nche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro

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nche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro
A
nche se il nostro maggio / ha fatto a meno del
vostro coraggio / se la paura di guardare / vi ha
fatto chinare il mento / se il fuoco ha risparmiato
/ le vostre Millecento / anche se voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti.
E se vi siete detti / non sta succedendo niente, / le fabbriche riapriranno ,/ arresteranno qualche studente / convinti
che fosse un gioco / a cui avremmo giocato poco / provate
pure a credevi assolti / siete lo stesso coinvolti.
Anche se avete chiuso / le vostre porte sul nostro muso / la
notte che le pantere / ci mordevano il sedere / lasciamoci
in buonafede / massacrare sui marciapiedi / anche se ora
ve ne fregate, / voi quella notte voi c’eravate.
E se nei vostri quartieri / tutto è rimasto come ieri senza le
barricate / senza feriti, senza granate, / se avete preso per
buone / le “verità” della televisione / anche se allora vi
siete assolti / siete lo stesso coinvolti.
E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete
votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle
vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto
voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per
quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti.
(Fabrizio de André, Canzone del Maggio, 1973)
Mensile
dell’associazione
culturale
Oscar A. Romero
Anno XXVIII (2008)
n. 5
Federico Premi
NICOLA.
VITTIMA
NELLA “BELLA”,
CRUDELE
VERONA
Silvio Mengotto
IL CASO ZINGARI
Fabrizio Micheletti
Periodico mensile - Anno XXVIII, n. 5, maggio 2008 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb.
postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Redaz. e amministraz.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20
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FRANCIS GALTON
E LA NASCITA
DELL’EUGENETICA
Milena Mariani
DI GENERAZIONE
IN GENERAZIONE
Walter Micheli
AUTONOMI,
MA PER COSA?
Emanuele Curzel
A CINQUANT’ANNI
DALLE
ESPERIENZE
PASTORALI
IL MAR
MARGINE
5
MAGGIO 2008
Federico Premi
3
Nicola.
Vittima nella “bella”, crudele Verona
Silvio Mengotto
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Il caso zingari
Fabrizio Micheletti
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Sir Francis Galton
e la nascita dell’eugenetica
Milena Mariani
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Di generazione in generazione
Walter Micheli
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Autonomi, ma per cosa?
Emanuele Curzel
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A cinquant’anni dalle
Esperienze Pastorali
Milani nella Lettera dall’Oltretomba ai missionari cinesi (p. 8). «Quando ci
siamo svegliati era troppo tardi. I poveri erano già partiti senza di noi». Milani ci ricorda allora che non è solo l’obbedienza a potersi rovesciare nel
contrario della virtù: anche la prudenza può fare la stessa fine.
In mezzo a tante “prudenze”, la Chiesa e gran parte della società italiana stanno assistendo inerti al (nemmeno troppo) silenzioso svuotamento del
comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione, la più bella promessa mai fatta
ai poveri e ai piccoli di questa nazione:
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
IL MARGINE
Mentre andiamo in stampa
Gli articoli di questo numero affrontano temi di attualità… nel modo in cui
può farlo un discontinuo mensile: cercando cioè di tornare alle radici dei problemi che di solito ci vengono abusivamente presentati come “emergenze”. Se non
si torna a meditare sui drammi strutturali delle nostre città (non solo di Verona),
sulle basi della nostra convivenza civile, sull’immagine di umanità e di “alterità”
che abbiamo o non abbiamo maturato, sul nostro rapporto con il passato e il futuro, non solo non riusciremo a comprendere la quotidianità, ma rischieremo di farci ingannare o travolgere dai coltivatori di paura che al momento trionfano nella
politica e nella società.
In questo numero manca certamente qualcosa: il ricordo di Paolo Giuntella, amico del Margine e dei suoi collaboratori, giornalista e scrittore ma
soprattutto instancabile profeta di speranza, che ci ha lasciato il 22 maggio
scorso. Questa lacuna verrà colmata in uno dei prossimi numeri della rivista,
che sarà interamente dedicato all’esperienza della Rosa Bianca italiana. Per
il momento ci stringiamo con affetto intorno a Laura, Osea, Tommaso ed
Irene e a tutti gli amici di Paolo, che nel suo ultimo libro L’aratro, l’ipod e
le stelle ci ricordava che «la morte non avrà l’ultima parola».
mensile dell’associazione
culturale Oscar A. Romero
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Editoriale
Nicola
Vittima nella “bella”, crudele Verona
FEDERICO PREMI
P
erdere un amico è sempre una disgrazia. Ma il modo in cui lo si perde
determina sicuramente l’intensità, la profondità del dolore che ci si ritrova a gestire.
Perdere – in un pacifico 2008 – un amico perché, per puro caso, viene
massacrato di botte e muore solo in quanto si ritrova a passare, ancora per
caso, per una via del centro della bella Verona, significa gestire una sofferenza che con il caso vuole proprio giocare, e che non trova pace perché non
trova il senso. È senza senso, in questa vicenda fatta di fatalità, sorpresa e
ipocrita meraviglia, provare stupore di fronte ad un fatto che può a buon diritto definirsi banale. A Verona, da più di un decennio il male è banale. Soltanto l’esito di questo “male”, nel caso di Nicola, è stato ingiustamente diverso. Per questo mi ritrovo a leggere la morte del mio caro amico come un
fatto tristemente naturale: un fatto, cioè, che non poteva, prima o poi, non
accadere. I presupposti c’erano tutti.
È un discorso di convenienza. Forse, tenendo gli occhi chiusi, si spera
di non vedere, di non sentire, di non dover trovare responsabilità in una città
fatta di persone così vive, così prospere, così serene da non dover pensare ad
altro che alla firma dei vestiti piuttosto che alla marca automobilistica, o al
taglio dei capelli da sfoggiare all’ora dell’aperitivo nelle vie del centro. Una
gran parte di veronesi vive per questo. Questo è il senso del loro esistere. Ne
conosco moltissimi, perché in questo ambiente sono cresciuto. Benché siano
stati scritti libri interessanti, come All’estrema destra del padre, l’occhio di
un veronese può sicuramente cogliere ciò che occhio estraneo, per disabitudine, non coglie.
Ancora una volta, però, mi si potrebbe accusare di qualunquismo, di fare di tutta l’erba un fascio. Ma in questo caso io mi sento in diritto di fare
davvero un fascio di tutta l’erba dei veronesi. Questo approccio interpretativo potrebbe forse servire, se non a riportare in vita un amico, a fare un esame di coscienza. Potrebbe servire a capire “dove” tutti i veronesi hanno sbagliato permettendo, al di là di ogni colore politico, fede, professione o àmbito culturale, l’instaurazione di un clima sociale-civico, ma prima ancora esistenziale (del singolo individuo che cerca un senso preconfezionato e alieno
alla sua vita), di insofferenza.
Perché solo in questo contesto è possibile comprendere come Nicola sia
diventato, per molti veronesi, un fenomeno marginale, “uno su un milione”,
come dice il sindaco Tosi stigmatizzando l’accaduto. Già si è preparata una
raccolta firme per “tutelare” la credibilità e l’immagine della città. Ancora
menzogne, ancora coperture, ancora paure. Verona non ammette il proprio
fallimento.
Non impressionare una città
Coloro che denunciavano questo sentire di grave crisi nella città di Verona si sono imbattuti in un’Impersonalità che ha sempre risposto marginalizzando, sminuendo, contestualizzando, nel tentativo di “isolare”. Si è sempre risposto, cioè, facendo in modo che la denuncia non impressionasse la
figura della città, specchio dell’interiorità ed esteriorità dei suoi abitanti.
La morte di Nicola, però, è ancor più crudele nel momento in cui lacera
ulteriormente una ferita aperta da anni che l’impressionata Verona non vuole assolutamente riconoscere e tanto meno guarire. È abitudine – e non solo
veronese – di questi tempi, chiudere gli occhi per non vedere le ferite, e non
volerle guarire in quanto aprire gli occhi, economicamente, non conviene.
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Identificare il diverso
“Marginale”, per troppi miei concittadini, è anche il fatto che ogni muro del centro e della periferia sia ricoperto di svastiche, che “bravi ragazzi”,
figli di imprenditori e notabili, incidono fieri del loro credo in Forza Nuova,
partito veronese d.o.c. È normale, da noi – a volte opportuno – che Forza
Nuova catalizzi i giovani in modo che i genitori non si debbano più occupare di loro, e deleghino al “partito” – in un clima da totalitarismo – le esigenze dei figli. È normale, ancora, che il buon umore e la gentilezza dei cittadini, che si ripercuote in ogni relazione quotidiana, segua i risultati dell’Hellas
Verona, squadra di calcio assurta ad idolo, fine ultimo di molte persone.
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Considerare, quindi, marginali e normali fenomeni che altrove, per fortuna,
desterebbero sdegno, è un modo per ritagliarsi, via negationis, una ferma
identità. Ed è proprio su questa mitica identità –la veronesità, sottocategoria
della padanità – che il terreno diviene fecondo per identificare il diverso:
ovvero tutto ciò (simbolo, cosa o persona) che possa turbare l’ebete e sereno
stato di cose in cui galleggia Verona.
La brutta bestia del disagio e l’imperativo della “sicurezza”
Non poteva quindi farsi sfuggire l’occasione, la Verona che non vuole
problemi, che vive bene, che ama l’aperitivo, le libertà e la facile dicotomia
identitaria, di trovare un motivo, una sola causa a quella brutta bestia del
disagio che, contro ogni pronostico e ogni piano-benessere, trova ancora
spazio nelle vite dei cittadini. La causa di ogni disagio, infatti, sembra essere
la diversità che mina l’equilibrio. Di qui la nascita della vera e propria emergenza veronese: la sicurezza. Ecco allora che l’“emergenza sicurezza”,
sotto le false spoglie di una pretesa di ordine e legalità, fiorisce e sboccia
proprio a Verona. Laddove la nevrosi cittadina si fa più forte, più forte è
l’esigenza di dare forma a questa patologia, e quale farmaco più efficiente
di un ordine che ne camuffi i sintomi? Dell’individuazione di un nemico
pubblico? Di una improvvisa semplicità e limpidezza dei problemi di Verona che, da una pluralità ora si riducono ad uno solo? L’ordine pubblico? Il
“buon costume”? Questo utopico ordine, inteso come ritorno a immaginifiche, idilliache dimensioni di una città perfettamente bella, include – dalla
coscienza ai comizi politici – un’epurazione dichiarata di ciò che non si omologa: nel vestire, nel dire, nell’opinione, nella moda di gesti e desideri,
perfino nel pensare o nel frequentare luoghi e tempi secondo i dettami più in
voga. Negli ultimi decenni è nato proprio questo implicito fiorire di simbolismi e significati. Una macchina, una scritta, un colore, un taglio di capelli,
una posa: ogni cosa, qui da noi, dice immediatamente qualcos’altro, significa.
Una maglietta scelta a caso dall’armadio, nella città dell’ordine, perde
tutta la sua casualità: diventa la maglietta del comunista. Una maglietta verde subisce la stessa sorte: significa Lega Nord. Verona vive di queste mitiche simbologie. Le menti di troppi miei concittadini non sono libere da un
giudizio “a priori” su ogni cosa e ogni persona. C’è l’esigenza esistenziale di
un giudizio. L’ordine, la classificazione, l’appartenenza devono essere ri-
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spettati in ogni loro aspetto. Così si vive quotidianamente a Verona. Un colore e una marca, un taglio di capelli può – come abbiamo tristemente visto
– darti diritto di vita o di morte.
