nche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro
Transcript
nche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro
A nche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro coraggio / se la paura di guardare / vi ha fatto chinare il mento / se il fuoco ha risparmiato / le vostre Millecento / anche se voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti. E se vi siete detti / non sta succedendo niente, / le fabbriche riapriranno ,/ arresteranno qualche studente / convinti che fosse un gioco / a cui avremmo giocato poco / provate pure a credevi assolti / siete lo stesso coinvolti. Anche se avete chiuso / le vostre porte sul nostro muso / la notte che le pantere / ci mordevano il sedere / lasciamoci in buonafede / massacrare sui marciapiedi / anche se ora ve ne fregate, / voi quella notte voi c’eravate. E se nei vostri quartieri / tutto è rimasto come ieri senza le barricate / senza feriti, senza granate, / se avete preso per buone / le “verità” della televisione / anche se allora vi siete assolti / siete lo stesso coinvolti. E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti. (Fabrizio de André, Canzone del Maggio, 1973) Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno XXVIII (2008) n. 5 Federico Premi NICOLA. VITTIMA NELLA “BELLA”, CRUDELE VERONA Silvio Mengotto IL CASO ZINGARI Fabrizio Micheletti Periodico mensile - Anno XXVIII, n. 5, maggio 2008 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz. e amministraz.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20 www.il-margine.it FRANCIS GALTON E LA NASCITA DELL’EUGENETICA Milena Mariani DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE Walter Micheli AUTONOMI, MA PER COSA? Emanuele Curzel A CINQUANT’ANNI DALLE ESPERIENZE PASTORALI IL MAR MARGINE 5 MAGGIO 2008 Federico Premi 3 Nicola. Vittima nella “bella”, crudele Verona Silvio Mengotto 13 Il caso zingari Fabrizio Micheletti 16 Sir Francis Galton e la nascita dell’eugenetica Milena Mariani 25 Di generazione in generazione Walter Micheli 31 Autonomi, ma per cosa? Emanuele Curzel 36 A cinquant’anni dalle Esperienze Pastorali Milani nella Lettera dall’Oltretomba ai missionari cinesi (p. 8). «Quando ci siamo svegliati era troppo tardi. I poveri erano già partiti senza di noi». Milani ci ricorda allora che non è solo l’obbedienza a potersi rovesciare nel contrario della virtù: anche la prudenza può fare la stessa fine. In mezzo a tante “prudenze”, la Chiesa e gran parte della società italiana stanno assistendo inerti al (nemmeno troppo) silenzioso svuotamento del comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione, la più bella promessa mai fatta ai poveri e ai piccoli di questa nazione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». IL MARGINE Mentre andiamo in stampa Gli articoli di questo numero affrontano temi di attualità… nel modo in cui può farlo un discontinuo mensile: cercando cioè di tornare alle radici dei problemi che di solito ci vengono abusivamente presentati come “emergenze”. Se non si torna a meditare sui drammi strutturali delle nostre città (non solo di Verona), sulle basi della nostra convivenza civile, sull’immagine di umanità e di “alterità” che abbiamo o non abbiamo maturato, sul nostro rapporto con il passato e il futuro, non solo non riusciremo a comprendere la quotidianità, ma rischieremo di farci ingannare o travolgere dai coltivatori di paura che al momento trionfano nella politica e nella società. In questo numero manca certamente qualcosa: il ricordo di Paolo Giuntella, amico del Margine e dei suoi collaboratori, giornalista e scrittore ma soprattutto instancabile profeta di speranza, che ci ha lasciato il 22 maggio scorso. Questa lacuna verrà colmata in uno dei prossimi numeri della rivista, che sarà interamente dedicato all’esperienza della Rosa Bianca italiana. Per il momento ci stringiamo con affetto intorno a Laura, Osea, Tommaso ed Irene e a tutti gli amici di Paolo, che nel suo ultimo libro L’aratro, l’ipod e le stelle ci ricordava che «la morte non avrà l’ultima parola». mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Direttore: Emanuele Curzel In redazione: Alberto Conci, Marco Furgeri, Pierangelo Santini, Angelo Scottini Amministrazione e diffusione: Luciano Gottardi [email protected] [email protected] Webmaster: Maurizio Betti [email protected] Comitato di direzione: Celestina Antonacci, Monica Cianciullo, Giovanni Colombo, Francesco Comina, Marco Damilano, Fulvio De Giorgi, Marcello Farina, Guido Formigoni, Paolo Ghezzi (resp. a norma di legge), Giovanni Kessler, Roberto Lambertini, Paolo Marangon, Fabrizio Mattevi, Michele Nicoletti, Vincenzo Passerini, Grazia Villa, Silvano Zucal. Collaboratori: Carlo Ancona, Anita Bertoldi, Dario Betti, Omar Brino, Stefano Bombace, Vereno Brugiatelli, Luca Cristellon, Marco Dalbosco, Mirco Elena, Cornelia Dell’Eva, Michele Dorigatti, Michele Dossi, Eugen Galasso, Lucia Galvagni, Giancarlo Giupponi, Paolo Grigolli, Alberto Guasco, Tommaso La Rocca, Paolo Mantovan, Gino Mazzoli, Milena Mariani, Pierluigi Mele, Silvio Mengotto, Walter Nardon, Francesca Paoli, Rocco Parolini, Nestore Pirillo, Gabriele Pirini, Emanuele Rossi, Flavio Santini, Pierangelo Santini, Sergio Setti, Giorgio Tonini. Progetto grafico: G. Stefanati Una copia € 2,00 - abbonamento annuo € 20 - d’amicizia € 30 estero € 30 - via aerea € 35. I versamenti vanno effettuati sul c.c.p. n. 10285385 intestato a: «Il Margine», c.p. 359 - 38100 Trento. Autorizzazione Tribunale di Trento n. 326 del 10.1.1981. Codice fiscale e partita iva 01843950229. Redazione e amministrazione: «Il Margine», c.p. 359, 38100 Trento. http://www.il-margine.it e-mail: [email protected] Publistampa Arti Grafiche, Pergine Il Margine n. 5/2008 è stato chiuso in tipografia il 9 giugno 2008. «Il Margine» è in vendita a Trento presso: “Artigianelli”, via Santa Croce 35 - “Centro Paolino”, via Perini 153 - “La Rivisteria” via San Vigilio 23 - “Benigni” via Belenzani 52 - a Rovereto presso “Libreria Rosmini” - a Milano presso “Libreria Ancora”, via Larga 7 - a Monza presso “Libreria Ancora”, via Pavoni 5. editore della rivista: ASSOCIAZIONE OSCAR ROMERO Presidente: Piergiorgio Cattani [email protected] Vicepresidente: Fabio Olivetti Segretario: Veronica Salvetti Editoriale Nicola Vittima nella “bella”, crudele Verona FEDERICO PREMI P erdere un amico è sempre una disgrazia. Ma il modo in cui lo si perde determina sicuramente l’intensità, la profondità del dolore che ci si ritrova a gestire. Perdere – in un pacifico 2008 – un amico perché, per puro caso, viene massacrato di botte e muore solo in quanto si ritrova a passare, ancora per caso, per una via del centro della bella Verona, significa gestire una sofferenza che con il caso vuole proprio giocare, e che non trova pace perché non trova il senso. È senza senso, in questa vicenda fatta di fatalità, sorpresa e ipocrita meraviglia, provare stupore di fronte ad un fatto che può a buon diritto definirsi banale. A Verona, da più di un decennio il male è banale. Soltanto l’esito di questo “male”, nel caso di Nicola, è stato ingiustamente diverso. Per questo mi ritrovo a leggere la morte del mio caro amico come un fatto tristemente naturale: un fatto, cioè, che non poteva, prima o poi, non accadere. I presupposti c’erano tutti. È un discorso di convenienza. Forse, tenendo gli occhi chiusi, si spera di non vedere, di non sentire, di non dover trovare responsabilità in una città fatta di persone così vive, così prospere, così serene da non dover pensare ad altro che alla firma dei vestiti piuttosto che alla marca automobilistica, o al taglio dei capelli da sfoggiare all’ora dell’aperitivo nelle vie del centro. Una gran parte di veronesi vive per questo. Questo è il senso del loro esistere. Ne conosco moltissimi, perché in questo ambiente sono cresciuto. Benché siano stati scritti libri interessanti, come All’estrema destra del padre, l’occhio di un veronese può sicuramente cogliere ciò che occhio estraneo, per disabitudine, non coglie. Ancora una volta, però, mi si potrebbe accusare di qualunquismo, di fare di tutta l’erba un fascio. Ma in questo caso io mi sento in diritto di fare davvero un fascio di tutta l’erba dei veronesi. Questo approccio interpretativo potrebbe forse servire, se non a riportare in vita un amico, a fare un esame di coscienza. Potrebbe servire a capire “dove” tutti i veronesi hanno sbagliato permettendo, al di là di ogni colore politico, fede, professione o àmbito culturale, l’instaurazione di un clima sociale-civico, ma prima ancora esistenziale (del singolo individuo che cerca un senso preconfezionato e alieno alla sua vita), di insofferenza. Perché solo in questo contesto è possibile comprendere come Nicola sia diventato, per molti veronesi, un fenomeno marginale, “uno su un milione”, come dice il sindaco Tosi stigmatizzando l’accaduto. Già si è preparata una raccolta firme per “tutelare” la credibilità e l’immagine della città. Ancora menzogne, ancora coperture, ancora paure. Verona non ammette il proprio fallimento. Non impressionare una città Coloro che denunciavano questo sentire di grave crisi nella città di Verona si sono imbattuti in un’Impersonalità che ha sempre risposto marginalizzando, sminuendo, contestualizzando, nel tentativo di “isolare”. Si è sempre risposto, cioè, facendo in modo che la denuncia non impressionasse la figura della città, specchio dell’interiorità ed esteriorità dei suoi abitanti. La morte di Nicola, però, è ancor più crudele nel momento in cui lacera ulteriormente una ferita aperta da anni che l’impressionata Verona non vuole assolutamente riconoscere e tanto meno guarire. È abitudine – e non solo veronese – di questi tempi, chiudere gli occhi per non vedere le ferite, e non volerle guarire in quanto aprire gli occhi, economicamente, non conviene. 3 Identificare il diverso “Marginale”, per troppi miei concittadini, è anche il fatto che ogni muro del centro e della periferia sia ricoperto di svastiche, che “bravi ragazzi”, figli di imprenditori e notabili, incidono fieri del loro credo in Forza Nuova, partito veronese d.o.c. È normale, da noi – a volte opportuno – che Forza Nuova catalizzi i giovani in modo che i genitori non si debbano più occupare di loro, e deleghino al “partito” – in un clima da totalitarismo – le esigenze dei figli. È normale, ancora, che il buon umore e la gentilezza dei cittadini, che si ripercuote in ogni relazione quotidiana, segua i risultati dell’Hellas Verona, squadra di calcio assurta ad idolo, fine ultimo di molte persone. 