Riferimenti - Storia filosofia e lettere

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Riferimenti - Storia filosofia e lettere
Riferimenti:
da Le vie dei canti di Chatwin
Accenni da La Sagra della primavera di Stravinski
da Il cercatore d'oro di Gustave Le Clezio
Sunrise Sunset di Jerry Book (dal film "Il violinista sul tetto")
Maria Morison da Poemetti e canzoni di Robert Burns
Morrison Jig, tradizionale irlandese
Libertà di Vittorio Mayer Pasquali Spatzo
Opa Cupa, tradizionale balcanico
da Poesie d’amore di Pablo Neruda
Por una cabeza di Carlos Gardel
da Oceano Mare di Alessandro Baricco
da Le città invisibili di Italo Calvino
da Cantico dei cantici
Sherazad, tradizionale medio-orientale
da Aforismi di Marc Chagall
Bolter Bulgar, tradizionale klezmer
da Regione Regina di Giovanni Soldati
Genova per noi, di Paolo Conte
IN PRINCIPIO...
In principio la Terra era una pianura sconfinata e tenebrosa, separata dal cielo e dal
grigio mare salato, avvolta in un crepuscolo indistinto. Non c'erano né Sole né Luna
né Stelle. Tuttavia, molto lontano, vivevano gli Abitanti del Cielo: esseri spensierati e
indifferenti, dalle fattezze umane ma con zampe da emù, e capelli dorati lucenti come
ragnatele al tramonto; erano senza età e perennemente giovani, poiché esistevano da
sempre nel loro verde Paradiso lussureggiante al di là delle Nuvole occidentali.
Sulla superficie della Terra si vedevano soltanto le buche che un giorno sarebbero
diventate i pozzi. Non c'erano né animali né piante, ma molli masse di materia
concentrate intorno alle buche: grumi di minestra primordiale, silenziosi, ciechi, senza
respiro né veglia né sonno: ciascuno aveva in sé l'essenza della vita o la possibilità di
diventare umano.
Ma sotto la crosta della Terra brillavano le costellazioni, il Sole splendeva, la Luna
cresceva e calava, e giacevano nel sonno tutte le forme di vita: il fiore scarlatto di un
pisello del deserto, l'iridescenza di un'ala di farfalla, i vibranti baffi bianchi di Vecchio
Uomo Canguro — assopiti come i semi del desertogv che devono aspettare un
acquazzone di passaggio.
Il mattino del Primo Giorno, al Sole venne una gran voglia di nascere. (Quella sera
le Stelle e la Luna lo avrebbero imitato). Il Sole squarciò improvvisamente la
superficie e inondò la Terra di luce dorata, riscaldando le buche in cui dormiva ogni
Antenato.
[...]
Accadde così che quel primo mattino ogni Antenato dormiente sentisse il calore del
Sole premere sulle proprie palpebre e il proprio corpo che generava dei figli. L'Uomo
Serpente sentì i serpenti strisciargli fuori dall'ombelico. L'Uomo Cacatua sentì le
piume. L'Uomo Bruco sentì una contorsione, la Formica del Miele un prurito, il
Caprifoglio sentì schiudersi foglie e fiori. L'Uomo Bandicoot sentì piccoli bandicoot
che fremevano sotto le sue ascelle. Ogni « essere vivente », ciascuno nel suo diverso
luogo di nascita, salì a raggiungere la luce del giorno,
[…]
Scrollarono le spalle e piegarono le braccia. Si alzarono facendo forza contro il
fango. Le loro palpebre si aprirono di schianto: videro i figli che giocavano al sole.
Il fango si staccò dalle loro cosce, come la placenta da un neonato. Poi, come fosse
il primo vagito, ogni Antenato aprì la bocca e gridò: « Io sono! ». « Sono il Serpente...
il Cacatua... la Formica del Miele... il Caprifoglio... ». E questo primo « Io sono! »,
questo primordiale « dare nome », fu considerato, da allora e per sempre, il distico più
sacro e segreto del Canto dell'Antenato.
[…]
Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi
e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono,
fecero l'amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia
di musica.
Giornata verso Agalega
Da quanto viaggiamo? Cinque, sei giorni? […] Che importa? Perché poi saperlo?
Ma faccio un grande sforzo pex ricordare la data della partenza, per tentare il
conteggio delle giornate in mare. È un tempo lunghissimo, innumerevoli giorni,
eppure la cosa mi sembra molto fuggevole anche. È un'unica infinita giornata iniziata
quando sono salito sulla Zeta, una giornata simile al mare, dove il cielo cambia, ogni
tanto, si copre e s'abbuia, dove ia luce delle stelle fa posto a quella del sole, ma dove il
vento non smette mai di soffiare, né le onde d'irrompere, né l'orizzonte di accerchiare
la nave. A mano a mano che il viaggio procede, il capitano Bradmer diventa più
affabile. Questa mattina mi ha insegnato a fare il punto con il sestante, e il metodo per
determinare il meridiano e il parallelo. Oggi, siamo a 12° 38' sud e 54° 30' est, e il
calcolo della nostra posizione mi dà la, risposta alla domanda fatta sul tempo,
significando che ci troviamo a due giorni di navigazione dall'isola, qualche, minuto
troppo a est per via degli alisei che ci hanno spostati di rotta durante la notte.
[...]
Quando il timoniere nero scende a sdraiarsi sul materasso giù nella stiva, Bradmer
mi addita la barra.
«A lei, signore?»
Dice missié, [dal francese monsieur] alla creola. Non me lo faccio certo ripetere.
Adesso, sono io che reggo la grande ruota, le mani strette sui ritti consunti. Sento le
onde pesanti contro il timone, il vento che urta le grandi vele. È la prima volta che
piloto una nave.
A un certo punto, una raffica ha steso la Zeta, velatura tesa da schiantarsi, e
ascoltavo lo scafo scricchiolare sotto lo sforzo, mentre l'orizzonte si capovolgeva
davanti al bompresso. La nave è rimasta un bel pezzo così, in equilibrio sulla cresta
dell'onda, e non potevo più respirare. Poi, di colpo, ho messo istintivamente la barra a
babordo, per assecondare il vento. E piano piano la nave si è raddrizzata in una nube
di spruzzi. Sul ponte, i marinai hanno urlato:
«Ayooo!».
Ma il capitano Bradmer è rimasto seduto senza dir niente, gli occhi strizzati, l'eterna
sigaretta verde fra le labbra; Sarebbe capace di affondare con la sua nave, quell'uomo,
senza muoversi dalla poltrona.
