Mercoledi 23 maggio 2001, versante nepalese del Lhotse, ore 17,28

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Mercoledi 23 maggio 2001, versante nepalese del Lhotse, ore 17,28
Mercoledi 23 maggio 2001, versante nepalese del Lhotse, ore 17,28. Dalla
tenda rosso porpora piantata a 8000 metri d'altitudine traspare il
tremolio vivido della candela che gli alpinisti Simone Moro e Denis Urubko
tengono accesa per sincerarsi della presenza di ossigeno nell'aria. Fa
molto freddo. All'interno, i due dispongono con cura sul sacco a pelo umido
l'equipaggiamento che servirà per l'attacco alla vetta nelle ore
successive: qualche barretta energetica sigillata e una scatola di Diamox,
l'acetazolamide che altera il bilanciamento di anidride carbonica
nell'organismo aumentando la frequenza respiratoria e riducendo il
contenuto alcalino del sangue. In più, qualche caramella. Non hanno invece
il Dexamethasone, il potente steroide in grado di ridurre il gonfiore del
cervello in caso di edema cerebrale: Simone è contrario, lo ritiene
pericoloso, preferisce fare solo con le sue forze.
A queste altitudini, se va bene, la mancanza di ossigeno e l'atmosfera
rarefatta inducono cefalea, nausea e grande stanchezza. Se va male, è molto
più dura: all'improvviso può coglierti un edema polmonare, che in montagna
viene chiamato "l'annegamento dall'interno": la pressione dovuta alla
scarsa quantità di ossigeno e lo sforzo fisico mettono sotto enorme stress
i polmoni. Gli alveoli si riempiono di liquido e la situazione precipita
drammaticamente. Lo stesso succede con l'edema cerebrale: l'accumulo di
liquidi nell'encefalo porta a rigonfiamenti del cervello che provocano
allucinazioni e perdite dell'equilibrio . Se il paziente non viene spostato
velocemente verso il Campo Base, si rischia il coma e poi la morte.
Ore 17,29: un grumo di saliva gelata pende dalle labbra spaccate e
tumefatte di Denis Urubko mentre con la mano sinistra fa saltare piccole
scaglie di ghiaccio dalla superficie di cordura dello zaino. Ogni tanto il
walkie-talkie che li collega al campo base gracchia, ma debolmente: Simone
lo estrae dalla tuta appesa al gancio vicino alla candela e lo passa a
Denis, che sorseggia del té caldo. Poi Simone controlla le pericolose
incrostazioni di ghiaccio sull'equipaggiamento e Denis inizia a sciogliere
palle di neve in un pentolino ammaccato che servirà a preparare l'ultima
gavetta di cibo liofilizzato. La temperatura esterna è ormai a 38 gradi
sotto lo zero e le tenebre iniziano ad abbracciare la montagna. Il vento
spazza nevischio sulle grosse lastre di ghiaccio che circondano il campo e
l'urlo che ne deriva è rotto a intervalli regolari dal tintinnio metallico
di una cerniera che batte sul montante in Ergal della tenda di un'altra
spedizione, 70 metri più in basso. Nella notte sulla quarta montagna più
alta del mondo Simone e Denis infatti non saranno soli: accanto a loro, in
attesa del momento per l'attacco agli 8561 metri della vetta del Lhotse, ci
sono due sherpa, quattro spagnoli, un neozelandese e un americano. A
differenza di questi, però, Simone e Denis sono senza forze, per essere
saliti in "Stile alpino", cioé senza portatori sherpa e per essere passati
dai 6323 metri del bivacco precedente agli 8000 di quest'ultimo: un balzo
inusuale, che li ha visti saltare la classica tappa intermedia dei 7300
metri per l'acclimatamento. Ma Simone e Denis sono allenati, fisicamente e
moralmente. Per tutta una vita hanno affrontato gli abissi della paura,
salendo le montagne più alte del mondo come l'Everest, il Lhotse, il
Makalu, lo Sisha Pangma, il Dhaulagiri, l'Annapurna e il Marble Wall. Più
di una volta hanno affrontato situazioni critiche. Nel 1997, Simone Moro
ha visto morire al suo fianco il fortissimo scalatore russo Anatolij
Bukreev (nella foto sopra, il protagonista del salvataggio descritto nel
best-seller Aria Sottile di Jon Krakauer con Simone), strappato alle rocce
e sommerso da una valanga sull'Annapurna, quando insieme tentavano di
conquistarne la vetta.