4 Considerare, quindi, marginali e normali fenomeni che altrove, per fortuna, desterebbero sdegno, è un modo per ritagliarsi, via negationis, una ferma identità. Ed è proprio su questa mitica identità –la veronesità, sottocategoria della padanità – che il terreno diviene fecondo per identificare il diverso: ovvero tutto ciò (simbolo, cosa o persona) che possa turbare l’ebete e sereno stato di cose in cui galleggia Verona. La brutta bestia del disagio e l’imperativo della “sicurezza” Non poteva quindi farsi sfuggire l’occasione, la Verona che non vuole problemi, che vive bene, che ama l’aperitivo, le libertà e la facile dicotomia identitaria, di trovare un motivo, una sola causa a quella brutta bestia del disagio che, contro ogni pronostico e ogni piano-benessere, trova ancora spazio nelle vite dei cittadini. La causa di ogni disagio, infatti, sembra essere la diversità che mina l’equilibrio. Di qui la nascita della vera e propria emergenza veronese: la sicurezza. Ecco allora che l’“emergenza sicurezza”, sotto le false spoglie di una pretesa di ordine e legalità, fiorisce e sboccia proprio a Verona. Laddove la nevrosi cittadina si fa più forte, più forte è l’esigenza di dare forma a questa patologia, e quale farmaco più efficiente di un ordine che ne camuffi i sintomi? Dell’individuazione di un nemico pubblico? Di una improvvisa semplicità e limpidezza dei problemi di Verona che, da una pluralità ora si riducono ad uno solo? L’ordine pubblico? Il “buon costume”? Questo utopico ordine, inteso come ritorno a immaginifiche, idilliache dimensioni di una città perfettamente bella, include – dalla coscienza ai comizi politici – un’epurazione dichiarata di ciò che non si omologa: nel vestire, nel dire, nell’opinione, nella moda di gesti e desideri, perfino nel pensare o nel frequentare luoghi e tempi secondo i dettami più in voga. Negli ultimi decenni è nato proprio questo implicito fiorire di simbolismi e significati. Una macchina, una scritta, un colore, un taglio di capelli, una posa: ogni cosa, qui da noi, dice immediatamente qualcos’altro, significa. Una maglietta scelta a caso dall’armadio, nella città dell’ordine, perde tutta la sua casualità: diventa la maglietta del comunista. Una maglietta verde subisce la stessa sorte: significa Lega Nord. Verona vive di queste mitiche simbologie. Le menti di troppi miei concittadini non sono libere da un giudizio “a priori” su ogni cosa e ogni persona. C’è l’esigenza esistenziale di un giudizio. L’ordine, la classificazione, l’appartenenza devono essere ri- 5 spettati in ogni loro aspetto. Così si vive quotidianamente a Verona. Un colore e una marca, un taglio di capelli può – come abbiamo tristemente visto – darti diritto di vita o di morte. Ma questo non è un vivere sereno, è un vivere teso e preoccupato, ansioso, maniacale; soprattutto pauroso, quando l’interpretazione non riesce. Ecco dunque le ideologie, che mettono a riparo da questa incapacità ermeneutica, fornendo identità e risposte. Chi conosce la Verona dell’ultimo decennio – covo di contraddizioni, di infondatezza, di calma apparente, in tutte le sue manifestazioni – non può che vedere, in altre città (che possono essere Trento, Mantova o Padova, o la stessa Milano) una leggerezza diversa. A Verona tutto è greve, pesante, sospettoso, pieno di pericoli e di possibili disturbi al sistema: nelle vie, nei locali, per strada, nelle proprie automobili. Un colpo di clacson a chi compie un’infrazione può scatenare risse furibonde. Lo stress veronese, che copre il vuoto di esistenze che non trovano altra pratica di sé se non nel consumo, è palpabile e reale. Verona, in questo, è una città carnevalesca. Ciò che qui è diverso, altrove è normale. Altrove non esiste “a priori” la dicotomia diverso/normale. A questo proposito mi hanno molto infastidito i giornali che dipingevano Nicola come il “diverso”, quasi fosse un mostro o un marziano, semplicemente perché Nicola era disinteressato alle mode o agli status symbol. Nicola disegnava, amava lo sport. Tutto qui. I suoi interessi, per sua sfortuna, non erano né la moda, né il Suv. Una grave colpa, evidentemente, in un microcosmo in cui l’ordine richiede l’omologazione, per la sicurezza di tutti. Un’ideologia riduzionista e facilona Da dove ha origine, allora, questa derìva della città veneta? Forse da uno iato culturale tra chi legge autonomamente la realtà e chi preferisce delegare questa lettura – per mancanza di tempo o per esagerata fiducia nella promessa di felicità del denaro, con conseguente svalutazione della cultura vista addirittura come intralcio – al partito piuttosto che ad una classe, una squadra, un’ideologia riduzionista e facilona. La Lega Nord, su questo terreno, ha avuto gioco facile, inserendosi proprio in quell’abisso generazionale, dovuto all’allentamento – nel senso del disinteresse – dei rapporti e dei tempi educativi e all’aumento smisurato delle opportunità di consumo. È emblematico l’episodio di derisione avve- 6 nuto ai danni dell’ex sindaco Zanotto quando, per recuperare zone degradate della città, ha investito più sulla cultura (proponendo la lettura di poesie tra i barboni, i senzatetto e nelle zone degradate) che sulla pubblica sicurezza. Il nuovo sindaco, dopo aver definito i reperti romani “quattro sassi senza valore” che intralciano il progresso cittadino, ha assecondato la tendenza a leggere Verona come centro commerciale e slot machine, denigrando e togliendo fondi ad ogni attività inutile, quindi culturale. Guadagno e commercio sono i recenti idoli della città veneta, come sa chiunque “abiti” i dialoghi, le opinioni e le decisioni dei concittadini. Di fronte a questo desolante panorama che vede adattare la città alla circolazione dei Suv allargando le strade, invece di limitarne la circolazione per vivere la città; che vuole – come sostiene con orgoglio l’assessore alla viabilità – far diventare Verona un grande drive-in; che toglie le piste ciclabili in quanto pericolose per le auto parcheggiate; che vuole costruire un traforo autostradale da 390 milioni di euro per mantenere una promessa elettorale; che ha cancellato il Parco delle Torricelle a favore di zone edificabili e commerciali, la città intellettuale scompare, si dilegua, si inabissa. O si adatta. Qui sta la questione: la Verona che coglie i problemi, li analizza, li vive e li capisce, è vittima dell’inedia. È demoralizzata. Non ha scampo. Soprattutto, non ha voce. Rivoluzione commerciale e vuoto culturale La rivoluzione commerciale ha ucciso definitivamente quella culturale. L’Università, le accademie sono oasi isolate. Così si formano spaccature, alienazioni e spazi vuoti. Così viene a mancare un dialogo, un confronto vero tra un’idea e l’altra. In una città civile, un innocente non può morire per niente. Ridicolo e vergognoso è intendere la morte di Nicola un caso fortuito: Nicola è morto per una evidente circostanza di causalità. La perdita di ogni valore o senso che esuli dal paranoico sfoggio esteriore (che dovrebbe rappresentare una sorta di appagamento esistenziale e di potere, in quanto solo così sembra possibile contare qualcosa) è frutto, a mio avviso, di due tendenze contrapposte, legate tra loro osmoticamente, che hanno una radice decennale. Da un lato, il dilagare della moda, del denaro, del benessere sopra ogni cosa: ovvero la stizzita e nevrotica cancellazione di ogni fatto, cosa o persona che possa turbare il precario equilibrio di un edonismo basato su soldi, 7 alcool, cocaina, pornografia e gestito dagli illustri nomi della “Verona bene”, che tutti conoscono ma di cui, non si capisce perché, l’informazione tutela sempre la privacy. Dall’altro, il fallimento del sistema educativo che – giorno dopo giorno, silenzio dopo silenzio – ha consentito, glissando o sminuendo, tutto questo. E lo ha consentito senza servirsi delle stesse armi di coloro che trovano, invece, spazio nella vita e nell’opinione pubblica, scrivendo articoli antisemiti, pubblicando libri come I guerrieri di Verona (il cui autore, fratello di un assessore comunale e appartenente ad una famiglia di gerarchi fascisti, racconta la preparazione, assieme al figlio, del fantoccio negro impiccato poi nella Curva Sud allo stadio), o eleggendo personaggi con precedenti penali, che propongono di abolire il 25 aprile e creare, parallelamente all’Istituto della Resistenza, un Istituto per i “Giovani di Salò”. Una cultura di classe chiusa e autoreferenziale ha permesso questo iato, questo abisso; ha permesso che venisse a mancare, materialmente, la voglia di rispondere e ribattere a questioni “assurde troppo assurde”. Ma l’assurdo ha avuto il sopravvento di fronte ad una parte di cittadinanza incapace di alzare la testa, di affermare una verità diversa. E così a Verona l’opinione pubblica – quindi il voto politico, quindi l’indirizzo culturale – si è formata pian piano per sedimentazione, per assestamento, negli spazi lasciati vuoti. Nessuno si è sentito in dovere, di fronte alle assurdità fasciste, di essere presente, oltre che rappresentato al momento del voto. Così, ancora una volta, via negationis si sedimenta, si ode solo la voce e il parere di coloro che – accecati dalle loro idee, dalle loro passioni – trovano il tempo per affermare se stessi e la loro miseria. E l’unico quotidiano della città, L’Arena – ago sbilanciato della bilancia politico-sociale veronese – abituato a questa univocità del “parere”, a sua volta ha scelto un tipo di informazione che non crei problemi, che non scuota, che non smuova nulla, che assecondi il potere. D’altronde, nella città del benessere e della moda, è meglio dipingere tutto come idilliaco, affinché “i commercianti non ne escano danneggiati”. Ecco che, insieme ad una pioggia di soldi e ad una educazione annoiata, un’informazione univoca, indiscutibile e impareggiabile nella propria parzialità, platealmente gestita dagli appartenenti all’una o all’altra categoria, contribuisce a proiettare i veronesi in un universo illusorio e parallelo, dove i compleanni delle nonne di provincia hanno più importanza dei fatti di cronaca scellerata. I veronesi non riescono più a diventare amici della verità, o di qualcosa che ad essa si avvicini, perché ne hanno perso la confidenza. 8 Il sottobosco di questo proliferare fungino, che non si può tacere e che qualcuno ha invano cercato di smascherare, è la maglia di una Chiesa – in gran parte specchio della città e perciò afflitta dalla stessa malattia venale dei concittadini – che recluta (principalmente tramite “sette” autoctone i cui nomi sono noti a tutti) squadre di giovani garanti di questo utopico ordine, di questa purezza che si traduce in integralismo. Laddove la cultura è vista come intralcio, la risposta non può che essere alternativa: ecco allora – fenomeno vivacissimo e recente – la moda neocatecumenale, la moda Opus Dei o la moda dei movimenti legittimisti come il Sacrum Imperium. Senza questionare i contenuti, il problema è che si tratta di un fenomeno di moda, e di un fenomeno politico: un vero e proprio bacino di utenza elettorale, in cui viene insegnata (quindi questa volta dall’alto) la catalogazione, la separazione, la distinzione tra l’autentico/puro e il diverso/impuro. La paura di tutto ciò che è altro Questo inquadramento, a Verona, si trasforma subito in una facile (perché di facilità, di immediatezza si ha sempre bisogno) dicotomia: quelli che stanno dalla parte del sindaco, della vita felice, della Verona che funziona, della Verona delle radici catto-padane che chiedono la messa in latino e la messa al bando – con articoli che recitano letteralmente, contro la concessione di spazi ai luterani o protestanti: “Chiese di Verona ad eretici e scismatici: una solenne porcheria!” – di tutto ciò che è Altro. E quelli che, appartenenti a questa alterità e impersonati – nei sogni dei catto-padani d.o.c. – dai rom, dagli immigrati, dai sinistroidi e da tutti gli altri cristiani, rappresentano l’impura e deleteria diversità. Vi sono state, addirittura, contestazioni e risse fomentate degli integralisti cattolici nel tentativo di espellere, in accordo col sindaco, dalla città protestanti, valdesi e luterani. Il vescovo, dal canto suo, tace: e, così, acconsente. I Veronesi, contenti della loro identità integrale, votano ancora “la sicurezza e la disciplina”, per tutelare i loro diritti di “cristiani”. E lo fanno eleggendo un sindaco che l’11 settembre 2005 va in carcere a salutare e consolare cinque ragazzi fascisti rei di aver accoltellato due coetanei “di sinistra”. I conti tornano: essere di sinistra, qui, significa non essere