Abitare al primo piano, intendo, ma nel mio piacere c’è
qualcosa del significato fotografico. È una città di primi piani, questa, impietosa nel
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mostrare i brufoli delle cose, cinica nel trascurare gli sfondi, raggiungibile come
un’illusione. Abitare al primo piano è vedere le cose da vicino, metterle a fuoco col
fuoco che lo tocchi. Mi piace perché ti affacci e tutto è lì, in un attimo puoi scendere
ed è tuo, mi piace perché entri nel portone e non devi affrontare delle scale, un rito
di passaggio, sei la stessa persona della strada, non c’è frattura. Mi piace un primo
piano perché è accogliente, entri e ti vuole, è fatto per essere popolato e non per
restare inaccessibile. O meglio, so benissimo che sembra così ma così non è, ma
mi piace proprio perché continuo ad ingannarmi, come se ingannarmi da me fosse
un fiero moto di autodeterminazione.
Come posso scrivere senza questo appetito, come posso scrivere con prudenza?
Dilazionarmi mi disperde, mi vanifica la tremenda forza di questo desiderio: tu non
sei rimandabile, non voglio un estratto di te, ti voglio tutta intera, con i tuoi sapori
più aspri, meno maturi, le tue crudezze. Se non sei digeribile mi avvelenerò: quanta
vita, e quanti scritti, del resto, si nutrono di veleno!
Ordinato, lavoratore, ti possiede con educazione. Ieri sera è tornato, tu eri alla
finestra, ha aspettato che ti accorgessi di lui senza fare rumore. Come lo so? E tu,
come facevi a sapere del mio maldestro senso del dovere? Se dovessi rientrare io,
a casa da te, mi porterei dietro tutta la banda del paese, ti suonerei i piatti sotto il
naso e ti assorderei con squilli di tromba lungo la schiena, salterei in piedi sul
divano improvvisando stonata una serenata oscena, e tu piegata in due rideresti
implorandomi di smettere.
O forse no, non sei tu, forse immagino una donna che sono io, io sono una donna e
il mio desiderio per te è proiettivo, proietto ombre cinesi sul muro per farti ridere ma
tu non mi chiami, sono una donna e muoio dalla nostalgia delle tue mani
femmilinee, muoio dalla gelosia di un uomo che non vorrei mai essere, non vorrei
mai che avesse te. Mascolina nelle tue magliette larghe, nelle tue spallucce e vino,
nella tua cautela e nel tuo calcio, riesci a proteggere lui da me, dalle mie malignità
e dal pugno che ho appena dato alla parete.
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E quando non riesco a trattenermi, quando ti appoggio un polso sulla spalla come
per sostenermi – quando invece sto cadendo a precipizio – quando ti sfioro con gli
occhi dietro lo schermo dei miei capelli, controllando se esisti ancora, quando
sorrido, sola, nel ripensarti assolata, quando fresca nel mio scirocco ricordo la tua
ansia di portarmi in un bel posto, come se responsabile e orgogliosa fossi il sindaco
della città che non conosco, e quando la giornata è finita e so che la prolunghi, che
a casa tua stai cullando qualcosa di prezioso, quando a casa mia c’è solo silenzio e
odore di fritto, quando mi vieto di nutrirmi di te e allatto i miei sensi di colpa, quando
ci siamo appena salutate e non ci siamo salutate abbastanza, e quando nelle
canzoni cerco l’impressione che potresti averne tu, saccheggiandone ipotesi di
sensazioni, quando batto veloce i caratteri di un indirizzo web come ho visto fare a
quelle tue dita agili e svogliate in una biblioteca rumorosa, quando ti cammino
sempre più accanto accantonando il timore che sia troppo: ogni volta che mi
accorgo di te vorrei agitare il fazzoletto, invitarti, farti accomodare, come se non
fossi già entrata da un pezzo.