Ma questo non è un vivere sereno, è un vivere teso e preoccupato, ansioso, maniacale; soprattutto pauroso, quando l’interpretazione non riesce.
Ecco dunque le ideologie, che mettono a riparo da questa incapacità ermeneutica, fornendo identità e risposte.
Chi conosce la Verona dell’ultimo decennio – covo di contraddizioni,
di infondatezza, di calma apparente, in tutte le sue manifestazioni – non può
che vedere, in altre città (che possono essere Trento, Mantova o Padova, o la
stessa Milano) una leggerezza diversa. A Verona tutto è greve, pesante, sospettoso, pieno di pericoli e di possibili disturbi al sistema: nelle vie, nei locali, per strada, nelle proprie automobili. Un colpo di clacson a chi compie
un’infrazione può scatenare risse furibonde. Lo stress veronese, che copre il
vuoto di esistenze che non trovano altra pratica di sé se non nel consumo, è
palpabile e reale. Verona, in questo, è una città carnevalesca.
Ciò che qui è diverso, altrove è normale. Altrove non esiste “a priori”
la dicotomia diverso/normale. A questo proposito mi hanno molto infastidito
i giornali che dipingevano Nicola come il “diverso”, quasi fosse un mostro o
un marziano, semplicemente perché Nicola era disinteressato alle mode o
agli status symbol. Nicola disegnava, amava lo sport. Tutto qui. I suoi interessi, per sua sfortuna, non erano né la moda, né il Suv. Una grave colpa,
evidentemente, in un microcosmo in cui l’ordine richiede l’omologazione,
per la sicurezza di tutti.
Un’ideologia riduzionista e facilona
Da dove ha origine, allora, questa derìva della città veneta? Forse da
uno iato culturale tra chi legge autonomamente la realtà e chi preferisce delegare questa lettura – per mancanza di tempo o per esagerata fiducia nella
promessa di felicità del denaro, con conseguente svalutazione della cultura
vista addirittura come intralcio – al partito piuttosto che ad una classe, una
squadra, un’ideologia riduzionista e facilona.
La Lega Nord, su questo terreno, ha avuto gioco facile, inserendosi
proprio in quell’abisso generazionale, dovuto all’allentamento – nel senso
del disinteresse – dei rapporti e dei tempi educativi e all’aumento smisurato
delle opportunità di consumo. È emblematico l’episodio di derisione avve-
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nuto ai danni dell’ex sindaco Zanotto quando, per recuperare zone degradate
della città, ha investito più sulla cultura (proponendo la lettura di poesie tra i
barboni, i senzatetto e nelle zone degradate) che sulla pubblica sicurezza. Il
nuovo sindaco, dopo aver definito i reperti romani “quattro sassi senza valore” che intralciano il progresso cittadino, ha assecondato la tendenza a leggere Verona come centro commerciale e slot machine, denigrando e togliendo fondi ad ogni attività inutile, quindi culturale. Guadagno e commercio
sono i recenti idoli della città veneta, come sa chiunque “abiti” i dialoghi, le
opinioni e le decisioni dei concittadini.
Di fronte a questo desolante panorama che vede adattare la città alla
circolazione dei Suv allargando le strade, invece di limitarne la circolazione
per vivere la città; che vuole – come sostiene con orgoglio l’assessore alla
viabilità – far diventare Verona un grande drive-in; che toglie le piste ciclabili in quanto pericolose per le auto parcheggiate; che vuole costruire un traforo autostradale da 390 milioni di euro per mantenere una promessa elettorale; che ha cancellato il Parco delle Torricelle a favore di zone edificabili e
commerciali, la città intellettuale scompare, si dilegua, si inabissa. O si adatta. Qui sta la questione: la Verona che coglie i problemi, li analizza, li vive e
li capisce, è vittima dell’inedia. È demoralizzata. Non ha scampo. Soprattutto, non ha voce.
Rivoluzione commerciale e vuoto culturale
La rivoluzione commerciale ha ucciso definitivamente quella culturale.
L’Università, le accademie sono oasi isolate. Così si formano spaccature,
alienazioni e spazi vuoti. Così viene a mancare un dialogo, un confronto vero tra un’idea e l’altra.
In una città civile, un innocente non può morire per niente. Ridicolo e
vergognoso è intendere la morte di Nicola un caso fortuito: Nicola è morto
per una evidente circostanza di causalità. La perdita di ogni valore o senso
che esuli dal paranoico sfoggio esteriore (che dovrebbe rappresentare una
sorta di appagamento esistenziale e di potere, in quanto solo così sembra
possibile contare qualcosa) è frutto, a mio avviso, di due tendenze contrapposte, legate tra loro osmoticamente, che hanno una radice decennale.
Da un lato, il dilagare della moda, del denaro, del benessere sopra ogni
cosa: ovvero la stizzita e nevrotica cancellazione di ogni fatto, cosa o persona che possa turbare il precario equilibrio di un edonismo basato su soldi,
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alcool, cocaina, pornografia e gestito dagli illustri nomi della “Verona bene”, che tutti conoscono ma di cui, non si capisce perché, l’informazione
tutela sempre la privacy.
Dall’altro, il fallimento del sistema educativo che – giorno dopo giorno, silenzio dopo silenzio – ha consentito, glissando o sminuendo, tutto questo. E lo ha consentito senza servirsi delle stesse armi di coloro che trovano,
invece, spazio nella vita e nell’opinione pubblica, scrivendo articoli antisemiti, pubblicando libri come I guerrieri di Verona (il cui autore, fratello di
un assessore comunale e appartenente ad una famiglia di gerarchi fascisti,
racconta la preparazione, assieme al figlio, del fantoccio negro impiccato
poi nella Curva Sud allo stadio), o eleggendo personaggi con precedenti penali, che propongono di abolire il 25 aprile e creare, parallelamente
all’Istituto della Resistenza, un Istituto per i “Giovani di Salò”.
Una cultura di classe chiusa e autoreferenziale ha permesso questo iato,
questo abisso; ha permesso che venisse a mancare, materialmente, la voglia
di rispondere e ribattere a questioni “assurde troppo assurde”. Ma l’assurdo
ha avuto il sopravvento di fronte ad una parte di cittadinanza incapace di alzare la testa, di affermare una verità diversa. E così a Verona l’opinione
pubblica – quindi il voto politico, quindi l’indirizzo culturale – si è formata
pian piano per sedimentazione, per assestamento, negli spazi lasciati vuoti.
Nessuno si è sentito in dovere, di fronte alle assurdità fasciste, di essere
presente, oltre che rappresentato al momento del voto. Così, ancora una volta, via negationis si sedimenta, si ode solo la voce e il parere di coloro che –
accecati dalle loro idee, dalle loro passioni – trovano il tempo per affermare
se stessi e la loro miseria. E l’unico quotidiano della città, L’Arena – ago
sbilanciato della bilancia politico-sociale veronese – abituato a questa univocità del “parere”, a sua volta ha scelto un tipo di informazione che non
crei problemi, che non scuota, che non smuova nulla, che assecondi il potere. D’altronde, nella città del benessere e della moda, è meglio dipingere tutto come idilliaco, affinché “i commercianti non ne escano danneggiati”.
Ecco che, insieme ad una pioggia di soldi e ad una educazione annoiata, un’informazione univoca, indiscutibile e impareggiabile nella propria
parzialità, platealmente gestita dagli appartenenti all’una o all’altra categoria, contribuisce a proiettare i veronesi in un universo illusorio e parallelo,
dove i compleanni delle nonne di provincia hanno più importanza dei fatti di
cronaca scellerata. I veronesi non riescono più a diventare amici della verità,
o di qualcosa che ad essa si avvicini, perché ne hanno perso la confidenza.
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Il sottobosco di questo proliferare fungino, che non si può tacere e che
qualcuno ha invano cercato di smascherare, è la maglia di una Chiesa – in
gran parte specchio della città e perciò afflitta dalla stessa malattia venale
dei concittadini – che recluta (principalmente tramite “sette” autoctone i cui
nomi sono noti a tutti) squadre di giovani garanti di questo utopico ordine,
di questa purezza che si traduce in integralismo. Laddove la cultura è vista
come intralcio, la risposta non può che essere alternativa: ecco allora – fenomeno vivacissimo e recente – la moda neocatecumenale, la moda Opus
Dei o la moda dei movimenti legittimisti come il Sacrum Imperium. Senza
questionare i contenuti, il problema è che si tratta di un fenomeno di moda, e
di un fenomeno politico: un vero e proprio bacino di utenza elettorale, in cui
viene insegnata (quindi questa volta dall’alto) la catalogazione, la separazione, la distinzione tra l’autentico/puro e il diverso/impuro.
La paura di tutto ciò che è altro
Questo inquadramento, a Verona, si trasforma subito in una facile (perché di facilità, di immediatezza si ha sempre bisogno) dicotomia: quelli che
stanno dalla parte del sindaco, della vita felice, della Verona che funziona,
della Verona delle radici catto-padane che chiedono la messa in latino e la
messa al bando – con articoli che recitano letteralmente, contro la concessione di spazi ai luterani o protestanti: “Chiese di Verona ad eretici e
scismatici: una solenne porcheria!” – di tutto ciò che è Altro. E quelli che,
appartenenti a questa alterità e impersonati – nei sogni dei catto-padani
d.o.c. – dai rom, dagli immigrati, dai sinistroidi e da tutti gli altri cristiani,
rappresentano l’impura e deleteria diversità. Vi sono state, addirittura,
contestazioni e risse fomentate degli integralisti cattolici nel tentativo di
espellere, in accordo col sindaco, dalla città protestanti, valdesi e luterani. Il
vescovo, dal canto suo, tace: e, così, acconsente.
I Veronesi, contenti della loro identità integrale, votano ancora “la sicurezza e la disciplina”, per tutelare i loro diritti di “cristiani”. E lo fanno eleggendo un sindaco che l’11 settembre 2005 va in carcere a salutare e consolare cinque ragazzi fascisti rei di aver accoltellato due coetanei “di sinistra”. I
conti tornano: essere di sinistra, qui, significa non essere di destra; essere,
cioè, “tutto il resto” che non è appartenenza all’ideologia razzista, fascista o
catto-leghista. Di qui è facile arrivare alla mania della legalità e sicurezza,
agli “sgomberi notturni”, alle ordinanze per “il buon costume”, ai comizi
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pubblici in cui si valorizzano “i metodi nazisti”, all’idea di una Verona che
deve essere “una bomboniera, come Treviso”, con le “panchine antiimmigrato” e gli interessi della Curva Sud all’ordine del giorno in Consiglio
Comunale.
Non sono forse, questi fenomeni, l’occasione di fondo, la possibilità latente, il casus belli che persuade Raffaele e gli altri quattro assassini di Nicola ad aver ragione nel massacrare chi non rientra in questi ordini legali?
