Riferimenti - Storia filosofia e lettere
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Riferimenti - Storia filosofia e lettere
Riferimenti: da Le vie dei canti di Chatwin Accenni da La Sagra della primavera di Stravinski da Il cercatore d'oro di Gustave Le Clezio Sunrise Sunset di Jerry Book (dal film "Il violinista sul tetto") Maria Morison da Poemetti e canzoni di Robert Burns Morrison Jig, tradizionale irlandese Libertà di Vittorio Mayer Pasquali Spatzo Opa Cupa, tradizionale balcanico da Poesie d’amore di Pablo Neruda Por una cabeza di Carlos Gardel da Oceano Mare di Alessandro Baricco da Le città invisibili di Italo Calvino da Cantico dei cantici Sherazad, tradizionale medio-orientale da Aforismi di Marc Chagall Bolter Bulgar, tradizionale klezmer da Regione Regina di Giovanni Soldati Genova per noi, di Paolo Conte IN PRINCIPIO... In principio la Terra era una pianura sconfinata e tenebrosa, separata dal cielo e dal grigio mare salato, avvolta in un crepuscolo indistinto. Non c'erano né Sole né Luna né Stelle. Tuttavia, molto lontano, vivevano gli Abitanti del Cielo: esseri spensierati e indifferenti, dalle fattezze umane ma con zampe da emù, e capelli dorati lucenti come ragnatele al tramonto; erano senza età e perennemente giovani, poiché esistevano da sempre nel loro verde Paradiso lussureggiante al di là delle Nuvole occidentali. Sulla superficie della Terra si vedevano soltanto le buche che un giorno sarebbero diventate i pozzi. Non c'erano né animali né piante, ma molli masse di materia concentrate intorno alle buche: grumi di minestra primordiale, silenziosi, ciechi, senza respiro né veglia né sonno: ciascuno aveva in sé l'essenza della vita o la possibilità di diventare umano. Ma sotto la crosta della Terra brillavano le costellazioni, il Sole splendeva, la Luna cresceva e calava, e giacevano nel sonno tutte le forme di vita: il fiore scarlatto di un pisello del deserto, l'iridescenza di un'ala di farfalla, i vibranti baffi bianchi di Vecchio Uomo Canguro — assopiti come i semi del desertogv che devono aspettare un acquazzone di passaggio. Il mattino del Primo Giorno, al Sole venne una gran voglia di nascere. (Quella sera le Stelle e la Luna lo avrebbero imitato). Il Sole squarciò improvvisamente la superficie e inondò la Terra di luce dorata, riscaldando le buche in cui dormiva ogni Antenato. [...] Accadde così che quel primo mattino ogni Antenato dormiente sentisse il calore del Sole premere sulle proprie palpebre e il proprio corpo che generava dei figli. L'Uomo Serpente sentì i serpenti strisciargli fuori dall'ombelico. L'Uomo Cacatua sentì le piume. L'Uomo Bruco sentì una contorsione, la Formica del Miele un prurito, il Caprifoglio sentì schiudersi foglie e fiori. L'Uomo Bandicoot sentì piccoli bandicoot che fremevano sotto le sue ascelle. Ogni « essere vivente », ciascuno nel suo diverso luogo di nascita, salì a raggiungere la luce del giorno, […] Scrollarono le spalle e piegarono le braccia. Si alzarono facendo forza contro il fango. Le loro palpebre si aprirono di schianto: videro i figli che giocavano al sole. Il fango si staccò dalle loro cosce, come la placenta da un neonato. Poi, come fosse il primo vagito, ogni Antenato aprì la bocca e gridò: « Io sono! ». « Sono il Serpente... il Cacatua... la Formica del Miele... il Caprifoglio... ». E questo primo « Io sono! », questo primordiale « dare nome », fu considerato, da allora e per sempre, il distico più sacro e segreto del Canto dell'Antenato. […] Gli Uomini del Tempo Antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l'amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Giornata verso Agalega Da quanto viaggiamo? Cinque, sei giorni? […] Che importa? Perché poi saperlo? Ma faccio un grande sforzo pex ricordare la data della partenza, per tentare il conteggio delle giornate in mare. È un tempo lunghissimo, innumerevoli giorni, eppure la cosa mi sembra molto fuggevole anche. È un'unica infinita giornata iniziata quando sono salito sulla Zeta, una giornata simile al mare, dove il cielo cambia, ogni tanto, si copre e s'abbuia, dove ia luce delle stelle fa posto a quella del sole, ma dove il vento non smette mai di