Bisogna insegnare la grafica?

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Bisogna insegnare la grafica?
Bisogna insegnare la grafica?
di Mauro Zennaro
Prendo spunto dagli articoli di Ettore Vitale, Francesco Cavalli, Giorgio Bucciarelli, Michele
Spera e Stefania Tuzi, apparsi nei numeri 2 e 3 di Progetto grafico, per dare il mio contributo al
dibattito che lo stesso Vitale per primo si augurava potesse essere riaperto.
1.
L’anno scorso, in una stazione della metropolitana di Roma, un manifesto pubblicitario ha
attratto la mia attenzione. Sulle prime, non ho capito di che trattasse. Era pieno di numeri
grandi e colorati e, come una qualunque affissione commerciale, sembrava promettere ottimi
affari. Sotto un’headline ambigua come tutte le headlines che si rispettino (“Non tutti i laureati
sono sapiens”: è un anno che ci penso, ma non ho ancora capito che cosa significhi), figurava un
elenco di questo tono:
21 facoltà
160 corsi di laurea
170 lauree specialistiche
140 master
100 scuole di specializzazione
Il tutto era riferito all’Università degli studi ‘La Sapienza’ di Roma, come testimoniava
l’indirizzo in calce: www.uniroma1.it.
A questo punto dovrei riportare la riflessione che tale manifesto mi ha suggerito, e cioè che
non è il numero dei corsi di laurea a dare importanza ad un’università quanto la qualità
dell’insegnamento e la preparazione dei suoi laureati e via discorrendo, ma, di questi tempi, la
cosa mi sembra alquanto scontata.
L’università – e in generale la scuola – è essenzialmente questione di numeri.
2.
In questi ultimi anni ho tenuto corsi di grafica presso il Corso di laurea in Disegno industriale
della prima facoltà di Architettura ‘Ludovico Quaroni’ dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma
e presso i Corsi di laurea in Comunicazione internazionale e in Tecnica pubblicitaria e design
strategico dell’Università per stranieri di Perugia.Devo dire subito che la mia esperienza a
Roma non è stata ‘esaltante’ come quella di Vitale, al punto che ho deciso, quest’anno, di
non ripeterla. Il problema non è stato tanto il rapporto con gli studenti, quanto quello con
l’istituzione. L’università italiana, infatti, come tutte le altre scuole pubbliche, è entrata
entusiasticamente nell’Era dell’Impresa e, come qualunque azienda, ha problemi di budget,
di concorrenza, di posizionamento e via discorrendo. Le università fanno a gara per sfornare i
corsi più varî allo scopo di solleticare gli appetiti del pubblico, attente alla customer satisfaction
piuttosto che alla definizione di seri contenuti e soprattutto apparentemente interessate alle figure
professionali che ne usciranno; ma, nonostante le competenze che si suppone acquisiranno gli
utenti e delle quali si garantisce la spendibilità sul mercato, i laureati trovano sempre meno lavoro
(come tutti gli altri, del resto).
Il problema di fondo, a mio avviso, è proprio nella logica dell’impresa applicata all’università.
L’università non ha mai avuto tra i suoi fini quello di insegnare un mestiere né, tantomeno,
di inserire chicchessia nel mondo del lavoro, bensì di proseguire lo studio iniziato a scuola e
dare una preparazione teorica approfondita in un certo ambito, grazie alla quale la laureata e
il laureato avrebbero potuto in seguito specializzarsi e imparare un mestiere o proseguire negli
studi e insegnare a loro volta (è a questo che servono innanzitutto il latino e la matematica:
quelli che poi li useranno davvero nel lavoro sono pochissimi). Per questo le facoltà universitarie
sono sempre state tutto sommato poche: un generico laureato in lettere può diventare un
giornalista, un critico, un professore, uno storico e molto altro: in quest’ottica, corsi di laurea
in giornalismo, critica, didattica o storiografia sarebbero (e sono) paurosamente riduttivi.
Invece l’università si è lanciata nel mondo della formazione, tradizionale terreno di pascolo delle
aziende e delle scuole professionali pubbliche e private, anziché dell’istruzione e della ricerca,
come sarebbe suo compito istituzionale; il risultato lo vediamo (e ce ne lamentiamo) tutti:
gli studenti non sanno e non amano studiare, scelgono le facoltà non per amore ma per una
presunta facilità di sbocco professionale, non sono preparati, non trovano il lavoro che avevano
sperato. La difficoltà di inserimento non è dovuta solo alla loro scarsa preparazione, quanto alla
velocità con cui cambiano il mercato, gli assetti aziendali, le tecniche produttive: per esempio,
pochi anni fa il mercato dell’alta tecnologia era in piena espansione, oggi licenzia in massa; una
laurea in economia era il lasciapassare automatico per un lavoro sicuro e ben retribuito, oggi
tale certezza si è dissolta.La laurea triennale ha ulteriormente abbassato il livello di preparazione,
rendendo inevitabili costosissimi master e lauree specialistiche; d’altro canto, l’aziendalizzazione
delle scuole ha abbassato ancor più i livelli di entrata all’università, che bene o male si è dovuta
adeguare.
