Strutture di accoglienza nel mondo romano
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Strutture di accoglienza nel mondo romano
1 Vie e viaggiatori nel mondo romano Non c’è dubbio sul fatto che i viaggi e gli spostamenti di uomini e merci nel mondo romano siano stati straordinariamente favoriti sia dall’estensione dell’impero conquistato da Roma, sia dal sistema viario, inaugurato, com’è noto, nel 312 a.C. con la creazione della via Appia. Tale sistema, irradiandosi dall’Urbs verso le province, era corredato da infrastrutture di vitale importanza per chi si spostava per ragioni ufficiali, per il commercio o per turismo: acquedotti, ponti (laddove la natura del territorio li rendeva necessari), luoghi di sosta. Come diversi erano i motivi che spingevano al viaggio le diverse categorie di persone - mercanti, attori girovaghi, giovani colti e sbandati come i personaggi di Petronio, burocrati in missione, pellegrini diretti ai famosi santuari della religione pagana o ai luoghi santi della fede cristiana a partire dal IV secolo -, così differiva la scelta dei luoghi deputati al ricovero di ciascuna delle suddette categorie. In linea di massima, possiamo fin d’ora dire che, con l’unica eccezione dei burocrati che si spostavano per ragioni ufficiali, e degli aristocratici proprietari di villae sparse nelle province, tutti coloro che si muovevano nel brulicante mondo romano, rimandano ad un’idea di instabilità e disagio sociali, e quindi di marginalità: “Emarginati sono…coloro che non sono sedentari…anche pellegrini, comuni viandanti, dal momento che anche il semplice mettersi in viaggio, soprattutto dei poveri, ha in qualche misura un effetto di marginalizzazione”(Valerio Neri). Lungi dunque dal vagheggiamento di un’immagine romantica ed esotica del viaggio, esso era spesso esperienza di sofferenza, disagio fisico ed economico, sia quando le motivazioni erano il commercio o il lavoro in genere, sia quando si trasformava in cammino di purificazione dell’anima (nel caso del pellegrinaggio religioso), via verso un’esperienza trascendente, che già il paganesimo aveva conosciuto, ma sfrondata ormai di ogni elemento voluttuario. 2 Col diffondersi del pellegrinaggio cristiano si assiste ad un cambiamento nel modo di intendere il movimento degli uomini, per cui se durante la repubblica e l’alto Impero era considerato del tutto normale che i viaggiatori di modesta condizione si servissero di alberghi, cauponae e deversoria dalla pessima fama, nel IV secolo il vescovo Gregorio di Nissa tuonerà contro quei cristiani, i quali, recandosi in pellegrinaggio in Terra Santa, si fermavano a ristorarsi e a pernottare nei πανδοχεια, luoghi di perdizione per l’anima. E’ su questo tipo di infrastrutture per così dire “profane” che ci soffermeremo. Osservando la consuetudine, antica ed istituzionalizzata, dell'ospitalità privata, (per cui abbiamo un istituto giuridico ben preciso nel mondo romano, l’hospitium appunto), è possibile rilevare una linea di netta demarcazione tra il viaggiare dei romani facoltosi e gli spostamenti del popolo minuto. Per i cittadini romani ricchi le alternative di alloggio per la notte erano molteplici. Lasciando da parte il sistema di appoggi costituito dalle stationes del cursus publicus, di cui parleremo più avanti, possiamo ricordare la consuetudine dei romani agiati di fermarsi presso le proprie villae rustiche (definite anche deversoria) lungo le rotte di viaggio, facendosi annunciare da lettere inviate agli amministratori di tali proprietà, allo scopo di trovare pronte tutte le comodità necessarie dopo la fatica del cammino, quali il bagno e del buon cibo. Se il ricco era stato imprevidente in questo senso, poteva sempre contare sull'ospitalità di parenti ed amici, com'è il caso di Plinio il Giovane, il quale, durante un suo spostamento a breve raggio, fece sosta nelle proprietà della suocera, dislocate a Narni, Ocriculum, Carsulae, dove l'autore dice di aver ricevuto un'ospitalità magnifica. Grazie poi alle lettere di raccomandazione, si poteva contare sull'accoglienza nelle case di amici degli amici. Infine, laddove non era possibile fruire di queste forme di ospitalità privata, come ultima risorsa, grazie all'immancabile stuolo di servitori da cui i ricchi si facevano accompagnare durante i loro spostamenti, si sarebbero potute impiantare delle tende (e fu questa una soluzione indispensabile durante le lunghe trasferte in 3 aree relativamente povere di strutture di accoglienza, pubbliche o private che fossero). Difficilmente un ricco romano si sarebbe adeguato a pernottare in un albergo malfamato e mal frequentato: il caso di Catone l'Uticense - riportato da Plutarco - il quale, in mancanza di hospitium pubblico o privato, durante il suo viaggio in Asia Minore, mandava avanti i suoi servi a trovare alloggio per sé e il suo seguito in una qualsiasi locanda, può essere considerato un exemplum di semplicità spartana riportato dallo scrittore di Cheronea a fini edificatori o un’eccezione al costume più diffuso, che vedeva i nobili romani piuttosto schizzinosi quando si trattava di mettersi in strada. La realtà del viaggio, per il romano di bassa estrazione, era ben diversa. Costui, durante i suoi spostamenti, dovuti ora a motivi economici (da questi motivi erano spinti i commercianti all'ingrosso e al minuto, i marinai, gli uomini di fatica, la manodopera libera salariata - impiegata nelle campagne per i lavori stagionali e in città nel settore dell'edilizia privata - i retori di professione), ora religiosi (i pellegrini ai santuari pagani e, più tardi, ai luoghi santi della nuova fede) o per semplice vagabondaggio, poteva comunque attendersi di trovare il proprio cammino punteggiato da strutture di accoglienza, le cui caratteristiche gestionali, tipologiche, sociali (nel senso delle categorie di persone che tali luoghi frequentavano), cercheremo di chiarire. Dalle fonti latine, che riportano notizie casuali su questi luoghi di alloggio, ristorazione e riunione sociale (e politica, come vedremo nel caso di Pompei), ricaviamo un'unica, confusa immagine di fumo, sporcizia, loschi traffici e malcostume. La realtà, come sempre accade, dovette essere molto più ricca di sfumature. Il lessico usato dalle fonti ci soccorre in qualche modo nel cogliere le differenze tra i diversi servizi offerti ai viaggiatori; tale lessico è stato studiato dallo svedese Kleberg nel 1957, nel primo lavoro sistematico e scientifico sugli alberghi 4 nel mondo romano, da cui possiamo ricavare le caratteristiche sostanziali delle strutture di cui si sta parlando. Se è vero che il nome dell'oste e dell'albergatore si identificano (caupo al m., copa al f.), il termine deversorium (a parte l'accezione che abbiamo visto per l'età repubblicana, quando, in Cicerone soprattutto, indica l'alloggio privato, affine alla villa rustica, luogo di appoggio per i romani in trasferta da una proprietà all'altra), indica l'albergo nel senso moderno del termine, ovvero un luogo dove, dietro pagamento, i viaggiatori potevano trovare un letto per trascorrere la notte al coperto. Popina è invece un termine di origine osco-umbra, e indica una struttura più vicina ai nostri ristoranti o osterie, dove si trovavano bevande e cibi pronti, ma non camere per dormire (occasionalmente erano annesse camere per l'esercizio in loco della prostituzione). Si mangiava seduti su delle seggiole o delle panchette. Lo stabulum (propriamente "stalla") era un albergo, in genere alle porte della città, dove vi era uno spazio - di solito una corte interna, come negli edifici adibiti a mansiones - per la sosta dei carri e il foraggiamento di cavalcature e bestie da traino. Il titolare dell'esercizio era lo stabularius, accostato ai caupones anche nei testi giuridici. Un termine ambiguo è caupona, designante nelle fonti sia l'albergo per pernottare, che l'osteria in cui bere e mangiare. Hospitium è in generale il luogo in cui si riceve ospitalità e per traslato il termine è passato ad indicare l'albergo, specie nell'area di Pompei: un'iscrizione, tra le tante pervenuteci su queste attività, ricorda i "comfort" dell'Hospitium Sittii. Taberna indica in genere un locale con un bancone per le vendite; quando essa è legata ad una qualche attività di ristorazione il termine presenta nelle fonti l’aggiunta di un aggettivo come deversoria o vinaria. Un’unica attestazione epigrafica reca il termine centenaria, che, secondo Chevallier, “si riferisce ad alberghi non ufficialmente appartenenti al cursus publicus”. 5 Diversa era anche la tipologia architettonica e il mobilio con cui erano arredati questi esercizi pubblici gestiti da privati, il cui status sociale vedremo in seguito. Per chiarire questo punto, abbiamo l’aiuto delle fonti letterarie e di quelle archeologiche, specie pitture murali e iscrizioni, tra cui annoveriamo i tanti graffiti lasciati sui muri delle taverne da avventori, che lo sfogo immediato del sentimento spingeva alla lamentela, alla facezia arguta o all’aperta oscenità. Gli stabula mostravano un’architettura simile a quella delle mansiones, ma avevano estensione più limitata. Collocati alle porte della città o comunque lontani dal centro, avevano un’anticamera a pianterreno, fiancheggiata da entrambi i lati da camere di modeste dimensioni; attraverso l’anticamera si usciva sul retro, dove un cortile era adibito alla sistemazione delle vetture. Il secondo piano era occupato da camere da letto, mentre altre della stessa tipologia si affacciavano sul cortile interno al primo piano. Le cauponae avevano un bancone esterno che fungeva da “bar”, di cui usufruivano i passanti e i clienti occasionali, separato dalla sala all’interno dove si mangiava, destinata ai viaggiatori che lì pernottavano. Le facciate potevano essere dipinte con soggetti relativi al commercio che in quel locale si praticava, dunque disegni di cibi, giare o scene erotiche. Gli scavi a Pompei hanno riportato alla luce indimenticabili spaccati di vita quotidiana: non è un caso che ogni storico del costume o della società di Roma non possa, da sempre, esimersi dal fare riferimento alla città campana, come ad un centro che con Roma condivideva il chiasso, la vita frenetica, le battaglie elettorali, le bettole e i postriboli: in una parola, il gusto del vivere per le viae e le piazze. Gli alberghi rinvenuti a Pompei sono tutti di modeste dimensioni; in essi si contano solo una dozzina di camere da affittare. Sempre rifacendoci alla ricerca di Kleberg, ben 138 sarebbero i locali pompeiani destinati all’alloggio e alla ristorazione dei viaggiatori, situati, in base alla tipologia, o alle porte della città (stabula), o in prossimità del centro cittadino, dove si concentrava la vita del mercato, del teatro, 6 delle caserme dei gladiatori, delle terme, ma mai presso i templi, gli edifici di rappresentanza del potere o i quartieri residenziali. Ai dati archeologici già da tempo in nostro possesso relativamente al sito dell’antica Pompei, si aggiungono