Non è paradossale che esistano locali come l’«Osteria Verona», il «Cortez»
o l’«M27» in cui è vietato l’ingresso ai ragazzi che non portano la “divisa”
di moda o che hanno i capelli più lunghi di qualche centimetro? Questo, per
i Veronesi, è “normalità”. Eppure in quei luoghi si organizzano le “spedizioni punitive” della borghesia stressata; davanti allo spritz cresce il desiderio di “ripulire Verona” dai “terroni”, dai “rossi”, dai “negri”. Magari con
pestaggi sistematici. Proprio quella sistematicità che agli ottusi e disonesti
difensori della Città-idolo sfugge ostinatamente nel momento in cui catalogano dei fascisti pestatori e assassini come semplici “balordi”.
L’ipocrita stupore
Non c’è da stupirsi, quindi, se Nicola ha trovato la morte in questo modo, in questa città.
Perché l’opinione pubblica è rimasta indifferente di fronte ai numerosi
fatti di cronaca che hanno visto spedizioni punitive contro “i negri” e i capelloni “comunisti” dei centri sociali? Contro tre paracadutisti delle Folgore
nati al Sud? Contro un povero cristo con la maglia del Lecce? Contro un tipo che, mangiando un kebab, andava contro le “ordinanze” del Sindaco?
Come si è potuti rimanere indifferenti, senza sollevare nemmeno una
quaestio, di fronte al pestaggio di un ragazzino non abbastanza abile
nell’usare lo skateboard, o all’aggressione di un signore intervenuto per difendere un ragazzo inseguito da dieci coetanei? O ancora, di fronte alle spedizioni ferroviarie organizzate dai neonazisti (che a Verona sono a migliaia)
a Dachau per imbrattare lapidi e memoria? Perché nessuno si è indignato
quando i poliziotti hanno perquisito la casa “per bene” di uno degli assassini
di Nicola, e hanno trovato manganelli, pugnali, coltelli, un’accetta, libri che
negavano l’Olocausto, bandiere con la croce uncinata, foto di Hitler e Mussolini?
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Solitudine di fronte ad una verità
Sminuire, ridimensionare...
Perché, quando raccontavo di aver visto, a casa di amici e amiche normali, ritagli di giornali del 1933 inneggianti all’ascesa di Hitler appesi alle
pareti, invece di essere turbati da questo fenomeno mi si rispondeva con un
laconico “sono degli stupidi”? Conosco gruppi, come gli Hic sunt leones,
che vagano indisturbati per gli atenei e – cosa agghiacciante – non destano
la minima preoccupazione. Mi sono trovato più volte a dover affermare la
verità dell’olocausto contro negazionisti iscritti ai corsi di filosofia. Ma il
mio disagio, evidentemente, non era diffuso né condiviso. Al contrario: liquidandolo come fenomeno marginale, sempre si è colta l’occasione per
cambiare discorso, proprio laddove il discorso doveva andare fino in fondo.
Molti amici trentini hanno reputato, in diverse occasioni, le mie testimonianze come esagerazioni, come generalizzazioni. La mia esperienza, tendenzialmente e per lo più, mi portava invece a queste conclusioni. E ora che
un caro amico mi è stato tolto, oltre al dolore, provo non rabbia, ma solitudine. Solitudine di fronte ad una verità.
Impegnato da qualche anno sul fronte ambientale, noto un’inquietante
analogia nel modo procrastinante e negazionista di affrontare il problema: si
sminuisce, si evita, si ridimensiona. Ci si mette al riparo, quindi, da ogni
pensiero, da ogni turbamento, da ogni azione. Si parla molto ma non si dice
nulla, tutto sfuma, comodamente, nell’ottimismo. Esattamente questo è stato
l’atteggiamento – nella mia città – relativo ai palesi rigurgiti da “quarto
Reich”, sfociati poi in veri e propri pogrom. La stanchezza, l’insensatezza,
la paura di dover fare, rispondere, cambiare, capire e agire; l’opportunità di
non comparire, di non partecipare pur contando, consentita da questa democrazia-nascodiglio, hanno lasciato che si commettesse un assassinio. A
commetterlo, non cinque balordi, come si vorrebbe, ma cinque ragazzi colpevoli di aver scelto l’odio e la violenza come propria religione. Senza dare
scandalo nemmeno negli ambienti religiosi istituzionali. Si saprà poi, nei
giorni seguenti, che uno degli assassini è vicino all’ambiente dell’Opus Dei.
Si arriverà poi a quella che, se non fosse dolorosa, si potrebbe definire una
farsa: le suore dell’Istituto Seghetti, dove studiava uno dei cinque accusati,
lo vanno a visitare in carcere. Lo trovano “molto provato” – reggerà? – quasi fosse lui la vittima dell’aggressione. Non si sono domandate se e come
hanno retto i genitori e il fratello di Nicola.
Nicola, nel frattempo, è morto perché “ha risposto male” o perché –
stando a quanto si dice nei bar e quindi sul quotidiano veronese – aveva un
aneurisma o era malato di cuore! Tutto, nella città della felicità forzata, del
denaro e della moda, deve nascondere la vera tragicità dei fatti.
Emblematica della volontà di rimuovere in fretta, per tornare alla “pace
terrificante” di sempre, è – infine – la zelante rimozione a Porta Leoni da
parte dell’AMIA di tutti i fiori, scritte, fogli e biglietti in omaggio a Nicola;
del resto, si sa: la città pulita è più bella…
C’è chi – ciascuno con i propri mezzi – ha talora cercato di delineare
uno spaccato di Verona, scavando nel male di una città che da troppo tempo
lo cova: ma ne è sempre uscito sconfitto.
La possibilità che mi è stata data di scrivere queste righe è, nel mio caso, un tentativo personale di dare un senso, anche se solo a posteriori, alla
vita del mio caro amico Nicola: che di questi problemi, nel bene e nel male
– lo dico con certezza – non si occupava.
Vi credete (illusoriamente) assolti...
In una città che vuole cancellare la storia, vivere un istante di ebbrezza
isolata, dove la cultura non ha spazio, è ridicolo ed ipocrita chiedersi “come
è potuto accadere”.
Tutti sapevano, sentivano, seguivano; ma tutti hanno deciso di non dare
peso, di assecondare, di sminuire. “Tanto – si pensa sempre – sono fenomeni
marginali”. Ma questo significa non saper leggere la realtà. Questo significa ignorare le priorità, i meccanismi, le strutture del reale. Questo significa
che tutti hanno contribuito a legittimare l’assassinio di Nicola. Non a caso, a
Porta Leoni, è stata scritta la celebre frase della Canzone del Maggio di De
Andrè: «anche se voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti». Come diceva Tucidide, infatti, «il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi potendo impedire che lo si faccia non lo impedisce».
Ma è possibile «impedire» qualcosa al popolo che vuole solo la libertà
di fare tutto? Di pensare e dire tutto? È possibile impedire un crimine in una
città dove i giornali non fanno i nomi degli indagati, degli spacciatori, dei
corrotti solo per non danneggiarne l’immagine? Perché si accetta, nel silenzio e nel disinteresse, che in questa città vi siano “ore e luoghi riconosciuti
proibiti” dal Comune stesso? Proibiti per chi e da chi?
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Libri
Il caso zingari
zingari
SILVIO MENGOTTO
N
ella presentazione al volume Il caso zingari (a cura di Marco Impagliazzo, Leonardo International, Milano, 2008, pp. 128, euro 12) Livia
Pomodoro, Presidente del Tribunale di Milano, con lucidità dice che nei
confronti dei rom «non bisogna vergognarsi di avere paura, ma bisogna
chiedersi da dove nasce la paura»: così ci si attrezza per affrontarla cercando
soluzioni e proposte positive perché l’identità si costruisce anche nel comprendere la diversità. Questo libro è un contributo in questa direzione.
Contiene testi di vari e qualificati autori. Marco Impagliazzo si sofferma sull’antigitanismo; Amos Luzzato riflette su ebrei e zingari nella persecuzione nazista; Giovanni Maria Flick sugli zingari quali cittadini europei;
sulla condizione giuridica degli zingari c’è un prezioso contributo di Paolo
Morozzo della Rocca. Il libro porta la pungente introduzione di Andrea Riccardi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma.
Il libro vuole contribuire a sviluppare una riflessione pacata sui rom e
sinti e sul perché non sono all’origine del disagio e dell’insicurezza odierna.
La politica degli sgomberi ha una strategia di immagine vincente, ma sposta
continuamente il problema senza risolverlo. Eppure in Europa sono molti gli
esempi positivi ai quali guardare come la Francia, dove i campi sono solo un
passaggio all’integrazione, oppure la Germania, dove non esistono campi
perché i rom vivono nelle case. Su rom e sinti, dice Andrea Riccardi, e non
solo: «loro sono un problema, ma su di essi si scaricano (e si rivelano) quelli
che sono i nostri problemi».
Ma questa insicurezza tra la gente ha ben altre radici e viene da lontano. È «l’espressione della vertigine della globalizzazione che ha preso le nostre società». La globalizzazione, insieme al consumismo e alla secolarizzazione, ha eroso i tradizionali punti di riferimento. Come esempio basti pensare alla crisi della famiglia. La stessa secolarizzazione ha reso incerto e remoto il riferimento alla tradizione. «In fondo lo zingaro, con la sua diversità,
si presta bene ad essere uno degli elementi che ci insicurezza. Asociale,
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mendicante, con comportamenti criminali, con i furti, presenza invasiva per
strada o nei suoi campi, il gitano è il diverso per eccellenza, talvolta fastidiosamente diverso». Lo stesso Marco Revelli ha definito i rom come
«l’altro radicale». Nella nostra società del diritto il crimine va punito, ma «la
punizione del criminale non ci toglierà di dosso l’ombra dell’insicurezza che
ci inquieta … il crimine va colpito. Ma la criminalizzazione di un gruppo,
come i rom, è antigitanismo».
In fondo l’avere un «nemico della nostra sicurezza, come gli zingari
(tanto deboli), è rassicurante e, alla fine, poco minaccioso. Combattere qualcuno dà la sensazione di presidiare attentamente le nostre frontiere sociali o
quelle del futuro». La nostra “pace” non è solo turbata dal terrorismo islamico, ma anche dal confronto economico e politico con l’Asia. C’è bisogno di
pacate riflessioni sull’argomento. Questo libro «sul caso zingari vuole essere
un contributo a una cultura politica di ampio respiro, non appiattita
sull’emozione del momento o sugli archetipi del nemico, nomade e straniero» (e i rom in Italia non sono tutti immigrati, circa 70.000 su 150.000 sono
cittadini italiani).
Per Moni Ovadia «l’Occidente ha un enorme debito in sospeso nei confronti del popolo rom. Ancora pesa la tragedia dei campi nazisti dove sono
stati uccisi anche gli zingari. La Shoah non va allargata agli zingari perché il
loro sterminio è un altro volto repellente del nazismo. Il genocidio zingaro
non è frutto della follia nazista. I nazisti misero in pratica qualcosa che era
stato elaborato nella cultura razziale del proprio tempo e dei decenni precedenti». Marco Impagliazzo lucidamente afferma che «dopo la fine della
guerra, sullo sterminio degli zingari calò il silenzio». Se a Norimberga la
giustizia si è fatta strada per i sei milioni di ebrei sterminati, non così per gli
zingari i quali non furono chiamati al banco dei testimoni, mentre le loro richieste di risarcimento vennero respinte.