di destra; essere, cioè, “tutto il resto” che non è appartenenza all’ideologia razzista, fascista o catto-leghista. Di qui è facile arrivare alla mania della legalità e sicurezza, agli “sgomberi notturni”, alle ordinanze per “il buon costume”, ai comizi 9 pubblici in cui si valorizzano “i metodi nazisti”, all’idea di una Verona che deve essere “una bomboniera, come Treviso”, con le “panchine antiimmigrato” e gli interessi della Curva Sud all’ordine del giorno in Consiglio Comunale. Non sono forse, questi fenomeni, l’occasione di fondo, la possibilità latente, il casus belli che persuade Raffaele e gli altri quattro assassini di Nicola ad aver ragione nel massacrare chi non rientra in questi ordini legali? Non è paradossale che esistano locali come l’«Osteria Verona», il «Cortez» o l’«M27» in cui è vietato l’ingresso ai ragazzi che non portano la “divisa” di moda o che hanno i capelli più lunghi di qualche centimetro? Questo, per i Veronesi, è “normalità”. Eppure in quei luoghi si organizzano le “spedizioni punitive” della borghesia stressata; davanti allo spritz cresce il desiderio di “ripulire Verona” dai “terroni”, dai “rossi”, dai “negri”. Magari con pestaggi sistematici. Proprio quella sistematicità che agli ottusi e disonesti difensori della Città-idolo sfugge ostinatamente nel momento in cui catalogano dei fascisti pestatori e assassini come semplici “balordi”. L’ipocrita stupore Non c’è da stupirsi, quindi, se Nicola ha trovato la morte in questo modo, in questa città. Perché l’opinione pubblica è rimasta indifferente di fronte ai numerosi fatti di cronaca che hanno visto spedizioni punitive contro “i negri” e i capelloni “comunisti” dei centri sociali? Contro tre paracadutisti delle Folgore nati al Sud? Contro un povero cristo con la maglia del Lecce? Contro un tipo che, mangiando un kebab, andava contro le “ordinanze” del Sindaco? Come si è potuti rimanere indifferenti, senza sollevare nemmeno una quaestio, di fronte al pestaggio di un ragazzino non abbastanza abile nell’usare lo skateboard, o all’aggressione di un signore intervenuto per difendere un ragazzo inseguito da dieci coetanei? O ancora, di fronte alle spedizioni ferroviarie organizzate dai neonazisti (che a Verona sono a migliaia) a Dachau per imbrattare lapidi e memoria? Perché nessuno si è indignato quando i poliziotti hanno perquisito la casa “per bene” di uno degli assassini di Nicola, e hanno trovato manganelli, pugnali, coltelli, un’accetta, libri che negavano l’Olocausto, bandiere con la croce uncinata, foto di Hitler e Mussolini? 10 Solitudine di fronte ad una verità Sminuire, ridimensionare... Perché, quando raccontavo di aver visto, a casa di amici e amiche normali, ritagli di giornali del 1933 inneggianti all’ascesa di Hitler appesi alle pareti, invece di essere turbati da questo fenomeno mi si rispondeva con un laconico “sono degli stupidi”? Conosco gruppi, come gli Hic sunt leones, che vagano indisturbati per gli atenei e – cosa agghiacciante – non destano la minima preoccupazione. Mi sono trovato più volte a dover affermare la verità dell’olocausto contro negazionisti iscritti ai corsi di filosofia. Ma il mio disagio, evidentemente, non era diffuso né condiviso. Al contrario: liquidandolo come fenomeno marginale, sempre si è colta l’occasione per cambiare discorso, proprio laddove il discorso doveva andare fino in fondo. Molti amici trentini hanno reputato, in diverse occasioni, le mie testimonianze come esagerazioni, come generalizzazioni. La mia esperienza, tendenzialmente e per lo più, mi portava invece a queste conclusioni. E ora che un caro amico mi è stato tolto, oltre al dolore, provo non rabbia, ma solitudine. Solitudine di fronte ad una verità. Impegnato da qualche anno sul fronte ambientale, noto un’inquietante analogia nel modo procrastinante e negazionista di affrontare il problema: si sminuisce, si evita, si ridimensiona. Ci si mette al riparo, quindi, da ogni pensiero, da ogni turbamento, da ogni azione. Si parla molto ma non si dice nulla, tutto sfuma, comodamente, nell’ottimismo. Esattamente questo è stato l’atteggiamento – nella mia città – relativo ai palesi rigurgiti da “quarto Reich”, sfociati poi in veri e propri pogrom. La stanchezza, l’insensatezza, la paura di dover fare, rispondere, cambiare, capire e agire; l’opportunità di non comparire, di non partecipare pur contando, consentita da questa democrazia-nascodiglio, hanno lasciato che si commettesse un assassinio. A commetterlo, non cinque balordi, come si vorrebbe, ma cinque ragazzi colpevoli di aver scelto l’odio e la violenza come propria religione. Senza dare scandalo nemmeno negli ambienti religiosi istituzionali. Si saprà poi, nei giorni seguenti, che uno degli assassini è vicino all’ambiente dell’Opus Dei. Si arriverà poi a quella che, se non fosse dolorosa, si potrebbe definire una farsa: le suore dell’Istituto Seghetti, dove studiava uno dei cinque accusati, lo vanno a visitare in carcere. Lo trovano “molto provato” – reggerà? – quasi fosse lui la vittima dell’aggressione. Non si sono domandate se e come hanno retto i genitori e il fratello di Nicola. Nicola, nel frattempo, è morto perché “ha risposto male” o perché – stando a quanto si dice nei bar e quindi sul quotidiano veronese – aveva un aneurisma o era malato di cuore! Tutto, nella città della felicità forzata, del denaro e della moda, deve nascondere la vera tragicità dei fatti. Emblematica della volontà di rimuovere in fretta, per tornare alla “pace terrificante” di sempre, è – infine – la zelante rimozione a Porta Leoni da parte dell’AMIA di tutti i fiori, scritte, fogli e biglietti in omaggio a Nicola; del resto, si sa: la città pulita è più bella… C’è chi – ciascuno con i propri mezzi – ha talora cercato di delineare uno spaccato di Verona, scavando nel male di una città che da troppo tempo lo cova: ma ne è sempre uscito sconfitto. La possibilità che mi è stata data di scrivere queste righe è, nel mio caso, un tentativo personale di dare un senso, anche se solo a posteriori, alla vita del mio caro amico Nicola: che di questi problemi, nel bene e nel male – lo dico con certezza – non si occupava. Vi credete (illusoriamente) assolti... In una città che vuole cancellare la storia, vivere un istante di ebbrezza isolata, dove la cultura non ha spazio, è ridicolo ed ipocrita chiedersi “come è potuto accadere”. Tutti sapevano, sentivano, seguivano; ma tutti hanno deciso di non dare peso, di assecondare, di sminuire. “Tanto – si pensa sempre – sono fenomeni marginali”. Ma questo significa non saper leggere la realtà. Questo significa ignorare le priorità, i meccanismi, le strutture del reale. Questo significa che tutti hanno contribuito a legittimare l’assassinio di Nicola. Non a caso, a Porta Leoni, è stata scritta la celebre frase della Canzone del Maggio di De Andrè: «anche se voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti». Come diceva Tucidide, infatti, «il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi potendo impedire che lo si faccia non lo impedisce». Ma è possibile «impedire» qualcosa al popolo che vuole solo la libertà di fare tutto? Di pensare e dire tutto? È possibile impedire un crimine in una città dove i giornali non fanno i nomi degli indagati, degli spacciatori, dei corrotti solo per non danneggiarne l’immagine? Perché si accetta, nel silenzio e nel disinteresse, che in questa città vi siano “ore e luoghi riconosciuti proibiti” dal Comune stesso? Proibiti per chi e da chi? 11 12 Libri Il caso zingari zingari SILVIO MENGOTTO N ella presentazione al volume Il caso zingari (a cura di Marco Impagliazzo, Leonardo International, Milano, 2008, pp. 128, euro 12) Livia Pomodoro, Presidente del Tribunale di Milano, con lucidità dice che nei confronti dei rom «non bisogna vergognarsi di avere paura, ma bisogna chiedersi da dove nasce la paura»: così ci si attrezza per affrontarla cercando soluzioni e proposte positive perché l’identità si costruisce anche nel comprendere la diversità. Questo libro è un contributo in questa direzione. Contiene testi di vari e qualificati autori. Marco Impagliazzo si sofferma sull’antigitanismo; Amos Luzzato riflette su ebrei e zingari nella persecuzione nazista; Giovanni Maria Flick sugli zingari quali cittadini europei; sulla condizione giuridica degli zingari c’è un prezioso contributo di Paolo Morozzo della Rocca. Il libro porta la pungente introduzione di Andrea Riccardi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma. Il libro vuole contribuire a sviluppare una riflessione pacata sui rom e sinti e sul perché non sono all’origine del disagio e dell’insicurezza odierna. La politica degli sgomberi ha una strategia di immagine vincente, ma sposta continuamente il problema senza risolverlo. Eppure in Europa sono molti gli esempi positivi ai quali guardare come la Francia, dove i campi sono solo un passaggio all’integrazione, oppure la Germania, dove non esistono campi perché i rom vivono nelle case. Su rom e sinti, dice Andrea Riccardi, e non solo: «loro sono un problema, ma su di essi si scaricano (e si rivelano) quelli che sono i nostri problemi». Ma questa insicurezza tra la gente ha ben altre radici e viene da lontano. È «l’espressione della vertigine della globalizzazione che ha preso le nostre società». La globalizzazione, insieme al consumismo e alla secolarizzazione, ha eroso i tradizionali punti di riferimento. Come esempio basti pensare alla crisi della famiglia. La stessa secolarizzazione ha reso incerto e remoto il riferimento alla tradizione. «In fondo lo zingaro, con la sua diversità, si presta bene ad essere uno degli elementi che ci insicurezza. Asociale, 13 mendicante, con comportamenti criminali, con i furti, presenza invasiva per strada o nei suoi campi, il gitano è il diverso per eccellenza, talvolta fastidiosamente diverso». Lo stesso Marco Revelli ha definito i rom come «l’altro radicale». Nella nostra società del diritto il crimine va punito, ma «la punizione del criminale non ci toglierà di dosso l’ombra dell’insicurezza che ci inquieta … il crimine va colpito. Ma la criminalizzazione di un gruppo, come i rom, è antigitanismo». In fondo l’avere un «nemico della nostra sicurezza, come gli zingari (tanto deboli), è rassicurante e, alla fine, poco minaccioso. Combattere qualcuno dà la sensazione di presidiare attentamente le nostre frontiere sociali o quelle del futuro». La nostra “pace” non è solo turbata dal terrorismo islamico, ma anche dal confronto economico e politico con l’Asia. C’è bisogno di pacate riflessioni sull’argomento. Questo libro «sul caso zingari vuole essere un contributo a una cultura politica di ampio respiro, non appiattita sull’emozione del momento o sugli archetipi del nemico, nomade e straniero» (e i rom in Italia non sono tutti immigrati, circa 70.000 su 150.000 sono cittadini italiani). Per Moni Ovadia «l’Occidente ha un enorme debito in sospeso nei confronti del popolo rom. Ancora pesa la tragedia dei campi nazisti dove sono stati uccisi anche gli zingari. La Shoah non va allargata agli zingari perché il loro sterminio è un altro volto repellente del nazismo. Il genocidio zingaro non è frutto della follia nazista. I nazisti misero in pratica qualcosa che era stato elaborato nella cultura razziale del proprio tempo e dei decenni precedenti». Marco Impagliazzo lucidamente afferma che «dopo la fine della guerra, sullo sterminio degli zingari calò il silenzio». Se a Norimberga la giustizia si è fatta strada per i sei milioni di ebrei sterminati, non così per gli zingari i quali non furono chiamati al banco dei testimoni, mentre le loro richieste di risarcimento vennero respinte. Sull’argomento della persecuzione degli zingari da parte del nazismo credo sia utile la lettura del libro La persecuzione nazista degli zingari di Guenter Lewy. Nella presentazione del libro, Sergio Luzzato dice: «Come gli armeni sterminati dai turchi all’inizio del Novecento, come i tutsi sterminati dagli hutu nel Rwanda di fine secolo, gli zingari sterminati dai nazisti meriterebbero di condividere, nella memoria, un posto accanto agli ebrei». Il libro di Lewy ha il pregio di ricostruire, e documentare con rigore storico, le vicende e il trattamento che la dittatura nazista riservò a migliaia di rom e sinti sino a chiedere apertamente una “soluzione finale” anche per affrontare alla radice l’intera questione tsigana. 