le notizie diffuse dall’Attività dell’Ufficio Scavi, che ha notificato, tra l’altro, le indagini dell’”Anglo-American Project in Pompeii”, rivolte allo studio delle infrastrutture situate lungo la Via Consolare, destinate allo smercio di cibi e bevande e all’offerta di ospitalità. Inoltre, in località Murecine, nel tratto tra Castellammare di Stabbia e Scafati, si è approfondita l’indagine su un complesso architettonico venuto alla luce per la prima volta nel 1959, composto da due edifici collegati tra loro, ma con diverse funzioni: quello orientale sarebbe un hospitium, l’altro, a ovest, un impianto termale. La presenza di ampi triclinii aperti verso il peristilio, la decorazione parietale, riconducibile al IV stile (c.d. “fantastico”, per la comparsa di motivi irrazionali), le scene mitologiche dipinte, le stanze di soggiorno al piano superiore con pavimento a mosaici, sono tutti elementi che farebbero pensare ad un rarissimo albergo a cinque stelle dell’antichità. L’edificio, collocabile cronologicamente alla metà del I sec. d. C., nella fase post-eruttiva dovette cambiare proprietà, e, secondo una seducente ipotesi, dovette passare ai Sulpicii, ricchi banchieri di Pozzuoli, come suggerirebbe anche il ritrovamento nella cucina dell’edificio di lastre di marmo su cui si legge SUL. Il probabile hospitium dei Sulpicii fu un’eccezione nel panorama alberghiero dell’antichità. La norma era un’altra , poiché l’interno di una caupona era il più delle volte infimo. Le camere per passare la notte erano modestissime, sia per dimensioni, che per l’arredamento: un letto, piccolo e spesso sbilenco, un materasso di giunco e gli immancabili parassiti che infestavano i materassi. Le stanze destinate agli svaghi amorosi avevano dipinti murali consoni. Anche i dipinti ci aiutano a ricostruire l’atmosfera di alberghi e ristoranti: così la scena della caupona di Salvius a Pompei, che raffigura clienti in mantello da 7 viaggio seduti intorno a una tavola, serviti da un piccolo schiavo; al di sopra della tavola, pendono formaggi e salsicce. Il gioco dei dadi era praticato dovunque in questi locali. Nelle sale da pranzo, il mobilio era costituito da tavoli, sedie, banchi in muratura, dolia (giare), banconi ricoperti con lastre di marmo rivolti verso la strada, riscontrabili soprattutto nell’impianto delle tabernae, luoghi questi, come i thermopolia, destinati soprattutto alla vendita di cibi e bevande ai passanti. Se guardiamo alle infrastrutture ricettive di Roma antica, noteremo che per la capitale dell’Impero abbondano le testimonianze letterarie, mentre si contano in numero nettamente inferiore quelle archeologiche. L’impressione generale che dalle prime si ricava è quella di un’atmosfera intrisa di sudiciume fisico e morale. La terminologia usata dalle fonti non è lusinghiera: salax taberna (Catullo), arcana taberna (Properzio), uncta popina (Orazio), accanto a lamentele sui rumori e il chiasso che provenivano da questi luoghi, spesso situati in vicinanza delle terme, un trambusto vivacemente descritto anche da Seneca nell’epist. 56 a Lucilio. Quanto alle testimonianze archeologiche, il problema di fondo è costituito dalla difficoltà di distinguere l’uso e la destinazione delle strutture venute alla luce a Roma tra insulae e impianti termali, strutture che presentano caratteri architettonici ambigui: ad es., nel centro di Roma, non molto lontano dal foro, è stato rinvenuto un edificio dotato di trenta cubicula tutti uguali, comunicanti grazie a corridoi bassi e stretti. Difficile stabilire se si trattasse di uno stabilimento con camere d’affitto per i viaggiatori o di un lupanare, o magari di entrambi. Per l’Italia e le province, la presenza di alberghi è denunciata sia dagli autori antichi che dalle epigrafi, che fungevano per lo più da insegne per gli stessi locali. A nove miglia da Roma, sulla via Flaminia, una cauponula fu teatro dell’ennesima ubriacatura di Antonio, il quale trascorse lì tutta una notte bevendo se occultans (secondo l’espressione usata da Cicerone in una delle sue Filippiche): 8 infatti non sarebbe stato dignitoso per colui che pretendeva di essere l’erede di Cesare farsi riconoscere in un luogo così squallido. Orazio accenna all’ hospitio modico di Aricia, sulla via Appia, ad una ventina di chilometri da Roma, nonché ai cauponibus…malignis di forum Appi (una località corrispondente probabilmente al villaggio di San Donato). Ad Interamnium, in Umbria, in una taberna lungo la strada, Dolabella fu ucciso nel 69 d. C. per ordine di Vitellio: un altro caso in cui le osterie furono teatro di crimini. La penna mordace di Giovenale menziona diverse osterie, probabilmente dislocate tra Roma e Ostia, frequentate dalla viziosa nobiltà dell’Alto impero, tra cui si annovera il debosciato Plauzio Laterano, uno degli amanti di Messalina, console designato nel 65 d. C., che il poeta satirico definisce mulio consul (il console mulattiere), bramoso di trascorrere le sue notti nelle popinae. A Ostia costui si caccia in una magna popina, in mezzo alla compagnia indiscriminata di ladri, assassini, becchini, schiavi fuggitivi e molli sacerdoti di Cibele. Tra le tante osterie e thermopolia scavate ad Ostia, possiamo far menzione di quella di Fortunato, della popina detta “dei Sette Sapienti”, e del thermopolium della via di Diana. Dalle iscrizioni sono attestate popinae a Tivoli, Lione, Isernia e Catania, dove nel 1918 è venuta alla luce “una cella ipogeica di forma rettangolare” scavata