soffiare, né le onde d'irrompere, né l'orizzonte di accerchiare la nave. A mano a mano che il viaggio procede, il capitano Bradmer diventa più affabile. Questa mattina mi ha insegnato a fare il punto con il sestante, e il metodo per determinare il meridiano e il parallelo. Oggi, siamo a 12° 38' sud e 54° 30' est, e il calcolo della nostra posizione mi dà la, risposta alla domanda fatta sul tempo, significando che ci troviamo a due giorni di navigazione dall'isola, qualche, minuto troppo a est per via degli alisei che ci hanno spostati di rotta durante la notte. [...] Quando il timoniere nero scende a sdraiarsi sul materasso giù nella stiva, Bradmer mi addita la barra. «A lei, signore?» Dice missié, [dal francese monsieur] alla creola. Non me lo faccio certo ripetere. Adesso, sono io che reggo la grande ruota, le mani strette sui ritti consunti. Sento le onde pesanti contro il timone, il vento che urta le grandi vele. È la prima volta che piloto una nave. A un certo punto, una raffica ha steso la Zeta, velatura tesa da schiantarsi, e ascoltavo lo scafo scricchiolare sotto lo sforzo, mentre l'orizzonte si capovolgeva davanti al bompresso. La nave è rimasta un bel pezzo così, in equilibrio sulla cresta dell'onda, e non potevo più respirare. Poi, di colpo, ho messo istintivamente la barra a babordo, per assecondare il vento. E piano piano la nave si è raddrizzata in una nube di spruzzi. Sul ponte, i marinai hanno urlato: «Ayooo!». Ma il capitano Bradmer è rimasto seduto senza dir niente, gli occhi strizzati, l'eterna sigaretta verde fra le labbra; Sarebbe capace di affondare con la sua nave, quell'uomo, senza muoversi dalla poltrona. Sto bene in guardia, adesso. Sorveglio il vento e le onde, e quando entrambi sembrano troppo forti, li assecondo, girando il timone a favore. Credo di non essermi mai sentito più forte, più libero. Piantato sul ponte che scotta, le dita dei piedi allargate per reggermi meglio, avverto il moto possente dell'acqua contro lo scafo, contro il timone. […] sono nel puro avvenire che mi circonda. Avvenire che è il mare, il vento, il cielo, la luce. A lungo, forse per ore, sono rimasto in piedi davanti alla ruota, tra vortici d'acqua e vento. Il sole mi brucia la schiena, la nuca, mi è sceso lungo il lato sinistro del corpo. Già quasi sfiorando l'orizzonte, lancia la sua polvere di fuoco sul mare. […] Già viene la notte, ancora una notte. Ma il crepuscolo dura a lungo sul mare, e guardo il giorno spegnersi piano. È lo stesso mondo che ho conosciuto? Mi sembra di essere entrato in un altro mondo attraversando l'orizzonte. Un mondo che rassomiglia a quello della mia infanzia, al Boucan, dove regnava il rumore del mare, come se la Zeta viaggiasse all'indietro lungo la strada che annulla il tempo. Mentre il giorno sfuma via lento, io mi abbandono ancora una volta al sogno. Fantastico. […] Sento anche il dolce vento serale, corre più svelto di noi. Tutto il mondo è silenzio. Ogni sera, è come un rito misterioso osservato da tutti. Nessuno che parli. Si ascolta il rumore delle onde contro la prua, il sordo vibrare di vele e cordame. Come ogni sera, i marinai comoriani si inginocchiano sul ponte, a proravia, per recitare la loro preghiera verso il nord. Le voci mi giungono come un sussurro attutito, mischiato al vento e al mare. Mai come oggi, nello scivolare veloce e nel lento rollìo dello scafo, su questo mare trasparente e simile al cielo, ho avvertito di più la bellezza di quella preghiera, rivolta in nessun luogo, sperduta nell'immensità. […] Robert Burns MARIA MORISON O Maria, affacciati alla finestra: è l'ora desiderata, è l'ora stabilita! Fa ch'io veda quei sorrisi e quegli sguardi che rendon povero il tesoro dell'avaro: come felicemente sopporterei la polvere, costretto a faticare da un giorno all'altro, se potessi assicurarmi questa ricca ricompensa: l'amabile Maria Morison. Ieri sera, quando al suono della tremolante corda le danze attraversavano la sala illuminata, a te è volato il mio pensiero: lì io sedevo, ma non sentivo niente, niente vedevo. Sebbene una fosse graziosa, un'altra bella e l'altra la più bella di tutto il paese, io sospiravo e dicevo in mezzo a loro: "Voi non siete Maria