Sull’argomento della persecuzione degli zingari da parte del nazismo
credo sia utile la lettura del libro La persecuzione nazista degli zingari di
Guenter Lewy. Nella presentazione del libro, Sergio Luzzato dice: «Come
gli armeni sterminati dai turchi all’inizio del Novecento, come i tutsi sterminati dagli hutu nel Rwanda di fine secolo, gli zingari sterminati dai nazisti
meriterebbero di condividere, nella memoria, un posto accanto agli ebrei». Il
libro di Lewy ha il pregio di ricostruire, e documentare con rigore storico, le
vicende e il trattamento che la dittatura nazista riservò a migliaia di rom e
sinti sino a chiedere apertamente una “soluzione finale” anche per affrontare
alla radice l’intera questione tsigana.
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Storia
Le persecuzioni naziste contro gli zingari risalgono al 1933. Nella
Germania nazista vivevano circa 26.000 rom e sinti. Una esigua minoranza
che, inizialmente, non destava preoccupazioni ai vertici del nazismo.
L’ostilità nasce invece tra la popolazione che, da secoli, viveva un clima di
profonda diffidenza e paura verso la popolazione zingara nelle periferie delle città. Un’ostilità che si tramuta in una progressiva legislazione repressiva.
Nel breve arco di pochi anni si passò da norme di severi controlli (impronte
digitali, carte d’identità di diverso colore, obbligo di segnalare alle autorità
di polizia tutti gli spostamenti, sino all’espulsione dei bambini dalle scuole)
a norme sempre più repressive. L’8 dicembre del 1938 Himmler emana un
decreto che porta la dizione di «Lotta contro la piaga degli zingari» nella
quale si afferma la necessità di affrontare il problema degli zingari in termini di «caratteristiche insite in questa razza».
Nel corso della seconda guerra mondiale iniziarono le deportazioni di
zingari in Polonia nei lager nazisti, in particolare ad Auschwitz. Con
l’apertura del fronte bellico verso la Russia la persecuzione degli zingari si
estese in tutta l’Europa orientale; furono trattati come spie e, per questa falsa
accusa, vennero eliminati anche con fucilazioni sommarie.
Per concludere, Il caso zingari è «una rimeditazione di un dramma, la
discussione di un caso, ma anche la proposta di un ripensamento delle politiche per gli zingari a partire dalla scuola, cioè dall’investimento sui più giovani». Il testo, a più voci, presenta «un contributo intorno alla questione dei
rom e sinti, non appiattita sull’emozione del momento o sugli archetipi del
nemico». Anzi è un esplicito invito alla rivisitazione, al ripensamento della
categoria del nemico.
Sir Francis Galton
e la nascita dell’eugenetica
FABRIZIO MICHELETTI
«Il miglioramento delle attitudini naturali delle future generazioni della razza
umana è largamente, benché indirettamente, sotto il nostro controllo. Noi non
siamo in grado di originarlo, ma lo possiamo guidare»
(GALTON, 1892, pp. XXVI-XXVII).
S
empre più spesso siamo raggiunti da messaggi che si richiamano a problematiche riguardanti la procreazione assistita, l’aborto, la genetica.
Ultimamente ritorna nei dibattiti, con rinnovata insistenza, il termine eugenetica ad indicare non troppo remote idee di mostruose manipolazioni. Non
sono molti a conoscere l’origine di questa parola, la sua storia, le implicazioni da cui trasse origine; quasi ignoto ai più è anche il nome del suo fondatore: sir Francis Galton. Il motivo è facilmente spiegabile: l’aberrazione nazista di creare una razza superiore – ed i disastri che essa innescò – ha quasi
sempre calamitato l’attenzione riguardante l’eugenetica, screditandola nel
profondo. Quell’idea tuttavia non nacque negli anni trenta del Novecento,
ma aveva alle spalle una lunga storia che trovò sistemazione “scientifica”
nella seconda metà dell’Ottocento, proprio per mano di Galton.
Nasce l’eugenetica
Il termine apparve per la prima volta nel 1883: venne coniato da Galton
che vide nell’eugenetica (eugenics) la scienza (science) che avrebbe dato
«alle razze più adatte … una maggiore possibilità di prevalere velocemente
sulle meno adeguate» (GALTON, 1883, p. 17, nota 1). Al di là della definizione espressa in questi termini da Galton, quello che più colpisce è
l’ambivalenza insita nell’etimologia stessa della parola che può sì, essere
resa con buona nascita, ma anche con buona razza: difatti «nascere in buona salute esprime la preoccupazione che ogni genitore responsabile dovreb-
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be nutrire verso la progenie, … appartenere ad una buona stirpe esprime
un’idea di purezza del sangue che può degenerare in elitismo e razzismo»
(WIDMANN, p. 655). Se tale distinzione è indubbiamente valida per la nostra sensibilità, all’epoca la differenziazione e la gerarchizzazione delle razze era cosa acquisita e condivisa – da almeno un secolo – non soltanto in
ambito popolare, ma anche accademico. Quella che ai nostri occhi appare
come una pericolosa ambiguità si riduceva allora ad una semplice sinonimia
che, come tale, non creava problematiche particolarmente significative.
L’idea di eugenetica era però tutt’altro che nuova: a Sparta si praticava
l’eliminazione dei bambini di cattiva costituzione in modo che solo individui forti e sani fossero avviati al combattimento; molti pensatori (Platone,
Campanella, More, Bacon) avevano, a loro volta, avanzato la possibilità di
creare un tipo umano «migliore». Galton non si discostava granché da quelle
credenze, ma sembrava che qualcosa fosse decisamente cambiato rispetto
alle antiche velleità dei filosofi.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il clima culturale dell’epoca – che
si rifaceva al positivismo – aveva influito in maniera decisiva nel creare
l’illusione sulle capacità pressoché illimitate della scienza e della tecnica:
nulla sembrava impossibile, nemmeno la manipolazione dell’uomo. La vorticosa industrializzazione – che aveva scatenato tensioni e nuovi fermenti
sociali – dava però origine anche a diffuse paure riguardanti la possibile corruzione fisica e morale a cui la società europea sarebbe andata incontro: la
città moderna si trasformava, agli occhi di molti, in un pericoloso calderone
di decadenza e di devianza sociale.
Appariva reale il pericolo che gli esemplari «peggiori» della popolazione avrebbero finito per prendere il sopravvento: «i membri deboli delle
società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno … dubiterà che questo
può essere altamente pericoloso per la razza umana» (DARWIN, 1994, p.
628). Sempre Darwin – di cui Galton era cugino – aveva spiegato che le
specie che meglio si adattavano non erano necessariamente le migliori, in
questo – per Galton – l’evoluzione andava corretta. Se infatti, nominalmente, «il credo dell’eugenetica si fonda sull’idea di evoluzione», non si trattava
tuttavia di una sua accettazione passiva, quanto piuttosto di un’azione «che
può essere diretta nel suo corso» (GALTON, 1909, p. 68), tesa ad influenzare ed indirizzare il cammino evolutivo tramite l’applicazione di principi biologici che potessero essere benefici per il miglioramento dell’umanità.
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Il problema dell’ereditarietà
Dell’indispensabilità di una selezione ragionata Galton si era ancor più
convinto in base alle leggi dell’ereditarietà che andava formulando. La sua
teoria era alquanto avanzata; essa si basava sulla stabilità del tipo, secondo
cui per diversi caratteri – come ad esempio l’intelligenza – «la media di una
popolazione rimane la stessa nelle successive generazioni, mentre le deviazioni dalla media seguono una precisa legge statistica» (FANTINI, p. 916).
Un suo studio sulla grandezza dei piselli – ed in seguito sull’altezza delle
popolazioni umane – mostrava come in ogni campione si manifestasse una
regressione verso la media della specie. Questa pericolosa tendenza rendeva
urgenti dei provvedimenti indirizzati ad una procreazione selettiva, che stabilizzasse nella popolazione determinati caratteri positivi che altrimenti, a
lungo andare, si sarebbero persi.
Il modo sembrava relativamente semplice: posto l’uomo come prodotto
di un’evoluzione biologica attuatasi – aveva insegnato Darwin – tramite la
selezione naturale, era evidente come l’aspirazione alla perfettibilità del genere avrebbe dovuto passare attraverso un suo rigido controllo, tramite una
sua versione artificiale, che si sarebbe dovuta fare carico di ciò che la natura,
per colpa della società moderna, non riusciva più a fare. Galton azzardava
quindi il passo che il suo illustre cugino non aveva ritenuto di dover fare e
cioè utilizzare, anche per l’uomo, quei metodi che gli allevatori usavano ormai da tempo per ottenere esemplari migliori delle diverse specie. Lo scopo
che si prefiggeva era quello di «classificare e incoraggiare la procreazione
degli individui di talento e di scoraggiare la riproduzione della massa di gente di qualità inferiore» (GILLHAM, p. 197).
Se l’idea di prendere per mano l’evoluzione poteva sembrare scientificamente attuabile, era tuttavia necessario risolvere alcune problematiche
preventive non certo marginali: verso quali scopi si sarebbe dovuta indirizzare l’evoluzione? Quali le discriminanti per ottenere individui geneticamente migliori? Galton aveva pronta la risposta: bisognava puntare
all’eccellenza, sia intellettuale che sociale. Egli finì con lo stabilire a priori
dei giudizi di valore intorno ai caratteri ereditari individuando quelli, a suo
avviso, positivi. Preceduta da una serie di scritti in proposito, nel 1869, dava
alle stampe l’opera che avrebbe segnato il fondamento del suo credo eugenetico: Hereditary Genius. Al suo interno vi sviluppava una gerarchia tra
capacità intellettive e morali in base alla loro efficacia nel garantire un proficuo adattamento sociale; quest’ultimo avrebbe determinato, a sua volta,
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successo nel lavoro e posizioni significative in posti di comando. Appariva
quindi sempre più necessario isolare e proteggere i caratteri ereditari eccellenti visto che «per merito delle pregevoli opere di Galton, sappiamo che il
genio … tende a essere ereditario» (DARWIN, 1994, p. 554).
Certo stupisce la sicurezza con cui Galton ed i suoi seguaci erano convinti della possibilità di favorire la trasmissione ereditaria di caratteri ritenuti «positivi» o «eugenici». Il punto era che essi ritenevano che praticamente
tutte le capacità umane fossero innate e quindi ereditarie: non soltanto le caratteristiche fisiche ma anche il successo, l’intelligenza, la moralità e non
ultimi anche comportamenti sociali strutturati. L’ignoranza pressoché totale
delle leggi dell’ereditarietà all’epoca rendeva tutto sommato plausibile questo punto di vista: si riteneva che ogni generazione avesse un potere enorme
sulle abilità naturali di quelle successive. Questa convinzione si rafforzò con
la riscoperta delle leggi di Mendel: molti scienziati si convinsero, erroneamente, che la componente che essi credevano ereditaria – e che investiva
praticamente ogni carattere dell’individuo – fosse determinata da un solo
gene mendeliano. Questo sembrò rendere possibile la valorizzazione dei caratteri eugenici, ma soprattutto l’eliminazione – con un’appropriata limitazione della procreazione – di quelli disgenici.