dall’Orsi e interpretata da Manganaro nel 1962 quale “sala da pranzo di un hospitium o di una caupona”, sulla base delle scene dipinte con Eros e Mercurio, nonché per la presenza di graffiti evocatori di donne, e di un’iscrizione che ricorda tre adulescentes, uno dei quali si sarebbe dilettato in quel luogo con una donna (sicuramente una prostituta, portando l’iscrizione la data del 16 agosto, festa di Cerere, durante la quale le donne dovevano rispettare nove giorni di castità), e gli altri due presumibilmente tra loro (se così si deve intendere l’espressione latina Hic sibi suabiter fecerun(t)). Dalle fonti letterarie ed epigrafiche ricaviamo dati sul personale che lavorava in queste strutture, sui proprietari, sulle modalità di rifornimento delle derrate messe 9 in vendita, sui prodotti e i servizi in genere che gli avventori trovavano nelle cauponae e nei deversoria; infine, qualche rara e preziosa notizia sui prezzi. I proprietari dei grandi deversoria dislocati lungo i principali itinerari di viaggio (deversoria privati, che andavano ad integrare il sistema delle mansiones del cursus publicus), erano proprietari terrieri, i quali affidavano la gestione di tali strutture ai loro intendenti (institores), liberti o schiavi che fossero: era questo un ottimo sistema per inserire nel circuito commerciale il vino e le derrate prodotti nelle loro terre. Tra i nomi o le semplici indicazioni di nazionalità di osti e albergatori fornitici dalle fonti, è impossibile stabilire se si trattasse dei proprietari degli esercizi o solo di gestori. Si trattava comunque quasi sempre di uomini e donne di origine servile, provenienti dalle province orientali dell’Impero: siriani, greci, ebrei. I cibi serviti andavano dalla carne (bovina e suina) al pesce, dai legumi al formaggio, alla frutta e, naturalmente, il vino, non sempre di ottima qualità. Le fonti di rifornimento dovevano essere piccoli commercianti al minuto, che si recavano alle grandi fiere agricole stagionali, se dobbiamo prestar fede ad un passo di Apuleio, in cui a parlare è Aristomene, un mercante che viaggiava tra Tessaglia, Etolia e Beozia per vendere miele, cacio e altri generi da osteria. I prezzi dovettero essere piuttosto modici, a giudicare dal tipo di clientela e dal servizio offerto, sebbene soggetti, com’è logico, alla fluttuazione del valore del circolante e della situazione relativa alla produzione del vino e delle altre derrate. Per la metà del II sec. a. C. sappiamo da Polibio che nella ricca Cisalpina gli alberghi fornivano tutto il necessario ai viaggiatori (cioè vitto e alloggio), per la somma complessiva di un semiasse (ovvero un quarto di obolo). Il dialogo inciso al di sopra del bassorilievo di Isernia, nel Sannio, datato al I sec. d. C., ci dà la cifra di un asse, rispettivamente per il pane e il vino, due assi per il pulmentarium – tanto quanto per il fieno del mulo -, e otto assi per la ragazza messa a disposizione dall’ostessa. 10 Le iscrizioni pervenuteci in funzione di insegne di richiamo si rivolgevano direttamente al viaggiatore, elencando i pregi e i servizi della casa, unitamente a disegni raffiguranti per lo più animali. In linea di massima, a giudicare dalla descrizione dei locali e dalla cattiva frequentazione, non si doveva trattare di luoghi né tranquilli né tanto meno confortevoli. La clientela era costituita da piccoli mercanti, giocatori di dadi, beoni, ladri, schiavi fuggitivi e nobili debosciati (come il già ricordato Plauzio Laterano). Si aggiunga a questo quadro già così poco idilliaco, un elemento non trascurabile, ovvero la pessima fama di cui godevano osti e albergatori, accusati non solo di adulterare il vino, ma anche di compiere magie e sortilegi ai danni dei viandanti. Possiamo in ciò concordare con Andrea Giardina sul fatto che “parlare delle figure sociali in Roma…significa in massima parte discorrere del modo in cui queste figure erano viste dai ceti che hanno prodotto le fonti che noi utilizziamo”; ma a ciò dobbiamo aggiungere che la diffidenza espressa dalle fonti è ampiamente condivisa dal potere centrale, il quale accomunava, sotto la sorveglianza degli edili, i capitani di nave, gli osti e gli stabularii. Si consideri poi che taverne, osterie, alberghi, in qualità di luoghi di riunione della plebe turbolenta e sfaccendata, erano parimenti guardati con sospetto dal governo, in quanto posti in cui si fomentavano le discordie politiche e il malcontento verso il potere costituito. Per limitare in qualche modo l’afflusso di sfaccendati nelle osterie, già a partire dall’età giulio-claudia, furono emanati provvedimenti imperiali atti a frenare la vendita di cibi troppo raffinati nelle locande, limitando il consumo a pietanze semplici, come cavoli e legumi, ed escludendo la carne. Per porre un freno alle attività criminali che sembravano trovare terreno fertile in queste strutture ricettive, in età severiana il giurista Ulpiano (Dig. 47, 5, 1-6) ribadisce la responsabilità del caupo in relazione ai furti che si dovevano verificare sovente ai danni degli avventori negli alberghi. Il fine immediato del provvedimento 11 era quello di prevenire ogni illecita connivenza tra ladri e osti. Tra i sospettati, era naturalmente incluso il personale impiegato nelle cauponae. Ancora nel IV sec. d. C. Ampelio, prefetto urbano negli anni 370-372, stabilì che le tabernae vinariae non aprissero prima dell’ora quarta (le dieci del mattino) e che prima di quell’ora nessun vivandiere mettesse in vendita