Ho spettinato le sopracciglia: avevi preso il sole, tanto sole, e colorata in viso
sembravi stupita che il treno non si fermasse a guardare il paesaggio. Il vento ti
aveva scombinato tutte le lentiggini. Una piccola gelosia: mi era parso di coglierla in
certe ritrosie, in un certo tuo volermi provocare per poi respingere.
Piccola kamikaze che nascondi bombe nelle metropolitane della mia testa, di cosa
hai paura se sono io che sto scoppiando?
Hai ricominciato a ferirti le mani con la chitarra, mi hai detto. Tieni sulla corda i
nostri nomi, assurdi, puri suoni come questi allarmi impazziti in questa strada che
non si allarma più. Nomi non nuovi, già usati. A volte mi sento figura di
qualcos’altro, di qualcun altro: è il mio nome, che invece di identificarmi mi sfuma in
un’altra sua proprietaria – come se ne fosse più proprietaria di me. Siamo solo
sottotitoli ai nostri nomi, titoli su cui non abbiamo nessun diritto. Come trovare degli
accordi nuovi?
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Eppure è così: man mano che tu mi cresci dentro, sto crescendo. Le mie foglie
diventano verde chiaro e si raffinano le nervature, il mio tronco inanella certezze
concentriche e concentrici dubbi. Acqua, sole, e il sale che si condensa nelle
conche delle mie lacrime ogni volta che mi guardi in quel modo. Concentrati su di
me: hai lasciato decantare a lungo, cosa è rimasto sul fondo?
“Pensi che io scriva su di te?” mi hai chiesto, e non è ancora un dirmi che lo fai. Ho
l’impressione lei stia iniziando a chiamarmi più spesso, signorina, a guardarmi più
dritto, a vivermi, quasi. A che gioco giochiamo, e lui dov’è? Che faceva stasera?
“No” ovviamente ti rispondo, per lasciarmi contraddire. Ovviamente non lo fai, e in
silenzio mi guardi. Che facciamo, noi, stasera?
Motivazione della giuria:
Il racconto è caratterizzato da uno stile ricercato, che ben si muove tra
elementi della tradizione e della modernità. Altrettanto curata è la scelta
lessicale, che utilizza con perizia giochi linguistici e assonanze. Ottima è poi
la tenuta della struttura narrativa, che riesce a gestire, creando un sapiente
equilibrio, la quotidianità degli avvenimenti con la delicata interiorità della
voce narrante. Questa, infine, si caratterizza come l’elemento di maggiore
significatività: il punto di vista della voce narrante riesce infatti ad esprimere
con delicatezza e riserbo - non tralasciando di inserire qualche elemento di
mistero, e giocando sul “non detto” – un rapporto che si caratterizza per la
piena, curiosa e mai scontata accettazione e comprensione dell’altro/a.
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II edizione del premio di scrittura Parole diverse: Le nostre donne
«Insieme, le nostre donne formiano una bandiera»
Racconto primo classificato
Zenzero, mirra ed essenze di donna
di Valentina Carbonara
Quando Sa’ida venne a sapere che dopo sei mesi di permanenza a Damasco non
ero mai stata all’hammam, sfoderò un’espressione di benevola riprovazione e
nell’increspatura delle sue labbra afferrai un sottile velo di compiacimento. Alla fine
della lezione mi disse: “Domani andremo all’hammam al-Qaimariyya, se Dio vuole”
e capii che non si trattava di un invito declinabile.
Sa’ida era la mia insegnante di lingua araba all’università, una giovane donna dal
viso sottile e ambrato, due occhi di ebano in cui non era raro afferrare un
impertinente guizzo di vivacità nonostante l’incedere lento, l’atteggiamento posato,
i gesti misurati. Tutto di lei era imbevuto di una saggezza per cui non trovo altra
definizione che “orientale”.