14 Storia Le persecuzioni naziste contro gli zingari risalgono al 1933. Nella Germania nazista vivevano circa 26.000 rom e sinti. Una esigua minoranza che, inizialmente, non destava preoccupazioni ai vertici del nazismo. L’ostilità nasce invece tra la popolazione che, da secoli, viveva un clima di profonda diffidenza e paura verso la popolazione zingara nelle periferie delle città. Un’ostilità che si tramuta in una progressiva legislazione repressiva. Nel breve arco di pochi anni si passò da norme di severi controlli (impronte digitali, carte d’identità di diverso colore, obbligo di segnalare alle autorità di polizia tutti gli spostamenti, sino all’espulsione dei bambini dalle scuole) a norme sempre più repressive. L’8 dicembre del 1938 Himmler emana un decreto che porta la dizione di «Lotta contro la piaga degli zingari» nella quale si afferma la necessità di affrontare il problema degli zingari in termini di «caratteristiche insite in questa razza». Nel corso della seconda guerra mondiale iniziarono le deportazioni di zingari in Polonia nei lager nazisti, in particolare ad Auschwitz. Con l’apertura del fronte bellico verso la Russia la persecuzione degli zingari si estese in tutta l’Europa orientale; furono trattati come spie e, per questa falsa accusa, vennero eliminati anche con fucilazioni sommarie. Per concludere, Il caso zingari è «una rimeditazione di un dramma, la discussione di un caso, ma anche la proposta di un ripensamento delle politiche per gli zingari a partire dalla scuola, cioè dall’investimento sui più giovani». Il testo, a più voci, presenta «un contributo intorno alla questione dei rom e sinti, non appiattita sull’emozione del momento o sugli archetipi del nemico». Anzi è un esplicito invito alla rivisitazione, al ripensamento della categoria del nemico. Sir Francis Galton e la nascita dell’eugenetica FABRIZIO MICHELETTI «Il miglioramento delle attitudini naturali delle future generazioni della razza umana è largamente, benché indirettamente, sotto il nostro controllo. Noi non siamo in grado di originarlo, ma lo possiamo guidare» (GALTON, 1892, pp. XXVI-XXVII). S empre più spesso siamo raggiunti da messaggi che si richiamano a problematiche riguardanti la procreazione assistita, l’aborto, la genetica. Ultimamente ritorna nei dibattiti, con rinnovata insistenza, il termine eugenetica ad indicare non troppo remote idee di mostruose manipolazioni. Non sono molti a conoscere l’origine di questa parola, la sua storia, le implicazioni da cui trasse origine; quasi ignoto ai più è anche il nome del suo fondatore: sir Francis Galton. Il motivo è facilmente spiegabile: l’aberrazione nazista di creare una razza superiore – ed i disastri che essa innescò – ha quasi sempre calamitato l’attenzione riguardante l’eugenetica, screditandola nel profondo. Quell’idea tuttavia non nacque negli anni trenta del Novecento, ma aveva alle spalle una lunga storia che trovò sistemazione “scientifica” nella seconda metà dell’Ottocento, proprio per mano di Galton. Nasce l’eugenetica Il termine apparve per la prima volta nel 1883: venne coniato da Galton che vide nell’eugenetica (eugenics) la scienza (science) che avrebbe dato «alle razze più adatte … una maggiore possibilità di prevalere velocemente sulle meno adeguate» (GALTON, 1883, p. 17, nota 1). Al di là della definizione espressa in questi termini da Galton, quello che più colpisce è l’ambivalenza insita nell’etimologia stessa della parola che può sì, essere resa con buona nascita, ma anche con buona razza: difatti «nascere in buona salute esprime la preoccupazione che ogni genitore responsabile dovreb- 15 16 be nutrire verso la progenie, … appartenere ad una buona stirpe esprime un’idea di purezza del sangue che può degenerare in elitismo e razzismo» (WIDMANN, p. 655). Se tale distinzione è indubbiamente valida per la nostra sensibilità, all’epoca la differenziazione e la gerarchizzazione delle razze era cosa acquisita e condivisa – da almeno un secolo – non soltanto in ambito popolare, ma anche accademico. Quella che ai nostri occhi appare come una pericolosa ambiguità si riduceva allora ad una semplice sinonimia che, come tale, non creava problematiche particolarmente significative. L’idea di eugenetica era però tutt’altro che nuova: a Sparta si praticava l’eliminazione dei bambini di cattiva costituzione in modo che solo individui forti e sani fossero avviati al combattimento; molti pensatori (Platone, Campanella, More, Bacon) avevano, a loro volta, avanzato la possibilità di creare un tipo umano «migliore». Galton non si discostava granché da quelle credenze, ma sembrava che qualcosa fosse decisamente cambiato rispetto alle antiche velleità dei filosofi. Nella seconda metà dell’Ottocento, il clima culturale dell’epoca – che si rifaceva al positivismo – aveva influito in maniera decisiva nel creare l’illusione sulle capacità pressoché illimitate della scienza e della tecnica: nulla sembrava impossibile, nemmeno la manipolazione dell’uomo. La vorticosa industrializzazione – che aveva scatenato tensioni e nuovi fermenti sociali – dava però origine anche a diffuse paure riguardanti la possibile corruzione fisica e morale a cui la società europea sarebbe andata incontro: la città moderna si trasformava, agli occhi di molti, in un pericoloso calderone di decadenza e di devianza sociale. Appariva reale il pericolo che gli esemplari «peggiori» della popolazione avrebbero finito per prendere il sopravvento: «i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno … dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana» (DARWIN, 1994, p. 628). Sempre Darwin – di cui Galton era cugino – aveva spiegato che le specie che meglio si adattavano non erano necessariamente le migliori, in questo – per Galton – l’evoluzione andava corretta. Se infatti, nominalmente, «il credo dell’eugenetica si fonda sull’idea di evoluzione», non si trattava tuttavia di una sua accettazione passiva, quanto piuttosto di un’azione «che può essere diretta nel suo corso» (GALTON, 1909, p. 68), tesa ad influenzare ed indirizzare il cammino evolutivo tramite l’applicazione di principi biologici che potessero essere benefici per il miglioramento dell’umanità. 17 Il problema dell’ereditarietà Dell’indispensabilità di una selezione ragionata Galton si era ancor più convinto in base alle leggi dell’ereditarietà che andava formulando. La sua teoria era alquanto avanzata; essa si basava sulla stabilità del tipo, secondo cui per diversi caratteri – come ad esempio l’intelligenza – «la media di una popolazione rimane la stessa nelle successive generazioni, mentre le deviazioni dalla media seguono una precisa legge statistica» (FANTINI, p. 916). Un suo studio sulla grandezza dei piselli – ed in seguito sull’altezza delle popolazioni umane – mostrava come in ogni campione si manifestasse una regressione verso la media della specie. Questa pericolosa tendenza rendeva urgenti dei provvedimenti indirizzati ad una procreazione selettiva, che stabilizzasse nella popolazione determinati caratteri positivi che altrimenti, a lungo andare, si sarebbero persi. Il modo sembrava relativamente semplice: posto l’uomo come prodotto di un’evoluzione biologica attuatasi – aveva insegnato Darwin – tramite la selezione naturale, era evidente come l’aspirazione alla perfettibilità del genere avrebbe dovuto passare attraverso un suo rigido controllo, tramite una sua versione artificiale, che si sarebbe dovuta fare carico di ciò che la natura, per colpa della società moderna, non riusciva più a fare. Galton azzardava quindi il passo che il suo illustre cugino non aveva ritenuto di dover fare e cioè utilizzare, anche per l’uomo, quei metodi che gli allevatori usavano ormai da tempo per ottenere esemplari migliori delle diverse specie. Lo scopo che si prefiggeva era quello di «classificare e incoraggiare la procreazione degli individui di talento e di scoraggiare la riproduzione della massa di gente di qualità inferiore» (GILLHAM, p. 197). Se l’idea di prendere per mano l’evoluzione poteva sembrare scientificamente attuabile, era tuttavia necessario risolvere alcune problematiche preventive non certo marginali: verso quali scopi si sarebbe dovuta indirizzare l’evoluzione? Quali le discriminanti per ottenere individui geneticamente migliori? Galton aveva pronta la risposta: bisognava puntare all’eccellenza, sia intellettuale che sociale. Egli finì con lo stabilire a priori dei giudizi di valore intorno ai caratteri ereditari individuando quelli, a suo avviso, positivi. Preceduta da una serie di scritti in proposito, nel 1869, dava alle stampe l’opera che avrebbe segnato il fondamento del suo credo eugenetico: Hereditary Genius. Al suo interno vi sviluppava una gerarchia tra capacità intellettive e morali in base alla loro efficacia nel garantire un proficuo adattamento sociale; quest’ultimo avrebbe determinato, a sua volta, 18 successo nel lavoro e posizioni significative in posti di comando. Appariva quindi sempre più necessario isolare e proteggere i caratteri ereditari eccellenti visto che «per merito delle pregevoli opere di Galton, sappiamo che il genio … tende a essere ereditario» (DARWIN, 1994, p. 554). Certo stupisce la sicurezza con cui Galton ed i suoi seguaci erano convinti della possibilità di favorire la trasmissione ereditaria di caratteri ritenuti «positivi» o «eugenici». Il punto era che essi ritenevano che praticamente tutte le capacità umane fossero innate e quindi ereditarie: non soltanto le caratteristiche fisiche ma anche il successo, l’intelligenza, la moralità e non ultimi anche comportamenti sociali strutturati. L’ignoranza pressoché totale delle leggi dell’ereditarietà all’epoca rendeva tutto sommato plausibile questo punto di vista: si riteneva che ogni generazione avesse un potere enorme sulle abilità naturali di quelle successive. Questa convinzione si rafforzò con la riscoperta delle leggi di Mendel: molti scienziati si convinsero, erroneamente, che la componente che essi credevano ereditaria – e che investiva praticamente ogni carattere dell’individuo – fosse determinata da un solo gene mendeliano. Questo sembrò rendere possibile la valorizzazione dei caratteri eugenici, ma soprattutto l’eliminazione – con un’appropriata limitazione della procreazione – di quelli disgenici. Emergeva da questo impianto un fatto assai significativo: ogni cosa risultava determinata da una stretta predisposizione biologica, senza possibilità di variazioni dovute a pressioni esterne, sociali o ambientali. Lo stesso Darwin, a cui molti guardavano come ad un oracolo, era pronto a sostenere «con Francis Galton, che l’educazione e l’ambiente abbiano scarso effetto sulla formazione mentale degli individui, e che la maggior parte delle nostre qualità siano innate» (DARWIN, 1982, p. 24). Per l’eugenetica quello dell’ininfluenza ambientale doveva necessariamente essere un dogma: a cosa sarebbe servito creare individui migliori se poi l’ambiente avesse potuto corromperli con la sua azione? Tutto questo – nonostante l’apparenza contraria che assunse all’epoca – non sarebbe andato al di là di un semplice credo razionalistico, non diverso da quello che, in passato, aveva caratterizzato altri pensatori. Anche per questo «gli elementi principali della dottrina proposta da Galton non vennero seguiti dagli eugenisti, né al suo tempo né in seguito» (BARRAI, p. 849). Parecchi preferiranno archiviare l’ipotesi di matrimoni selettivi – che rimanevano invece per Galton un punto fondamentale – percorrendo invece la strada, sicuramente più risolutiva, della sterilizzazione degli individui ritenuti disgenici. 