Per quanto riguarda la grafica, la situazione mi sembra ancora più drammatica. La diffusione
dell’elettronica ha drasticamente sfoltito il numero degli addetti (grafici, fotografi, fotolitisti,
fotocompositori, stampatori ecc.); il collegamento in rete permette la trasmissione di dati
a distanza e quindi la possibilità di lavorare ovunque, scavalcando gli operatori locali; la
globalizzazione ha appiattito anche le caratteristiche culturali della comunicazione, per cui i
manifesti affissi a Cracovia vanno bene pure a Matera (anche perché i claim pubblicitari ormai
sono quasi tutti in un desolante basic english). D’ora in poi, a parte ridottissimi fenomeni di
nicchia, lavorerà solo chi fa più in fretta a costi minori: quattro gatti, probabilmente in paesi
lontani e via internet. E per questi quattro gatti occorre fare appositi corsi di laurea?
3.
Ma ammettiamo pure che tali università siano utili e perfino necessarie.
Sono in parte d’accordo con quanto afferma Vitale: la progettazione grafica non può essere
confinata all’interno di facoltà universitarie con le quali poco o nulla ha a che fare; l’inserimento
della grafica nei corsi di architettura dimostra, innanzitutto, quanto poco rettori e presidi
abbiano capito del progetto di comunicazione visiva, ritenendolo una specie di abbellimento,
un fronzolo da applicare al ben più degno progetto tridimensionale; inoltre conferma la
presunta onniscienza degli architetti e il carattere polimorfo dei loro insegnamenti, sospesi tra
la sociologia, l’ingegneria e l’arte pura, e che pertanto si appropriano di discipline critiche e
progettuali che non competono loro.
Un fenomeno attuale e sconcertante è il proliferare dei professori a contratto, dovuto proprio
all’esplosione dell’offerta formativa e alla necessità di reperire gente che insegni materie
eterodosse rispetto ai tradizionali contenuti della facoltà. I professori a contratto non sono
un problema in sé: lo diventano quando, anziché compiere interventi limitati e fortemente
selezionati (seminari, conferenze, lezioni su argomenti specifici e specialistici), vengono
impiegati per corsi istituzionali, con tanto di esami e tesi, in numero spesso molto superiore a
quello dei docenti incardinati, per giunta senza che venga loro prospettata alcuna possibilità
di carriera accademica e con compensi ridicoli; invece il nuovo assetto universitario prevede
docenti sempre più precari e meno pagati in università affollate, poco attrezzate e disposte a
tutto pur di attirare clienti. Intendiamoci: non intendo difendere antiche baronie; ma occorre
un minimo di stabilità (e di soldi) per poter avviare studi e ricerche concrete e decenti, che
durano sempre molto a lungo, o anche solo per poter seguire una tesi di laurea per il tempo che
merita e che esige. Non era l’università il luogo deputato per queste cose?
4.
Non sono d’accordo con Vitale quando lamenta una scarsa considerazione del nostro mestiere
e scrive che “Questa nostra professione va portata a più alti livelli” e che “dobbiamo riaffermare
‘l’idea progettuale’ in contrapposizione al dilagante progetto approssimativo, uniforme,
livellato”.
Quest’idea che noi grafici siamo tanto importanti mi lascia perplesso. La Carta del progetto
grafico, che afferma la ‘centralità’ del progetto grafico e quindi del relativo progettista in tutti
i campi ove vi sia comunicazione (cioè dappertutto), ha ormai quindici anni, è stata scritta
e firmata nel secolo scorso, prima dell’abbattimento del muro di Berlino, della diffusione di
internet e della prima guerra irachena. Forse andrebbe riscritta. La diffusione capillare del
computer ha portato la grafica a disposizione di tutti, progettisti o no. Che ci piaccia o meno,
chiunque oggi può fare un marchio, redigere e stampare una newsletter, progettare e gestire un
sito web1. Dalla rete si pescano qualunque testo e immagine, nonché software per riutilizzarli.
Possiamo anche deprecare il fatto che ormai cani e porci facciano il nostro mestiere, ma tanto
lo fanno lo stesso e noi non possiamo farci niente. Non siamo una lobby tanto forte da poterci
opporre, magari imponendo albi professionali blindati, drastiche leggi sul copyright e galera per i
trasgressori. Abbiamo già tanti proibizionismi: uno in più non migliorerebbe il mondo.
La proliferazione a dismisura di grafici, ovvero di persone che fanno grafica con il calcolatore,
non è né arrestabile né tanto meno invertibile. Di fatto, chiunque possieda un computer e
si possa collegare ad internet usa programmi di videoscrittura, fotoritocco, impaginazione e
presentazione in modo massiccio, a prescindere dalle capacità e dall’esperienza. I programmi
presentano interfacce e comandi sempre più accattivanti e ‘amichevoli’ e offrono di default
opzioni bell’e pronte, che evitano all’utente medio i fastidi delle scelte consapevoli e che
richiedono studio. L’opzione fra i caratteri, ad esempio, è già fatta a monte: Helvetica (o Arial)
se si vuole un documento ‘moderno’ e ‘chiaro’, e Times per una lettera ‘classica’: questi caratteri
sono ‘automatici’, ‘ci sono già’, sono ‘quelli del computer’. Le altre font servono quando si
vuole qualcosa di ‘carino’, ‘strano’, ‘diverso’, magari per comporre titoli e testi che poi verranno
deformati, ombreggiati, allungati eccetera. Il discorso vale anche per i siti web.