Emergeva da questo impianto un fatto assai significativo: ogni cosa risultava determinata da una stretta predisposizione biologica, senza possibilità di variazioni dovute a pressioni esterne, sociali o ambientali. Lo stesso
Darwin, a cui molti guardavano come ad un oracolo, era pronto a sostenere
«con Francis Galton, che l’educazione e l’ambiente abbiano scarso effetto
sulla formazione mentale degli individui, e che la maggior parte delle nostre
qualità siano innate» (DARWIN, 1982, p. 24). Per l’eugenetica quello
dell’ininfluenza ambientale doveva necessariamente essere un dogma: a cosa sarebbe servito creare individui migliori se poi l’ambiente avesse potuto
corromperli con la sua azione?
Tutto questo – nonostante l’apparenza contraria che assunse all’epoca –
non sarebbe andato al di là di un semplice credo razionalistico, non diverso
da quello che, in passato, aveva caratterizzato altri pensatori. Anche per
questo «gli elementi principali della dottrina proposta da Galton non vennero seguiti dagli eugenisti, né al suo tempo né in seguito» (BARRAI, p. 849).
Parecchi preferiranno archiviare l’ipotesi di matrimoni selettivi – che rimanevano invece per Galton un punto fondamentale – percorrendo invece la
strada, sicuramente più risolutiva, della sterilizzazione degli individui ritenuti disgenici.
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Accadeva parallelamente un fatto inquietante che non avrebbe mancato, in futuro, di far sentire il suo sinistro peso: lentamente l’eredità veniva
«interpretata all’interno di un nuovo linguaggio di economia politica che rifiutava la nozione di persona astratta e autonoma ed era invece incentrato
sul capitale fisiologico» (PICK, p. 270). Un capitale che solo lo stato con la
sua autorità avrebbe potuto amministrare con efficacia, essendo troppo pericoloso – per il futuro della nazione – lasciare agli individui le scelte in proposito. L’eugenetica, nel suo rigido determinismo, finì per trasformare la
società in un riflesso del campo biologico, creando pericolose commistioni
tra scienza e politica che spesso determinarono un circolo vizioso in cui
l’una si mise al servizio dell’altra e viceversa.
Galton si rese chiaramente conto delle difficoltà che comportava un
progetto esteso di regolamentazione della riproduzione, soprattutto in un paese liberale come l’Inghilterra, e proprio a questo scopo riteneva proficuo
che gli scienziati diffondessero i principi della dottrina eugenetica tra i cittadini. Egli immaginava un futuro in cui si sarebbero svolti matrimoni eugenetici dove i contraenti sarebbero stati forniti di certificati attestanti la loro attitudine o meno al matrimonio – valutata tramite una serie di test, di misurazioni e di dati relativi al proprio albero genealogico.
Tra scienza e pseudo-scienza
Emerge, leggendo le opere di Galton, un dualismo piuttosto significativo tra ciò che in esse risulta scientifico e ciò che invece non lo è minimamente. L’eugenetica veniva presenta come una scienza e, per i canoni
dell’epoca, sicuramente lo era. A testimonianza di questo vi erano diverse
circostanze: ad esempio Galton applicherà, per primo, in maniera innovativa
la statistica agli studi psicologici e popolazionistici. Non dobbiamo dimenticare che questa fu l’epoca in cui si ritenne «che misurazioni rigorose potessero garantire una precisione irrefutabile e potessero marcare la transazione
tra speculazione soggettiva e una scienza vera» (GOULD, p. 87); in questo
Galton fu sicuramente maestro, alle volte, al limite del ridicolo. Oltre a ciò
egli ricavò le informazioni che lo interessavano analizzando gli alberi genealogici di diverse famiglie onde scorgervi dati che avallassero le sue concezioni – ancor oggi la genetica, non potendo svolgere studi diretti su diverse generazioni, ne studia gli alberi genealogici alla ricerca, ad esempio, di
possibili malattie ereditarie.
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Altre caratteristiche non avevano nemmeno la parvenza della scientificità. I suoi studi partivano dal concetto fondamentale che ciò che era desiderabile in un individuo era rappresentato essenzialmente dal suo successo sociale. Risulta evidente l’arbitrarietà di tale affermazione, in quanto la sua
applicazione era decisamente fluida e lasciava una possibilità piuttosto ampia di modificare il proprio valore adattandolo ai diversi contesti. Proprio
questa problematica sarà foriera di immani disastri: quando, anni dopo,
all’integrazione sociale si sostituirà la razza, si forniranno – già elaborati ed
acquisiti – argomenti «scientifici» a folli progetti di selezione ed eliminazione razziale.
Definendo oggi giustamente l’eugenetica una pseudo-scienza, non dobbiamo tuttavia scordare che Galton non fu uno sprovveduto ciarlatano, e che
i seguaci dell’eugenetica furono «rispettati studiosi provenienti da varie discipline scientifiche, che avevano incarichi importanti in università prestigiose e pubblicavano i loro risultati sulle più importanti riviste accademiche» (FRIEDLANDER, p. 12). Significativo fu l’allinearsi dietro la «nuova» idea di Galton – in maniera massiccia nell’ultimo decennio
dell’Ottocento e fino alla sua morte nel 1911 – di molta parte del mondo
scientifico che ritenne, con lui, che il miglioramento dell’umanità fosse «uno dei più alti obiettivi che possiamo ragionevolmente tentare di raggiungere» (GALTON, 1909, p. 42).
Galton fu studioso di grande spessore, «genio dell’età vittoriana» (CAROTENUTO, p. 328). I suoi interessi investirono campi tra i più disparati
della scienza e notevole fu il livello dei suoi contributi in ognuno di essi. In
un primo tempo si dedicò alle esplorazioni – soprattutto in Africa meridionale – di cui è testimonianza il libro The Art of Travel (1852), che gli diede
una discreta fama. La gran mole di dati scientifici che raccolse in queste esplorazioni gli valse la medaglia d’oro della Royal Geographical Society. In
parte riferibili ai suoi viaggi furono le sue ricerche in campo meteorologico:
gli studi sui sistemi climatici lo portarono alla scoperta dell’anticiclone, che
a lui deve il nome; mise poi appunto quelle che sono considerate le prime
mappe meteorologiche dell’Inghilterra.
Questi significativi e lusinghieri risultati furono resi possibili principalmente dal suo interesse per la statistica – in cui è celebrato per il coefficiente di correlazione, o funzione di Galton, e per la teoria della regressione.
Le sue ricerche furono infatti tutte accomunate dall’insistenza sull’aspetto
quantitativo. Importante anche la sua attività di criminologo; mise infatti a
punto un nuovo metodo di identificazione personale: la registrazione delle
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impronte digitali. La tecnica venne immediatamente adottata da Scotland
Yard ed ancor oggi costituisce un sistema fondamentale di identificazione.
Fu poi pioniere nella psicologia sperimentale: «la psicologia nel senso moderno, scientifico, del termine ha inizio con Galton» (MEOTTI, p. 386); le
prove da lui ideate «per misurare l’intelligenza possono essere considerate i
primi test o “reattivi” mentali» (BERTI-BOMBI, p. 43). Approfondì inoltre i
processi che portano all’associazione visiva ed a quella verbale. I suoi notevoli successi contribuirono a rafforzare anche la valenza scientifica dei suoi
studi eugenetici.
La storia della scienza ha bollato come inconsistenti i principi su cui si
fondò l’eugenetica galtoniana: essa si configurò più come un impianto ideologico piuttosto che come un tentativo scientifico – anche se Galton fu convinto del contrario. I suoi asserti di base sono completamente invalidati: oggi conosciamo l’importanza dei fattori ambientali sulla formazione degli individui e la genetica ci ha mostrato come anche caratteri relativamente semplici siano determinati dall’intersezione di un numero molto elevato di geni;
inoltre «anche se fossimo capaci di dirigere la selezione, non avremmo alcuna idea di quale particolare miscela di talento dovremmo cercare di raggiungere» (MAYR, p. 571). Sappiamo poi che l’eliminazione di un carattere
recessivo da una popolazione si è dimostrato molto lento, tale da richiedere
– anche in presenza di forti pressioni selettive – migliaia di anni.
Precursore dello sterminio?
Diventa doveroso fare un bilancio delle responsabilità, vere o presunte,
di Galton in merito a quello che poi sarebbe accaduto in Germania trent’anni
dopo la sua morte. Possiamo anche condividere l’opinione che il suo anelito
di migliorare nelle generazioni future le qualità ereditarie non fosse un semplice scrupolo umanitario quanto piuttosto il desiderio – come sostengono
molti – di rinvigorire i fasti di un’Inghilterra coloniale ormai in decadenza.
La cosa non deve certo stupire quando il massimo teorico della società libera – John Stuart Mill – più o meno nello stesso periodo, nel suo saggio Sulla
libertà, scriveva che «il dispotismo è una forma legittima di governo quando
si deve trattare con barbari, a patto che il fine sia il loro progresso». Indubbiamente la scienza e il pensiero dell’Ottocento posero delle basi pericolose
a cui anche Galton contribuì non certo marginalmente.
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Se infatti è vero che egli dedicò la sua attenzione soprattutto sulla preservazione – tramite matrimoni selettivi – dei caratteri ritenuti eugenici, non
si può scordare come a suo avviso il primo obiettivo dell’eugenetica rimase
sempre «il controllo del tasso di natalità degli inadatti» (GALTON, 1908, p.
323); egli non giunse ad ipotizzare mezzi estremi, come l’eliminazione fisica – che da alcuni in quegli anni era proposta – pur parlando di segregazione. Comunque sia, piuttosto pesanti – forse eccessive – dovettero apparire le
sue responsabilità se Karl Pearson – discepolo e primo biografo di Galton –
nel 1924 scriveva: «non posso che credere che Nietzsche abbia preso la sua
dottrina del disprezzo e disdegno per il debole … da Galton» (PEARSON,
p. 119, nota 1).
Tutto questo ci porta sicuramente a condividere la considerazione secondo cui tutto sommato negli anni successivi «non vi fu alcuna indebita
strumentalizzazione totalitaria dell’eugenetica … [ma], solo una radicalizzazione del suo intrinseco potenziale discriminatorio» (FUSCHETTO, p.
22), che già in Galton è presente. Se infatti è vero che egli «usò la parola
“razza” in modo vago, per indicare un gruppo legato da una qualche sorta di
affinità ed ereditarietà», è altrettanto vero che anche lui – come tanta parte
del mondo scientifico dell’epoca – finì per dividere «l’umanità in razze ricolme delle solite virtù e stereotipi» (MOSSE, 1977, p. 83). Tuttavia il suo
non fu un punto di vista esclusivista: «coloro che presentavano qualità desiderabili erano ben accetti, qualunque fosse la loro origine» (MOSSE, 1980,
p. 1056). Il carattere messianico che, ai suoi occhi, finì per assumere
l’eugenetica, rendeva concreta la possibilità di una significativa spinta estremistica. L’eugenetica sarebbe dovuta diventare la nuova religione positiva: l’unica che avrebbe finalmente consentito di tradurre in realtà le vane
promesse di miglioramento del genere umano che da secoli tutti inseguivano. La straordinaria fortuna della nuova «scienza» galtoniana fu in gran parte determinata dall’intersezione tra ottimismo positivista, evoluzionismo e
pessimismo degenerazionista: essa, facendosi portavoce del pericolo di un
pervertimento sociale – avvertito come già operante nella società – ne offriva al tempo stesso una soluzione che pareva non solo percorribile ma, soprattutto, efficace e risolutiva. Solo la fine della seconda guerra mondiale
avrebbe svelato al mondo tutte le potenzialità del programma eugenetico
portato alle sue estreme conseguenze. Certo è che se Galton avviò il discorso sull’eugenetica furono tuttavia altri a portarlo a conclusione ben oltre le
sue intenzioni, con altri argomenti, altre idee, altri fini.