L’appuntamento era a Bab-an-Nafura, uno degli ingressi della Moschea degli
Omayyadi, che con la sua solenne imponenza interrompe il pulsante e irriverente
brulicare del reticolo di vicoli che si infrange contro le sue mura, poste a sigillo di
un’intimità mistica indecifrabile, una suggestione di echi salmodiati e incensi che
non appartiene agli uomini.
Mentre attendevo all’ombra del minareto orientale, accettando con placida
rassegnazione la concezione di tempo e puntualità del Medio Oriente, mi sentii
chiamare: “Mara, yallah!”. Una Sa’ida sorridente emerse dalla folla accompagnata
da un’altra donna, più matura e dall’aspetto austero. Percepii una certa rigidità nella
compostezza rigorosa dell’hijab, nero e spoglio da ogni ricamo o altro ornamento.
“Questa è mia cugina, Maryam, e questa è la mia allieva Mara, la più brava di tutte
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le allieve”. La generosità di Sa’ida mi procurò un mal celato imbarazzo, mentre gli
affettuosi convenevoli si prolungarono molto più di quello che la flemmatica
formalità occidentale avrebbe concepito.
Percorremmo Shari’a al-Qaimariyya tra chioschi di dolci fragranti e presidi di
anziani dalle vesti bianche raccolti attorno al narghilè fumante, fino all’ingresso
dell’hammam, una loggetta quadrata con archi posti sui tre lati, abbastanza sobria
da non risultare troppo visibile. Sa’ida per prima si addentrò all’interno,
dischiudendo il fitto tendaggio che occultava quel riservato santuario femminile da
sguardi irrispettosi, preservandone l’inviolabilità.
“'Ahlen, wah as-sahlen!”, così ci diede il benvenuto una ragazza dai gesti melliflui,
seduta a lato dell’entrata, appoggiata torpidamente ad un tavolino con una cassetta
per il denaro. Aveva lunghi capelli corvini adagiati sofficemente sulle spalle nude,
come le braccia decorate da ricami di henna e buona parte delle gambe. Per
quanto una giovane generosamente svestita non mi avrebbe turbato per niente in
Italia, non avevo mai visto tanta disinvoltura in Medio Oriente. Mentre Sa’ida
concordava il prezzo del trattamento con la ragazza, osservai l’ampio atrio
dell’hammam, in cui aleggiava un umido tepore e un intenso profumo di sandalo e
mirra. Vi era una fontana zampillante al centro, muretti di pietra coperti da tappeti,
divanetti dai drappeggi dorati e, sparsi ovunque, disordinatamente, asciugamani,
teli da bagno, saponi di Aleppo e ampolle di oli speziati. Alcune donne si stavano
spogliando con spensierato cameratismo, la riservatezza e la pudicizia sbiadivano
mentre un tratto deciso ridisegnava i contorni dei corpi, le vesti scivolavano lungo
fianchi morbidi, una femminilità celata fioriva su forme materne, acerbe, procaci o
esili.
Dall’imbarazzo iniziale, mi sentii sprofondare in un disagio vertiginoso. Mi trovai
meno in armonia con il mio corpo rispetto a quelle donne a cui la fisicità, si dice, è
spesso negata. Forse perché io ero abituata a confrontarmi con invadenti quanto
acclamati
modelli
di
perfezione,
assurti
a
standard
minimi
per
attirare
l’apprezzamento di un uomo, mentre in Medio Oriente ci si confronta specialmente
con la vicina di casa, la sorella, l’amica e quindi il concetto di bellezza ha contorni
più umani.
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Imitammo le altre donne nel rituale della spogliazione, indossammo viscidi e
massicci zoccoli intagliati con decorazioni e ci dirigemmo lungo un angusto
corridoio laterale su cui si aprivano tre sale quadrate, che formavano un
monumentale complesso termale. Da ognuna fuoriuscivano spirali di vapore che si
addensavano in volute tentacolari sempre più corpose procedendo verso l’ultima
sala, “la sala del fuoco”. Il cerimoniale dell’hammam, in accordo con la capacità di
adattamento del corpo umano, prevedeva di incominciare il percorso dalla prima
sala, quella con temperatura più sopportabile per acclimatarsi e poi procedere in
quelle più torride.