Sto bene in guardia, adesso. Sorveglio il vento e le onde, e quando entrambi
sembrano troppo forti, li assecondo, girando il timone a favore. Credo di non essermi
mai sentito più forte, più libero. Piantato sul ponte che scotta, le dita dei piedi
allargate per reggermi meglio, avverto il moto possente dell'acqua contro lo scafo,
contro il timone. […] sono nel puro avvenire che mi circonda. Avvenire che è il mare,
il vento, il cielo, la luce.
A lungo, forse per ore, sono rimasto in piedi davanti alla ruota, tra vortici d'acqua e
vento. Il sole mi brucia la schiena, la nuca, mi è sceso lungo il lato sinistro del corpo.
Già quasi sfiorando l'orizzonte, lancia la sua polvere di fuoco sul mare.
[…]
Già viene la notte, ancora una notte. Ma il crepuscolo dura a lungo sul mare, e
guardo il giorno spegnersi piano. È lo stesso mondo che ho conosciuto? Mi sembra di
essere entrato in un altro mondo attraversando l'orizzonte. Un mondo che rassomiglia
a quello della mia infanzia, al Boucan, dove regnava il rumore del mare, come se la
Zeta viaggiasse all'indietro lungo la strada che annulla il tempo.
Mentre il giorno sfuma via lento, io mi abbandono ancora una volta al sogno.
Fantastico. […] Sento anche il dolce vento serale, corre più svelto di noi. Tutto il
mondo è silenzio. Ogni sera, è come un rito misterioso osservato da tutti. Nessuno che
parli. Si ascolta il rumore delle onde contro la prua, il sordo vibrare di vele e cordame.
Come ogni sera, i marinai comoriani si inginocchiano sul ponte, a proravia, per
recitare la loro preghiera verso il nord. Le voci mi giungono come un sussurro attutito,
mischiato al vento e al mare. Mai come oggi, nello scivolare veloce e nel lento rollìo
dello scafo, su questo mare trasparente e simile al cielo, ho avvertito di più la bellezza
di quella preghiera, rivolta in nessun luogo, sperduta nell'immensità.
[…]
Robert Burns
MARIA MORISON
O Maria, affacciati alla finestra:
è l'ora desiderata, è l'ora stabilita!
Fa ch'io veda quei sorrisi e quegli sguardi
che rendon povero il tesoro dell'avaro:
come felicemente sopporterei la polvere,
costretto a faticare da un giorno all'altro,
se potessi assicurarmi questa ricca ricompensa:
l'amabile Maria Morison.
Ieri sera, quando al suono della tremolante corda
le danze attraversavano la sala illuminata,
a te è volato il mio pensiero:
lì io sedevo, ma non sentivo niente, niente vedevo.
Sebbene una fosse graziosa, un'altra bella
e l'altra la più bella di tutto il paese,
io sospiravo e dicevo in mezzo a loro:
"Voi non siete Maria Morison ".
O Maria, puoi tu distruggere la pace
di chi morirebbe volentieri per te?
Puoi tu spezzare quel cuore,
la cui sola colpa è quella d'amarti?
Se non vuoi rendere amore per amore,
almeno mostrami un po' di pietà!
Non può essere un pensiero scortese
il pensiero di Maria Morison.
Libertà
Noi Zingari abbiamo una sola religione: la libertà.
In cambio di questa rinunciamo alla ricchezza, al potere, alla scienza ed
alla gloria.
Viviamo ogni giorno come se fosse l'ultimo.
Quando si muore si lascia tutto: un miserabile carrozzone come un grande
impero.
E noi crediamo che in quel momento sia molto meglio essere stati Zingari
che re.
Non pensiamo alla morte. Non la temiamo, ecco tutto.
Il nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose
che la vita ci offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare:
una mattina di sole, un bagno nella sorgente,
lo sguardo di qualcuno che ci ama.
E' difficile capire queste cose, lo so. Zingari si nasce.
Ci piace camminare sotto le stelle. (avvìo fisarmonica)
Si raccontano strane cose sugli Zingari.
Si dice che leggono l'avvenire nelle stelle
e che possiedono il filtro dell'amore.
La gente non crede alle cose che non sa spiegarsi.
Noi invece non cerchiamo di spiegarci le cose in cui crediamo.
La nostra è una vita semplice, primitiva.
Ci basta avere per tetto il cielo,
un fuoco per scaldarci
e le nostre canzoni, quando siamo tristi.
(Spatzo)
da: “Oceano Mare” di Alessandro Baricco
Andò così. Era alle terme, Bartleboom, alle terme di Bad Hollen, cittadina
agghiacciante, se capite cosa voglio dire. Ci andava per certi disturbi che lo
affliggevano, cose di prostata, una faccenda fastidiosa, una seccatura. Quando ti becca
da quelle parti è una vera seccatura, sempre, mica cose gravi, ma ci devi far
attenzione, ti tocca fare un sacco di cose ridicole, umilianti. Bartleboom, lui, andava
alle terme di Bad Hollen, per esempio. Cittadina, tra l'altro, agghiacciante.
Ma comunque.
Era lì, Bartleboom, con la fidanzata, certa Maria Luigia Severina Hohenheith, una
bella donna, non ci sono dubbi, ma del genere palco d'opera, se capite cosa voglio
dire. Un po' di facciata. Ti veniva da girarle dietro per vedere se c'era qualcosa, dietro
il cerone e il gran parlare e tutto il resto. Poi non lo facevi, ma ti veniva. Bartleboom,
a onor del vero, non si era fidanzato con grande entusiasmo, anzi.
[...]
Erano le zie a sborsare.
[...]
Ma comunque.
Aveva fatto tutto la zia Matilde, e Bartleboom non aveva potuto opporsi un granché.
Si era fidanzato. Non l'aveva proprio digerita benissimo, però. Aveva perso un po' di
quello smalto... gli si era appannata l'anima, se capite cosa voglio dire. Era come se si
fosse aspettato qualcosa di diverso, lui, di proprio diverso. Non era preparato a quella
normalità lì. Tirava avanti, niente di più. Poi un giorno, lì a Bad Hollen, lui con la
fidanzata e la prostata, andò a un ricevimento, una cosa elegante, tutto champagne e
musichette allegre. Valzer. E lì incontrò quella Anna Ancher. Era una donna speciale,
lei. Dipingeva. Anche bene, dicevano. Tutt'altro genere dalla Maria Luigia Severina,
per capirsi. Fu lei a fermarlo, nel cancan della festa.
— Perdonatemi... voi siete il professor Bartleboom, vero?
— Sì.
— Io sono un'amica di Michel Plasson. [il pittore].
Venne fuori che le aveva scritto mille volte, […] parlandogli di Bartleboom e di tante
cose, e in particolare di quella Enciclopedia dei limiti eccetera, una storia che, a sentir
lei, l'aveva proprio colpita.