Il computer diventato un elettrodomestico e, come l’utente medio di una lavatrice non è tenuto
a conoscerne nei dettagli il funzionamento ma gli è sufficiente scegliere un’opzione fra alcune,
così chi usa il calcolatore non ha (più) cognizione del fatto che sta usando una macchina che
calcola: per il cittadino informatizzato-medio il computer (nome tipicamente basic english, cioè
che suona bene ma dal significato incerto e tutto sommato superfluo) scrive, colora, stampa,
masterizza, naviga, eccetera, proprio nel senso che lo fa lui, non si limita ad eseguire velocemente
dei calcoli che serviranno poi a vari scopi, magari anche per impaginare un libro.
Benché testimonianza di un atteggiamento superficiale, questo è comunque un comportamento
di massa e, come tale, determina una propria estetica. Tale estetica ci offende, ci disgusta e
ci fa gridare allo scandalo; la denunciamo nella consapevolezza che essa non solo è brutta ma
anche inquinante, danneggia la comunicazione, genera incomprensione e incomunicabilità e
quant’altro (soprattutto ci toglie il lavoro!), ma è dominante. Possiamo condannare e combattere
tale estetica, così come combattiamo la gastronomia dei fast-food, ma dobbiamo ormai partire
dal fatto che il mondo in cui ci troviamo ad operare riconosce la grafica fai-da-te, con i suoi
testi in Times ombreggiato e le pagine web con le parole in viola su fondo nero, come base
comunicazionale globale.
5.
Vale forse la pena di spendere qualche parola sull’estetica del computer, al di là del fastidio
che essa può dare a noi addetti ai lavori. Un aspetto evidente di tale estetica è la crescente
illusorietà, ovvero la tendenza al trompe l’oeil che appare sullo schermo. Tale illusorietà è sempre
più evidente nelle interfacce dei più aggiornati sistemi operativi. Il passaggio dai primi sistemi
operativi a quelli attuali è stato scandito da una sempre maggiore tridimensionalizzazione
apparente: finestre e pulsanti raffigurati sullo schermo appaiono (verrebbe da dire: sono) sempre
più solidi, hanno ombre e riflessi, danno una sensazione quasi tattile di trasparenza e vergatura
come fossero fogli di carta, plastica, metallo, perfino pergamena; inoltre essi sono, per l’appunto,
‘finestre’ e ‘pulsanti’, ovvero simulazioni di oggetti appartenenti allo spazio fisico che nella realtà
vera vanno manipolati. La stessa cosa appare in gran parte dei siti e i programmi di fotoritocco
– nati per correggere dominanti cromatiche, restaurare immagini rovinate, fare fotomontaggi e
dimensionare fotografie per l’impaginazione: insomma, per fare il vecchio lavoro del fotolitista
– sono di fatto usati soprattutto per dare effetti di rilievi, trasparenze, riflessi, luci un tempo
ottenibili solo con lunghi interventi manuali di ripresa fotografica, elaborazione in camera
oscura e ritocco all’aerografo.
L’evoluzione dei mezzi di comunicazione a distanza ha eliminato la necessità dei contatti
umani diretti, al punto che i mass media hanno sostituito il messaggio all’esperienza diretta2
e il computer ha eliminato tutto un mondo fatto di cose solide: carte, cartoncini, inchiostri,
colla, caratteri in piombo, pennarelli, righe, squadre, matite, ognuno con i propri odori, colori,
sensazioni tattili; in una parola: con la propria fisicità. In confronto con quei materiali, il
computer è tristemente anodino. Non intendo con ciò rimpiangere il passato né rivendicare la
superiorità di una tecnica su di un’altra, ma è chiaro che calcolatori, modem, telefoni e satelliti
hanno tagliato fuori tutto il corpo dal processo produttivo del nostro mestiere, esasperando il
divario, anche geografico, tra lavoro intellettuale e maestranze: nel Sud del mondo le condizioni
di vita dei lavoratori sono tornate ai livelli della prima Rivoluzione industriale; nel Nord, essi
(immigrati a parte) tendono ad identificarsi sempre più con la loro macchina informatica.
Il corpo – tranne gli occhi e qualche dito – non è più indispensabile per lavorare e quattro sensi
su cinque si sono atrofizzati: per questo l’estetica dominante lo ha sostituito con l’illusione della
fisicità; in un mondo estetico in cui solo la vista ha una funzione, questa dev’essere ingannata
per poter soddisfare gli altri sensi. Ma l’inganno dei sensi falsa irrimediabilmente il rapporto con
la realtà.
6.
Il problema principale non è nella condivisione dei canoni di un’estetica in particolare (ovvero
che certe cose sono ‘brutte’), quanto nel fatto che essi sono ormai universali e rendono
controversa (o addirittura inutile) l’idea di identità. Ma non è forse l’identità il tema di tutto il
nostro lavoro? Non è il nostro operato teso all’identificazione, alla riconoscibilità (di un’azienda,
un evento, un libro, ecc.)? Ne consegue che la crisi dell’idea di identità sia la crisi del nostro
mestiere e, in ultima analisi, della nostra stessa esistenza come grafici.