“Mara, prendi questo guanto ruvido. Si chiama kese, lo strofini con forza sul corpo
finché fuoriesce il jild m’asshar. Poi prendi l’acqua calda e la sciacqui via. Ti
insaponi bene e ti sciacqui con l’acqua fredda. E poi ricominci finché non compare
più il jild m’asshar !” Seguii le istruzione di Sa’ida, ma quello che io tradussi come
“buccia di pelle” o un po’ più finemente in “pelle esfoliata”, non apparve. Dovetti
risultare un poco goffa, poiché attirai i sorrisi sornioni di un gruppo di ragazze che
sfilavano da un bacino marmoreo della sala all’altro, compiaciute della loro
avvenente giovinezza. Sa’ida e Maryam scoppiarono in scroscianti risate di fronte
all’immagine di un bianchiccia ragazzina che si stropiccia timidamente gli arti
magrolini. “Hai paura di romperti? Devi sfregare più forte, più forte!”. Sa’ida mi
prese il braccio imperlato di opache goccioline di sudore e mi frizionò con forza
sempre più rapidamente, finché la pelle non divenne rossa e coperta di filamenti
grigiastri. La mia insegnante ne pinzò uno fra le dita e sollevandomelo davanti agli
occhi esclamò: “Vedi? Vedi quanta roba morta e sporca hai addosso? Ti aiuto io!”.
Sorrisi. La mia professoressa si stava occupando della mia igiene come se fosse la
cosa più naturale del mondo che una donna semi sconosciuta lavasse un’altra
rallegrandosi delle impurità mollicce e un po’ disgustose di cui la liberava. Un
piacevole senso di comunione e di protezione soppiantò i parametri di contatto
fisico a cui ero abituata e mi lasciai coccolare nella tiepida atmosfera del bagno.
Alcune ragazzine si inseguivano, zampettando sul pavimento bagnato, si gettavano
secchiate d’acqua fredda a vicenda e ridevano festosamente. Diverse anziane
sedevano sui muretti rivestiti di mosaici colorati, con gli occhi chiusi, come
meditando avvolte e protette dal madido mantello di nebbia. Altre donne
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sbucciavano mandarini freschi con i polpastrelli raggrinziti e gustavano sciroppi
mentre si facevano massaggiare dalle inservienti dell’hammam. Ognuna con il
proprio cammino alle spalle e la volontà di Dio dinnanzi, alcune con gli occhi pieni
della cenere dei propri sogni, altre con lo sguardo saldo e il pugno tenace intorno
ad un progetto chiamato esistenza. Tutte oscillanti tra il ruolo più o meno gravoso di
figlia, sorella, moglie e madre, ognuna imbevuta della stessa luce che il prisma
dell’anima scompone in tanti colori diversi. Per la prima volta, in un paese lontano
lontano e tanto diverso, avvertivo un senso di comunità che si estendeva e si
estende ben oltre quella cornice di acque zampillanti ed effluvi profumati.
Semplicemente donne, sempre e ovunque, a prescindere dalle vesti, dalla carta
d’identità, dalla forma degli occhi, dal lavoro, dalle cicatrici, dalle stanze della
propria casa e dalle stanze del proprio cuore.