19 Accadeva parallelamente un fatto inquietante che non avrebbe mancato, in futuro, di far sentire il suo sinistro peso: lentamente l’eredità veniva «interpretata all’interno di un nuovo linguaggio di economia politica che rifiutava la nozione di persona astratta e autonoma ed era invece incentrato sul capitale fisiologico» (PICK, p. 270). Un capitale che solo lo stato con la sua autorità avrebbe potuto amministrare con efficacia, essendo troppo pericoloso – per il futuro della nazione – lasciare agli individui le scelte in proposito. L’eugenetica, nel suo rigido determinismo, finì per trasformare la società in un riflesso del campo biologico, creando pericolose commistioni tra scienza e politica che spesso determinarono un circolo vizioso in cui l’una si mise al servizio dell’altra e viceversa. Galton si rese chiaramente conto delle difficoltà che comportava un progetto esteso di regolamentazione della riproduzione, soprattutto in un paese liberale come l’Inghilterra, e proprio a questo scopo riteneva proficuo che gli scienziati diffondessero i principi della dottrina eugenetica tra i cittadini. Egli immaginava un futuro in cui si sarebbero svolti matrimoni eugenetici dove i contraenti sarebbero stati forniti di certificati attestanti la loro attitudine o meno al matrimonio – valutata tramite una serie di test, di misurazioni e di dati relativi al proprio albero genealogico. Tra scienza e pseudo-scienza Emerge, leggendo le opere di Galton, un dualismo piuttosto significativo tra ciò che in esse risulta scientifico e ciò che invece non lo è minimamente. L’eugenetica veniva presenta come una scienza e, per i canoni dell’epoca, sicuramente lo era. A testimonianza di questo vi erano diverse circostanze: ad esempio Galton applicherà, per primo, in maniera innovativa la statistica agli studi psicologici e popolazionistici. Non dobbiamo dimenticare che questa fu l’epoca in cui si ritenne «che misurazioni rigorose potessero garantire una precisione irrefutabile e potessero marcare la transazione tra speculazione soggettiva e una scienza vera» (GOULD, p. 87); in questo Galton fu sicuramente maestro, alle volte, al limite del ridicolo. Oltre a ciò egli ricavò le informazioni che lo interessavano analizzando gli alberi genealogici di diverse famiglie onde scorgervi dati che avallassero le sue concezioni – ancor oggi la genetica, non potendo svolgere studi diretti su diverse generazioni, ne studia gli alberi genealogici alla ricerca, ad esempio, di possibili malattie ereditarie. 20 Altre caratteristiche non avevano nemmeno la parvenza della scientificità. I suoi studi partivano dal concetto fondamentale che ciò che era desiderabile in un individuo era rappresentato essenzialmente dal suo successo sociale. Risulta evidente l’arbitrarietà di tale affermazione, in quanto la sua applicazione era decisamente fluida e lasciava una possibilità piuttosto ampia di modificare il proprio valore adattandolo ai diversi contesti. Proprio questa problematica sarà foriera di immani disastri: quando, anni dopo, all’integrazione sociale si sostituirà la razza, si forniranno – già elaborati ed acquisiti – argomenti «scientifici» a folli progetti di selezione ed eliminazione razziale. Definendo oggi giustamente l’eugenetica una pseudo-scienza, non dobbiamo tuttavia scordare che Galton non fu uno sprovveduto ciarlatano, e che i seguaci dell’eugenetica furono «rispettati studiosi provenienti da varie discipline scientifiche, che avevano incarichi importanti in università prestigiose e pubblicavano i loro risultati sulle più importanti riviste accademiche» (FRIEDLANDER, p. 12). Significativo fu l’allinearsi dietro la «nuova» idea di Galton – in maniera massiccia nell’ultimo decennio dell’Ottocento e fino alla sua morte nel 1911 – di molta parte del mondo scientifico che ritenne, con lui, che il miglioramento dell’umanità fosse «uno dei più alti obiettivi che possiamo ragionevolmente tentare di raggiungere» (GALTON, 1909, p. 42). Galton fu studioso di grande spessore, «genio dell’età vittoriana» (CAROTENUTO, p. 328). I suoi interessi investirono campi tra i più disparati della scienza e notevole fu il livello dei suoi contributi in ognuno di essi. In un primo tempo si dedicò alle esplorazioni – soprattutto in Africa meridionale – di cui è testimonianza il libro The Art of Travel (1852), che gli diede una discreta fama. La gran mole di dati scientifici che raccolse in queste esplorazioni gli valse la medaglia d’oro della Royal Geographical Society. In parte riferibili ai suoi viaggi furono le sue ricerche in campo meteorologico: gli studi sui sistemi climatici lo portarono alla scoperta dell’anticiclone, che a lui deve il nome; mise poi appunto quelle che sono considerate le prime mappe meteorologiche dell’Inghilterra. Questi significativi e lusinghieri risultati furono resi possibili principalmente dal suo interesse per la statistica – in cui è celebrato per il coefficiente di correlazione, o funzione di Galton, e per la teoria della regressione. Le sue ricerche furono infatti tutte accomunate dall’insistenza sull’aspetto quantitativo. Importante anche la sua attività di criminologo; mise infatti a punto un nuovo metodo di identificazione personale: la registrazione delle 21 impronte digitali. La tecnica venne immediatamente adottata da Scotland Yard ed ancor oggi costituisce un sistema fondamentale di identificazione. Fu poi pioniere nella psicologia sperimentale: «la psicologia nel senso moderno, scientifico, del termine ha inizio con Galton» (MEOTTI, p. 386); le prove da lui ideate «per misurare l’intelligenza possono essere considerate i primi test o “reattivi” mentali» (BERTI-BOMBI, p. 43). Approfondì inoltre i processi che portano all’associazione visiva ed a quella verbale. I suoi notevoli successi contribuirono a rafforzare anche la valenza scientifica dei suoi studi eugenetici. La storia della scienza ha bollato come inconsistenti i principi su cui si fondò l’eugenetica galtoniana: essa si configurò più come un impianto ideologico piuttosto che come un tentativo scientifico – anche se Galton fu convinto del contrario. I suoi asserti di base sono completamente invalidati: oggi conosciamo l’importanza dei fattori ambientali sulla formazione degli individui e la genetica ci ha mostrato come anche caratteri relativamente semplici siano determinati dall’intersezione di un numero molto elevato di geni; inoltre «anche se fossimo capaci di dirigere la selezione, non avremmo alcuna idea di quale particolare miscela di talento dovremmo cercare di raggiungere» (MAYR, p. 571). Sappiamo poi che l’eliminazione di un carattere recessivo da una popolazione si è dimostrato molto lento, tale da richiedere – anche in presenza di forti pressioni selettive – migliaia di anni. Precursore dello sterminio? Diventa doveroso fare un bilancio delle responsabilità, vere o presunte, di Galton in merito a quello che poi sarebbe accaduto in Germania trent’anni dopo la sua morte. Possiamo anche condividere l’opinione che il suo anelito di migliorare nelle generazioni future le qualità ereditarie non fosse un semplice scrupolo umanitario quanto piuttosto il desiderio – come sostengono molti – di rinvigorire i fasti di un’Inghilterra coloniale ormai in decadenza. La cosa non deve certo stupire quando il massimo teorico della società libera – John Stuart Mill – più o meno nello stesso periodo, nel suo saggio Sulla libertà, scriveva che «il dispotismo è una forma legittima di governo quando si deve trattare con barbari, a patto che il fine sia il loro progresso». Indubbiamente la scienza e il pensiero dell’Ottocento posero delle basi pericolose a cui anche Galton contribuì non certo marginalmente. 22 Se infatti è vero che egli dedicò la sua attenzione soprattutto sulla preservazione – tramite matrimoni selettivi – dei caratteri ritenuti eugenici, non si può scordare come a suo avviso il primo obiettivo dell’eugenetica rimase sempre «il controllo del tasso di natalità degli inadatti» (GALTON, 1908, p. 323); egli non giunse ad ipotizzare mezzi estremi, come l’eliminazione fisica – che da alcuni in quegli anni era proposta – pur parlando di segregazione. Comunque sia, piuttosto pesanti – forse eccessive – dovettero apparire le sue responsabilità se Karl Pearson – discepolo e primo biografo di Galton – nel 1924 scriveva: «non posso che credere che Nietzsche abbia preso la sua dottrina del disprezzo e disdegno per il debole … da Galton» (PEARSON, p. 119, nota 1). Tutto questo ci porta sicuramente a condividere la considerazione secondo cui tutto sommato negli anni successivi «non vi fu alcuna indebita strumentalizzazione totalitaria dell’eugenetica … [ma], solo una radicalizzazione del suo intrinseco potenziale discriminatorio» (FUSCHETTO, p. 22), che già in Galton è presente. Se infatti è vero che egli «usò la parola “razza” in modo vago, per indicare un gruppo legato da una qualche sorta di affinità ed ereditarietà», è altrettanto vero che anche lui – come tanta parte del mondo scientifico dell’epoca – finì per dividere «l’umanità in razze ricolme delle solite virtù e stereotipi» (MOSSE, 1977, p. 83). Tuttavia il suo non fu un punto di vista esclusivista: «coloro che presentavano qualità desiderabili erano ben accetti, qualunque fosse la loro origine» (MOSSE, 1980, p. 1056). Il carattere messianico che, ai suoi occhi, finì per assumere l’eugenetica, rendeva concreta la possibilità di una significativa spinta estremistica. L’eugenetica sarebbe dovuta diventare la nuova religione positiva: l’unica che avrebbe finalmente consentito di tradurre in realtà le vane promesse di miglioramento del genere umano che da secoli tutti inseguivano. La straordinaria fortuna della nuova «scienza» galtoniana fu in gran parte determinata dall’intersezione tra ottimismo positivista, evoluzionismo e pessimismo degenerazionista: essa, facendosi portavoce del pericolo di un pervertimento sociale – avvertito come già operante nella società – ne offriva al tempo stesso una soluzione che pareva non solo percorribile ma, soprattutto, efficace e risolutiva. Solo la fine della seconda guerra mondiale avrebbe svelato al mondo tutte le potenzialità del programma eugenetico portato alle sue estreme conseguenze. Certo è che se Galton avviò il discorso sull’eugenetica furono tuttavia altri a portarlo a conclusione ben oltre le sue intenzioni, con altri argomenti, altre idee, altri fini. 23 Bibliografia I. BARRAI, Eugenica, in Enciclopedia del Novecento, vol. II, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1977, pp. 848-854. A.E. BERTI – A. S. BOMBI, Introduzione alla psicologia dello sviluppo, Il Mulino, Bologna 2001. A. CAROTENUTO, Filosofia e