carne cotta. Allo stesso modo gli honesti non dovevano far cattiva mostra di sé mangiando in pubblico. Quanto finora detto riguarda l’ospitalità gestita da privati e vòlta ad un’utenza privata (non costituita cioè da burocrati e membri dell’entourage governativo). Secondo la testimonianza di Svetonio, fu Augusto ad avvertire per primo l’esigenza di un’organizzazione statale che regolasse i trasporti ufficiali di lettere, notizie, merci, nonché i viaggi di governatori, officiales e burocrati in genere, organizzazione che prese il nome di cursus publicus. Non conosciamo con precisione la data a partire dalla quale i luoghi di sosta comunemente chiamati mansiones nacquero con l’organizzazione e la struttura in parte documentate dai resti archeologici e descritte nelle fonti. Tuttavia il termine mansio, nella sua derivazione dal verbo manere, è usato dalle fonti letterarie in un’accezione che segue una parabola semantico-evolutiva, che si estende dal significato di “soggiorno”, riscontrabile in fonti di età repubblicana, a quello di luogo di tappa in fonti più tarde (con la menzione precisa del luogo in cui la mansio fisicamente sorgeva, segnando appunto una tappa del viaggio), fino a indicare, per traslato, i giorni di marcia. Le mansiones, infatti, essendo collocate a un giorno di cammino l’una dall’altra (circa 40 km di distanza), scandivano i giorni di viaggio e le soste del viaggiatore. Un esempio luminoso di un tale modo di computare il cammino da parte dei viaggiatori romani ci viene dall’itinerario redatto da un anonimo pellegrino, il quale ai tempi di Costantino, verso il 333, compì una peregrinatio religiosa da Bordeaux a Gerusalemme, pertanto il testo è noto come Itinerarium Burdigalense. 12 L’anonimo redattore dell’itinerario si è limitato ad elencare i nomi di tutte le stazioni di posta romane, indicando le distanze, nonché i confini delle province. Le sue tappe di viaggio furono ora città lungo la strada, ora mansiones, che sorgevano lungo le arterie principali del sistema viario, quando non anche in aperta campagna. Da questo scritto ricaviamo che il pellegrino, da Bordeaux al confine italico, attraversò undici mansiones, e che da Poetovium, lungo l’Illirico e la Tracia, incontrò solo quattordici città, ma ventotto mansiones supplivano alla rarità di strutture urbane. Attraversando poi l’Asia Minore fino al limes della Cilicia, si fermò in quindici mansiones, le quali anche in questo tratto supplivano ampiamente alla scarsa densità urbana; al contrario, proseguendo lungo la costa da Tarso a Gerusalemme, toccò venti città, fermandosi solo in sette mansiones. Quel che qui importa notare è come, da una fonte scelta come caso esemplare di itinerarium adnotatum, è possibile ricavare una media della distanza tra una mansio e l’altra, nonché il dato in base al quale tra due mansiones vi erano da sei a otto mutationes. Possiamo affermare che le mansiones – nella loro qualità di luoghi di pernottamento - risultavano più indispensabili per i viaggiatori rispetto alle mutationes, poiché non si viaggiava di notte nell’antichità. L’importanza delle mansiones come luoghi di ristoro e di pernottamento si evince anche dal resoconto di viaggio di un’altra pellegrina (della fine del IV sec. d.C.), Egeria, una nobildonna di probabile origine spagnola o, secondo alcuni, gallica. Sebbene molto parca di notizie sulle infrastrutture ricettive, nel racconto del viaggio di ritorno lungo le rotte del deserto sinaitico, Egeria menziona le sue soste presso le quattro mansiones che separavano Clysma dalla mansio Arabiae, dove il suo seguito usufruì delle comodità del cursus publicus, compresa una scorta di soldati a presidio per le successive mansiones. Queste ultime erano strutture di grandi dimensioni, dovendo comprendere camere per i viaggiatori ufficiali, horrea per immagazzinare il capitum per le bestie e le species annonariae per gli uomini 13 autorizzati a prelevarne (soldati in primo luogo), nonché stalle per le cavalcature e alloggi per il personale fisso, quali veterinari, stallieri, schiavi pubblici. Probabilmente una mansio così strutturata è quella che le fonti chiamano mansio instructa (CTh. 1, 16, 12 e 11, 1, 22). Accanto a strutture prettamente rivolte alla ricezione dei viaggiatori, intorno alle maggiori stazioni del cursus gravitavano anche officine e magazzini, ovvero dei punti di vendita di prodotti finiti, rendendo così tali stazioni “punti nevralgici della catena di distribuzione delle merci”: infatti, intorno a molte mansiones sono state rilevate attività manifatturiere, nonché la presenza di forni per la lavorazione dei metalli. Nella Tabula Peutingeriana , mirabile esempio di cartografia antica, rientrante nella categoria degli itinerari dipinti (itineraria picta) così chiamata perché posseduta originariamente, e in parte pubblicata, dall’umanista Konrad Peutinger, copia medievale di una “mappa” risalente probabilmente al III sec. d.C., con aggiunte e correzioni del IV-V secolo, le raffigurazioni individuate dagli studiosi di questo documento come stazioni di posta sono divisibili in varie tipologie, alcune delle quali ricorrono con particolare frequenza, ad es., la “doppia torre” rappresentata frontalmente. Di questa tipologia di base sono visibili numerose varianti nella Tabula, interpretate dagli studiosi come indicazione di luoghi di sosta particolarmente attrezzati: è il caso degli edifici a pianta rettangolare, in cui è visibile “dall’alto” una corte centrale (ed