Un’apparente contraddizione può emergere dal fatto che mai come oggi l’essenza stessa
dell’identità è affermata e sbandierata: la pubblicità punta proprio a far sentire il prodotto,
così come il consumatore, unico, cioè dotato di identità inconfondibile, e mai come oggi il
branding viene spacciato come il nodo centrale della comunicazione. Ma ciò che intendo
per ‘crisi dell’identità’ non è il processo, caratteristico di certi stadi della vita (il più tipico è
l’adolescenza), in cui non si sa cosa si è e si ‘cerca sé stessi’: è la diffusione del segno globalizzato,
per cui qualunque segno vale e comunica quanto un altro, in qualunque parte del mondo (o
almeno del Nord), unito alla sua banalizzazione. I segni identificativi non sono più solo su
manifesti e altri spazi all’uopo deputati: sono sulle felpe di qualunque adolescente. Detto in
termini economici, un segno inflazionato non vale più niente. Il nostro mestiere ha prodotto
più segni di quanti ne servissero.
La questione dell’identità è inoltre piuttosto recente, e ciò si nota “osservando come gli apparati
disciplinari hanno costruito e definito l’identità degli individui, come li hanno identificati,
a partire dal libretto scolastico, dal libretto di lavoro, dal casellario giudiziario, dalla cartella
sanitaria, dal curriculum militare, dallo stato civile. Per quanto ci possa parere strano, prima
dell’ultimo secolo, mai nella storia gli umani hanno avuto bisogno di un documento per
comprovare la propria identità. E come sempre accade, la tecnologia è venuta in soccorso
solo quando si è fatta pressante questa strana esigenza”3. Inoltre, “se guardate l’Enciclopedia
internazionale delle scienze sociali pubblicata nel 1968 (...) non troverete nessuna voce sotto il
temine identità, eccetto una sull’identità psicosociale redatta da Erik Erikson, che si preoccupava
soprattutto di cose come la cosiddetta “crisi d’identità” degli adolescenti”4. Sarà un caso che
anche il mestiere di grafico, così come lo intendiamo ora, è altrettanto recente?
7.
Insomma, è in atto un cambiamento, che però andrebbe visto nella sua reale dimensione (il
che è un altro problema: come si fa a giudicare con obiettività un fenomeno mentre esso sta
avvenendo?).
Il fatto che pagine e siti siano spesso orribili mi dà fastidio, ma non mi sembra un reale
problema (oltretutto riconosco di non essere, per motivi anagrafici, il più adatto a giudicarli).
Per fare un altro esempio, trovo sinceramente spaventosa la maggior parte dei messaggi di posta
elettronica che ricevo dai miei studenti, il cui lessico e la cui ortografia sono ormai mutuati dagli
sms: k invece di ch, numeri al posto di parole (6 per il verbo sei ecc.), abbreviazioni drastiche,
testi interamente in minuscolo o in maiuscolo. Quotidiani, periodici (perfino qualche libro!)
sono pieni di E’ al posto di È, nonostante si presuma che la carta stampata venga progettata
da qualcuno del mestiere. Inoltre abbondano i refusi, segno evidente che la correzione delle
bozze viene ormai fatta esclusivamente con il word processor e che i correttori di mestiere si sono
estinti. Ci sarebbe di che indignarsi5.
Ma: la lingua e l’ortografia non erano cose vive e mutevoli? Nel Duecento non si usava la
k? Le abbreviature non sono state la regola i tutti i testi scritti per millenni? I calligrafi non
hanno dovuto cedere il passo malvolentieri ai tipografi? L’alfabetizzazione di massa non ha
prodotto generi letterari prima impensabili? Nelle scuole e nelle università non si è dovuto
passare dal latino alle lingue nazionali? Non potrebbe essere, questo che vediamo ora, un
ennesimo mutamento grafico-linguistico-sociale che, coinvolgendoci troppo da vicino, non
comprendiamo e perciò avversiamo? In fondo, cos’avrebbero detto Francesco Petrarca, Aldo
Manuzio e Giovan Francesco Cresci dell’alfabetizzazione di massa, della Bic e di Word? E
quanto scandalo ha portato l’invenzione della stampa a caratteri mobili?
In soldoni: ho l’impressione che le rivendicazioni di qualità ed esclusività della nostra
professione siano dettate, magari in buona fede, da gelosia corporativa e che, in qualche modo,
siamo in parte colpevoli dei nostri disastri professionali. Noi grafici ci siamo entusiasticamente
lanciati nella pubblicità rivendicando doti esclusive di creatività, ci siamo fatti portabandiera
delle politiche di branding e di corporate image, abbiamo progettato nuovi look di vecchi partiti
– tanto la pubblicità, i brand e i look li facevamo noi, e in cambio ci arrivavano dei soldi. Poi
Naomi Klein ha finalmente messo per iscritto6 che il prodotto è il marchio, quindi il marchio è
qualunque cosa, quindi si può produrre ovunque, quindi (scusate se salto qualche passaggio) i
ricchi sono più ricchi e i poveri sono più poveri.