Morison ". O Maria, puoi tu distruggere la pace di chi morirebbe volentieri per te? Puoi tu spezzare quel cuore, la cui sola colpa è quella d'amarti? Se non vuoi rendere amore per amore, almeno mostrami un po' di pietà! Non può essere un pensiero scortese il pensiero di Maria Morison. Libertà Noi Zingari abbiamo una sola religione: la libertà. In cambio di questa rinunciamo alla ricchezza, al potere, alla scienza ed alla gloria. Viviamo ogni giorno come se fosse l'ultimo. Quando si muore si lascia tutto: un miserabile carrozzone come un grande impero. E noi crediamo che in quel momento sia molto meglio essere stati Zingari che re. Non pensiamo alla morte. Non la temiamo, ecco tutto. Il nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose che la vita ci offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare: una mattina di sole, un bagno nella sorgente, lo sguardo di qualcuno che ci ama. E' difficile capire queste cose, lo so. Zingari si nasce. Ci piace camminare sotto le stelle. (avvìo fisarmonica) Si raccontano strane cose sugli Zingari. Si dice che leggono l'avvenire nelle stelle e che possiedono il filtro dell'amore. La gente non crede alle cose che non sa spiegarsi. Noi invece non cerchiamo di spiegarci le cose in cui crediamo. La nostra è una vita semplice, primitiva. Ci basta avere per tetto il cielo, un fuoco per scaldarci e le nostre canzoni, quando siamo tristi. (Spatzo) da: “Oceano Mare” di Alessandro Baricco Andò così. Era alle terme, Bartleboom, alle terme di Bad Hollen, cittadina agghiacciante, se capite cosa voglio dire. Ci andava per certi disturbi che lo affliggevano, cose di prostata, una faccenda fastidiosa, una seccatura. Quando ti becca da quelle parti è una vera seccatura, sempre, mica cose gravi, ma ci devi far attenzione, ti tocca fare un sacco di cose ridicole, umilianti. Bartleboom, lui, andava alle terme di Bad Hollen, per esempio. Cittadina, tra l'altro, agghiacciante. Ma comunque. Era lì, Bartleboom, con la fidanzata, certa Maria Luigia Severina Hohenheith, una bella donna, non ci sono dubbi, ma del genere palco d'opera, se capite cosa voglio dire. Un po' di facciata. Ti veniva da girarle dietro per vedere se c'era qualcosa, dietro il cerone e il gran parlare e tutto il resto. Poi non lo facevi, ma ti veniva. Bartleboom, a onor del vero, non si era fidanzato con grande entusiasmo, anzi. [...] Erano le zie a sborsare. [...] Ma comunque. Aveva fatto tutto la zia Matilde, e Bartleboom non aveva potuto opporsi un granché. Si era fidanzato. Non l'aveva proprio digerita benissimo, però. Aveva perso un po' di quello smalto... gli si era appannata l'anima, se capite cosa voglio dire. Era come se si fosse aspettato qualcosa di diverso, lui, di proprio diverso. Non era preparato a quella normalità lì. Tirava avanti, niente di più. Poi un giorno, lì a Bad Hollen, lui con la fidanzata e la prostata, andò a un ricevimento, una cosa elegante, tutto champagne e musichette allegre. Valzer. E lì incontrò quella Anna Ancher. Era una donna speciale, lei. Dipingeva. Anche bene, dicevano. Tutt'altro genere dalla Maria Luigia Severina, per capirsi. Fu lei a fermarlo, nel cancan della festa. — Perdonatemi... voi siete il professor Bartleboom, vero? — Sì. — Io sono un'amica di Michel Plasson. [il pittore]. Venne fuori che le aveva scritto mille volte, […] parlandogli di Bartleboom e di tante cose, e in particolare di quella Enciclopedia dei limiti eccetera, una storia che, a sentir lei, l'aveva proprio colpita. — Sarei incantata di poter vedere un giorno la vostra opera. Disse esattamente così: incantata. Lo disse inclinando leggermente la testolina da una parte e scostandosi dagli occhi una ciocca di capelli neri corvini. Una cosa da maestra. A Bartleboom fu come se quella frase gliel'avessero direttamente messa in circolo nel sangue. Per così dire gli riverberò fin dentro i pantaloni. Farfugliò qualcosa e da lì in poi non fece che sudare. Sudava da Dio, lui, quando era il caso. Non c'entrava la temperatura. Faceva tutto da sé. Magari sarebbe anche finita lì, quella storia, ma il giorno dopo, mentre se ne stava a passeggiare, solo, rigirandosi nella testa quella frase e tutto il resto, Bartleboom