Le 17,30. La neve nella gavetta si è sciolta, ma l'acqua fumante stenta a
bollire: prima che Simone possa versarci il contenuto di una busta
liofilizzata, alcune grida disperate giungono dal buio che avvolge la
tenda. Simone scansa il sacco a pelo, sposta lo zaino e fa cadere
involontariamente alcuni oggetti metallici. Poi, in ginocchio, afferra gli
scarponi, se li infila ed esce. Di fronte a lui c'è la sagoma di Darek, un
alpinista polacco che insieme alla connazionale Anna e allo sherpa Passang ha
da poche ore conquistato la vetta in compagnia del 19enne britannico Tom
Moores. La situazione è drammatica. Darek, stremato dalla fatica, racconta:
«Durante la discesa ho visto sfrecciare Tom a testa in giù, scivolando
sulla neve. Ha messo un piede in fallo e probabilmente ha perso uno dei due
ramponi da ghiaccio». Darek dice di aver visto scomparire Tom lungo una
parete con almeno 1500 metri di dislivello.
E gli si è gelato il sangue. Per fortuna, la caduta è stata interrotta da
una chiazza di neve 500 metri più in basso, a un'altitudine di circa 8000
metri ben lontana dal percorso di salita e dall'ultimo campo in cui si trova simone.
Ecco cosa ricorda di quei momenti Tom Moores, il diretto interessato:
«Avevamo appena conquistato la vetta. Sapevo che quell'ascesa sarebbe stata
il più duro test fisico della mia vita. Per tutta la salita avevo avuto
problemi con la maschera ad ossigeno, sulla quale si era condensato del
ghiaccio. Ricordo di essere crollato più volte a carponi sulla neve,
stremato. Continuavo a chiedermi "Che diavolo ci faccio qui?". Proseguire
era dannatamente faticoso e doloroso. Ogni tre piccoli passi dovevo
fermarmi per almeno due minuti: entravo in iperventilazione e i polmoni
sembrava dovessero esplodere». Il dolore ai muscoli è terribile,
soprattutto ai polpacci e alle coscie. Quando arriva in vetta, Tom ci
rimane solo due minuti: il tempo è orrendo, non si vede nulla. Rinizia la
discesa. Con Darek decidono di scendere separati, per essere più agili e
veloci. Dopo due ore e mezza, Tom è alla disperazione: non sente più i
muscoli e teme che il freddo possa fottergli le estremità delle mani. In
più, trema sempre più forte. Ecco quello che succede nei tre minuti
successivi: con la parte posteriore del rampone piena di neve, Tom scivola
con il piede sinistro e perde l'equilibrio. Con terrore si accorge di
precipitare a velocità spaventosa lungo la parete di ghiaccio. Prova una
prima volta a piantare la piccozza nella neve, ma gli si strappa dalle
mani. Ora, Tom, non ha più possibilità di arrestarsi. Il suo racconto:
«Guardai giù, lungo il pendio. Mi accorsi di procedere velocemente con la
testa in giù verso una sottile striscia nera di rocce: un attimo dopo
l'impatto fu duro, ma non sentii dolore. Il sangue iniziò a colare sulla
fronte, sul viso, in bocca. Fu un attimo: riniziai a scendere, rotolando.
Ero convinto di fare tutti i 1500 metri della parete». Ricorda Darek: «Ero
impietrito. Lo vidi sfreccare sulla parete, poi rotolare e infine fermarsi.
Decisi di farmi forza e tentare di raggiungere quella piccola sagoma in
fondo al canalone, adagiata su un cumulo di neve».
Tom riaprì gli occhi. Si era fermato. Immobile, intuisce solo l'allargarsi
della chiazza di sangue nella neve. E il suo fiatone. Intanto, Darek sta
scendendo la parete verso di lui gon estrema fatica. Ricorda Tom: «Tentai
di tamponare la ferita sopra l'occhio con una ghetta. Usciva parecchio
sangue. Ormai ero fermo e rammento con quanta disperata ostinazione
desideravo sopravvivere. Poi vidi Anna e lo sherpa Passang lassù, in cima,
camminare a capo chino con lentezza esasperante verso il Campo 4. Mi misi a
urlare, ma non potevano sentirmi a causa della lontananza». È il momento:
Tom improvvisamente vede la sagoma di Darek sopra la sua testa. Darek,
ormai al limite delle forze, decide di lasciare Tom lì e proseguire fino al
Campo 4 - quello dove si trova Simone Moro - per cercare aiuto e altre
bombole d'ossigeno.