— Sarei incantata di poter vedere un giorno la vostra opera.
Disse esattamente così: incantata. Lo disse inclinando leggermente la testolina da
una parte e scostandosi dagli occhi una ciocca di capelli neri corvini. Una cosa da
maestra. A Bartleboom fu come se quella frase gliel'avessero direttamente messa in
circolo nel sangue. Per così dire gli riverberò fin dentro i pantaloni. Farfugliò
qualcosa e da lì in poi non fece che sudare. Sudava da Dio, lui, quando era il caso.
Non c'entrava la temperatura. Faceva tutto da sé.
Magari sarebbe anche finita lì, quella storia, ma il giorno dopo, mentre se ne stava a
passeggiare, solo, rigirandosi nella testa quella frase e tutto il resto, Bartleboom vide
passare una carrozza, una di quelle belle, con sopra bagagli e cappelliere. Puntava
fuori città. E dentro, lui la vide benissimo, c'era Anna Ancher. Proprio lei. Capelli
corvini. Testolina. C'era tutto. Anche il riverbero nei pantaloni era lo stesso del giorno
prima. Bartleboom capì. Checché se ne dica in giro era un uomo che, all'occorrenza,
sapeva prendere le sue decisioni, altro che scherzi, quando era il caso non si tirava
indietro. Così tornò a casa, fece le valigie e, bello pronto a partire, si presentò dalla
fidanzata, la Maria Luigia Severina. Stava a tramestare con spazzole, nastri e collane,
lei.
— Maria Luigia...
— Ti prego, Ismael, sono già in ritardo...
— Maria Luigia, desidero informarti che non sei più fidanzata.
— D'accordo Ismael, ne riparleremo più tardi.
— E di conseguenza anch'io non sono più fidanzato.
— E' ovvio, Ismael.
— Allora addio.
Quel che era stupefacente, in quella donna, era la lentezza dei tempi di reazione. Ne
parlammo, più di una volta con Bartleboom, della faccenda, lui era assolutamente
affascinato da quel fenomeno, […] Nella circostanza, sapeva dunque benissimo che il
tempo a sua disposizione per sparire impunito da quella casa oscillava tra i ventidue e
i ventisei secondi. Aveva calcolato che gli sarebbero bastati per raggiungere la
carrozza. In effetti fu esattamente quando lui posò il sedere in vettura che la tersa aria
mattutina di Bad Hollen fu scardinata da un urlo disumano
- BAAAAAAARTLEBOOM!
Che voce, quella donna. […]
Si era informato, Bartleboom: gli Ancher stavano a Hollenberg, cinquantaquattro
chilometri a nord di Bad Hollen. Si mise in viaggio. Aveva addosso il vestito delle
grandi occasioni. Anche il cappello, era quello della festa. Sudava, sì, ma entro i
livelli di guardia della comune decenza. La carrozza correva senza problemi lungo la
via tra le colline. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi.
Sulle parole da dire ad Anna Ancher, quando le sarebbe apparso davanti,
Bartleboom aveva le idee chiare:
— Signorina, io vi aspettavo. Vi ho aspettato per anni.
E, trac, le avrebbe allungato la scatola di mogano con tutte le lettere, centinaia di
lettere, una cosa da rimanere secchi, dallo stupore, e dalla tenerezza. Era un buon
piano, niente da dire. Bartleboom se lo rigirò in mente per tutto il viaggio, e questo fa
riflettere sulla complessità della mente di certi grandi uomini di studio e di pensiero
[…]
Bartleboom passò tutto il viaggio a verificare l'inattaccabile esattezza logica del suo
piano, ma solo a sette chilometri da Hollenberg, e specificatamente tra i paesi di Alzen
e Balzen, si ricordò che, ad essere precisi, lui, quella scatola di mogano, e dunque
tutte le lettere, centinaia di lettere, non l'aveva più.
Sono colpi, quelli. Se capite cosa voglio dire.
In effetti, la scatola con le lettere Bartleboom l'aveva data alla Maria Luigia
Severina, il giorno del fidanzamento. Mica tanto convinto, ma le aveva porto il tutto,
con una certa solennità, dicendo
— Io vi aspettavo. Vi ho aspettata per anni.
Dopò quei dieci, dodici secondi di abituale impasse, la Maria Luigia aveva
strabuzzato gli occhi, allungato il collo e, incredula, aveva proferito un'unica,
elementare parola
- Me?
"Me?" non era propriamente la risposta che Bartleboom si era sognato per anni,
intanto che scriveva quelle lettere e viveva da solo, arrangiandosi alla meglio. Per cui
va da sé che rimase un po' deluso, nella circostanza, lo si può capire.
[...]
Succede. Uno si fa dei sogni, roba sua, intima, e poi la vita non ci sta a giocarci
insieme, e te li smonta, un attimo, una frase, e tutto si disfa. Succede. Mica per altro
che vivere è un mestiere gramo. Tocca rassegnarsi. Non ha gratitudine, la vita, se
capite cosa voglio dire.
Gratitudine.
Ma comunque.
Adesso il problema era che la scatola serviva, e però era nel peggiore dei posti
possibili, cioè da qualche parte a casa della Maria Luigia. Bartleboom scese dalla
carrozza a Balzen, cinque chilometri prima di Hollenberg, pernottò alla locanda e il
mattino dopo riprese la carrozza in senso inverso, per tornare a Bad Hollen. Era
iniziata, la sua odissea. […]
Con la Maria Luigia usò la solita tecnica, non c'era da sbagliarsi. Entrò senza farsi
annunciare nella stanza dove lei languiva, a letto, a curarsi i nervi, e senza preamboli
disse
— Cara, son venuto a prendere le lettere.
— Sono sullo scrittoio, tesoro —, rispose lei con una certa dolcezza. Poi, dopo
ventisei secondi esatti, emise un lamento strozzato e svenne. Bartleboom, va da sé, se
ne era già sparito.
Riprese la carrozza, questa volta in direzione Hollenberg, e, la sera del giorno dopo,
si presentò a casa Ancher. Lo accompagnarono nel salone, e poco ci mancò che
restasse secco, secco stecchito. Era al pianoforte, la signorina, e stava suonando, con
la testolina, i capelli corvini e tutto il resto […]. Sola, lì, lei il pianoforte e basta. Da
non crederci. Bartleboom se ne rimase impietrito, con la sua scatola di mogano in
mano, sulla soglia del salone, candito completo. Non riusciva neanche più a sudare.
Contemplava e basta.
Quando la musica finì, la signorina girò lo sguardo verso di lui. Definitivamente
rapito, lui attraversò il salone, giunse fin davanti a lei, posò la scatola di mogano sul
pianoforte e disse:
— Signorina Anna, io vi aspettavo. Vi ho aspettato per anni.