vide passare una carrozza, una di quelle belle, con sopra bagagli e cappelliere. Puntava fuori città. E dentro, lui la vide benissimo, c'era Anna Ancher. Proprio lei. Capelli corvini. Testolina. C'era tutto. Anche il riverbero nei pantaloni era lo stesso del giorno prima. Bartleboom capì. Checché se ne dica in giro era un uomo che, all'occorrenza, sapeva prendere le sue decisioni, altro che scherzi, quando era il caso non si tirava indietro. Così tornò a casa, fece le valigie e, bello pronto a partire, si presentò dalla fidanzata, la Maria Luigia Severina. Stava a tramestare con spazzole, nastri e collane, lei. — Maria Luigia... — Ti prego, Ismael, sono già in ritardo... — Maria Luigia, desidero informarti che non sei più fidanzata. — D'accordo Ismael, ne riparleremo più tardi. — E di conseguenza anch'io non sono più fidanzato. — E' ovvio, Ismael. — Allora addio. Quel che era stupefacente, in quella donna, era la lentezza dei tempi di reazione. Ne parlammo, più di una volta con Bartleboom, della faccenda, lui era assolutamente affascinato da quel fenomeno, […] Nella circostanza, sapeva dunque benissimo che il tempo a sua disposizione per sparire impunito da quella casa oscillava tra i ventidue e i ventisei secondi. Aveva calcolato che gli sarebbero bastati per raggiungere la carrozza. In effetti fu esattamente quando lui posò il sedere in vettura che la tersa aria mattutina di Bad Hollen fu scardinata da un urlo disumano - BAAAAAAARTLEBOOM! Che voce, quella donna. […] Si era informato, Bartleboom: gli Ancher stavano a Hollenberg, cinquantaquattro chilometri a nord di Bad Hollen. Si mise in viaggio. Aveva addosso il vestito delle grandi occasioni. Anche il cappello, era quello della festa. Sudava, sì, ma entro i livelli di guardia della comune decenza. La carrozza correva senza problemi lungo la via tra le colline. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi. Sulle parole da dire ad Anna Ancher, quando le sarebbe apparso davanti, Bartleboom aveva le idee chiare: — Signorina, io vi aspettavo. Vi ho aspettato per anni. E, trac, le avrebbe allungato la scatola di mogano con tutte le lettere, centinaia di lettere, una cosa da rimanere secchi, dallo stupore, e dalla tenerezza. Era un buon piano, niente da dire. Bartleboom se lo rigirò in mente per tutto il viaggio, e questo fa riflettere sulla complessità della mente di certi grandi uomini di studio e di pensiero […] Bartleboom passò tutto il viaggio a verificare l'inattaccabile esattezza logica del suo piano, ma solo a sette chilometri da Hollenberg, e specificatamente tra i paesi di Alzen e Balzen, si ricordò che, ad essere precisi, lui, quella scatola di mogano, e dunque tutte le lettere, centinaia di lettere, non l'aveva più. Sono colpi, quelli. Se capite cosa voglio dire. In effetti, la scatola con le lettere Bartleboom l'aveva data alla Maria Luigia Severina, il giorno del fidanzamento. Mica tanto convinto, ma le aveva porto il tutto, con una certa solennità, dicendo — Io vi aspettavo. Vi ho aspettata per anni. Dopò quei dieci, dodici secondi di abituale impasse, la Maria Luigia aveva strabuzzato gli occhi, allungato il collo e, incredula, aveva proferito un'unica, elementare parola - Me? "Me?" non era propriamente la risposta che Bartleboom si era sognato per anni, intanto che scriveva quelle lettere e viveva da solo, arrangiandosi alla meglio. Per cui va da sé che rimase un po' deluso, nella circostanza, lo si può capire. [...] Succede. Uno si fa dei sogni, roba sua, intima, e poi la vita non ci sta a giocarci insieme, e te li smonta, un attimo, una frase, e tutto si disfa. Succede. Mica per altro che vivere è un mestiere gramo. Tocca rassegnarsi. Non ha gratitudine, la vita, se capite cosa voglio dire. Gratitudine. Ma comunque. Adesso il problema era che la scatola serviva, e però era nel peggiore dei posti possibili, cioè da qualche parte a casa della Maria Luigia. Bartleboom scese dalla carrozza a Balzen, cinque chilometri prima di Hollenberg, pernottò alla locanda e il mattino dopo riprese la carrozza in senso inverso, per tornare a Bad Hollen. Era iniziata, la sua odissea. […] Con la Maria Luigia usò la solita tecnica, non c'era da