8.
Ma torniamo al tema di partenza.
Dal momento che la grafica all’università c’è, meglio insegnarla bene.
Il problema della didattica della grafica non è diverso da quello della didattica tout-court,
probabimente ne è solo un aspetto estremo. Come è noto, la grafica è entrata nella scuola, prima
privata e poi pubblica, solo in tempi recenti. D’altro canto, è recente la definizione di ‘grafico’
come mestiere: prima, il grafico era il tipografo, lo scriba, il cartellonista. Ancora oggi, la
definizione di ‘grafica’ è fortemente ambigua, se confrontata a quella di altre discipline, quali ad
esempio la falegnameria, l’archeologia o la giurisprudenza. Anche ricorrendo alla definizione di
‘comunicazione visiva’ il problema non cambia, perché esso è proprio nella storicizzazione delle
discipline e della relativa didattica. La matematica, ad esempio, vanta una storia plurimillenaria,
ed è quindi logico che un piano di studi in questa materia, per quanto incessantemente
evolutasi, abbia una solida base: da duemilatrecento anni, gli Elementi di Euclide sono un
ottimo modo per iniziare a studiarla, a Dublino come a Tokio. Ma la grafica, da dove comincia?
Se lo studio di un testo del iii secolo a.C. è perfettamente legittimo per un giovane matematico,
lo è altrettanto far compiere all’aspirante grafico un tirocinio da scriba sumero?
Insegnando da diversi anni, mi sono posto molte volte questa domanda e ho trovato, di volta in
volta, risposte diverse, spesso contraddittorie. Ho rilevato alcuni paradossi:
1: non occorre nessuna reale capacità ‘grafica’ per fare il grafico; il grafico, cioè, non è un
disegnatore ma un progettista, ovvero una persona che affronta e risolve problemi, non
dissimilmente da un ingegnere. Per fare ciò, deve avere essenzialmente una buona capacità di
analisi dei problemi, unita alla competenza tecnica e alla conoscenza di una casistica – direi
quasi una ‘clinica’ – assai vasta;
2: questo ‘non grafico’ deve avere una notevole competenza grafica artigianale, in quanto
il controllo degli spazi e dei segni richiedono lunghi tempi d’acquisizione, facilitata dalla
lenta disciplina calligrafica e tipografica, nonché dalle tecniche di disegno e di riproduzione
artigianale (ciò è in contraddizione col punto 1);
3: la scelta dello strumento è legata al contesto storico (anche la penna d’oca e il Rapidograph
sono stati strumenti innovativi, da giovani), quindi l’uso di tecniche ‘classiche’, quali la matita o
i pennarelli, appare anacronistico e la scelta digitale appare ormai l’unica proponibile anche sul
piano didattico (ciò è in contraddizione col punto 2);
4: l’attività artigianale classica prevedeva la capacità di costruire e modificare gli strumenti di
lavoro; oggi occorrerebbe saper entrare nel merito delle procedure informatiche per produrre
e modificare i software necessari alla professione, tenendo però presente che il tempo dedicato
alla manutenzione degli strumenti è cambiato (tagliare una penna d’oca richiede pochi secondi,
ottimizzare e risolvere i problemi di computer e periferiche fa perdere giornate, lo sappiamo
tutti);
5: un grafico deve avere duttilità, capacità di adattamento e attenzione a ciò che accade, in
grafica e (soprattutto) altro, nel mondo, restando capaci di risposte individuali e personali, non
fosse altro che per essere competitivi nel mercato;
6: per finire, la creatività (qualunque cosa si intenda con questo termine) sembrerebbe un
requisito indispensabile.
Da quanto sopra, consegue che per fare il grafico occorre: pensare, studiare, ragionare
analiticamente; aver avuto esperienze in tutti i campi del segno, dall’incisione su pietra alla
composizione tipografica a mano; saper usare lo strumento informatico con padronanza e
disinvoltura, eseguendo con esso tutto quello che si può fare con le tecniche tradizionali e
anche qualcosa in più, ma in una minima frazione di tempo; saper programmare; sapere tutto
sulle ultime tendenze della comunicazione visiva globalizzata conservando un proprio stile,
riconoscibile ma sempre nuovo; essere un accorto manager; ‘creare’. Superman, insomma.
E questo Superman, come lo formiamo?
I primi cinque punti dell’elenco, sebbene in contraddizione fra loro, sono comunque
comprensibili e costituiscono altrettanti requisiti, se non tutti indispensabili, almeno molto
utili. Il principale problema è dato dal sesto.
Come ho già scritto7, la creatività è un concetto ambiguo, soprattutto perché, nel lessico
tradizionale, tutto ciò che è connesso alla creazione (ovvero alla produzione di qualcosa
partendo dal nulla assoluto) è appannaggio esclusivo della divinità. A rigore, anzi, nemmeno
la divinità può creare dal nulla: alcune cosmogonie, come quella greca, prevedono la creazione
a partire da qualcos’altro (Zeus, che crea il mondo, è a sua volta creato da Cronos) ed è solo
con S. Agostino che il concetto di creazione include il tempo (in un certo senso precorrendo
Einstein), per cui non esiste un ‘prima’ prima della creazione.