psicologia, in La filosofia, vol. II, La filosofia e le scienze, Garzanti, Milano 1996, pp. 319-363. C.R. DARWIN, Autobiografia 1809-1882, Einaudi, Torino 1982. C.R. DARWIN, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, in C. R. DARWIN, L’evoluzione, Newton & Compton, Roma 1994. B. FANTINI, L’eredità, in Storia della scienza moderna e contemporanea, vol. II, Dall’età romantica alla società industriale, t. II, UTET, Torino, 1988, pp. 903-929. H. FRIEDLANDER, Le origini del genocidio nazista, Editori Riuniti, Roma 1997. C. FUSCHETTO, Fabbricare l’uomo. L’eugenetica tra biologia e ideologia, Armando, Roma 2003. F. GALTON, Hereditary Genius: An inquiry into Its Laws and Consequences (1869), Macmillan, London 1892. F. GALTON, Inquiries into Human Faculty and Its Development, Macmillan, London 1883. F. GALTON, Memory of my life, Methuen, London 1908. F. GALTON, Essays in eugenics, The Eugenics Education Society, London 1909. N.W. GILLHAM, A life of Sir Francis Galton. From African Exploration to the Birth of Eugenics, Oxford University Press, New York – Oxford 2001. S.J. GOULD, Intelligenza e pregiudizio, Il Saggiatore, Milano 1998. E. MAYR, Storia del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino 1990. F. MEOTTI, La nascita della psicologia scientifica, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. V, Dall’Ottocento al Novecento, Garzanti, Milano 1971, pp. 372410. G.L. MOSSE, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto, Laterza, Roma-Bari, 1980. G.L. MOSSE, Razzismo, in Enciclopedia del Novecento, vol. V, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1980, pp. 1052-1063. K. PEARSON, The life, letters and labours of Francis Galton, vol. II, University Press, Cambridge 1924. D. PICK, Volti della degenerazione, La Nuova Italia, Firenze 1999. G. WIDMANN, Origini e breve storia dell’eugenetica, in Humanitas, La sfida dell’eugenetica, anno LIX (2004), n. 4, pp. 651-677. 24 Bibbia Di generazione in generazio generazione MILENA MARIANI D a tempo non abbiamo più alberi. Non alludo al verde urbano o al più generale problema ecologico, che pure costituisce uno dei capitoli di quel trattato d’alleanza tra le generazioni che andrebbe riscritto, per evitare di strappare a nipoti e pronipoti la gioia di godere della terra. Anche questo sarebbe certo un argomento plausibile. Ma per il momento parliamo di alberi genealogici. Da tempo non li coltiviamo più, comunemente. Sono rimasti un vezzo delle famiglie nobiliari, gelose del proprio passato. A volte corrispondono alla realtà storica, altre volte sono inventati di sana pianta (è il caso di dirlo) per accreditare la presunta nobiltà della famiglia. Pare che la passione stia fiorendo anche presso i giovani americani, impegnati in costose trasferte in Europa alla ricerca delle proprie radici. Le genealogie La memoria degli altri comuni mortali risale generalmente fino ai nonni. La nebbia si addensa già sui nomi dei bisnonni, poi più nulla. Non abbiamo più alberi genealogici che vengano passati di mano, di generazione in generazione, e ci consentano, con un semplice colpo d’occhio, di capire da dove veniamo e quale storia ci precede, di comprendere che non viviamo soltanto di un presente che assomma un’ottantina d’anni o novanta per i più fortunati, ma che la nostra storia personale si innesta in un tronco secolare e si prolunga anche dopo di noi, si protende verso le generazioni che verranno. La nostra coscienza del tempo e della vita rimane in un certo senso mutilata e rischiamo di sentirci isolati, come se fossimo i primi e gli ultimi, incapaci di avvertire e rendere effettivo, in termini di responsabilità storica, il legame con chi ci ha preceduti nella vita e con coloro che ci seguiranno. 25 Forse m’inganno, ma questa restrizione della coscienza o, detto altrimenti, la scomparsa dell’albero genealogico di ognuno e la cancellazione del passato di ciascuna generazione rappresentano un nodo non secondario nella questione del legame sociale. Ed è a questo riguardo, in primo luogo, che mi permetto di trarre qualcosa dalla sapienza biblica, apparentemente molto lontana da noi, nata in culture profondamente distanti dalla nostra e tuttavia, mi pare, preziosissima per comprendere anche la nostra condizione odierna. Certo, il primo dato che colpisce è la differenza. Nella Bibbia le genealogie abbondano. Si cerca di ricostruirle per ogni cosa. Persino per il cielo e per la terra, tant’è vero che il racconto della creazione si conclude con le parole: «Queste sono le tôledôt [le origini, la genealogia] del cielo e della terra, quando vennero creati» (Gen 2,4a). E si prosegue poi – procediamo per esempi – con la discendenza di Caino e di Set; c’è addirittura una sorta di tavola dei popoli, che discenderebbero tutti quanti dai tre figli di Noè, chiamati Sem, Cam e Iafet (Gen 10,1-11,26); incontriamo la genealogia e la discendenza di Abramo, quella di Giacobbe e dei suoi figli, quella di Aronne e di Mosè; i primi nove capitoli del primo libro delle Cronache sono occupati da genealogie che partono da Adamo e arrivano al re Saul per preparare la storia del re Davide. Ma forse le genealogie a noi più note sono quelle introdotte nei Vangeli di Matteo e di Luca: il primo parte da Abramo e, passando per Davide e l’esilio a Babilonia, giunge a Giuseppe, sposo di Maria (Mt 1,1-17); Luca invece risale all’indietro da Gesù fino ad Adamo e poi a Dio stesso (Lc 3,23-38). Da moderni rimaniamo stupiti della disinvoltura con cui si cerca di stabilire una continuità tra le generazioni. In alcuni casi, è chiaro che l’intenzione teologica prevale su ogni altra considerazione. In tutti i casi, non importa l’esattezza. Importa stabilire relazioni, suggerire legami, ricondurre entro un quadro coerente quel che le diverse tradizioni riferiscono senza ordine. Domina su tutto la preoccupazione di affermare che la storia presente sgorga dalla passata, che tutto quel che esiste ha una ragion d’essere, che ogni individuo appartiene ad un gruppo, ad un popolo e trova la propria identità solo all’interno di questa rete di legami. Certo, nelle culture antiche e ancor oggi in alcuni ambiti culturali il senso della collettività è tanto prevalente da schiacciare l’individuo. Nondimeno la nostra cultura è generalmente così individualistica da deprimere il senso dell’appartenenza a una collettività e a una storia comune. Se le genealogie antiche volevano sottolineare tutto questo e rendere intelligibile anche la vicenda personale attraverso la riconduzione ad un oriz- 26 zonte più ampio, oggi la consapevolezza del legame tra le generazioni che si susseguono è talmente indebolita che pare soffrirne non soltanto la responsabilità delle une verso le altre, ma anche, inevitabilmente, l’identità personale di ciascuno. In questo senso da tempo non abbiamo più alberi genealogici e la loro scomparsa fa soffrire. Rimane mutilata una dimensione decisiva della nostra storia personale. Si affievolisce la percezione di una storia collettiva nella quale siamo inclusi e nella quale abbiamo responsabilità da esercitare. Ci manca il passato per guardare con saggezza verso il futuro. Anche il passato prossimo. E deve impensierire la scarsa conoscenza della storia, persino della storia più recente, da parte delle giovani generazioni: non per un motivo di erudizione, ma di formazione della coscienza, essenziale se si vuol immaginare la costituzione di nuovi legami tra le generazioni. Terzo e quarto comandamento Affiancherei un’ulteriore suggestione biblica. Si tratta del quarto comandamento a tutti noto: «Onora il padre e la madre». Un’indicazione impegnativa e non assoggettabile al gusto di ciascuno o alla moda del tempo. Un punto qualificante di un ethos ampiamente condivisibile anche in un contesto non ebraico e non cristiano. All’interno del Decalogo un occhio attento riconosce la differenza del terzo e del quarto comandamento rispetto agli altri, come sottolinea efficacemente Paolo De Benedetti: «Due soli comandamenti su dieci – il terzo e il quarto – sono positivi, esprimono cioè un ordine anziché un divieto: santifica il sabato, onora i genitori. Sia l’uno che l’altro comandano un rapporto di santità con chi è prima di noi e ci ha fatti esistere. In un mondo che fosse senza peccato, questi due soli comandamenti rimarrebbero sulle tavole di Mosè, a descrivere la vita dei giusti. Ma anche in un mondo come questo, non buono, dove i comandamenti indicano più le intenzioni divine che le azioni umane, essi sono legati alla santità in maniera unica. Lo si vede nel passo del Levitico (19,1-3) in cui Dio comanda a Mosè: “Parla a tutta la comunità dei figli di Israele e di’ loro: ‘Siate santi come [o: perché] io sono santo, il Signore vostro Dio. Abbiate rispetto ciascuno per sua madre e suo padre, e osservate i miei sabati. Io sono il Signore vostro Dio’” … Ci si potrebbe chiedere perché l’onore ai genitori venga innalzato e associato così intimamente alle “cose di Dio”, alla sua stessa santità e, nel medesimo contesto del Levitico, addirittura anteposto al divieto dell’idolatria. Eppure, questa posizione è essenziale e va riconosciuta se non si vuol fare del quarto comandamento una logora esortazione moraleggiante».1 Può apparire un controsenso parlare di un comandamento antico per incoraggiare la creazione di nuovi legami sociali. Ma c’è da chiedersi se abbiamo capito bene questo comandamento, fondamentale per ristabilire relazioni di verità tra la generazione delle madri e dei padri e quella dei figli. Forse l’abbiamo sempre inteso, appunto, come «logora esortazione moraleggiante», valida nell’ambito di culture patriarcali, nemica della generazione giovane, quella dei figli. Non è così. Ancora una volta è in prima battuta un problema di identità personale: il terzo comandamento, che riguarda il rapporto con Dio, ed il quarto, che gli è tanto prossimo, indicano l’unica relazione plausibile «con chi è prima di noi e ci ha fatti esistere». Per la Scrittura basta questa precedenza, questo “debito della vita” a giustificare l’onore da rendersi sempre ai genitori: «Ascolta tuo padre che ti ha generato, / non disprezzare tua madre quando è vecchia» (Prov 23,22). E ancora: «Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia / e non lo contristare durante la tua vita. / Anche se gli vien meno la mente, / abbine compassione / e non disonorarlo nel giorno del tuo vigore. / L’aiuto dato al padre non sarà dimenticato / e in sconto dei peccati ti sarà computato» (Sir 3,12-14). Per quanto il comandamento di onorare i genitori, privo di deroghe, ci appaia ben più profondamente motivato se, di nuovo, coltiviamo il senso del “prima” e custodiamo la gratitudine per il dono della vita, non possiamo sfuggire all’impressione di uno sbilanciamento persino eccessivo verso la generazione dei padri e delle madri. Si può pensare di ristabilire soltanto così nuovi legami, un nuovo senso di responsabilità dei giovani verso i genitori, più o meno anziani? Certo, oggi il comandamento va riaffermato e riproposto con la profondità che merita: con troppa leggerezza si ironizza sul ruolo e l’autorità dei genitori, a partire dall’adolescenza e poi nel corso della vita adulta; spesso essi vengono realmente abbandonati nella vecchiaia e con loro i tanti anziani senza figli propri, affidati dunque al senso filiale di altri. E tuttavia già la Scrittura provvede a un doveroso bilanciamento. È particolarmente esplicito in due lettere paoline. Cito la versione più breve: «Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino» (Col 3, 20-21; cfr. Ef 6,1-4). Mi pare anche questo un invito attualissimo, frutto di una sa1 27 P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Bose 20062, pp. 37-42 («Un rapporto di santità con chi ci ha fatti esistere»); qui pp. 37-38. 