Anche questa volta la risposta fu singolare.
— Io non sono Anna.
— Prego?
— Io mi chiamo Elisabetta. Anna è mia sorella.
Gemelle, se capite cosa voglio dire.
Due gocce d'acqua.
— Mia sorella è a Bad Hollen, alle Terme. Una cinquantina di chilometri da qui.
— Sì, conosco la strada, grazie.
Sono colpi, quelli. Niente da dire. Veri colpi. Per fortuna Bartleboom aveva delle
risorse, lui, aveva della forza d'animo da vendere, nella carcassa. Si rimise in viaggio,
destinazione Bad Hollen. Se era lì che stava Anna Ancher era lì che lui doveva andare.
Semplice. Fu più o meno a metà strada che iniziò a sembrargli un po' meno semplice.
Il fatto è che non riusciva a togliersi da dosso quella musica. E il pianoforte, le mani
sulla tastiera, la testolina di capelli corvini, tutta quell'apparizione, insomma. Roba
che sembrava organizzata dal demonio, tanto era perfetta. […] Prese a tribolare, il
professore, con questa storia delle gemelle, e la pittrice e la pianista, non si
raccapezzava più, è anche comprensibile. Più il tempo passava e meno lui ci capiva.
Si può dire che a ogni chilometro di strada ci capisse un chilometro di meno. Alla fine
decise che si imponeva una pausa di riflessione. Scese a Pozel, sei chilometri prima di
Bad Hollen. E lì passò la notte. L'indomani prese la carrozza per Hollenberg: si era
deciso per la pianista. Più affascinante, aveva pensato. Cambiò idea al ventiduesimo
chilometro: precisamente a Bazel, dove scese e pernottò. Ripartì di mattina presto con
la carrozza per Bad Hollen — intimamente già fidanzato con Anna Ancher, la pittrice
— per fermarsi a Suzer, piccolo paese a due chilometri da Pozel, dove si chiarì
definitivamente che, caratterialmente parlando, lui era tagliato più per Elisabetta, la
pianista. Nei giorni seguenti i suoi spostamenti oscillatori lo portarono di nuovo ad
Alzen, poi a Tozer, da lì a Balzen, quindi indietro fino a Fazel, e da lì, nell'ordine, a
Palzen, Rulzen, Alzen (per la terza volta) e Colzen. La gente della zona aveva
maturato la convinzione che fosse un ispettore di qualche ministero. Lo trattavano
tutti molto bene. Ad Alzen, al terzo passaggio, trovò perfino un comitato cittadino ad
attenderlo. Lui non ci fece gran caso. Non era uno formale. Era un uomo semplice,
Bartleboom, un bel pezzo di uomo semplice. E giusto. Davvero.
Ma comunque.
Non poteva andare avanti in eterno quella storia, […]. Lo capì, Bartleboom. E dopo
dodici giorni di appassionata oscillazione, si mise il vestito giusto e puntò deciso
verso Bad Hollen. Aveva deciso: avrebbe vissuto con una pittrice. Arrivò la sera di un
giorno festivo. Anna Ancher non era in casa. Sarebbe tornata da lì a poco. Aspetto,
[…] disse. E si accomodò in un salottino. Fu lì che d'improvviso gli tornò alla
memoria, fulminante, un'immagine elementare e rovinosa: la sua scatola di. mogano,
bella lucida, posata sul pianoforte di casa Ancher. L'aveva dimenticata lì. Sono cose
difficili da capire, queste, per la gente normale, […], perché è il mistero delle menti
superiori, è tutta una cosa loro, ingranaggi del genio, capaci di acrobazie grandiose
[…]. Lui, Bartleboom, era di quella specie lì. […] Non si scompose, comunque. Si
alzò e informando che sarebbe tornato più tardi, riparò in un alberghetto fuori città. Il
giorno dopo prese la carrozza per Hollenberg. Incominciava ad avere una certa
consuetudine con quella strada, ne stava diventando, per così dire, un vero esperto. Se
mai ci fosse stata una cattedra universitaria per studi su quella strada, potevi giurarci
che era roba sua, assicurato. A Hollenberg le cose andarono via lisce. La scatola era
effettivamente lì.
— Avrei voluto mandarvela ma non avevo proprio idea di dove trovarvi —, gli disse
Elisabetta Ancher con una voce che avrebbe sedotto anche un sordo. Bartleboom
vacillò un attimo ma poi si riprese.
— Non importa, va benissimo così.
Le baciò la mano e si congedò. Non chiuse occhio tutta la notte ma la mattina si
presentò puntuale alla prima carrozza per Bad Hollen. Un bel viaggio. Ad ogni
fermata era tutto un salutare e festeggiare. Si stava affezionando, la gente, sono fatti
così, da quelle parti, gente socievole, non sta a farsi troppe domande e ti tratta col
cuore in mano. Veramente. Zona di una bruttezza agghiacciante, questo bisogna dirlo,
ma la gente è squisita, gente d'altri tempi.
Ma comunque.
Se Dio vuole, Bartleboom arrivò a Bad Hollen con la sua scatola di mogano, le
lettere e tutto quanto. Ritornò a casa di Anna Ancher e si fece annunciare. La pittrice
stava lavorando a una natura morta, mele pere fagiani, cose così, fagiani morti, si
intende, una natura morta, appunto. Teneva là testolina leggermente piegata da un
lato. I capelli corvini le incorniciavano il viso che era un piacere. Ci fosse stato anche
un pianoforte non avresti avuto dubbi che fosse l'altra, quella di Hol-lenberg. E invece
era lei, quella di Bad Hollen. Due gocce d'acqua, dico. Prodigioso, quello che riesce a
fare la natura quando si mette di buzzo buono. Da non crederci. [...]
— Professor Bartleboom, che sorpresa! —, squittì lei.
— Buon giorno, signorina Ancher —, rispose lui, aggiungendo subito: — Anna
Ancher, vero?
— Sì, perché?
Voleva andare sul sicuro, il professore. Non si sa mai.
— Cosa vi ha portato fin qui, a farmi felice con una vostra visita?
— Questo —, rispose serio Bartleboom, posandole davanti la scatola di mogano e
aprendola sotto i suoi occhi.
— Io vi aspettavo, Anna. Vi ho aspettato per anni. La pittrice allungò la mano e
richiuse di scatto la scatola.
— Prima che la nostra conversazione prosegua sarà bene che la informi di una cosa,
professor Bartleboom.
— Quel che volete, mia adorata.
— Io sono fidanzata.
— Ma va'?
— Mi sono fidanzata sei giorni fa con il sottotenente Gallega.
— Ottima scelta.
— Grazie.