sbagliarsi. Entrò senza farsi annunciare nella stanza dove lei languiva, a letto, a curarsi i nervi, e senza preamboli disse — Cara, son venuto a prendere le lettere. — Sono sullo scrittoio, tesoro —, rispose lei con una certa dolcezza. Poi, dopo ventisei secondi esatti, emise un lamento strozzato e svenne. Bartleboom, va da sé, se ne era già sparito. Riprese la carrozza, questa volta in direzione Hollenberg, e, la sera del giorno dopo, si presentò a casa Ancher. Lo accompagnarono nel salone, e poco ci mancò che restasse secco, secco stecchito. Era al pianoforte, la signorina, e stava suonando, con la testolina, i capelli corvini e tutto il resto […]. Sola, lì, lei il pianoforte e basta. Da non crederci. Bartleboom se ne rimase impietrito, con la sua scatola di mogano in mano, sulla soglia del salone, candito completo. Non riusciva neanche più a sudare. Contemplava e basta. Quando la musica finì, la signorina girò lo sguardo verso di lui. Definitivamente rapito, lui attraversò il salone, giunse fin davanti a lei, posò la scatola di mogano sul pianoforte e disse: — Signorina Anna, io vi aspettavo. Vi ho aspettato per anni. Anche questa volta la risposta fu singolare. — Io non sono Anna. — Prego? — Io mi chiamo Elisabetta. Anna è mia sorella. Gemelle, se capite cosa voglio dire. Due gocce d'acqua. — Mia sorella è a Bad Hollen, alle Terme. Una cinquantina di chilometri da qui. — Sì, conosco la strada, grazie. Sono colpi, quelli. Niente da dire. Veri colpi. Per fortuna Bartleboom aveva delle risorse, lui, aveva della forza d'animo da vendere, nella carcassa. Si rimise in viaggio, destinazione Bad Hollen. Se era lì che stava Anna Ancher era lì che lui doveva andare. Semplice. Fu più o meno a metà strada che iniziò a sembrargli un po' meno semplice. Il fatto è che non riusciva a togliersi da dosso quella musica. E il pianoforte, le mani sulla tastiera, la testolina di capelli corvini, tutta quell'apparizione, insomma. Roba che sembrava organizzata dal demonio, tanto era perfetta. […] Prese a tribolare, il professore, con questa storia delle gemelle, e la pittrice e la pianista, non si raccapezzava più, è anche comprensibile. Più il tempo passava e meno lui ci capiva. Si può dire che a ogni chilometro di strada ci capisse un chilometro di meno. Alla fine decise che si imponeva una pausa di riflessione. Scese a Pozel, sei chilometri prima di Bad Hollen. E lì passò la notte. L'indomani prese la carrozza per Hollenberg: si era deciso per la pianista. Più affascinante, aveva pensato. Cambiò idea al ventiduesimo chilometro: precisamente a Bazel, dove scese e pernottò. Ripartì di mattina presto con la carrozza per Bad Hollen — intimamente già fidanzato con Anna Ancher, la pittrice — per fermarsi a Suzer, piccolo paese a due chilometri da Pozel, dove si chiarì definitivamente che, caratterialmente parlando, lui era tagliato più per Elisabetta, la pianista. Nei giorni seguenti i suoi spostamenti oscillatori lo portarono di nuovo ad Alzen, poi a Tozer, da lì a Balzen, quindi indietro fino a Fazel, e da lì, nell'ordine, a Palzen, Rulzen, Alzen (per la terza volta) e Colzen. La gente della zona aveva maturato la convinzione che fosse un ispettore di qualche ministero. Lo trattavano tutti molto bene. Ad Alzen, al terzo passaggio, trovò perfino un comitato cittadino ad attenderlo. Lui non ci fece gran caso. Non era uno formale. Era un uomo semplice, Bartleboom, un bel pezzo di uomo semplice. E giusto. Davvero. Ma comunque. Non poteva andare avanti in eterno quella storia, […]. Lo capì, Bartleboom. E dopo dodici giorni di appassionata oscillazione, si mise il vestito giusto e puntò deciso verso Bad Hollen. Aveva deciso: avrebbe vissuto con una pittrice. Arrivò la sera di un giorno festivo. Anna Ancher non era in casa. Sarebbe tornata da lì a poco. Aspetto, […] disse. E si accomodò in un salottino. Fu lì che d'improvviso gli tornò alla memoria, fulminante, un'immagine elementare e rovinosa: la sua scatola di. mogano, bella lucida, posata sul pianoforte di casa Ancher. L'aveva dimenticata lì. Sono cose difficili da capire, queste, per la gente normale, […], perché è il mistero delle menti superiori, è tutta una cosa loro, ingranaggi