28 pienza senza tempo, ma forse preziosa soprattutto oggi, nella dilagante fragilità delle giovani generazioni, che devono sempre essere incoraggiate e alimentate nella loro speranza, e nell’altrettanto dilagante atteggiamento paternalistico, ben più che paterno, assunto anche dagli adulti di buona volontà nei loro confronti. Nuovi legami intergenerazionali si possono stabilire solo sulla base di un rispetto reciproco che nasce dalla consapevolezza di appartenere appunto a generazioni diverse, di coabitare nella stessa storia ma partecipando di mondi anche molto diversi. rarlo, e ad amare il prossimo secondo la fede che hanno ricevuto nel battesimo». Non è superfluo chiedersi se è questa pietas, questa amorevole attenzione a Dio e agli uomini, qui presentata come condizione per un’educazione integrale, ad attrarre effettivamente l’attenzione dei genitori. Almeno la pietas verso gli uomini, perché, se non c’è, nessun legame sociale è possibile. La domanda si fa impegnativa anche in riferimento alle famiglie cristiane: davvero hanno in mente quel che si è detto come cardine dell’opera educativa? Educare alla pietà Il racconto e il rito Mi pare che le due suggestioni bibliche – le genealogie e il quarto comandamento – ci offrano insospettabilmente elementi importanti per una diagnosi non superficiale delle difficoltà che incontriamo e dei passi necessari per sanarle almeno un poco. L’imprigionamento nel solo presente e la sottovalutazione di chi viene prima (o di ciò che viene prima) sono condizioni assai diffuse nella coscienza odierna e incidono, come ho cercato di mostrare, sul rapporto tra le generazioni. Potrei aggiungere considerazioni sull’altro grande assente dall’orizzonte dei legami: il futuro, cui non si guarda o si guarda solo con timore. Lo accenno soltanto, preferendo qui l’offerta di due spunti ulteriori di riflessione non più nella direzione della diagnosi, bensì della proposta. Come educare, se questa è la situazione? Su che cosa puntare per favorire un nuovo legame sociale? Il primo è uno spunto di carattere più generale. In un contesto culturale come il nostro, complesso e per molti aspetti disorientante, chi educa dovrebbe sempre più concentrarsi sull’essenziale. Facile a dirsi; molto meno a precisarsi. Mentre però mi interrogavo su questo “essenziale” (essenziale proprio in vista di una ricreazione di legami tra le generazioni), mi è venuto in soccorso un passaggio della Dichiarazione conciliare sull’educazione cristiana, la Gravissimum educationis, quasi dimenticata. Ebbene, parlando dei genitori primi educatori (GE 3) – ma mi pare che la considerazione possa essere estesa ad altri educatori e formatori, fatte le debite proporzioni –, i Padri conciliari scrivono: «Tocca infatti ai genitori creare in seno alla famiglia quell’atmosfera vivificata dall’amore e dalla pietà verso Dio e verso gli uomini, che favorisce l’educazione completa dei figli in senso personale e sociale». E, poco più avanti: «Soprattutto nella famiglia cristiana … i figli fin dalla più tenera età devono imparare a percepire il senso di Dio e a vene- 29 Non posso evitare, infine, di sfiorare almeno – ed è il secondo spunto – la questione della necessità di nuovi legami tra le generazioni anche in ambito ecclesiale. Non mancano probabilmente decisioni e atteggiamenti da rivedere. Dovrebbe preoccupare una certa segmentazione educativa che non riesce ad evitare isolamenti difficilmente ricomponibili. Ma mi limito anche qui a due suggestioni, derivate dalla Bibbia e dall’esperienza ebraica e cristiana di secoli. Se tradizione c’è stata, se c’è stata trasmissione da una generazione all’altra dei contenuti della fede, se un qualche senso di Dio gli educatori hanno saputo custodire e alimentare di età in età, lo si deve in buona misura a due punti di forza: la capacità di raccontare la propria fede, con la vita certo, ma anche attraverso le parole giuste, il riferimento alle grandi figure e ai grandi eventi della Bibbia, per i cristiani la lettura condivisa delle pagine del Vangelo e, accanto a questa capacità, la partecipazione comune alle celebrazioni liturgiche. Il racconto e il rito, insomma. Non è superfluo chiedersi se ancora sappiamo raccontarci la fede di generazione in generazione e se le liturgie, che ci vedono presenti con le nostre differenti età, rappresentino realmente momenti dai quali il nostro legame con Dio e tra noi esce rafforzato. Che non ci capiti di dover stilare il bilancio della nostra storia con le sconsolate parole di Qoèlet (1,4): «Una generazione va, una generazione viene / ma la terra resta sempre la stessa». 30 Politica Autonomi, ma per cosa? WALTER MICHELI Lo scorso 1 giugno è scomparso improvvisamente Walter Micheli, uno dei protagonisti della vita politica trentina degli ultimi decenni del Novecento, prezioso amico de “Il Margine” (per la casa editrice ha pubblicato nel 2006 il volume Il socialismo nella storia del Trentino). Vogliamo ricordarlo riportando quanto ci disse nel corso di una discussione redazionale tenutasi l’1 ottobre 2007, quando ci parlò del passato, del presente e del futuro della condizione di autonomia in cui vivono la regione Trentino-Alto Adige e le due Province di Trento e di Bolzano. Pensiamo che una riflessione sulla storia e l’attualità di tale situazione istituzionale possa interessare anche al di fuori dei nostri (spesso angusti) confini provinciali. L’ autonomia trentina ha vissuto tre fasi. La prima va dal 1946 al 1972 (autonomia della Regione Trentino-Alto Adige); la seconda dal 1972 ad anni recenti (autonomia delle due Province di Trento e di Bolzano); una terza fase si sta confusamente aprendo in questo periodo. È dunque opportuno rileggere i caratteri delle prime due fasi per comprenderne il significato, e vedere cosa è cambiato rispetto ad oggi. Se infatti le prime due autonomie (quella del 1946 e quella del 1972) sono state autonomie “rivendicative” nei confronti dello Stato nazionale, oggi viviamo invece una stagione in cui sono lo Stato e le regioni vicine a rivendicare qualcosa rispetto a questa autonomia, non in riferimento al modo in cui si è storicamente fondata, ma per come viene gestita. Le prime due fasi Il primo Statuto di autonomia fu realizzato nel secondo dopoguerra con una sostanziale unità di intenti. Vi erano le posizioni di cui voleva “di più” (l’ASAR) o di chi voleva “diversamente” (ricordiamo la famiglia Battisti e Salvemini, che chiedevano più autonomia per il Sudtirolo e meno per il Trentino); ma la linea che fu scelta fu sostenuta dai grandi partiti dell’epoca (DC, PSI, PCI) e da un vasto consenso dell’opinione pubblica. La rivendica- 31 zione storica dell’autonomia poggiava su un sentimento profondo e diffuso, che portò ad una approvazione dello Statuto rapida e senza particolari problemi (specie se si confronta quel percorso con quello seguito da altre regioni autonome). Da un punto di vista culturale, si trattava di un progetto politico importante: in esso confluivano un respiro laico-socialista (il manifesto scritto da Manci, leader della Resistenza trentina, per il quale l’autonomia doveva poggiare su una dimensione federalista dello Stato, faceva riferimento al manifesto di Ventotene) e la capacità operativa propria della tradizione popolare e cattolica: Degasperi poté tradurre politicamente quella esigenza, a pochissimi anni da esperienze drammatiche. Già pochi anni dopo, verso il 1956-57, si dovette rimettere mano a quanto era stato creato. Purtroppo i protagonisti della politica locale, esponenti di una DC fortissima e supportata dalla Chiesa (episcopato De Ferrari), avevano utilizzato la Regione come mezzo di controllo della minoranza sudtirolese, portando l’istituzione su un binario morto e addirittura causando reazioni violente. La sinistra trentina, nell’epoca delle contrapposizioni frontali della guerra fredda, non aveva saputo intervenire con lungimiranza. Fu una tragedia politica (che vide attentati con morti e feriti), dalla quale le forze politiche seppero, insieme, senza distinzione tra chi era al governo e chi era all’opposizione, trovare la forza per uscire, grazie anche ad un consenso diffuso e popolare straordinario, che andava anche al di là della capacità dei partiti di esprimerlo (e questo differenziò gli anni sessanta rispetto al 1946-48). Ciò va ascritto a merito anche della Chiesa trentina, che a differenza del periodo precedente seppe avere un ruolo positivo (episcopati di Gargitter e Gottardi); e della cultura laica, che seppe recuperare la tradizione democratica riconciliandosi in una dimensione autonomistica che negli anni precedenti non aveva sentito come propria, dandone un’interpretazione democratica e partecipata. Anche la nascita del secondo Statuto di autonomia fu dunque permessa da una grande partecipazione di popolo, con il consenso di quasi tutte le forze politiche (tranne MSI e PLI: molto meno del 10% dell’elettorato). Aldo Moro riconobbe che il “Pacchetto” che diede vita a questa nuova fase non sarebbe stato approvato senza l’impegno di tutta la sinistra (il PCI si astenne, ma valutando positivamente la questione). Ciò avvenne in una stagione politica di centro-sinistra europeo (Kreisky in Austria e Brandt in Germania): le autonomie dei piccoli popoli possono svilupparsi meglio in contesti di tolleranza, rispetto, distensione, concezione progressiva dei rapporti tra popoli e culture (è più difficile che ciò avvenga in contesti diversi). 32 Terza fase Come si è accennato, nella terza fase dell’autonomia, che si sta oggi aprendo, non c’è più spazio per un discorso rivendicativo, generale o parziale; oggi al contrario è lo Stato, o le altre regioni, che chiedono conto al Trentino e all’Alto Adige/Südtirol della loro autonomia. E l’autonomia trentina, tra le due, è certamente la più fragile; è riuscita a suscitare in poco tempo moltissima antipatia. La reazione alle richieste di passaggio alla provincia di Trento da parte di alcuni comuni veneti è stata di tipo puramente monetario e quantitativo: una soluzione provvisoria che conferma implicitamente (a chi ci guarda dall’esterno) che abbiamo una disponibilità finanziaria inesauribile, molti sensi di colpa e pochissima progettualità. Da ormai trent’anni ci lamentiamo della prossima riduzione delle risorse finanziarie, ma di fatto sembra che i tempi delle “vacche magre” non arrivino mai. L’incremento parallelo delle competenze e del denaro a disposizione ha disincentivato ogni razionalizzazione, e le strutture si sono sommate l’una all’altra per sovrapposizione, senza coordinarsi: e una comunità in cui conti sono pagati a piè di lista non può riuscire a fare l’inventario delle priorità. Il disastro di Stava (1985)2 è stata la rappresentazione tragica di questa autonomia fatta per compartimenti stagni: nessuno sapeva o voleva sapere chi doveva andare a controllare i bacini che poi crollarono (i servizi forestali, l’urbanistica, il settore minerario?...); è stato non solo una tragedia umana, ma anche un momento di perdita di credibilità dell’autonomia trentina. Arriviamo all’oggi: di fronte alla nuova stagione dell’autonomia trentina che si apre ci troviamo inadeguati, sia nella lettura critica dell’esperienza che abbiamo alle spalle, sia nella progettualità. La stagione (almeno nelle pretese) federalista dello Stato non può essere affrontata