“Mara, devi lavare i capelli ora. Ma di questo si occupa Umm Huseyn!” disse Sa’ida,
indicandomi una donna corpulenta, vestita di un drappo amaranto e dalla chioma
bruna e crespa, raccolta da un vistoso fermaglio, intenta a versare a terra catini
d’acqua fredda per accrescere il vapore. Quando si voltò, vidi due occhi sorridenti
delineati dall’antimonio, un po’ sbavato per l’umidità. “Sa’ida, mi hai portato una tua
nuova amica? Vieni, habibti, inginocchiati qua!”. Prima ancora che potessi capire
come muovermi, si sedette su un muretto basso, mi afferrò bruscamente facendomi
piegare, mi prese la testa e la appoggiò sulle sue gambe, poi iniziò a sfregarla con
impeto. “Voi occidentali! Venite qua a passeggiare! Se non ci fossi io a lavarvi i
capelli! Non vi volete lavare bene i capelli? Bisogna lavarli sette volte, così sono
belli per tutto il mese!”. Non osai ribattere che provvedevo alla cura dei miei capelli
più volte alla settimana e che il concetto di hammam diffuso in occidente era più
legato all’estetica che all’igiene personale. “E così Umm Huseyn pensa che le
occidentali si lavino poco...”. Sorrisi di fronte all’universalità di un pregiudizio
culturale.
“Mara, sei sposata?” mi chiese la donna mentre procedeva vigorosamente il
trattamento della mia nuca. “No, sono fidanzata”, risposi pensando all’anellino che
incoronava il dito della mia mano sinistra.
“Lui è gentile con te?”, mi domandò socchiudendo le palpebre con fare circospetto.
“Mh, si, è gentile...” replicai timidamente.
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“Allora non lo sposare! Perché quelli gentili sono quasi sempre frivoli e lavativi,
come il mio ex marito!”.
“Non ti fidare di una donna divorziata” intervenne Maryam, con un sorriso forse più
seccato che affabile.
“Faceva l’artista, lui! Andava in giro a suonare il liuto e tornava a casa con le
elemosine delle donnicciole. Diceva che io ero troppo dura, che non capivo e
intanto lo sfamavo servendo le signore della mia strada. Un giorno mi chiede se
può sposare una delle donnicciole. La mia signora mi dice di divorziare e farmi dare
i soldi della clausola del contratto che avevamo concordato: nessuna seconda
moglie. E ora, con la dote che mi aveva donato e il risarcimento, ho comprato
l’hammam, sono una signora e una donna libera!”.
“Non giudicare con orgoglio le tue scelte. Il Profeta ha detto che la separazione è la
più detestabile, tra le cose lecite, presso Dio”, rispose Maryam, severamente.
“Maryam, porti il nome della donna scelta fra tutte le donne, ma anche se tu fossi
devota e pura come lei, il giudizio non spetta neanche a te!”, affermò Umm Huseyn.
Sa’ida intervenne con mesta dolcezza per stemperare il tono inasprito dello
scambio di battute: “Chiunque, maschio o femmina, se ha operato il bene, entrerà
in Paradiso. Per fortuna è Dio solo che giudica. E non un uomo... per fortuna, no?”
E non un uomo... Seppur impregnata di spirito religioso, più o meno condivisibile,
l’affermazione di Sa’ida mi apparve lucidissima. Nonostante le battaglie delle donne
in tutto il mondo per la propria affermazione, il confronto con il giudizio dell’uomo e
con i criteri stabiliti dall’uomo rimaneva una roccaforte inespugnabile. Il cammino
dell’emancipazione in Occidente calca il terreno della lotta per il ruolo dell’uomo e
ha portato al vicolo cieco per cui la donna libera è la spregiudicata e provocante
donna in carriera, un’immagine forse più dettata dal secolare desiderio di rivincita e
dal voler piacere più che dal piacersi.
Mentre uscivamo dall’hammam, avvolte da asciugamani morbidi profumati di
zenzero, Sa’ida mi sussurrò: “Una donna sufi, una mistica, un giorno disse che il
significato interiore delle donne è un mistero per gli uomini. Noi diciamo che Dio
solo conosce questo mistero perché lui l’ha riposto in loro. Che tu creda in Dio, o
meno, non badare all’uomo che ti dice come devi essere: sta solo balbettando una
lingua che non conosce”.