Il concetto di creatività, però, ha preso piede e ha assunto il significato di “trovare soluzioni
nuove ed inaspettate” ai problemi.I manuali di psicologia portano alcuni esempi di
‘comportamento creativo’. Ad esempio, per trovare l’area di un parallelogramma senza
conoscere la formula, alla persona creativa basterebbe osservarlo e scoprire che esso non è che un
rettangolo storto, con un triangolo aggiunto da un lato e sottratto dall’altro, per cui l’area risulta
essere quella del rettangolo di uguali base ed altezza, ovvero dello stesso rettangolo quand’era
ancora dritto8. In realtà questo esempio, come altri, dimostra solo che l’osservatore preso in
esame, pur ignorando il parallelogramma, ha conoscenza di rettangoli e triangoli, cioè sfrutta la
sua esperienza per risolvere un problema (come fanno tutti).
9.
Purtroppo, però, la creatività sembra essere, secondo l’opinione corrente, qualcosa di
indefinibile ma autocertificabile, un certo-non-so-che che le agenzie vendono a caro prezzo,
le scuole di grafica e di pubblicità insegnano, i creativi di mestiere sbandierano, gli studenti
pretendono (di possedere già e di incrementare).
A questo punto bisogna tornare all’interrogativo di partenza: cos’è la grafica, e come la si
insegna? E la creatività?
A parte le considerazioni filologico-teologiche, molte persone usano il termine ‘creatività’ per
definire qualcosa di ben preciso, cioè il processo di definizione ed elaborazione di un progetto,
sia artistico in senso stretto, sia di comunicazione. In realtà, il progetto, ad esempio, di un
affresco deve tener conto, oltre che dell’’ispirazione’, anche di un mucchio di cose piuttosto
pratiche ed oggettive: i metri quadri da dipingere, la temperatura e l’umidità dell’ambiente, la
forma e la qualità del muro, la luce che vi batte contro, il costo delle materie prime, il tempo a
disposizione, il budget del committente ed i suoi gusti, la storia ed eventualmente le precedenti
raffigurazioni del soggetto prescelto. A ben vedere, l’analisi dei costi e delle tecniche non è
poi tanto diversa per un pittore o per un ingegnere. Un progetto è un progetto, e progettare
significa, sempre e comunque, analizzare i dati ed operare delle scelte in funzione di un
obiettivo.
Ammettiamo, comunque, che si usi il termine ‘creatività’ in buona fede, sulla scia acritica della
moda. In che modo un autore può essere ‘creativo’?
Nelle mie lezioni, di solito, faccio qualche esempio letterario. Eccone uno:
Cyrano de Bergerac, protagonista dell’omonima ‘commedia eroica’ in versi di Edmond Rostand
messa in scena per la prima volta a Parigi il 28 dicembre 1897 e ispirato ad un personaggio
storico realmente vissuto nella Francia del Seicento, è rappresentato come il più terribile
spadaccino del suo tempo e insieme come un grande poeta, un uomo generosissimo e un
tenero innamorato. Offeso da un nobile maleducato e stupido, che lo insulta a causa del suo
naso enorme, Cyrano gli dà una lezione dimostrandogli (prima di infilzarlo) in quali e quanti
modi si può descrivere un naso grosso, in maniera molto più fantasiosa, elegante, divertente,
pungente e ‘creativa’ di quanto l’altro abbia saputo fare. Cyrano utilizza ben venti descrizioni
diverse, partendo da venti diversi punti di vista. In questo caso è il numero delle descrizioni,
più dell’arguzia delle stesse, a colpire il bersaglio: Cyrano dimostra, cioè, che si può prendere in
prestito qualunque cosa e qualunque concetto per parlare di nasi e sembra fermarsi al numero
venti solo per mancanza di tempo, o magari per esigenze squisitamente sceniche.
Un secondo esempio è dato dall’opera di Raymond Queneau. I famosi Esercizi di stile
sono appunto novantanove ripetizioni di un testo breve e banale e la dimostrazione che si
può scrivere qualunque cosa in qualunque modo, ovvero che si può applicare l’esperienza
accumulata in qualunque campo – burocratico, matematico, poetico, ecc. – per comporre
anche soggetti non inerenti al campo prescelto. Definitivo è poi l’esempio dei Centomila
miliardi di poesie, in cui Queneau riesce, semplicemente tagliando in 14 strisce dieci fogli di
carta contenenti ognuno un sonetto, ad ottenere appunto 1014, cioè 100.000.000.000.000 di
poesie.Una definizione più approfondita l’ha data Ignacio Matte Blanco a proposito dell’arte,
che suggerisce essere una combinazione di pensiero simmetrico e asimmetrico, intendendo per
simmetrico quello inconscio e onirico (in sogno, A può essere contemporaneamente padre e
figlio di B) e asimmetrico quello razionale (se A è causa di B non può esserne l’effetto). Un caso
esemplare di simmetria artistica è dato dal celebre primo verso del xxxiii canto del Paradiso
dantesco, in cui la Madonna è contemporaneamente vergine e madre, nonché figlia di suo
figlio: la commistione di pensiero simmetrico e asimmetrico avviene all’interno di un progetto
letterario rigorosissimo, in cui la capacità tecnica (lunghezza dei versi, precisione delle rime,
suddivisione delle cantiche, ecc.) e l’adattamento al contesto (politico, religioso, linguistico,
ecc.) sono paragonabili a quelle necessarie per eseguire un progetto d’ingegneria9.