del genio, capaci di acrobazie grandiose […]. Lui, Bartleboom, era di quella specie lì. […] Non si scompose, comunque. Si alzò e informando che sarebbe tornato più tardi, riparò in un alberghetto fuori città. Il giorno dopo prese la carrozza per Hollenberg. Incominciava ad avere una certa consuetudine con quella strada, ne stava diventando, per così dire, un vero esperto. Se mai ci fosse stata una cattedra universitaria per studi su quella strada, potevi giurarci che era roba sua, assicurato. A Hollenberg le cose andarono via lisce. La scatola era effettivamente lì. — Avrei voluto mandarvela ma non avevo proprio idea di dove trovarvi —, gli disse Elisabetta Ancher con una voce che avrebbe sedotto anche un sordo. Bartleboom vacillò un attimo ma poi si riprese. — Non importa, va benissimo così. Le baciò la mano e si congedò. Non chiuse occhio tutta la notte ma la mattina si presentò puntuale alla prima carrozza per Bad Hollen. Un bel viaggio. Ad ogni fermata era tutto un salutare e festeggiare. Si stava affezionando, la gente, sono fatti così, da quelle parti, gente socievole, non sta a farsi troppe domande e ti tratta col cuore in mano. Veramente. Zona di una bruttezza agghiacciante, questo bisogna dirlo, ma la gente è squisita, gente d'altri tempi. Ma comunque. Se Dio vuole, Bartleboom arrivò a Bad Hollen con la sua scatola di mogano, le lettere e tutto quanto. Ritornò a casa di Anna Ancher e si fece annunciare. La pittrice stava lavorando a una natura morta, mele pere fagiani, cose così, fagiani morti, si intende, una natura morta, appunto. Teneva là testolina leggermente piegata da un lato. I capelli corvini le incorniciavano il viso che era un piacere. Ci fosse stato anche un pianoforte non avresti avuto dubbi che fosse l'altra, quella di Hol-lenberg. E invece era lei, quella di Bad Hollen. Due gocce d'acqua, dico. Prodigioso, quello che riesce a fare la natura quando si mette di buzzo buono. Da non crederci. [...] — Professor Bartleboom, che sorpresa! —, squittì lei. — Buon giorno, signorina Ancher —, rispose lui, aggiungendo subito: — Anna Ancher, vero? — Sì, perché? Voleva andare sul sicuro, il professore. Non si sa mai. — Cosa vi ha portato fin qui, a farmi felice con una vostra visita? — Questo —, rispose serio Bartleboom, posandole davanti la scatola di mogano e aprendola sotto i suoi occhi. — Io vi aspettavo, Anna. Vi ho aspettato per anni. La pittrice allungò la mano e richiuse di scatto la scatola. — Prima che la nostra conversazione prosegua sarà bene che la informi di una cosa, professor Bartleboom. — Quel che volete, mia adorata. — Io sono fidanzata. — Ma va'? — Mi sono fidanzata sei giorni fa con il sottotenente Gallega. — Ottima scelta. — Grazie. Bartleboom risalì mentalmente a sei giorni prima. Era il giorno che, arrivato da Rulzen, si era fermato a Colzen per poi ripartire per Alzen. […]. Sei giorni. Sei miserabili giorni. Tra parentesi, quel Gallega era un vero parassita, se capite cosa voglio dire, un essere insignificante e in certo modo perfino nocivo. Una pena. Vera e propria. Una pena. — Ora volete che continuiamo? — Credo che non sia più il caso —, rispose Bartleboom riprendendosi la scatola di mogano. Sulla strada che lo riportava al suo albergo, il professore cercò di analizzare freddamente la situazione e giunse alla conclusione che i casi erano due (circostanza, si sarà notato, che torna con una certa frequenza, essendo i casi generalmente due e solo di rado tre): o quello era solo uno spiacevole intoppo, e allora ciò che doveva fare era sfidare a duello il suddetto sottotenente Gallega e toglierlo di torno. O era un chiaro segno del destino, di un destino magnanimo, e allora quel che doveva fare era tornare al più presto a Hollenberg e sposare Elisabetta Ancher, indimenticata pianista. Detto per inciso, Bartleboom odiava i duelli. Proprio, non li sopportava. "Fagiani morti...", pensò con un certo disgusto. E decise di partire. Seduto al suo posto, sulla prima carrozza del mattino, imboccò ancora una volta la strada per Hollenberg. Era di umore sereno e accolse con benevola simpatia le manifestazioni di ilare affetto che via via gli tributarono le popolazioni dei paesi di