con una semplice redistribuzione, quasi che basti rinunciare a un po’ di soldi. Viviamo ancora come se l’autonomia potesse prescindere da un’interrelazione con una realtà statale che si fa federativa; ci siamo chiusi in una semplice difesa della nostra “specialità”. Ma il problema non è per questo risolto, e i soldi servono solo a passare la nottata. Per di più la classe dirigente interpreta questo meccanismo in modo pericolosamente autocratico: recentemente, in cambio dell’assunzione dallo Stato di nuove competenze (cosa di per sé compatibile 2 con il federalismo), si è chiesto una presenza nella Corte dei Conti (e questo non è l’autonomia o il federalismo, è l’insofferenza ai controlli). Inoltre il continuo aumento di competenze pone il problema dell’esistenza, o meno, delle energie che permettono di gestirle: davvero la comunità trentina ha le capacità di farlo in modo migliore rispetto allo Stato? Più diventano complesse le competenze, più devi avere una comunità preparata a gestirle; ma c’è un limite oggettivo e le capacità personali scarseggiano; per gestire le competenze serve una “massa critica”, per poter gestire dei soldi non basta un capitolato di bilancio. Quale cultura autonomista? Per affrontare la nuova situazione ci vorrebbe una forte coesione politica e sociale. Peccato che gli sforzi di crearla attorno ad una presunta tradizione di “differenza” rispetto alla vicenda italiana (la retorica del Land) finisca piuttosto con il creare ulteriori sfasature. Si dimentica infatti che le culture politiche di questa terra sono state due: quella cattolica e quella socialista. La “cultura” autonomista (che spesso è stata ed è semplice retorica dell’autonomia) ha creato folklore e populismo, non altro; e non si vede perché oggi il Partito Democratico (nella sua versione locale) dovrebbe prenderla in considerazione. Eppure oggi tutti si dicono difensori dell’autonomia, quasi che sia blasfemo porsi in modo critico e non generico rispetto ad essa. È un elemento di grave debolezza, dato che in conseguenza di ciò non riusciamo più a declinare la storia dell’autonomia trentina nella cornice del federalismo italiano ed europeo (quello che era stato di Manci, di Spinelli e di Degasperi). Eppure solo questo lungimirante inserimento potrebbe dissipare le antipatie di chi dall’esterno vede l’autonomia solo come una difesa dei privilegi. C’è stato infatti un tempo in cui l’autonomia trentina attirava simpatia: si riconosceva la nostra capacità di fare buone cose. Poi i nostri interlocutori hanno cominciato ad aggiungere: “saremmo capaci di farlo anche noi, se avessimo i vostri soldi”. Oggi manca tutto questo: su molti fronti siamo proprio indietro, che si tratti dell’adesione al PD (il Trentino è l’unica provincia in cui si è votato con una sola scheda, quella nazionale: gli apparati della Su questa vicenda si rinvia a C. Ancona, Stava, vent’anni dopo, “Il Margine”, n. 6/2005, pp. 10-15 [n.d.r]. 33 34 Margherita e dei DS locali esistono ancora)3 o dell’applicazione delle normative europee (l’elenco dei ritardi è lunghissimo). Cosa può far fronte a questa situazione? Quel che resta dei partiti è fragile: non c’è nemmeno la percezione degli scenari. La Chiesa balbetta. Forse ci distingue ancora dal resto d’Italia una realtà sociale particolare (il recente rinnovo dei consigli di amministrazione delle famiglie cooperative e delle casse rurali ha visto al voto sessantamila persone – su cinquecentomila abitanti – per eleggere cinquemila rappresentanti: ed è quasi tutto volontariato). Nel nostro territorio, molti degli enti (a cominciare dalle scuole dell’infanzia e dagli usi civici) che altrove sono “privati” sono invece di proprietà comunitaria, e sono percepiti come tali. Questo tessuto sociale ha permesso al Trentino di non essere a suo tempo completamente fascistizzato o berlusconizzato. Avremmo dunque qualche motivo per non farci prendere da uno scetticismo paralizzante: ma questo vale solo mettendo insieme in modo corale tutte le singole forze sfiancate (partiti, Chiesa, associazioni, movimenti). I partiti – e tanto meno i singoli partiti – non basterebbero a fronteggiare la situazione, a riprendere un’iniziativa o un progetto; una battaglia in solitudine sarebbe molto difficile. E la discussione sul federalismo dev’essere fatta in modo serio, non a seconda se la Lega urla di più o di meno. Avremmo ancora sorgenti non sperimentate nella nostra cultura democratica da cui attingere (Adriano Olivetti, Cattaneo…). Se ci fosse un progetto politico sostenuto da un consenso di popolo potrebbe aprirsi un’altra bella stagione. 3 Il PD Trentino è infine nato l’8 giugno 2008, dopo che la sconfitta elettorale di aprile [n.d.r.]. 35 Libri A cinquant’anni dalle Espe Esperienze Pastorali EMANUELE CURZEL L eggere un testo di Lorenzo Milani, com’è noto, non è solo un’esperienza intellettuale, per quanto intensa. È qualcosa che interessa il cuore e le viscere, prima ancora che la mente. In termini filosofici forse si potrebbe riassumere la questione in questi termini: il priore di Barbiana è un uomo del Novecento e in quanto tale, anche quando ci presenta dati o situazioni che ritiene pienamente oggettivi, ci parla con un tono tale da farci comprendere che si tratta di questioni per cui “ne va” della sua vita stessa, della sua singolare ed irripetibile esperienza; che quelle realtà non solo lo interrogano ma proprio lo scuotono, e vorrebbe che scuotessero anche noi, che costringessero anche noi a porci le domande fondamentali su noi stessi e sul nostro destino. Sergio Tanzarella, autore di Gli anni difficili. Lorenzo Milani, Tommaso Fiore e le “Esperienze Pastorali” (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2007), non è solo un profondo conoscitore di don Milani, ne è anche un ammiratore e un innamorato; dal priore di Barbiana ha assorbito non solo l’interesse a determinati temi e problemi, ma anche il modo di esprimersi, di comunicarci la sua passione esistenziale che non lo lascia tranquillo e non ci lascia tranquilli. Un modo di avvicinarsi ai problemi del mondo che sfocerebbe facilmente nell’angoscia, se non vi fosse quel “passo indietro” che Milani fa, quasi a ritrarsi dal delirio di onnipotenza (e di conseguenza dalla disperazione) di chi sente come propri i problemi dell’umanità. Un passo indietro di tono evangelico: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10). «Non propongo nessuna riforma. Non mi importa che il mondo vada meglio. Non consiglio le mie soluzioni. Non vorrei governar né la Chiesa né il mondo. Vorrei solo trovare la via giusta sul modo nostro (di preti) di vivere nel mondo, di interpretare la storia che ci passa davanti, di salvare il sacro che portiamo dal profano che ci circonda» (lettera a Tommaso Fiore, 29 gennaio 1959, p. 240). 36 Parole che ricordano quelle che Milani scriverà, qualche anno dopo, nelle ultime righe della Lettera ai giudici: «Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima». Ci vuole dunque non solo un certo disinteresse per la condizione umana, ma anche un alto grado di astrazione rispetto alla propria stessa situazione esistenziale per non sentirsi provocati, per considerare i testi di Milani (e questo testo di Tanzarella) un semplice oggetto di studio. Milani annunciatore dell’alba La ricostruzione storica offerta da Tanzarella nel primo capitolo è un ampio affresco degli anni cinquanta, in Italia e nella Chiesa italiana: gli anni durante i quali Milani elaborò lentamente e pazientemente le sue Esperienze Pastorali. Una ricostruzione interessante e preziosa, perché ci ricorda quanto grande fosse, anche nell’Italia del secondo dopoguerra, la distanza tra il dettato costituzionale (che indicava il lavoro come base della Repubblica) e la realtà. Una situazione nella quale la repressione delle proteste operaie e contadine da parte della polizia, tra il 1947 e il 1954, provocò l’uccisione di 109 lavoratori e l’arresto di quasi 150.000. E ci ricorda quanto profondo fosse il “collateralismo” della Chiesa italiana nei confronti della politica del governo a guida democristiana. Quando nel 1958 il vescovo di Prato additò come concubini due sposi che avevano celebrato un matrimonio civile, e fu quindi condannato da un tribunale per diffamazione (in quanto il concubinato era un reato, e i due non erano affatto concubini), la reazione fu improntata al più esagerato vittimismo («come cattolici e come italiani non possiamo pensare, senza fremere, che in Italia, come nella Cina comunista, i vescovi vengono condannati»: così Il quotidiano, il giornale dell’Azione Cattolica guidata da Gedda). La Chiesa dell’epoca pretendeva per sé uno status privilegiato, tendeva a confondere i piani e preferiva leggere qualunque questione come un problema politico, identificandosi con la parte al potere. Solo qualche anno dopo, nel 1965, Milani affermò che Esperienze Pastorali era un libro «superatissimo» (p. 12). C’era stata infatti l’accelerazione impressa dal Concilio, da Giovanni XXIII e da Paolo VI; l’apertura di una stagione nuova per quanto riguarda sia il rapporto tra società e politica, 37 sia l’autocoscienza ecclesiale. Una stagione che era nata dalla coscienza dell’ormai raggiunta interdipendenza dell’umanità, ed era cresciuta con grande lentezza a partire dalla seconda guerra mondiale. La solidarietà con l’umanità oppressa, la fine di una “politica cattolica” volta solo alla promozione degli interessi ecclesiali, l’accettazione della democrazia liberale laica come spazio per l’agire libero anche della Chiesa, la necessità dell’ecumenismo si imposero rapidamente (anche se, possiamo dire oggi, non definitivamente). Esperienze Pastorali (o i testi di altri “profeti“: pensiamo a Mazzolari) va allora letto come un testo di veglia/vigilia, scritto nella notte, capace di preannunciare ciò che si stava muovendo. Il testo di Tanzarella si articola poi in altri tre capitoli: uno, filologicamente preciso, sul modo in cui Milani lavorò al testo, accettando tutte le raccomandazioni del censore; uno dedicato alle reazioni provocate dal volume (che uscì dotato di imprimatur e con la prefazione di un vescovo, ma fu infine tolto dal commercio per motivi di “opportunità”); quello finale riporta il carteggio tra Milani e Tommaso Fiore, un coraggioso intellettuale pugliese, figura interessante e poco conosciuta. In appendice, la nota lettera a Nicola Pistelli dell’8 agosto 1959 (pubblicata postuma), famosa per l’espressione “un muro di foglio e incenso”, e nella quale c’è anche una lunga disamina sul tema della “solitudine del vescovo”. «Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo “il loro bene” e cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non avere nulla da imparare, ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo, perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna» (pp. 260-261). Una stagione rubata? Non è solo Esperienze pastorali, o Lettera a una professoressa, o Lettera ai cappellani militari, o Lettera ai giudici, che oggi ci appaiono provocatorie e “inattuali”. Lo sono anche (vi sfido a leggerle) la Mater et Magistra, la Pacem in Terris, la Gaudium et Spes, la Populorum Progressio: testi scritti in quegli stessi anni. La Chiesa, che per una breve stagione si pose a capo di un mondo che credeva nel cambiamento, oggi ha dimenticato quei testi, non solo non li annuncia più ma non li comprende neppure. Forse il timore di apparire troppo “evangelica”, troppo “alternativa”, troppo poco “prudente”? «Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare» – scriveva 38