è questa la tipologia di cui si hanno i maggiori riscontri in campo archeologico). In altre fonti iconografiche – coperchi di sarcofagi, bassorilievi, mosaici – le strutture legate al cursus publicus, che abbiano anche una funzione ricettiva, sono sempre simboleggiate da edifici a due piani. Un paio di questi complessi, che possiamo citare a titolo esemplificativo di stationes delle province orientali, sono stati rinvenuti negli anni ’50 del secolo scorso, lungo l’antico tracciato della strada romana che da Gerusalemme conduceva a 14 Gerico. Di particolare interesse è la stazione venuta alla luce sulla riva nord del wadi es Sidr, lungo l’attuale strada da Amman a Gerusalemme. Possiamo innanzitutto notare come, pur tenendo conto delle trasformazioni geomorfologiche che il terreno ha subìto nel corso di oltre duemila anni, fosse di vitale importanza costruire le stazioni di sosta lungo un corso d’acqua (sebbene a regime torrentizio, come il wadi), specie nelle aride regioni orientali, per l’abbeveraggio di asini e cammelli, oltre che per le necessità dei viaggiatori. Per le caratteristiche del sito su cui sorge la stazione e per la tecnica di costruzione, analoga per molti punti a quella dei campi militari, essa doveva avere notevole importanza strategica per i soldati preposti alla sorveglianza della vallata del Sidr. L’edificio principale è costituito da un grande rettangolo di 27 m. di lunghezza per 15 m. di larghezza, circondato da altre strutture, quali una piccola fontana, un grande serbatoio d’acqua e un altro piccolo edificio quadrato. L’edificio principale è occupato, al suo centro, da una grande corte interna, di m. 14x9, verosimilmente a cielo aperto; di particolare interesse sono le tre sale che attorniano questo edificio sui lati ovest, nord ed est, forse destinate all’alloggio del personale fisso di servizio o anche agli occasionali avventori autorizzati a servirsi di questa sistemazione grazie ad un’evectio. Quanto alla datazione di questo complesso architettonico, Beauvery – sulla scorta di Kuhl e Abel, i quali hanno proposto una loro datazione per la strada romana che si snoda accanto alla statio - collega la sua edificazione all’acquartieramento della Legio Fretensis durante la guerra giudaica. Sebbene ci siano state altre ipotesi sulla data di costruzione di questa via (e dunque della stazione di posta), non c’è dubbio che su questo antico tracciato fosse attivo il cursus publicus, com’è provato, tra gli altri elementi, anche dalla lettera di un legionario impegnato su questa strada, il quale, oltre a mandare dispacci ufficiali lungo le strade del limes orientale, inviava missive ai genitori rimasti in Egitto. Anche in quest’ultima provincia il sistema viario romano era ben strutturato in età imperiale: qui possiamo ricordare la strada da Copto a Berenice e la “nuova strada di Adriano”, 15 da Antinopoli a Berenice, entrambe munite di fortini per le guarnigioni, mansiones e alberghi. In Occidente una mansio è stata riconosciuta anche nella villa di Albisola, in Liguria, in corrispondenza dell’Alba Docilia segnata dalla Tabula Peutingeriana, tra le stazioni ad Navalia e Vigo Virginis, lungo la via Iulia Augusta. Si tratta di un ampio complesso (circa 8000 mq), con un gran numero di cubicula affacciati su un peristilio centrale porticato, un capillare sistema di distribuzione idrica e un settore termale: gli spaziosi ambienti (forse stalle, o magazzini per il rifornimento di viveri), disposti intorno all’estensione planimetrica della corte centrale, e la sua posizione, lungo l’importante via costruita sotto Augusto tra il 13 e il 12 a. C., sono elementi che, accanto a quelli già elencati, fanno pensare più ad un edificio destinato all’esercizio pubblico che non ad una dimora privata. Si tratterebbe dunque di un’importante stazione postale situata lungo la via litoranea da Genua ad Albingaunum. Ancora un’ipotesi d’identificazione con una mansio è stata avanzata per il complesso insediativo di età imperiale venuto alla luce nella primavera del 1991 alla periferia sud di Messina, in località Pistunina. Sebbene alcuni studiosi abbiano ipotizzato che si possa trattare della villa di Melania iuniore, altri, considerando la sua ubicazione lungo la strada costiera per Catane e la sua vicinanza a Messina, hanno pensato piuttosto ad un’estesa mansio, sviluppatasi a partire almeno dall’età medio imperiale. Possiamo dunque affermare che tratti salienti degli edifici adibiti a mansiones fossero: 1) la prossimità ad un’arteria del sistema viario romano; 2) l’esistenza di un grande cortile centrale; 3) la costruzione di un buon numero di cubicula per l’accoglienza dei viaggiatori; 4) la presenza di un efficiente sistema idrico, atto molte volte ad alimentare ampie terme. Non mancavano a volte piccoli edifici di culto a ridosso delle strutture principali. 