Bartleboom risalì mentalmente a sei giorni prima. Era il giorno che, arrivato da
Rulzen, si era fermato a Colzen per poi ripartire per Alzen. […]. Sei giorni. Sei
miserabili giorni. Tra parentesi, quel Gallega era un vero parassita, se capite cosa
voglio dire, un essere insignificante e in certo modo perfino nocivo. Una pena. Vera e
propria. Una pena.
— Ora volete che continuiamo?
— Credo che non sia più il caso —, rispose Bartleboom riprendendosi la scatola di
mogano.
Sulla strada che lo riportava al suo albergo, il professore cercò di analizzare
freddamente la situazione e giunse alla conclusione che i casi erano due (circostanza,
si sarà notato, che torna con una certa frequenza, essendo i casi generalmente due e
solo di rado tre): o quello era solo uno spiacevole intoppo, e allora ciò che doveva fare
era sfidare a duello il suddetto sottotenente Gallega e toglierlo di torno. O era un
chiaro segno del destino, di un destino magnanimo, e allora quel che doveva fare era
tornare al più presto a Hollenberg e sposare Elisabetta Ancher, indimenticata pianista.
Detto per inciso, Bartleboom odiava i duelli. Proprio, non li sopportava. "Fagiani
morti...", pensò con un certo disgusto. E decise di partire. Seduto al suo posto, sulla
prima carrozza del mattino, imboccò ancora una volta la strada per Hollenberg. Era di
umore sereno e accolse con benevola simpatia le manifestazioni di ilare affetto che via
via gli tributarono le popolazioni dei paesi di Pozel, Colzen, Tozer, Rulzen, Palzen,
Alzen, Balzen e Fazel. Gente simpatica, come ho detto. All'imbrunire si presentò,
vestito di tutto punto e con la sua scatola di mogano, a casa Ancher.
— La signorina Elisabetta, prego —, disse con una certa solennità al servitore che
gli aprì la porta.
— Non c'è, signore. E ripartita questa mattina per Bad Hollen.
Da non crederci.
Un uomo di altra preparazione morale e culturale, sarebbe magari tornato sui suoi
passi e avrebbe preso la prima carrozza per Bad Hollen. Un uomo di minor tempra
psichica e nervosa, si sarebbe forse abbandonato alle più plateali espressioni di uno
sconforto definitivo e insanabile. Ma Bartleboom era uomo probo e giusto, uno di
quelli che hanno un certo stile quando si tratta di digerire le bizze del destino.
Bartleboom, lui, iniziò a ridere.
Ma ridere della grossa, proprio a crepapelle, roba da piegarsi in tre dal ridere, non
c'èra verso di fermarlo, con lacrime e tutto, uno spettacolo, una risata babelica,
oceanica, apocalittica, una risata che non finiva più. l servi di casa Ancher non
sapevano più cosa fare, non c'era verso di farlo smettere, né con le buone né con le
cattive, continuava a fracassarsi dal ridere, lui, una cosa imbarazzante, e contagiosa
oltre tutto, si sa, inizia uno e poi tutti dietro, è la legge della ridarola, è come una
pestilenza, hai voglia di provare a rimanere serio, non ce la fai, è inesorabile, niente
da fare, crollavano uno dopo l'altro, i servi, che pure non avevano niente da ridere […]
ma crollavano uno ad uno, a ridere come pazzi, da farsela addosso, se capite cosa
voglio dire, da farsela addosso, se non stavi attento. Alla fine lo portarono su un letto.
Rideva anche da orizzontale, comunque, e con quale entusiasmo, con quale
generosità, un portento, davvero, tra singhiozzi lacrime e soffocamenti, ma
irrefrenabile, portentoso, davvero. Un'ora e mezza dopo era ancora lì a ridere. E non
aveva smesso un attimo. I servi erano ormai allo stremo, loro, correvano fuori dalla
casa per non sentire più quel singultare esilarante e contagioso, cercavano di fuggire,
con le budella che gli si contorcevano dal male, per il gran sghignazzare, cercavano di
salvarsi, li si può ben capire, ormai stava diventando una questione di vita o di morte.
Da non crederci. Poi, a un certo punto, Bartleboom, senza preavviso, si bloccò, come
una macchina inceppata, tornò improvvisamente serio, si guardò intorno e inquadrato
il servo che gli era più a tiro gli disse, serissimo:
— Avete visto una scatola di mogano?
Non gli parve vero, a quello, di rendersi utile, purché la smettesse.
— Eccola, signore.
— Be', ve la regalo —, disse Bartleboom, e giù a ridere, di nuovo, come un
pazzo, […]
Da lì in poi non la smise più.
La notte, se la fece tutta ridendo. A parte i servi di casa Ancher, che adesso giravano
con la bambagia nelle orecchie, era una faccenda seccante per la cittadina tutta, la
mite Hollenberg, che le risate di Bartleboom, si capisce, valicavano i confini della
casa propriamente detta e dilagavano che era un piacere in quel silenzio notturno. Di
dormire, neanche a parlarne. Era già tanto riuscire a rimanere seri. E in un primo
momento, in effetti, si riusciva a stare seri, anche in considerazione dell'irritazione per
quello scalpore molesto, ma poi il buon senso andava alla malora ben presto, e
iniziava a dilagare il batterio della ridarola, irrefrenabile, a divorarsi tutti,
indistintamente, uomini e donne, per tacere dei bambini, davvero tutti. Come
un'epidemia. C'erano case in cui non si rideva da mesi, neanche più si ricordavano
come si faceva […].
E quella notte, giù a ridere, tutti, da rivoltarsi le budella, una cosa mai vista,
stentavano a riconoscersi, caduta la maschera di quelle loro eterne pive, e spalancato,
in faccia, lo sghignazzo. Una rivelazione. […].
Un concerto che toccava il cuore. Una meraviglia. Bartleboom, lui, dirigeva il coro.
Era il suo momento, per così dire. E lui, dirigeva, da maestro. Una notte memorabile,
vi dico. Chiedete pure. Vigliacco se non vi diranno che fu una notte memorabile.
Ma comunque.
Alle prime luci dell'alba, si placò. Bartleboom, dico. E poi via via tutta la cittadina.
Smisero di ridere, a poco a poco, e poi definitivamente. Com'era venuta se n'era
andata. Bartleboom chiese da mangiare. L'impresa, si capisce, gli aveva messo una
gran fame addosso, non è una cosa da nulla ridere per tutto quel tempo, e con
quell'entusiasmo. Quanto alla salute, però, aveva tutta l'aria di averne da vendere.