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Bibliografia
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24
Bibbia
Di generazione in generazio
generazione
MILENA MARIANI
D
a tempo non abbiamo più alberi. Non alludo al verde urbano o al più
generale problema ecologico, che pure costituisce uno dei capitoli di
quel trattato d’alleanza tra le generazioni che andrebbe riscritto, per evitare
di strappare a nipoti e pronipoti la gioia di godere della terra. Anche questo
sarebbe certo un argomento plausibile.
Ma per il momento parliamo di alberi genealogici. Da tempo non li coltiviamo più, comunemente. Sono rimasti un vezzo delle famiglie nobiliari,
gelose del proprio passato. A volte corrispondono alla realtà storica, altre
volte sono inventati di sana pianta (è il caso di dirlo) per accreditare la presunta nobiltà della famiglia. Pare che la passione stia fiorendo anche presso i
giovani americani, impegnati in costose trasferte in Europa alla ricerca delle
proprie radici.
Le genealogie
La memoria degli altri comuni mortali risale generalmente fino ai nonni. La nebbia si addensa già sui nomi dei bisnonni, poi più nulla. Non abbiamo più alberi genealogici che vengano passati di mano, di generazione in
generazione, e ci consentano, con un semplice colpo d’occhio, di capire da
dove veniamo e quale storia ci precede, di comprendere che non viviamo
soltanto di un presente che assomma un’ottantina d’anni o novanta per i più
fortunati, ma che la nostra storia personale si innesta in un tronco secolare e
si prolunga anche dopo di noi, si protende verso le generazioni che verranno.
La nostra coscienza del tempo e della vita rimane in un certo senso mutilata e rischiamo di sentirci isolati, come se fossimo i primi e gli ultimi, incapaci di avvertire e rendere effettivo, in termini di responsabilità storica, il
legame con chi ci ha preceduti nella vita e con coloro che ci seguiranno.
25
Forse m’inganno, ma questa restrizione della coscienza o, detto altrimenti, la
scomparsa dell’albero genealogico di ognuno e la cancellazione del passato
di ciascuna generazione rappresentano un nodo non secondario nella questione del legame sociale. Ed è a questo riguardo, in primo luogo, che mi
permetto di trarre qualcosa dalla sapienza biblica, apparentemente molto
lontana da noi, nata in culture profondamente distanti dalla nostra e tuttavia,
mi pare, preziosissima per comprendere anche la nostra condizione odierna.
Certo, il primo dato che colpisce è la differenza. Nella Bibbia le genealogie abbondano. Si cerca di ricostruirle per ogni cosa. Persino per il cielo e
per la terra, tant’è vero che il racconto della creazione si conclude con le parole: «Queste sono le tôledôt [le origini, la genealogia] del cielo e della terra,
quando vennero creati» (Gen 2,4a). E si prosegue poi – procediamo per esempi – con la discendenza di Caino e di Set; c’è addirittura una sorta di tavola dei popoli, che discenderebbero tutti quanti dai tre figli di Noè, chiamati Sem, Cam e Iafet (Gen 10,1-11,26); incontriamo la genealogia e la discendenza di Abramo, quella di Giacobbe e dei suoi figli, quella di Aronne e
di Mosè; i primi nove capitoli del primo libro delle Cronache sono occupati
da genealogie che partono da Adamo e arrivano al re Saul per preparare la
storia del re Davide. Ma forse le genealogie a noi più note sono quelle introdotte nei Vangeli di Matteo e di Luca: il primo parte da Abramo e, passando
per Davide e l’esilio a Babilonia, giunge a Giuseppe, sposo di Maria (Mt
1,1-17); Luca invece risale all’indietro da Gesù fino ad Adamo e poi a Dio
stesso (Lc 3,23-38).
Da moderni rimaniamo stupiti della disinvoltura con cui si cerca di stabilire una continuità tra le generazioni. In alcuni casi, è chiaro che
l’intenzione teologica prevale su ogni altra considerazione. In tutti i casi,
non importa l’esattezza. Importa stabilire relazioni, suggerire legami, ricondurre entro un quadro coerente quel che le diverse tradizioni riferiscono senza ordine. Domina su tutto la preoccupazione di affermare che la storia presente sgorga dalla passata, che tutto quel che esiste ha una ragion d’essere,
che ogni individuo appartiene ad un gruppo, ad un popolo e trova la propria
identità solo all’interno di questa rete di legami. Certo, nelle culture antiche
e ancor oggi in alcuni ambiti culturali il senso della collettività è tanto prevalente da schiacciare l’individuo. Nondimeno la nostra cultura è generalmente così individualistica da deprimere il senso dell’appartenenza a una
collettività e a una storia comune.
Se le genealogie antiche volevano sottolineare tutto questo e rendere intelligibile anche la vicenda personale attraverso la riconduzione ad un oriz-
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zonte più ampio, oggi la consapevolezza del legame tra le generazioni che si
susseguono è talmente indebolita che pare soffrirne non soltanto la responsabilità delle une verso le altre, ma anche, inevitabilmente, l’identità personale di ciascuno. In questo senso da tempo non abbiamo più alberi genealogici e la loro scomparsa fa soffrire. Rimane mutilata una dimensione decisiva della nostra storia personale. Si affievolisce la percezione di una storia
collettiva nella quale siamo inclusi e nella quale abbiamo responsabilità da
esercitare. Ci manca il passato per guardare con saggezza verso il futuro.
Anche il passato prossimo. E deve impensierire la scarsa conoscenza della
storia, persino della storia più recente, da parte delle giovani generazioni:
non per un motivo di erudizione, ma di formazione della coscienza, essenziale se si vuol immaginare la costituzione di nuovi legami tra le generazioni.
Terzo e quarto comandamento
Affiancherei un’ulteriore suggestione biblica. Si tratta del quarto comandamento a tutti noto: «Onora il padre e la madre». Un’indicazione impegnativa e non assoggettabile al gusto di ciascuno o alla moda del tempo.
Un punto qualificante di un ethos ampiamente condivisibile anche in un
contesto non ebraico e non cristiano. All’interno del Decalogo un occhio attento riconosce la differenza del terzo e del quarto comandamento rispetto
agli altri, come sottolinea efficacemente Paolo De Benedetti:
«Due soli comandamenti su dieci – il terzo e il quarto – sono positivi, esprimono cioè un
ordine anziché un divieto: santifica il sabato, onora i genitori. Sia l’uno che l’altro comandano un rapporto di santità con chi è prima di noi e ci ha fatti esistere. In un mondo
che fosse senza peccato, questi due soli comandamenti rimarrebbero sulle tavole di Mosè,
a descrivere la vita dei giusti. Ma anche in un mondo come questo, non buono, dove i
comandamenti indicano più le intenzioni divine che le azioni umane, essi sono legati alla
santità in maniera unica. Lo si vede nel passo del Levitico (19,1-3) in cui Dio comanda a
Mosè: “Parla a tutta la comunità dei figli di Israele e di’ loro: ‘Siate santi come [o: perché] io sono santo, il Signore vostro Dio. Abbiate rispetto ciascuno per sua madre e suo
padre, e osservate i miei sabati. Io sono il Signore vostro Dio’” … Ci si potrebbe chiedere
perché l’onore ai genitori venga innalzato e associato così intimamente alle “cose di
Dio”, alla sua stessa santità e, nel medesimo contesto del Levitico, addirittura anteposto
al divieto dell’idolatria. Eppure, questa posizione è essenziale e va riconosciuta se non si
vuol fare del quarto comandamento una logora esortazione moraleggiante».1
Può apparire un controsenso parlare di un comandamento antico per incoraggiare la creazione di nuovi legami sociali. Ma c’è da chiedersi se abbiamo capito bene questo comandamento, fondamentale per ristabilire relazioni di verità tra la generazione delle madri e dei padri e quella dei figli.
Forse l’abbiamo sempre inteso, appunto, come «logora esortazione moraleggiante», valida nell’ambito di culture patriarcali, nemica della generazione giovane, quella dei figli. Non è così. Ancora una volta è in prima battuta
un problema di identità personale: il terzo comandamento, che riguarda il
rapporto con Dio, ed il quarto, che gli è tanto prossimo, indicano l’unica relazione plausibile «con chi è prima di noi e ci ha fatti esistere».
Per la Scrittura basta questa precedenza, questo “debito della vita” a
giustificare l’onore da rendersi sempre ai genitori: «Ascolta tuo padre che ti
ha generato, / non disprezzare tua madre quando è vecchia» (Prov 23,22). E
ancora: «Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia / e non lo contristare durante la tua vita. / Anche se gli vien meno la mente, / abbine compassione / e
non disonorarlo nel giorno del tuo vigore. / L’aiuto dato al padre non sarà
dimenticato / e in sconto dei peccati ti sarà computato» (Sir 3,12-14).
Per quanto il comandamento di onorare i genitori, privo di deroghe, ci
appaia ben più profondamente motivato se, di nuovo, coltiviamo il senso del
“prima” e custodiamo la gratitudine per il dono della vita, non possiamo
sfuggire all’impressione di uno sbilanciamento persino eccessivo verso la
generazione dei padri e delle madri. Si può pensare di ristabilire soltanto così nuovi legami, un nuovo senso di responsabilità dei giovani verso i genitori, più o meno anziani? Certo, oggi il comandamento va riaffermato e riproposto con la profondità che merita: con troppa leggerezza si ironizza sul ruolo e l’autorità dei genitori, a partire dall’adolescenza e poi nel corso della
vita adulta; spesso essi vengono realmente abbandonati nella vecchiaia e con
loro i tanti anziani senza figli propri, affidati dunque al senso filiale di altri.
E tuttavia già la Scrittura provvede a un doveroso bilanciamento.
È particolarmente esplicito in due lettere paoline. Cito la versione più
breve: «Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi,
padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino» (Col 3, 20-21;
cfr. Ef 6,1-4). Mi pare anche questo un invito attualissimo, frutto di una sa1
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P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Bose 20062, pp. 37-42 («Un rapporto di santità con chi ci ha fatti esistere»); qui pp. 37-38.
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pienza senza tempo, ma forse preziosa soprattutto oggi, nella dilagante
fragilità delle giovani generazioni, che devono sempre essere incoraggiate e
alimentate nella loro speranza, e nell’altrettanto dilagante atteggiamento paternalistico, ben più che paterno, assunto anche dagli adulti di buona volontà
nei loro confronti. Nuovi legami intergenerazionali si possono stabilire solo
sulla base di un rispetto reciproco che nasce dalla consapevolezza di appartenere appunto a generazioni diverse, di coabitare nella stessa storia ma partecipando di mondi anche molto diversi.
rarlo, e ad amare il prossimo secondo la fede che hanno ricevuto nel battesimo».