16 Una classificazione tipologica degli edifici adibiti a mansiones, basata sui dati archeologici, è stata fatta nel 1990 da Crogiez (anche se in relazione alla Calabria). In base a tale classificazione, si distinguono tre tipi di mansiones, di cui un primo tipo si presenta come un insieme di edifici circondati da un muro; nel secondo tipo, gli edifici si dispongono ai due lati della via publica; il terzo è il tipo che più di frequente si trova nelle stationes delle province orientali, quello cioè a corte interna, intorno a cui gravita un unico, grande edificio. Relativamente alla Britannia – ma con un discorso che è facilmente estensibile alle altre province dell’Impero – E.W. Black, nel 1995, ha pensato all’esistenza nelle mansiones di alloggi di “prima e seconda classe”, i primi dei quali sarebbero stati a disposizione dei grandi notabili, mentre gli officiales di rango inferiore avrebbero pernottato nei cubicula di livello più modesto o avrebbero usufruito dell’ospitalità dei provinciali presso i vari vici. Gli alloggi adibiti al pernottamento pare ricalcassero la tipologia strutturale dei contubernia dei castra militari, come è evidente nella mansio di Baccano, dove troviamo una fila di alloggi stretta e allungata, o occupanti vani disposti in file quasi parallele, come è il caso di Tres Tabernae sulla via Appia. Le stazioni rinvenute presentano quasi sempre diverse fasi di ristrutturazione (e non di rado di reimpiego), fasi da collocarsi cronologicamente a partire dalla metà o dalla fine del I sec. d. C., quando l’intervento imperiale in materia di cursus publicus cominciò a farsi più evidente. Un’importante testimonianza a proposito di intervento statale, direttamente rilevabile in rapporto al settore dei viaggi e dei trasporti, è l’epigrafe relativa ad un atto evergetico compiuto da Nerone, sulla via romana Filippopoli-Sub Radice, in Tracia, l’attuale Bulgaria. L’iscrizione, databile al 61 d. C., è stata rinvenuta alla fine dell’’800 a Mihilci, sulla via Filippopoli-Oescus, e riferisce che l’imperatore Nerone ordinò al procuratore di Tracia, Tito Giulio Usto, la costruzione di tabernae e praetoria, con ogni probabilità a completamento di una via militare di qualche importanza, se circa un secolo più tardi – come vedremo – anche Marco Aurelio sentì 17 l’esigenza di irrobustire le infrastrutture dislocate lungo questa via. Giustamente Tsonchev, nel 1959, intese le tabernae di cui parla il testo come “alberghi per persone comuni”, mentre i praetoria andrebbero intesi come “alloggi per personaggi ufficiali o militari di alto grado”. In questo intervento dall’alto, Nerone avrebbe così beneficato due categorie di utenti delle infrastrutture collocate lungo le viae militares, ovvero i privati e i viaggiatori ufficiali. Quel che importa sottolineare è che le tabernae ricordate nel documento epigrafico erano rivolte ai privati che si mettevano in viaggio. Del resto, se così non fosse stato, ne risulterebbero ridimensionati il valore e il significato dell’intervento imperiale. Queste tabernae di nuovo impianto dovettero andare ad integrare un complesso preesistente – con ogni probabilità una mansio – intorno alla quale si sarebbero disposte, come spesso accadeva in questi snodi di traffico, mettendo a disposizione dei viandanti cibo e alloggio per la notte. Quanto alla costruzione di edifici quali i praetoria – termine con cui nelle città capita provinciarum si designava propriamente la sede del governatore - l’intervento di Nerone è il primo conosciuto della storia imperiale. Ad esso si può accostare un altro caso, sempre conosciuto per via epigrafica. Per l’età di Adriano possiamo infatti citare un’epigrafe in greco, attestante, per il 136, un intervento sulla via che costeggiava il Mar Rosso, dove l’imperatore fece costruire “luoghi di sosta” (stathmòi)e “presidii” (phrouria). Α Scardona, nel territorio dell’antica Dalmatia, nel 1803 venne trovata un’epigrafe attestante la ristrutturazione di un praetorium vetustate conlapsum, ad opera di Scapula Tertullus, legatus Augusti per la provincia di Dalmatia. Il personaggio citato nel testo epigrafico porta un nome piuttosto conosciuto per l’età degli Antonini: infatti potrebbe qui trattarsi del destinatario di un rescritto di Marco Aurelio e Commodo, o del figlio di questi, console nel 195 e in seguito proconsole d’Africa, lo stesso personaggio a cui Tertulliano, nel 212, inviò una lettera in 5 capitoli, nota appunto col titolo di Ad Scapulam. 18 Si sarà qui trattato di un’iniziativa personale del legato, poiché nel caso egli avesse agito per conto di un imperatore, l’iscrizione l’avrebbe senz’altro sottolineato, come è possibile vedere per l’epigrafe tracia di Nerone, dove il procuratore provinciale figura come semplice agente ed esecutore della volontà imposta dall’alto. All’età di Marco Aurelio ci riporta un’altra epigrafe, scoperta nel 1955 in prossimità di Dolnité Sténici, sempre in Bulgaria, e pubblicata per la prima volta tre anni più tardi da Tsontchev. Datata, sulla base della titolatura imperiale in cui compare il cognomen ex virtute di Sarmaticus, tra il 175 e il 180, l’iscrizione attesta la restaurazione, da parte di Marco Aurelio e a spese della cassa imperiale (sua pecunia), degli stabula vetustate dilapsa. Come abbiamo visto, il termine stabulum non ha solo il significato primario di stalla, ma anche quello di albergo, osteria, luogo dove, accanto agli spazi per sistemare vetture, merci e animali da trasporto, c’erano anche alloggi per i viaggiatori. Anche in questo caso, dovremmo intendere il termine in senso estensivo, considerando l’intervento di Marco Aurelio come volto alla ristrutturazione di edifici necessari come punto di appoggio in un’area geografica – la Tracia appunto – povera di centri urbani, lungo l’asse viario Filippopoli – Oescus - Dacia. Come ha giustamente notato l’editore di questa iscrizione, l’imperatore dovette qui procedere ad una restaurazione di tutti gli alberghi in generale, in quanto difficilmente si può pensare che un’iscrizione avrebbe commemorato un intervento statale condotto esclusivamente sulle stalle per