Pozel, Colzen, Tozer, Rulzen, Palzen, Alzen, Balzen e Fazel. Gente simpatica, come ho detto. All'imbrunire si presentò, vestito di tutto punto e con la sua scatola di mogano, a casa Ancher. — La signorina Elisabetta, prego —, disse con una certa solennità al servitore che gli aprì la porta. — Non c'è, signore. E ripartita questa mattina per Bad Hollen. Da non crederci. Un uomo di altra preparazione morale e culturale, sarebbe magari tornato sui suoi passi e avrebbe preso la prima carrozza per Bad Hollen. Un uomo di minor tempra psichica e nervosa, si sarebbe forse abbandonato alle più plateali espressioni di uno sconforto definitivo e insanabile. Ma Bartleboom era uomo probo e giusto, uno di quelli che hanno un certo stile quando si tratta di digerire le bizze del destino. Bartleboom, lui, iniziò a ridere. Ma ridere della grossa, proprio a crepapelle, roba da piegarsi in tre dal ridere, non c'èra verso di fermarlo, con lacrime e tutto, uno spettacolo, una risata babelica, oceanica, apocalittica, una risata che non finiva più. l servi di casa Ancher non sapevano più cosa fare, non c'era verso di farlo smettere, né con le buone né con le cattive, continuava a fracassarsi dal ridere, lui, una cosa imbarazzante, e contagiosa oltre tutto, si sa, inizia uno e poi tutti dietro, è la legge della ridarola, è come una pestilenza, hai voglia di provare a rimanere serio, non ce la fai, è inesorabile, niente da fare, crollavano uno dopo l'altro, i servi, che pure non avevano niente da ridere […] ma crollavano uno ad uno, a ridere come pazzi, da farsela addosso, se capite cosa voglio dire, da farsela addosso, se non stavi attento. Alla fine lo portarono su un letto. Rideva anche da orizzontale, comunque, e con quale entusiasmo, con quale generosità, un portento, davvero, tra singhiozzi lacrime e soffocamenti, ma irrefrenabile, portentoso, davvero. Un'ora e mezza dopo era ancora lì a ridere. E non aveva smesso un attimo. I servi erano ormai allo stremo, loro, correvano fuori dalla casa per non sentire più quel singultare esilarante e contagioso, cercavano di fuggire, con le budella che gli si contorcevano dal male, per il gran sghignazzare, cercavano di salvarsi, li si può ben capire, ormai stava diventando una questione di vita o di morte. Da non crederci. Poi, a un certo punto, Bartleboom, senza preavviso, si bloccò, come una macchina inceppata, tornò improvvisamente serio, si guardò intorno e inquadrato il servo che gli era più a tiro gli disse, serissimo: — Avete visto una scatola di mogano? Non gli parve vero, a quello, di rendersi utile, purché la smettesse. — Eccola, signore. — Be', ve la regalo —, disse Bartleboom, e giù a ridere, di nuovo, come un pazzo, […] Da lì in poi non la smise più. La notte, se la fece tutta ridendo. A parte i servi di casa Ancher, che adesso giravano con la bambagia nelle orecchie, era una faccenda seccante per la cittadina tutta, la mite Hollenberg, che le risate di Bartleboom, si capisce, valicavano i confini della casa propriamente detta e dilagavano che era un piacere in quel silenzio notturno. Di dormire, neanche a parlarne. Era già tanto riuscire a rimanere seri. E in un primo momento, in effetti, si riusciva a stare seri, anche in considerazione dell'irritazione per quello scalpore molesto, ma poi il buon senso andava alla malora ben presto, e iniziava a dilagare il batterio della ridarola, irrefrenabile, a divorarsi tutti, indistintamente, uomini e donne, per tacere dei bambini, davvero tutti. Come un'epidemia. C'erano case in cui non si rideva da mesi, neanche più si ricordavano come si faceva […]. E quella notte, giù a ridere, tutti, da rivoltarsi le budella, una cosa mai vista, stentavano a riconoscersi, caduta la maschera di quelle loro eterne pive, e spalancato, in faccia, lo sghignazzo. Una rivelazione. […]. Un concerto che toccava il cuore. Una meraviglia. Bartleboom, lui, dirigeva il coro. Era il suo momento, per così dire. E lui, dirigeva, da maestro. Una notte memorabile, vi dico. Chiedete pure. Vigliacco se non vi diranno che fu una notte memorabile. Ma comunque. Alle prime luci dell'alba, si placò. Bartleboom, dico. E poi via via tutta la cittadina. Smisero di ridere, a