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Motivazioni della giuria:
Ricorrendo a un’ambientazione “esotica”, il racconto rende conto di un
itinerario della mente oltre che del corpo: attraverso i riti delle terme, della
purificazione, la protagonista si spoglia/si libera dei propri pregiudizi
occidentali per accedere ad un mondo femminile “altro”, legato a valori
diversi. Nel contatto, nella transcodifica mentale, il racconto offre con
abilità nell’utilizzo delle strutture narrative una acuta riflessione sui modelli
di emancipazione delle donne .
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Racconto secondo classificato:
L’ombra di Agata
di Valeria Gibilisco
Quattro luglio. Lo squillo della sveglia. Come tutte le mattine aveva teso il braccio
verso il comodino per prendere gli occhiali. Aveva stranamente fatto caso ad una
striscia di luce lungo l’anta bianca dell’armadio e avvertito un formicolio alle mani e
ai piedi. Un ticchettio frenetico al centro del petto aveva spinto Agata a buttarsi fuori
di casa, quella mattina, dalla casa che per mesi era stata la sua tana e il suo
labirinto. Non era una mattina come le altre.
Erano passati centinaia di giorni e notti, migliaia di ore, da quel venti dicembre di
strade scalpitanti, spese isteriche e duelli di clacson. Ormai accecata dal buio del
sangue che quella sera le aveva pulsato all’impazzata sotto la pelle, Agata non era
più riuscita ad oltrepassare lo zerbino di vimini steso davanti alla sua porta.
Rimaneva accovacciata sulla poltrona o raggomitolata tra le lenzuola, senza alzare
la tapparella di cannucciato della sua finestra, senza indossare il suo maglione
verde. Il ricordo dell’Ombra, dietro di lei, dentro di lei, la tormentava.
Quel dicembre la polvere del vulcano imbruniva i marciapiedi già grigi e un fiume
nero scendeva giù dalle grondaie. Natale era vicino e la pioggia non aveva frenato
le giostre di folla alla ricerca del miglior regalo da acquistare. Agata aspettava sua
madre, come ogni sabato, al numero 10 della luminosa via che taglia in due la città.
Immobile sotto un balcone, ma senza riuscire a ripararsi, con i jeans fradici fino alle
ginocchia e i capelli biondi che le gocciolavano sulle spalle, aveva deciso di
raggiungerla sulla piazza, passando per la solita scorciatoia.
Nonostante il caos e il battere della pioggia sul cemento, aveva udito, senza
voltarsi, un rumore cadenzato alle sue spalle. Le era sembrato quasi di riuscire a
scandirne un ritmo, di battiti, di vene, di polsi, di cuore, di un’ombra, dell’Ombra, di
pietra.
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Poi il colpo. Aveva sentito una mano, quella mano, che le schiacciava la testa sul
marciapiede. Un corpo cominciava a fremere su di lei, ad agitarsi, ad insinuarsi in
lei. Un grido. Buio. Il dolore fisico durò poco, la pioggia lo portò con sé.
Quando lo sfrigolio del cellulare in frantumi svegliò Agata, le gocce del piovasco
avevano già sciolto i volantini pubblicitari sulla strada. La piazza era vuota di
persone, automobili, luci. Un deserto.
Si alzò, claudicante. Tornò a casa.
Dalla sera dell’Ombra, Agata aveva deciso di rimanere sola, avvolta nel turbine di
quelle urla, le sue, che ancora dopo mesi le risuonavano nelle tempie. Voleva il
silenzio, lo desiderava. Sorda alle melodie della vita, sentiva che nulla avrebbe più
avuto importanza e che niente avrebbe spezzato la scorza di fango indurito che le
aveva annichilito i sensi. Ogni giorno, da quel venti dicembre cupo di nubi, era stato
uguale, nella sua casa; la stanza cinque per sette del soggiorno, il suo nido; la
tenda di cannucciato davanti alla sua finestra, una siepe oltre la quale non volgere
lo sguardo; non più agende fitte d’impegni e sogni; non più una vita.