Questi casi dimostrano, a mio avviso, come la cosiddetta creatività sia solo una miscela di
esperienza e di numero, ovvero la soluzione di un calcolo combinatorio. Non intendo con ciò
dire che Rostand, Queneau e Dante siano banali e che chiunque avrebbe potuto scrivere le
loro opere, ma che limitarsi a definirle ‘creative’ è davvero rinunciare a capirle (e a progettare
qualcos’altro).
Aggiungo che fornire agli studenti esempi non visivi impedisce loro di confondere significati
e significanti (ovvero: il tale esempio non è valido perché composto in Garamond corpi 11
o perché è giallo con un’ombra grigia, ma perché segue un percorso logico corretto). A loro
spetta il compito di tradurre i percorsi logici in percorsi visivi: compito non facile ma ben più
interessante e formativo.
10.
Ecco, questo è più o meno quello che cerco di mettere in chiaro quando insegno. Lavorando
con studentesse e studenti di corsi di comunicazione, e non di architettura o design, mi capita
di avere a che fare con persone che affermano di non saper disegnare ma che sono abituate
a leggere e a scrivere, e questo è un bel vantaggio. Resto infatti perplesso nell’osservare i vari
manuali e libri sulla grafica, da quelli per gl’istituti professionali a quelli, più lussuosi e patinati,
dedicati a professionisti celebri. Il problema è sempre di approccio metodologico, ovvero
di: studio del problema, acquisizione dei dati, analisi delle eventuali soluzioni elaborate per
problemi simili, eccetera, e soprattutto di definizione del campo d’azione. Ritengo, cioè, che
sia necessario cercare di dare una sistematizzazione alla didattica della grafica in senso il più
possibile scientifico, ovvero di attività sperimentale da cui si ricava (si conferma o si smentisce)
una teoria. Questo, secondo me, è l’unico modo di insegnare, anche se può sembrare un invito
alla banalizzazione perché non dà la possibilità di ‘creare’10.
Quello che chiedo, solitamente, è innanzitutto la stesura di un testo ‘corretto’, sia nel senso
dell’editing che più strettamente grafico, cioè di gestione del carattere o, meglio, della
‘grafia’. La definizione di ‘grafia’ è molto importante: esiste una grafia della lingua scritta,
una della matematica, una della chimica, una della cartografia, eccetera, e la ‘grafica’ consiste,
innanzitutto, nel definire la grafia adeguata alla situazione, cioè nello scrivere qualcosa nel
modo migliore (non è detto che l’alfabeto sia l’unico mezzo per scrivere, né tanto meno lo sono
un pittogramma o un marchio. Anzi, non è affatto detto che il marchio, questo oggetto tanto
amato dai grafici, abbia senso: perché mai prodotti sostanzialmente simili sono ‘comunicati’
da marchi tanto diversi? Non sarà una pura questione di apparenza e di moda? Ma la scrittura
può fermarsi al look?)11. Oltre a ciò, ritengo necessario chiedere agli studenti una riflessione sui
segni esistenti, ottenuta attraverso l’osservazione e il rilievo (ovvero la trasposizione dei segni
da un medium ad un altro). Lascio la libertà di scegliere tali segni, purché siano rigorosamente
contestualizzati ed attinenti a luoghi e situazioni specifiche. Ritengo necessario educare al
risparmio, com’è dovere di ogni cittadino, e chiedo solo elaborati di minimo costo realizzativo,
purché soddisfino elementari esigenze di riproducibilità. La scelta dei temi non è importante
quanto i criteri con cui vengono svolti.
Mi rendo conto che fare comunicazione visiva dando grande importanza alla storia e al testo
e invitando a non badare alle apparenze possa suonare strano, ma sono sempre più convinto
che quello che appare non sia quello che è, e che l’utente debba esserne sempre consapevole;
che esistano priorità da rispettare; che il grafico non sia un demiurgo e che il mondo vada letto
in un’ottica laica; che il nostro mestiere abbia bisogno di una profonda ridefinizione e vada
definitivamente distinto da quelli, solo in apparenza paralleli, del pubblicitario, dello stilista,
dell’architetto, dell’arredatore, del marketing manager; che nessun grafico potrà mai salvare
l’umanità né essere incisivo quanto, per esempio, un medico o un giornalista (non a caso non
esistono ‘Grafici senza frontiere’) benché possa, al contrario, provocare qualche danno; potrà
però aiutare medici e giornalisti a comunicare fra loro e con la gente. Questo sarebbe già un
risultato soddisfacente. A questo dovrebbero aspirare i nostri studenti.
11.