— Mai stato meglio —, confermò alla delegazione di cittadini che, in qualche modo
riconoscenti, e comunque incuriositi, vennero a informarsi del suo stato. Si era fatto
dei nuovi amici, in pratica, Bartleboom. Decisamente in quella zona era destino che
finisse di legare con la gente. Gli andava giù storta con le donne, questo è vero, ma
quanto alla gente sembrava nato per quella zona lì. Davvero. Comunque si alzò, salutò
tutti e si accinse a rimettersi in viaggio. Aveva un'idea precisa, al riguardo.
— Qual è la strada per la capitale?
— Dovreste tornare a Bad Hollen, signore, e da lì prendere...
— Non se ne parla nemmeno —, e se ne partì in direzione opposta, sul calesse di un
vicino, un tale che faceva il fabbro, un talento, nel suo ramo, un vero talento. […]
Aveva passato la notte a squartarsi dal ridere. Insomma, aveva un debito di
riconoscenza, per così dire. Chiuse l'officina, quel giorno, e portò via Bartleboom da
quei postir e da quei ricordi, e da tutto, al diavolo, non, ci sarebbe mai più tornato, il
professore, era finita, quella storia, bene o male che fosse, era finita, una volta per
tutte, sacramento di un Dio. Finita.
Così.
Poi non ci ha provato più, Bartleboom. A sposarsi. […]
Io credo che un po' ci soffrisse, di questa faccenda, ma non te lo faceva pesare […].
Era uno di quelli che, comunque, si fanno un'idea lieta della vita. Uno in pace, se
capite cosa voglio dire. Nei sette anni che ha abitato qui, sotto di noi, è sempre stato
un'allegria averlo qui, […], e tante volte in casa nostra, come se fosse uno di famiglia,
e in un certo senso davvero lo era. Tra l'altro, avrebbe potuto abitare in ben altri
quartieri, lui, con tutti quei soldi che gli arrivavano negli ultimi tempi, eredità, per
capirsi, le zie che cascavano una dopo l'altra, come mele mature, riposino in pace,
tutta una processione di notai, un testamento dopo l'altro e tutti, volenti o nolenti,
portavano liquidi nelle tasche di Bartleboom. Insomma, se voleva poteva vivere da
tutt'altra parte. Ma lui rimase qui. […].
A quella sua Enciclopedia dei limiti eccetera continuò a lavorare fino all'ultimo.
Adesso aveva iniziato a riscriverla. Diceva che la scienza faceva passi da gigante e
che, insomma, non si finiva mai di dover aggiornare, specificare, correggere, limare.
Lo affascinava questa idea che una Enciclopedia sui limiti finisse per diventare un
libro che non finivi mai. Un libro infinito. Era un bell'assurdo, a pensarci, e lui ci
rideva su […]. Era lieve, lui.
Va da sé che anche morire, fu una cosa che fece a modo suo. Senza tanto spettacolo,
sottovoce. Si mise a letto, un giorno, stava poco bene, e la settimana dopo era tutto
finito. Non si capiva neanche bene se soffrisse o no, in quei giorni, io glielo chiedevo
ma a lui importava solo che non ci intristissimo, tutti quanti, per quella storia da nulla.
Gli seccava disturbare. Solo una volta mi chiese se per favore gli mettevo su uno di
quei quadri del suo amico pittore, appeso alla parete, proprio davanti al letto. Anche
quella era una storia da non crederci, quella della collezione dei Plasson. Quasi tutti
bianchi, se mi credete. Ma lui ci teneva tantissimo. Anche quello che gli misi su,
quella volta, era proprio bianco, tutto bianco, lui lo scelse tra tutti, e io glielo misi lì,
che lo potesse vedere bene, dal letto. Era bianco, giuro. Ma lui lo guardava, lo
riguardava, se lo rigirava negli occhi, per così dire.
— Il mare... —, diceva piano.
Morì che era mattina. Chiuse gli occhi e non li riaprì più. Semplice.
Io non so. C'è gente che muore e, con tutto il rispetto, non ci si perde niente. Ma lui
era uno di quelli che quando non ci sono più lo senti. Come se il mondo intero
diventasse, da un giorno all'altro, un po' più pesante. Capace che questo pianeta, e
tutto quanto, resta a galla nell'aria solo perché ci sono tanti Bartleboom, in giro, che ci
pensano loro a tenerlo su. Con quella loro leggerezza. Senza aver la faccia da eroi, ma
intanto tengono su la baracca. Sono fatti così. Bartleboom, lui, era fatto così. Per dire:
era uno capace di prenderti sottobraccio, un giorno qualsiasi, per strada, e dirti in gran
segreto
— Io una volta ho visto gli angeli. Stavano sulla riva del mare.
Con tutto che lui non ci credeva, in Dio, era uno scienziato, e per le cose di chiesa
non aveva una gran predisposizione, se capite cosa voglio dire. Ma aveva visto gli
angeli. E te lo diceva. Ti prendeva sottobraccio, un giorno qualsiasi, per strada e con
la meraviglia negli occhi, te lo diceva.
— Io una volta ho visto gli angeli. […]
CALVINO – LE CITTÀ INVISIBILI
- Gli altri ambasciatori mi avvertono., di carestie, di concussioni, di congiure,
oppure mi segnalano miniere di turchesi nuovamente scoperte, […] E tu? - chiese a
Polo il Gran Kan. - Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i
pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa. A che ti
serve, allora, tanto viaggiare?
[...]
Il veneziano sapeva che quando Kublai se la prendeva con lui era per seguire meglio
il filo d'un suo ragionamento; e che le sue risposte e obiezioni trovavano il loro posto
in un discorso che già si svolgeva per conto suo, nella testa del Gran Kan.
[…]
Marco Polo immaginava di rispondere (o Kublai immaginava la sua risposta) che
più si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, più capiva le altre città che
aveva attraversato per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e
imparava a conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua
giovinezza, e i dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino.
A questo punto Kublai Kan l'interrompeva o immaginava d'interromperlo, o Marco
Polo immaginava d'essere interrotto, con una domanda come: - Avanzi col capo
voltato sempre all'indietro? - oppure: - Ciò che vedi è sempre alle tue spalle? - o
meglio: - Il tuo viaggio si svolge solo nel passato?
Tutto perché Marco Polo potesse spiegare o immaginare di spiegare o essere
immaginato spiegare o riuscire finalmente a spiegare a se stesso che quello che lui
cercava era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si trattava del passato era un
passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del
viaggiatore cambia a seconda dell'itinerario compiuto, non diciamo il passato
prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto.
[...]
Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante
che potevano essere suoi; al posto di quell'uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si
fosse fermato nel tempo tanto tempo prima, […]. Ormai, da quel suo passato vero o
ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un'altra città dove lo
aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e
ora è il presente di qualcun altro. […].