sistemare gli animali, tanto più che, come abbiamo detto, l’uso del termine stabulum nel senso di albergo, osteria e persino caravanserraglio, è ben attestato dalle fonti. Gli stabula restituiti da Marco Aurelio potevano essere costruzioni gravitanti intorno a delle stationes. Infatti, a Dolnité Sténici, luogo di rinvenimento dell’epigrafe, è stata rilevata l’esistenza di un’antica statio (probabilmente quella di Viamata, indicata tanto dalla Tabula Peutingeriana, quanto dalla Notitia Dignitatum in relazione alla Cohors Prima Aureliana) a circa 48 km dall’antica Filippopoli, stazione per cui Avramov, nel 1915, ha pensato ad un luogo dove i viaggiatori 19 potessero trascorrere la notte, quindi una mansio, in considerazione della distanza media che intercorreva tra uno stabilimento e l’altro. Tsontchev ha messo in rapporto quest’intervento imperiale con la necessità di rendere sicura e affidabile la viabilità dalla Tracia verso il Danubio, in un momento in cui si faceva pressante il pericolo da nord, rappresentato dalle incursioni di Marcomanni e Sarmati. La vita presso questi luoghi di transito doveva essere molto caotica: Plinio il Giovane descrive il caso di Giuliopoli e, nel IV secolo, il vescovo Gregorio di Nazianzo racconta scoraggiato di Sasima, la mansio in Cappadocia di cui era stato, suo malgrado, nominato vescovo: “Tutto è polvere, rumore e traffico…le persone sono tutte stranieri e viaggiatori”. Inoltre, se si prende in considerazione l’incessante traffico di comuni viaggiatori, burocrati, soldati, carovane (nelle stazioni della pars Orientis), merci, unitamente alla presenza di altri luoghi di ricovero estranei alla struttura ufficiale della mansio, ma intorno ad essa gravitanti, ci si renderà conto come sia stata relativamente facile l’evoluzione, nel tempo, di alcune di queste tappe di viaggio, in piccole città (non in senso giuridico-amministrativo, naturalmente: esse dovettero essere forse classificate come vici, e dipendere, da un punto di vista burocratico, da una civitas viciniore dello stesso territorio). La gestione di una mansio faceva parte dei munera cui erano soggette le municipalità nei confronti del governo centrale. Era infatti tra i membri dell’ordo curialium che si sceglievano i praepositi mansionum e ciò probabilmente a partire dall’età costantiniana. La gestione di una statio veniva data in appalto, dopo regolare messa all’asta del servizio: prova di ciò sarebbe il termine (manceps) con cui veniva designato il “direttore” di una stazione postale. Tale consuetudine è attestata per via epigrafica già dall’età tardorepubblicana (CIL I2 , 808; VI, 8468-8469). Il manceps, dai primi decenni del III sec. d. C., era alle dipendenze del praefectus vehiculorum; il suo incarico risultava piuttosto gravoso, in quanto non poteva allontanarsi per più di trenta giorni dalla sede a cui era stato preposto. Tra i viaggiatori ufficiali, quelli cioè forniti di regolare evectio, che consentiva loro di servirsi gratuitamente dei vari 20 servizi correlati al cursus publicus, vi erano in primo luogo gli agentes in rebus (i corrieri imperiali, tristemente noti dalle orazioni di Libanio come spie dell’imperatore); i curiosi, ovvero gli ispettori del servizio postale (L. Di Paola, Per la storia degli occhi del re. I servizi ispettivi nella Tarda Antichità, 2005); i governatori, durante i loro spostamenti per le province; gli addetti alla sorveglianza del cursus clabularis (il sistema di trasporto lento con carri trainati da buoi); coloro che avevano ottenuto i codicilli della comitiva; i praesides e i rationales. (contabili dei vari officia palatini) A partire da Costantino, pare che anche i vescovi viaggiassero a spese dello Stato, ma solo nel caso si dovessero recare ad un sinodo, come lamenta Ammiano Marcellino per l’età di Costanzo II, durante la quale i concili furono piuttosto frequenti a causa della controversia ariana. Quanto agli imperatori, per i loro spostamenti si appoggiavano ai palatia o praetoria, dislocati nelle principali città o in vicinanza di una mansio, come sembra suggerire una costituzione del 405, in cui si fa assoluto divieto a chiunque di soggiornare nelle sacrae domus. Oltre agli alloggi gratuiti per i viaggiatori ufficiali autorizzati, intorno alle mansiones dovettero sorgere esercizi gestiti da privati, per il ristoro delle persone in transito, luoghi che abbiamo già connotato come stabula, cauponae, tabernae. Come abbiamo visto per le analoghe strutture che erano parte integrante della caotica vita urbana di Roma, erano soprattutto avventori di bassa estrazione sociale a usufruire di tali luoghi di ristoro, piccoli commercianti al minuto, schiavi affrancati, uomini di fatica, tutta una brulicante umanità che viveva e compiva i propri traffici ai margini di una società in continuo movimento. ROSALBA ARCURI 21 Segmento della Tabula Peutingeriana (conservata alla Hofbibliotek di Vienna), composta da 11 pergamene per una lunghezza complessiva di 680 cm e un’altezza di 33 cm: l’immagine qui riprodotta mostra i Balcani, l’ex Jugoslavia, la Puglia, la Calabria, la Sicilia e la Libia. 22 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE AA. Vv., Viae publicae Romanae (catalogo della mostra), Roma 1991. ANDRE J.M. – BASLEZ M.F., Voyager dans l’antiquitè, Paris 1993. ARCURI R., I percorsi dell’evergetismo nella Tarda antichità: la Chiesa, l’Impero e la susceptio peregrinorum, Reggio Calabria 2005. 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