A questo punto devo dire che provo una certa perplessità osservando le pagine degli articoli
pubblicati che hanno ispirato questo intervento proprio perché, in ultima analisi, un articolo
sulla didattica ha comunque anche un valore didattico, sia pure in senso lato, ovvero di
indicazione metodologica. Ecco, vorrei poter esprimere il mio giudizio sugli elaborati degli
studenti apparsi sui due numeri scorsi di ‘Progetto grafico’, ma molti di questi appaiono sulla
rivista in formato francobollo, decisamente graziosi ma del tutto illeggibili e soprattutto privi di
indicazioni circa i percorsi progettuali che li hanno determinati. La loro apparente eterogeneità
è tale da far pensare che, tutto sommato, un segno valga l’altro e ogni segno sia autoreferenziale.
E questo mi sembra molto irrazionale, molto ridondante. È il momento di fare appello alla
razionalità.
Il mio riferimento alla razionalità non intende invitare all’adozione di una forma precisa (cioè
non è un invito al razionalismo come stile formale), quanto all’attenzione ai reali bisogni
in risposta alla ridondanza e allo spreco. Quasi quarant’anni fa Giancarlo Iliprandi scriveva
parole memorabili sull’inquinamento visivo12, che sembrano dimenticate ed anzi ridicolizzate
dall’invasione a tappeto che abbiamo subito. Perfino lo Stato (o quel poco che resta) è immerso
in un groviglio di marchi13.
A questo punto mi sembra poco rilevante se i segni siano belli o brutti, né mi scandalizzo
più per la totale egemonia del manierismo grafico che si manifesta ovunque, dalle sofisticate
interfacce dei sistemi operativi ai volantini autoprodotti delle discoteche di periferia: mi
preoccupo piuttosto del trionfo del virtuale, del falso, dell’apparente e delle ragioni di tale
trionfo, su cui ho scritto poc’anzi.
12.
Mi viene in mente spesso, di questi tempi, un breve scritto di Gianandrea Gavazzeni14 che,
rilevando la superficialità, la ridondanza e l’arbitrio di tante interpretazioni beethoveniane,
concludeva che forse Beethoven è meglio non eseguirlo affatto.
Bisogna insegnare la grafica?
Note
1. Mia figlia di 9 anni ha fatto il diario delle vacanze con fotocamera digitale e opportuni
programmi di fotoritocco e di impaginazione. Le ho dato una mano, ma il grosso l’ha fatto lei e
non è poi male.
2. Per citare un esempio famoso, Michael Moore ha dimostrato al grande pubblico, nel film
Bowling a Columbine, che la paura della delinquenza, negli Stati Uniti, non è motivata da un
effettivo aumento del crimine quanto dai messaggi allarmisti diffusi dalla televisione e dal fatto
che la paura fa aumentare le vendite.
3. Marco D’Eramo, Lo sciamano in elicottero. Per una storia del presente, Milano, Feltrinelli,
1999, p. 172.
4. Eric Hobsbawm, Identity Politics and the Left, “New Left Review”, maggio-giugno 1966, n.
217, p. 38, citato in: Marco D’Eramo, op. cit, p. 173.
5. Perfino la brochure della Scuola Normale Superiore di Pisa, il più prestigioso ateneo italiano e
punto fermo della cultura internazionale, contiene errori e refusi!
6. Naomi Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini&Castoldi,
2001. All’incirca sullo stesso proposito è da non perdere il film The Corporation, di Mark
Achbar, Jennifer Abbnott e Joel Bakan.
7. Mauro Zennaro, Grafica, pubblicità e scuola, “Punti critici”, n.4, febbraio 2001, e anche: La
grafica a scuola, “Progetto grafico”, n. 1.
8. Vedi la “dimostrazione” di M. Wertheimer, portata ad esempio anche in alcuni manuali
scolastici come: M. Antonella Paolucci e Giuliano Pietroni, Psicologia della comunicazione,
Roma, Clitt, 2000.
9. Remo Bodei, Matte Blanco. L’opera d’arte tra ragione e passione, “il manifesto”, 13 dicembre
2002, p. 12.
10. E mi sembra tanto più necessario quanto più il mondo che ci circonda appare preda
dell’irrazionalismo dilagante; gli esempi non mancano: dall’abolizione dell’insegnamento
dell’evoluzionismo in alcuni degli Stati Uniti al trionfo della spettacolarità televisiva a discapito
dei contenuti e della riflessione, dall’accettazione di massa del concetto di ‘guerra preventiva’
alla diffusione a tappeto di ogni genere di sette religiose e new age.
11. Come scrive Giovanni Lussu, “Il marchio (indebitamente chiamato oggi ‘logo’ a riprova
della scarsa chiarezza in queste questioni), quando non è un vero e proprio marchio che
contrassegna un prodotto, nella gran parte dei casi non appare avere una stringente funzionalità
comunicativa” (Giovanni Lussu, La lettera uccide. Storie di grafica, Viterbo, Nuovi Equilibri,
1999).
12. Giancarlo Iliprandi, Basta con le immagini, ‘Imago’, n. 10, 1967.
13. Basti pensare alla triste operazione di branding in occasione del semestre italiano di
presidenza dell’Unione europea; alle immaginette che vorrebbero contraddistinguere, non
dico i ministeri, ma perfino le varie direzioni generali in cui sono ripartiti; ai servizi un tempo
pubblici, come le poste e le ferrovie...
14. Gianandrea Gavazzeni, Non eseguire Beethoven e altri scritti, Milano, Il Saggiatore, 1974.