Ma non quella mattina. Aveva deciso di uscire.
Entrò nella sua auto nera senza guardarsi intorno e imboccò la tangenziale.
Girovagò per qualche ora; poi, inquietata dalle battaglie di auto ai semafori, si
diresse verso l’arenile del lungo mare etneo.
Si fermò, tolse gli occhiali, chiuse gli occhi.
Non trascorse che qualche minuto... Toc, toc. Toc, toc, toc… sul finestrino.
Una bimba la fissava con un coniglio di pezza tra le mani. Agata sbatté le palpebre,
cercando di mettere a fuoco; con la vista ancora offuscata riuscì a distinguerne gli
occhi azzurri incredibilmente aperti. Abbassò il finestrino.
- Cosa fai? Dormi? – chiese la bambina. Aveva cinque, forse sei anni. Agata
indossò gli occhiali.
-
No. - rispose.
-
E allora perché stai lì ferma ad occhi chiusi?
-
Aspetto. – Agata aveva detto la prima cosa che le era venuta in mente.
-
Anch’io sto aspettando. La mia mamma mi ha lasciata qui e mi ha detto di
chiedere a qualcuno di farmi compagnia finché non torna. Tu chi aspetti?
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-
Me stessa .
La bambina scoppiò a ridere, spensierata, chiassosa.
-
Ma se sei qui come fai ad aspettarti?... Non è possibile! – disse continuando a
ridere.
Agata accennò una smorfia somigliante a un sorriso, poi continuò:
-
Sto aspettando una parte di me che mi ha abbandonata un po’ di tempo fa.
Sono rimasta a casa a lungo sperando che mi raggiungesse, ma non l’ha fatto.
Oggi ho deciso di attenderla qui.
La bambina divenne subito seria, quasi preoccupata. Poi chiese:
-
Perché è andata via? Non voleva più stare con te?
Agata era meravigliata, imbarazzata, intimidita da quella libera curiosità.
-
Ha avuto paura – le rispose – ma senza di lei sono io ad avere paura.
-
Anch’io ho paura senza la mia mamma.
In un attimo la bambina corse dall’altro lato dell’auto, aprì lo sportello e saltò sul
sedile. Guardava Agata come se riuscisse a leggerle dentro, con lo sguardo da
gatta. Poi disse:
– La mia mamma non verrà. L’ho capito, sai, anche se non me l’ha detto – poi
guardò fuori. - UN AEREO! – urlò. Si era drizzata in piedi, a bocca aperta.
Anche Agata osservò la scia dell’aeroplano. Era un piccolo aeroplano, di quelli che
s’infilano presuntuosi sopra le nuvole. Sentì di nuovo il formicolio alle mani e ai
piedi.
-
Scendiamo! – esclamò Agata.
Non credeva alle sue stesse parole. Prese la bimba per mano e passeggiarono
sulla sabbia, per ore, senza parlare, senza pensare. Ad ogni passo Agata sentiva
avvolgersi dalla brezza marina.
Un nastro sottile, sembrava legarla di nuovo
all’esistenza. Non era notte e non era più giorno. Soffiava un vento leggero che
spingeva le nuvole e il fumo grigio verso il mare. C’era la cenere, ma non la
pioggia, solo un sole amaranto e una falce di luna crescente, senz’ombra.
Agata guardò la bambina dritta negli occhi e, con quell’immagine nitida nello
sguardo, non udì più alcun suono se non quello del suo respiro… dentro, fuori.
Finalmente.
-
E’ tornata. – le disse.
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Motivazioni della giuria:
Il racconto narra il difficile cammino di recupero della personalità e il
riaffacciarsi alla vita di una giovane vittima di uno stupro. Lo fa con
delicatezza di toni, linearità narrativa, e ricorrendo a una sorta di alter ego,
l’immagine della bambina abbandonata che Agata incontra al mare e che
rende una vicenda dolorosissima un atto di fiducia nel futuro.
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