Non è superfluo chiedersi se è questa pietas, questa amorevole attenzione a Dio e agli uomini, qui presentata come condizione per un’educazione integrale, ad attrarre effettivamente l’attenzione dei genitori. Almeno la
pietas verso gli uomini, perché, se non c’è, nessun legame sociale è possibile. La domanda si fa impegnativa anche in riferimento alle famiglie cristiane: davvero hanno in mente quel che si è detto come cardine dell’opera educativa?
Educare alla pietà
Il racconto e il rito
Mi pare che le due suggestioni bibliche – le genealogie e il quarto comandamento – ci offrano insospettabilmente elementi importanti per una
diagnosi non superficiale delle difficoltà che incontriamo e dei passi necessari per sanarle almeno un poco. L’imprigionamento nel solo presente e la
sottovalutazione di chi viene prima (o di ciò che viene prima) sono condizioni assai diffuse nella coscienza odierna e incidono, come ho cercato di
mostrare, sul rapporto tra le generazioni. Potrei aggiungere considerazioni
sull’altro grande assente dall’orizzonte dei legami: il futuro, cui non si guarda o si guarda solo con timore. Lo accenno soltanto, preferendo qui l’offerta
di due spunti ulteriori di riflessione non più nella direzione della diagnosi,
bensì della proposta. Come educare, se questa è la situazione? Su che cosa
puntare per favorire un nuovo legame sociale?
Il primo è uno spunto di carattere più generale. In un contesto culturale
come il nostro, complesso e per molti aspetti disorientante, chi educa dovrebbe sempre più concentrarsi sull’essenziale. Facile a dirsi; molto meno a
precisarsi. Mentre però mi interrogavo su questo “essenziale” (essenziale
proprio in vista di una ricreazione di legami tra le generazioni), mi è venuto
in soccorso un passaggio della Dichiarazione conciliare sull’educazione cristiana, la Gravissimum educationis, quasi dimenticata. Ebbene, parlando dei
genitori primi educatori (GE 3) – ma mi pare che la considerazione possa
essere estesa ad altri educatori e formatori, fatte le debite proporzioni –, i
Padri conciliari scrivono: «Tocca infatti ai genitori creare in seno alla famiglia quell’atmosfera vivificata dall’amore e dalla pietà verso Dio e verso gli
uomini, che favorisce l’educazione completa dei figli in senso personale e
sociale». E, poco più avanti: «Soprattutto nella famiglia cristiana … i figli
fin dalla più tenera età devono imparare a percepire il senso di Dio e a vene-
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Non posso evitare, infine, di sfiorare almeno – ed è il secondo spunto –
la questione della necessità di nuovi legami tra le generazioni anche in ambito ecclesiale. Non mancano probabilmente decisioni e atteggiamenti da
rivedere. Dovrebbe preoccupare una certa segmentazione educativa che non
riesce ad evitare isolamenti difficilmente ricomponibili. Ma mi limito anche
qui a due suggestioni, derivate dalla Bibbia e dall’esperienza ebraica e cristiana di secoli. Se tradizione c’è stata, se c’è stata trasmissione da una generazione all’altra dei contenuti della fede, se un qualche senso di Dio gli educatori hanno saputo custodire e alimentare di età in età, lo si deve in buona
misura a due punti di forza: la capacità di raccontare la propria fede, con la
vita certo, ma anche attraverso le parole giuste, il riferimento alle grandi figure e ai grandi eventi della Bibbia, per i cristiani la lettura condivisa delle
pagine del Vangelo e, accanto a questa capacità, la partecipazione comune
alle celebrazioni liturgiche. Il racconto e il rito, insomma.
Non è superfluo chiedersi se ancora sappiamo raccontarci la fede di generazione in generazione e se le liturgie, che ci vedono presenti con le nostre
differenti età, rappresentino realmente momenti dai quali il nostro legame
con Dio e tra noi esce rafforzato. Che non ci capiti di dover stilare il bilancio
della nostra storia con le sconsolate parole di Qoèlet (1,4): «Una generazione va, una generazione viene / ma la terra resta sempre la stessa».
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Politica
Autonomi, ma per cosa?
WALTER MICHELI
Lo scorso 1 giugno è scomparso improvvisamente Walter Micheli, uno dei protagonisti
della vita politica trentina degli ultimi decenni del Novecento, prezioso amico de “Il
Margine” (per la casa editrice ha pubblicato nel 2006 il volume Il socialismo nella storia
del Trentino). Vogliamo ricordarlo riportando quanto ci disse nel corso di una discussione redazionale tenutasi l’1 ottobre 2007, quando ci parlò del passato, del presente e
del futuro della condizione di autonomia in cui vivono la regione Trentino-Alto Adige e
le due Province di Trento e di Bolzano. Pensiamo che una riflessione sulla storia e
l’attualità di tale situazione istituzionale possa interessare anche al di fuori dei nostri
(spesso angusti) confini provinciali.
L’
autonomia trentina ha vissuto tre fasi. La prima va dal 1946 al 1972
(autonomia della Regione Trentino-Alto Adige); la seconda dal 1972
ad anni recenti (autonomia delle due Province di Trento e di Bolzano); una
terza fase si sta confusamente aprendo in questo periodo. È dunque opportuno rileggere i caratteri delle prime due fasi per comprenderne il significato, e
vedere cosa è cambiato rispetto ad oggi. Se infatti le prime due autonomie
(quella del 1946 e quella del 1972) sono state autonomie “rivendicative” nei
confronti dello Stato nazionale, oggi viviamo invece una stagione in cui sono lo Stato e le regioni vicine a rivendicare qualcosa rispetto a questa autonomia, non in riferimento al modo in cui si è storicamente fondata, ma per
come viene gestita.
Le prime due fasi
Il primo Statuto di autonomia fu realizzato nel secondo dopoguerra con
una sostanziale unità di intenti. Vi erano le posizioni di cui voleva “di più”
(l’ASAR) o di chi voleva “diversamente” (ricordiamo la famiglia Battisti e
Salvemini, che chiedevano più autonomia per il Sudtirolo e meno per il
Trentino); ma la linea che fu scelta fu sostenuta dai grandi partiti dell’epoca
(DC, PSI, PCI) e da un vasto consenso dell’opinione pubblica. La rivendica-
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zione storica dell’autonomia poggiava su un sentimento profondo e diffuso,
che portò ad una approvazione dello Statuto rapida e senza particolari problemi (specie se si confronta quel percorso con quello seguito da altre regioni autonome). Da un punto di vista culturale, si trattava di un progetto politico importante: in esso confluivano un respiro laico-socialista (il manifesto
scritto da Manci, leader della Resistenza trentina, per il quale l’autonomia
doveva poggiare su una dimensione federalista dello Stato, faceva riferimento al manifesto di Ventotene) e la capacità operativa propria della tradizione
popolare e cattolica: Degasperi poté tradurre politicamente quella esigenza,
a pochissimi anni da esperienze drammatiche.
Già pochi anni dopo, verso il 1956-57, si dovette rimettere mano a
quanto era stato creato. Purtroppo i protagonisti della politica locale, esponenti di una DC fortissima e supportata dalla Chiesa (episcopato De Ferrari),
avevano utilizzato la Regione come mezzo di controllo della minoranza sudtirolese, portando l’istituzione su un binario morto e addirittura causando
reazioni violente. La sinistra trentina, nell’epoca delle contrapposizioni frontali della guerra fredda, non aveva saputo intervenire con lungimiranza.
Fu una tragedia politica (che vide attentati con morti e feriti), dalla quale le forze politiche seppero, insieme, senza distinzione tra chi era al governo e chi era all’opposizione, trovare la forza per uscire, grazie anche ad un
consenso diffuso e popolare straordinario, che andava anche al di là della
capacità dei partiti di esprimerlo (e questo differenziò gli anni sessanta rispetto al 1946-48). Ciò va ascritto a merito anche della Chiesa trentina, che
a differenza del periodo precedente seppe avere un ruolo positivo (episcopati di Gargitter e Gottardi); e della cultura laica, che seppe recuperare la tradizione democratica riconciliandosi in una dimensione autonomistica che
negli anni precedenti non aveva sentito come propria, dandone un’interpretazione democratica e partecipata.
Anche la nascita del secondo Statuto di autonomia fu dunque permessa
da una grande partecipazione di popolo, con il consenso di quasi tutte le forze politiche (tranne MSI e PLI: molto meno del 10% dell’elettorato). Aldo
Moro riconobbe che il “Pacchetto” che diede vita a questa nuova fase non
sarebbe stato approvato senza l’impegno di tutta la sinistra (il PCI si astenne, ma valutando positivamente la questione). Ciò avvenne in una stagione
politica di centro-sinistra europeo (Kreisky in Austria e Brandt in Germania): le autonomie dei piccoli popoli possono svilupparsi meglio in contesti
di tolleranza, rispetto, distensione, concezione progressiva dei rapporti tra
popoli e culture (è più difficile che ciò avvenga in contesti diversi).
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Terza fase
Come si è accennato, nella terza fase dell’autonomia, che si sta oggi aprendo, non c’è più spazio per un discorso rivendicativo, generale o parziale; oggi al contrario è lo Stato, o le altre regioni, che chiedono conto al Trentino e all’Alto Adige/Südtirol della loro autonomia. E l’autonomia trentina,
tra le due, è certamente la più fragile; è riuscita a suscitare in poco tempo
moltissima antipatia. La reazione alle richieste di passaggio alla provincia di
Trento da parte di alcuni comuni veneti è stata di tipo puramente monetario
e quantitativo: una soluzione provvisoria che conferma implicitamente (a chi
ci guarda dall’esterno) che abbiamo una disponibilità finanziaria inesauribile, molti sensi di colpa e pochissima progettualità.
Da ormai trent’anni ci lamentiamo della prossima riduzione delle risorse finanziarie, ma di fatto sembra che i tempi delle “vacche magre” non arrivino mai. L’incremento parallelo delle competenze e del denaro a disposizione ha disincentivato ogni razionalizzazione, e le strutture si sono sommate l’una all’altra per sovrapposizione, senza coordinarsi: e una comunità in
cui conti sono pagati a piè di lista non può riuscire a fare l’inventario delle
priorità. Il disastro di Stava (1985)2 è stata la rappresentazione tragica di
questa autonomia fatta per compartimenti stagni: nessuno sapeva o voleva
sapere chi doveva andare a controllare i bacini che poi crollarono (i servizi
forestali, l’urbanistica, il settore minerario?...); è stato non solo una tragedia
umana, ma anche un momento di perdita di credibilità dell’autonomia trentina.