- Viaggi per rivivere il tuo passato? - era a questo punto la domanda del Kan, che
poteva anche essere formulata così: - Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: - L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore
riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
(Cantico dei Cantici)
Lo sposo
Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme,
per le gazzelle, o per le cerve dei campi,
non destate, non scuotete dal sonno l'amore
finché non lo voglia
….[ALESSANDRA]........
Eccoti bella, amica mia, eccoti bella
Come un filo di porpora son le tue labbra
E la tua bocca è soave;
come spicchio di melagrana è la tua gota
entro i riccioli tuoi.
Come torre di David è il tuo collo
Costruita per l'armi:
mille scudi pendon da lei,
armature tutte di prodi.
I tuoi due seni come due caprioletti
gemelli di gazzella
che pasturan fra i gigli.
Prima che soffi il giorno
E s'allunghino l'ombre
Me ne andrò al monte della mirra
E al colle dell'incenso.
Tutta bella tu sei, amica mia,
né v'è difetto in te.
Con me dal Libano, o sposa,
con me dal Libano, vieni !
Scendi dalla cima dell'Amana,
dalla cima del Senir e dell'Hermon
dalle tane dei leoni,
da' monti dei leopardi...............
Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme
.........[Anna].......................
Tu m'hai fatto impazzire, sorella mia sposa, sposa
tu m'hai fatto impazzire con un solo tuo sguardo,
co' una perla sola del tuo collo!
Quanto sono belli i tuoi amori, sorella mia, sposa,
e miele e latte sotto la tua lingua
e l'odore delle tue vesti è come odore del Libano.
Orto racchiuso, sorella mia, sposa,
sorgente chiusa, fontana suggellata.
I tuoi germogli, un giardino di melagrane,
coi frutti più deliziosi,
fiori di cipro con nardo,
nardo e croco, cannella e cinnamomo
con ogni specie d'alberi da incenso,
mirra ed aloe
con tutti i più preziosi aromi:
fontana di giardini,
polla d'acque vive
e che scendono dal Libano............
Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme
…......[Lucia e poi Elisabetta].........
"Volgiti, volgiti, o Shulammita
Volgiti, volgiti ed ammirati, saremo in te"
"Che cosa ammirerete nella Shulammita
nella danza a due schiere?"
"Come sono belli i tuoi piedi
nei sandali, o nobile figlia,
le curve delle tue cosce, come monili
lavoro di mano d'artista;
la tua vulva, coppa rotonda
mai priva di vino temprato;
il tuo ventre mucchio di grano
circondato da gigli;
i tuoi seni come due caprioletti
gemelli di gazzella;
il collo tuo come torre d'avorio
i tuoi occhi, vasche di Hesebon
presso la porta di Bath-rabbim;
il tuo naso come la torre del Libano
prospicente in faccia a Damasco.
Il tuo capo è su te come il Carmelo
E la chioma del capo tuo come la porpora:
un re è rimasto preso alle trecce.
O mia colomba che stai nei rifugi della roccia,
nei nascondigli dei dirupi,
fammi vedere il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è leggiadro!
Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme,
per le gazzelle, o per le cerve dei campi,
non destate, non scuotete dal sonno l'amore
finché non lo voglia
da Regione Regina di Giovanni Soldati
Ogni volta che torno a Genova, mi stupisco e mi chiedo, scherzosamente, che
bisogno possa aver sentito il Piemonte di conquistare l'Italia mentre aveva già la
Liguria. Tutto ciò che di italiano manca a Torino, ce l'ha, e ce l'aveva, Genova. E
quando, settanta e più anni fa, ogni estate, lasciavo Torino per le vacanze e
attraversavo Genova e la riviera, era tutta l'Italia, di colpo, che mi appariva. Anzi: per
un bambino, per un ragazzo come me, nato e vissuto sempre a Torino, sarebbe più
giusto dire che Genova e le due riviere della Liguria erano addirittura un concentrato
di tutto il resto del mondo fuori Torino. […] Sorta con ragionato intuito in una
vastissima pianura tra le Alpi a nord-ovest abbastanza lontane da non incombere e le
Colline a nord-est abbastanza vicine da rallegrare: aperta lungo il corso del Po come
un immenso ventaglio che ha potuto e ancora può espandersi, dilatarsi senza fine:
attraversata da una quantità di piccoli fiumi e torrenti che si gettano nel Po
ortogonalmente: Torino è un hapax legomenon, un unicum assoluto. Calcolata,
accentrata, militare, industriale, monarchica, religiosa, deve la sua esistenza al
rigoroso sviluppo, per venti successivi secoli, di una struttura a scacchiera:
l'accampamento di una legione romana ai tempi di Augusto Imperatore.
Si può capire, dunque, che cosa provai la prima volta che vidi Genova e la Liguria.
Faccio un conto approssimativo, ne deduco che deve essere accaduto nel luglio del
1910 o 1911: […]
Sì, mi ricordo che quell'anno, negli ultimi giorni prima della fine delle scuole, mia
madre mi andava dicendo: Vedrai, Mario, vedrai il mare, vedrai Genova, vedrai le
navi nel porto, vedrai la spiaggia a Alassio, andrai in barca, imparerai a nuotare, ecc.
ecc. In barca ero già andato sul Po e sul laghetto di Avigliana.
[...]
Ma ciò che provai, poi, fu profondamente diverso. Questo effetto-[concetto] di
assoluta totale sbalorditiva diversità, questo altro mondo diverso da Torino, […]
cominciò soltanto poco dopo Novi Ligure, ultimo paese piemontese, nel momento che
il treno imboccò la prima galleria dei Giovi. Nessuno aveva pensato a avvertirmi che
quando il treno entrava nel tunnel si sarebbe rimasti al buio. Ero con mia madre, con
mia nonna e con mio nonno. […]
Ecco, adesso ricordo. All'improvviso il treno mandò un fischio lungo, molto lungo.
Mio nonno, accanto al quale sedevo vicino, si sporse a guardare, lateralmente, al
finestrino.
«Ecco» disse: «tra poco cominciano i Giovi» .
[...]
Mio nonno non aveva detto, e nessun altro nemmeno: la Galleria dei Giovi, il tunnel
dei Giovi. E io non osavo accertarmi. I Giovi era un misto: forse un esperimento
particolare collegato con la natura ma anche con la strada ferrata e con qualche
ostacolo che dovevamo affrontare, e che avremmo superato. Probabile che tutto si
sarebbe risolto bene, probabile, si, ma non proprio sicuro. I Giovi! Non si sa mai, coi
Giovi, come sarebbe andata a finire. Di colpo, con un altro fischio, brevissimo e
fortissimo, quasi un grido di avviso, rimanemmo al buio, in un'oscurità totale, e subito
il rumore del treno aumentò, era assordante, per parlare bisognava urlare. Afferrai la
mano di mio nonno, per sentire che era sempre lì, vicino a me. […]. Finché potevo
stringere la mano di mio nonno, mi dissi che non dovevo, no, avere paura. Andò così
che, al ritorno della luce normale, i boschi nel sole che di colpo apparvero ai finestrini
mi delusero. Tutto qui?