Passano due ore infinite: «Ero convinto di morire: con gli indumenti zuppi,
tremando nella neve, non potevo resistere a lungo». Intanto, Darek è ormai
al Campo 4 e sta illustrando a Simone Moro e agli altri alpinisti la
situazione.
Ore 17,49. Simone Moro, con gli scarponi ai piedi, ascolta attentamente il
racconto di Darek. Gli alpinisti delle altre tende gli si radunano intorno,
ma invece di prepararsi a un soccorso congiunto, bisbigliano tra loro frasi
in inglese, di cui una viene captata da Simone: «We loose the Summit...»,
cioé «Così perdiamo la vetta...». Simone capisce: rinunciano al tentativo
di salvataggio dando per spacciato il ragazzo e assicurandosi così la
possibilità di salire in cima senza scocciature. Moro decide di andare
solo, lasciando il fidato compagno Denis al Campo con la radio. Tra lui e
Tom Moores ci sono 200 metri di dislivello e una fascia rocciosa
impraticabile: Simone è obbligato quindi ad aggirarla, scendendo per poi
risalire dall'altra parte. Tutto senza ossigeno. Con ovvia difficoltà
l'obbiettivo di raggiungere da solo l'inglese riesce: Tom ha perso molto
sangue, ma non ha altri danni gravi. Il problema è il rampone da ghiaccio
perso: senza quello, Tom non può camminare e Simone è costretto a
caricarselo in spalla. Ma c'è un altro problema. Non possono scendere verso
il Campo 3, sotto di loro, a 7400 metri, dove ci sono parecchie persone. Il
rischio di provocare un distacco di slavine nel percorrere la parete è
alto: per salvare una persona, Simone rischia di ucciderne 30. Quindi
decide di caricarsi Tom Moores sulle spalle e risalire la montagna, al
buio, puntando verso la vetta. Tom: «Simone mi caricò sulle spalle e
aiutandosi con una piccozza da ghiaccio cominciò a salire. Fu davvero dura:
eravamo tutti e due bagnati e avevamo molto freddo. Arrivati al Campo 4,
Simone mi distese nella tenda e con Denis cominciò a scaldarmi. Mi
coprirono con un sacco a pelo e mi addormentai. Passai una notte orrenda,
piena di incubi, vomitando molto».
Ore 7,32, la mattina successiva: Simone recupera alcune bombole d'ossigeno
per Tom, ma essendo ancora disidratato a ogni respiro la gola dell'inglese
si secca, provocandogli fortissi dolori. Poi tossisce. Ancora peggio.
«Scesi al Campo 3 il giorno successivo» racconta Tom «dove Jason Edwards, a
capo di una spedizione commerciale, mi diede caramelle, acqua e ossigeno.
Sapevo di aver lasciato Simone privo di forze al Campo 4 e che il mio
salvataggio avrebbe compromesso la sua vetta". Così fu: a causa delle
energie spese per salvare la vita di un uomo, Simone Moro rinuncia alla cima dopo avere raggiunto
il giorno successivo quota 8200 metri.
Il compagno Kazako Denis Urubko raggiunge quindi da solo la vetta e raggiunge Simone Moro al
campo base il giorno successivo. Con lui anche tutti
gli altri occupanti del Campo 4 che quella notte evitarono di soccorrere un
uomo di 19 anni .....
Simone Moro è stato insignito nel 2001 del "David A. Sowles Award", il
prestigioso premio istituito nel 1981 e assegnato ogni anno dall'American
Alpine Association a tutti gli alpinisti che si distinguono in imprese
rischiose a favore di altri scalatori in grave pericolo.
Lo stesso premio che nel '97 venne consegnato a Anatolij Bukreev, compagno
di Moro che morì sull'Annapurna quello stesso anno.
Un premio che è stato assegnato solo quattro volte in venti anni.
Michele Lupi