Arriviamo all’oggi: di fronte alla nuova stagione dell’autonomia trentina che si apre ci troviamo inadeguati, sia nella lettura critica dell’esperienza
che abbiamo alle spalle, sia nella progettualità. La stagione (almeno nelle
pretese) federalista dello Stato non può essere affrontata con una semplice
redistribuzione, quasi che basti rinunciare a un po’ di soldi. Viviamo ancora
come se l’autonomia potesse prescindere da un’interrelazione con una realtà
statale che si fa federativa; ci siamo chiusi in una semplice difesa della nostra “specialità”. Ma il problema non è per questo risolto, e i soldi servono
solo a passare la nottata. Per di più la classe dirigente interpreta questo meccanismo in modo pericolosamente autocratico: recentemente, in cambio
dell’assunzione dallo Stato di nuove competenze (cosa di per sé compatibile
2
con il federalismo), si è chiesto una presenza nella Corte dei Conti (e questo
non è l’autonomia o il federalismo, è l’insofferenza ai controlli). Inoltre il
continuo aumento di competenze pone il problema dell’esistenza, o meno,
delle energie che permettono di gestirle: davvero la comunità trentina ha le
capacità di farlo in modo migliore rispetto allo Stato? Più diventano complesse le competenze, più devi avere una comunità preparata a gestirle; ma
c’è un limite oggettivo e le capacità personali scarseggiano; per gestire le
competenze serve una “massa critica”, per poter gestire dei soldi non basta
un capitolato di bilancio.
Quale cultura autonomista?
Per affrontare la nuova situazione ci vorrebbe una forte coesione politica e sociale. Peccato che gli sforzi di crearla attorno ad una presunta tradizione di “differenza” rispetto alla vicenda italiana (la retorica del Land) finisca piuttosto con il creare ulteriori sfasature. Si dimentica infatti che le culture politiche di questa terra sono state due: quella cattolica e quella socialista. La “cultura” autonomista (che spesso è stata ed è semplice retorica
dell’autonomia) ha creato folklore e populismo, non altro; e non si vede perché oggi il Partito Democratico (nella sua versione locale) dovrebbe prenderla in considerazione. Eppure oggi tutti si dicono difensori dell’autonomia, quasi che sia blasfemo porsi in modo critico e non generico rispetto ad
essa. È un elemento di grave debolezza, dato che in conseguenza di ciò non
riusciamo più a declinare la storia dell’autonomia trentina nella cornice del
federalismo italiano ed europeo (quello che era stato di Manci, di Spinelli e
di Degasperi). Eppure solo questo lungimirante inserimento potrebbe dissipare le antipatie di chi dall’esterno vede l’autonomia solo come una difesa
dei privilegi.
C’è stato infatti un tempo in cui l’autonomia trentina attirava simpatia:
si riconosceva la nostra capacità di fare buone cose. Poi i nostri interlocutori
hanno cominciato ad aggiungere: “saremmo capaci di farlo anche noi, se avessimo i vostri soldi”. Oggi manca tutto questo: su molti fronti siamo proprio indietro, che si tratti dell’adesione al PD (il Trentino è l’unica provincia
in cui si è votato con una sola scheda, quella nazionale: gli apparati della
Su questa vicenda si rinvia a C. Ancona, Stava, vent’anni dopo, “Il Margine”, n. 6/2005, pp.
10-15 [n.d.r].
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34
Margherita e dei DS locali esistono ancora)3 o dell’applicazione delle normative europee (l’elenco dei ritardi è lunghissimo).
Cosa può far fronte a questa situazione? Quel che resta dei partiti è fragile: non c’è nemmeno la percezione degli scenari. La Chiesa balbetta. Forse
ci distingue ancora dal resto d’Italia una realtà sociale particolare (il recente
rinnovo dei consigli di amministrazione delle famiglie cooperative e delle
casse rurali ha visto al voto sessantamila persone – su cinquecentomila abitanti – per eleggere cinquemila rappresentanti: ed è quasi tutto volontariato).
Nel nostro territorio, molti degli enti (a cominciare dalle scuole dell’infanzia
e dagli usi civici) che altrove sono “privati” sono invece di proprietà comunitaria, e sono percepiti come tali. Questo tessuto sociale ha permesso al
Trentino di non essere a suo tempo completamente fascistizzato o berlusconizzato.
Avremmo dunque qualche motivo per non farci prendere da uno scetticismo paralizzante: ma questo vale solo mettendo insieme in modo corale
tutte le singole forze sfiancate (partiti, Chiesa, associazioni, movimenti). I
partiti – e tanto meno i singoli partiti – non basterebbero a fronteggiare la
situazione, a riprendere un’iniziativa o un progetto; una battaglia in solitudine sarebbe molto difficile. E la discussione sul federalismo dev’essere fatta
in modo serio, non a seconda se la Lega urla di più o di meno. Avremmo
ancora sorgenti non sperimentate nella nostra cultura democratica da cui attingere (Adriano Olivetti, Cattaneo…). Se ci fosse un progetto politico sostenuto da un consenso di popolo potrebbe aprirsi un’altra bella stagione.
3
Il PD Trentino è infine nato l’8 giugno 2008, dopo che la sconfitta elettorale di aprile [n.d.r.].
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Libri
A cinquant’anni dalle
Espe
Esperienze Pastorali
EMANUELE CURZEL
L
eggere un testo di Lorenzo Milani, com’è noto, non è solo un’esperienza intellettuale, per quanto intensa. È qualcosa che interessa il cuore e le
viscere, prima ancora che la mente. In termini filosofici forse si potrebbe
riassumere la questione in questi termini: il priore di Barbiana è un uomo del
Novecento e in quanto tale, anche quando ci presenta dati o situazioni che
ritiene pienamente oggettivi, ci parla con un tono tale da farci comprendere
che si tratta di questioni per cui “ne va” della sua vita stessa, della sua singolare ed irripetibile esperienza; che quelle realtà non solo lo interrogano ma
proprio lo scuotono, e vorrebbe che scuotessero anche noi, che costringessero anche noi a porci le domande fondamentali su noi stessi e sul nostro destino.
Sergio Tanzarella, autore di Gli anni difficili. Lorenzo Milani, Tommaso Fiore e le “Esperienze Pastorali” (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2007),
non è solo un profondo conoscitore di don Milani, ne è anche un ammiratore
e un innamorato; dal priore di Barbiana ha assorbito non solo l’interesse a
determinati temi e problemi, ma anche il modo di esprimersi, di comunicarci
la sua passione esistenziale che non lo lascia tranquillo e non ci lascia tranquilli. Un modo di avvicinarsi ai problemi del mondo che sfocerebbe facilmente nell’angoscia, se non vi fosse quel “passo indietro” che Milani fa,
quasi a ritrarsi dal delirio di onnipotenza (e di conseguenza dalla disperazione) di chi sente come propri i problemi dell’umanità. Un passo indietro di
tono evangelico: «quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato,
dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).
«Non propongo nessuna riforma. Non mi importa che il mondo vada meglio. Non consiglio le mie soluzioni. Non vorrei governar né la Chiesa né il mondo. Vorrei solo trovare
la via giusta sul modo nostro (di preti) di vivere nel mondo, di interpretare la storia che ci
passa davanti, di salvare il sacro che portiamo dal profano che ci circonda» (lettera a
Tommaso Fiore, 29 gennaio 1959, p. 240).
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Parole che ricordano quelle che Milani scriverà, qualche anno dopo,
nelle ultime righe della Lettera ai giudici:
«Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere
di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima».
Ci vuole dunque non solo un certo disinteresse per la condizione umana, ma anche un alto grado di astrazione rispetto alla propria stessa situazione esistenziale per non sentirsi provocati, per considerare i testi di Milani (e
questo testo di Tanzarella) un semplice oggetto di studio.
Milani annunciatore dell’alba
La ricostruzione storica offerta da Tanzarella nel primo capitolo è un
ampio affresco degli anni cinquanta, in Italia e nella Chiesa italiana: gli anni
durante i quali Milani elaborò lentamente e pazientemente le sue Esperienze
Pastorali. Una ricostruzione interessante e preziosa, perché ci ricorda quanto grande fosse, anche nell’Italia del secondo dopoguerra, la distanza tra il
dettato costituzionale (che indicava il lavoro come base della Repubblica) e
la realtà. Una situazione nella quale la repressione delle proteste operaie e
contadine da parte della polizia, tra il 1947 e il 1954, provocò l’uccisione di
109 lavoratori e l’arresto di quasi 150.000. E ci ricorda quanto profondo fosse il “collateralismo” della Chiesa italiana nei confronti della politica del
governo a guida democristiana. Quando nel 1958 il vescovo di Prato additò
come concubini due sposi che avevano celebrato un matrimonio civile, e fu
quindi condannato da un tribunale per diffamazione (in quanto il concubinato era un reato, e i due non erano affatto concubini), la reazione fu improntata al più esagerato vittimismo («come cattolici e come italiani non possiamo
pensare, senza fremere, che in Italia, come nella Cina comunista, i vescovi
vengono condannati»: così Il quotidiano, il giornale dell’Azione Cattolica
guidata da Gedda). La Chiesa dell’epoca pretendeva per sé uno status privilegiato, tendeva a confondere i piani e preferiva leggere qualunque questione come un problema politico, identificandosi con la parte al potere.
Solo qualche anno dopo, nel 1965, Milani affermò che Esperienze Pastorali era un libro «superatissimo» (p. 12). C’era stata infatti l’accelerazione impressa dal Concilio, da Giovanni XXIII e da Paolo VI; l’apertura di
una stagione nuova per quanto riguarda sia il rapporto tra società e politica,
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sia l’autocoscienza ecclesiale. Una stagione che era nata dalla coscienza dell’ormai raggiunta interdipendenza dell’umanità, ed era cresciuta con grande
lentezza a partire dalla seconda guerra mondiale. La solidarietà con l’umanità oppressa, la fine di una “politica cattolica” volta solo alla promozione degli interessi ecclesiali, l’accettazione della democrazia liberale laica come
spazio per l’agire libero anche della Chiesa, la necessità dell’ecumenismo si
imposero rapidamente (anche se, possiamo dire oggi, non definitivamente).
Esperienze Pastorali (o i testi di altri “profeti“: pensiamo a Mazzolari) va
allora letto come un testo di veglia/vigilia, scritto nella notte, capace di preannunciare ciò che si stava muovendo.
Il testo di Tanzarella si articola poi in altri tre capitoli: uno, filologicamente preciso, sul modo in cui Milani lavorò al testo, accettando tutte le
raccomandazioni del censore; uno dedicato alle reazioni provocate dal volume (che uscì dotato di imprimatur e con la prefazione di un vescovo, ma
fu infine tolto dal commercio per motivi di “opportunità”); quello finale riporta il carteggio tra Milani e Tommaso Fiore, un coraggioso intellettuale
pugliese, figura interessante e poco conosciuta. In appendice, la nota lettera
a Nicola Pistelli dell’8 agosto 1959 (pubblicata postuma), famosa per
l’espressione “un muro di foglio e incenso”, e nella quale c’è anche una lunga disamina sul tema della “solitudine del vescovo”.
«Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo “il loro bene” e cioè
che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di
non avere nulla da imparare, ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo, perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose
di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna» (pp. 260-261).
Una stagione rubata?
Non è solo Esperienze pastorali, o Lettera a una professoressa, o Lettera ai cappellani militari, o Lettera ai giudici, che oggi ci appaiono provocatorie e “inattuali”. Lo sono anche (vi sfido a leggerle) la Mater et Magistra, la Pacem in Terris, la Gaudium et Spes, la Populorum Progressio: testi
scritti in quegli stessi anni. La Chiesa, che per una breve stagione si pose a
capo di un mondo che credeva nel cambiamento, oggi ha dimenticato quei
testi, non solo non li annuncia più ma non li comprende neppure. Forse il
timore di apparire troppo “evangelica”, troppo “alternativa”, troppo poco
“prudente”? «Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare» – scriveva
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