Ma tornò il buio. Mio nonno gridò:
«Eh, i Giovi sono lunghi... prima che finiscano!» E capii, allora, o almeno credetti di
capire che questi Giovi erano una cosa che non si poteva, in nessun caso, prendere
leggermente !
Di nuovo era la luce, ma fu il buio di nuovo, e a poco a poco, con una crescente
velocità, sempre più lunghi i tratti di luce, sempre più brevi i tratti al buio.
Di nuovo senza che nessuno mi avvertisse tutto cambiò: apparvero al finestrino, nel
sole, dei tetti grigi, tutti grigi, uno dopo l'altro, e case, case, tetti grigi, che vedevo per
la prima volta, di cui nessuno mi aveva mai detto niente, e qualche cosa, tra i tetti e
sotto i tetti, nei muri, nelle finestre, nelle persiane o negli scuretti alle finestre aperte o
chiuse, qualche cosa di strano, di duro, di acuto, di penetrante, spazi che non avevo
mai visto prima nei paesi della campagna vicino a Torino: qualcosa di molto diverso
da quei casoni larghi, bassi, di un giallo-beige caldo, rassicurante, e coi tetti colore del
vino vecchio.
No, era un'altra terra, un altro mondo.
Il treno parve accelerare, come se avesse preso la rincorsa.
«Genova!» gridò mio nonno «Siamo già a Genova!»
E io balzai al finestrino, schiacciai il naso contro il vetro. Non fu così forte la mia
sorpresa né la mia commozione neppure quando, venticinque anni dopo, balzai alla
murata del Biancamano avendo udito da qualcuno gridare «New York! I grattacieli!»
Vorrei, anzi, dire che la novità assoluta, rivoluzionària, che provai, bambino, alla
prima vista di Genova, lo stupore che provai allora, bambino, alla prima vista di
Genova, superava quello che provai, dopo, vedendo per la prima volta i grattacieli: lo
superava perché, in qualche modo, lo conteneva. […] . Tutte e due erano, certamente,
sensazioni amorose: ma quella di New York me la aspettavo e la riconobbi e quella di
Genova no, mi arrivò di sorpresa e restò in me come l'amore più forte e più vero di
tutti gli altri possibili amori: l'amore per la creatura che sposeremo per sempre senza
mai riuscire a conoscerla davvero.
[...]
Genova con la sua riviera di Ponente e con la sua riviera di Levante: era. come ho
già detto, tutto ciò che, in Italia e nel mondo intero. non era e non sarà mai Torino:
era, per esempio, um architettura non militare, non geometrica, non ripetitiva, non
ricca di simmetrie, non cerebrale, non astratta: ma un'architettura insieme antichissima
e modernissima cioè fortemente ispirata e collegata alle bizzarrie stesse della natura.
Non une spazio omogeneo e vuoto su cui disegniamo immagini ideali; ma uno spazio,
o piuttosto una serie di spazi che hanno le forme folli e variate delle onde marine, del
vento, delle rocce che noi cerchiamo di sfruttare dopo averne studiato la vitalità
organica: così era nata, secoli e secoli addietro, una civiltà collegata ai commerci, ai
viaggi, ai rapporti con altre civiltà lontanissime, ad uno spirito di avventura, alla
curiosità di tutto ciò che è diverso, al rispetto dell'individuo umano in ogni caso, a un
istinto di fraternità, una passione invincibile per la libertà di ciascuno e di tutti.
Chiaro, la civiltà di Torino è, fondamentalmente, il contrario: disciplina,
organizzazione, amore per quanto ci è simile bisogno di ordine e diffidenza per
l'avventura. Ma Piemonte e Liguria sono, da sempre, confinanti: e non c'è dubbio che
liguri abbiano capito la necessità di imitare in parte le virtù raziocinanti dei loro
tranquilli vicini. Non soltanto vicini, erano ma cugini stretti, gli uni e gli altri di razza
celta. [...]
Proprio il mio sfrenato amore per la Liguria mi impedisce di immaginare con
sufficiente sicurezza quale sia, quali forme prenda l'amore che molti genovesi hanno
per Torino, e in quale modo_i piemontesi affascinino i liguri.
[…]
Posso soltanto dire: adesso ancora, tal e quale come da bambino, tutte e volte,
appena odo quella strana, forte, veloce, inquieta, sibilante, sferzante, insinuante
cadenza piena di u e di i, mi sento rimescolare il sangue. La cadenza genovese
serpeggia come una frusta e come la via di Pré: oscura, invita alla vita, odorosa e
fetida evoca il mare e i porti di tutto il mondo...
Ex voto a San Zorzo»
«L'arco d'Amore, una fetta d'anguria, un amuleto, mezzaluna cristiana incurvata sul
mare che essa domina con tutti i suoi santuari appesi come lampadari ai declivi
terrazzati delle sue due lunghe Riviere — ecco, questa è la forma della Liguria,
piccolo ritaglio privilegiato di quel grande gioco di pazienza, o di squisita impazienza
che è la Geografia.
[...]
«I treni percorronoxun lungo portico marino, un muro bianco
i tratto in tratto tagliato dalla picchiettata nerezza dei tunnel
Libertà
Noi Zingari abbiamo una sola religione: la libertà.
In cambio di questa rinunciamo alla ricchezza, al potere, alla scienza ed
alla gloria.
Viviamo ogni giorno come se fosse l'ultimo.
Quando si muore si lascia tutto: un miserabile carrozzone come un grande impero.
E noi crediamo che in quel momento sia molto meglio essere stati Zingari che re.
Non pensiamo alla morte. Non la temiamo, ecco tutto.
Il nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose
che la vita ci offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare:
una mattina di sole, un bagno nella sorgente,
lo sguardo di qualcuno che ci ama.
E' difficile capire queste cose, lo so. Zingari si nasce.
Ci piace camminare sotto le stelle, (avvio fisarmonica)
Si raccontano strane cose sugli Zingari.
Si dice che leggono l'avvenire nelle stelle
e che possiedono il filtro dell'amore.
La gente non crede alle cose che non sa spiegarsi.
Noi invece non cerchiamo di spiegarci le cose in cui crediamo.
La nostra è una vita semplice, primitiva.
Ci basta avere per tetto il cielo,
un fuoco per scaldarci
e le nostre canzoni, quando siamo tristi.
(Spatzo)