poco a poco, e poi definitivamente. Com'era venuta se n'era andata. Bartleboom chiese da mangiare. L'impresa, si capisce, gli aveva messo una gran fame addosso, non è una cosa da nulla ridere per tutto quel tempo, e con quell'entusiasmo. Quanto alla salute, però, aveva tutta l'aria di averne da vendere. — Mai stato meglio —, confermò alla delegazione di cittadini che, in qualche modo riconoscenti, e comunque incuriositi, vennero a informarsi del suo stato. Si era fatto dei nuovi amici, in pratica, Bartleboom. Decisamente in quella zona era destino che finisse di legare con la gente. Gli andava giù storta con le donne, questo è vero, ma quanto alla gente sembrava nato per quella zona lì. Davvero. Comunque si alzò, salutò tutti e si accinse a rimettersi in viaggio. Aveva un'idea precisa, al riguardo. — Qual è la strada per la capitale? — Dovreste tornare a Bad Hollen, signore, e da lì prendere... — Non se ne parla nemmeno —, e se ne partì in direzione opposta, sul calesse di un vicino, un tale che faceva il fabbro, un talento, nel suo ramo, un vero talento. […] Aveva passato la notte a squartarsi dal ridere. Insomma, aveva un debito di riconoscenza, per così dire. Chiuse l'officina, quel giorno, e portò via Bartleboom da quei postir e da quei ricordi, e da tutto, al diavolo, non, ci sarebbe mai più tornato, il professore, era finita, quella storia, bene o male che fosse, era finita, una volta per tutte, sacramento di un Dio. Finita. Così. Poi non ci ha provato più, Bartleboom. A sposarsi. […] Io credo che un po' ci soffrisse, di questa faccenda, ma non te lo faceva pesare […]. Era uno di quelli che, comunque, si fanno un'idea lieta della vita. Uno in pace, se capite cosa voglio dire. Nei sette anni che ha abitato qui, sotto di noi, è sempre stato un'allegria averlo qui, […], e tante volte in casa nostra, come se fosse uno di famiglia, e in un certo senso davvero lo era. Tra l'altro, avrebbe potuto abitare in ben altri quartieri, lui, con tutti quei soldi che gli arrivavano negli ultimi tempi, eredità, per capirsi, le zie che cascavano una dopo l'altra, come mele mature, riposino in pace, tutta una processione di notai, un testamento dopo l'altro e tutti, volenti o nolenti, portavano liquidi nelle tasche di Bartleboom. Insomma, se voleva poteva vivere da tutt'altra parte. Ma lui rimase qui. […]. A quella sua Enciclopedia dei limiti eccetera continuò a lavorare fino all'ultimo. Adesso aveva iniziato a riscriverla. Diceva che la scienza faceva passi da gigante e che, insomma, non si finiva mai di dover aggiornare, specificare, correggere, limare. Lo affascinava questa idea che una Enciclopedia sui limiti finisse per diventare un libro che non finivi mai. Un libro infinito. Era un bell'assurdo, a pensarci, e lui ci rideva su […]. Era lieve, lui. Va da sé che anche morire, fu una cosa che fece a modo suo. Senza tanto spettacolo, sottovoce. Si mise a letto, un giorno, stava poco bene, e la settimana dopo era tutto finito. Non si capiva neanche bene se soffrisse o no, in quei giorni, io glielo chiedevo ma a lui importava solo che non ci intristissimo, tutti quanti, per quella storia da nulla. Gli seccava disturbare. Solo una volta mi chiese se per favore gli mettevo su uno di quei quadri del suo amico pittore, appeso alla parete, proprio davanti al letto. Anche quella era una storia da non crederci, quella della collezione dei Plasson. Quasi tutti bianchi, se mi credete. Ma lui ci teneva tantissimo. Anche quello che gli misi su, quella volta, era proprio bianco, tutto bianco, lui lo scelse tra tutti, e io glielo misi lì, che lo potesse vedere bene, dal letto. Era bianco, giuro. Ma lui lo guardava, lo riguardava, se lo rigirava negli occhi, per così dire. — Il mare... —, diceva piano. Morì che era mattina. Chiuse gli occhi e non li riaprì più. Semplice. Io non so. C'è gente che muore e, con tutto il rispetto, non ci si perde niente. Ma lui era uno di quelli che quando non ci sono più lo senti. Come se il mondo intero diventasse, da un giorno all'altro, un po' più pesante. Capace che questo pianeta, e tutto quanto, resta a galla nell'aria solo perché ci sono tanti Bartleboom, in giro, che ci pensano loro a tenerlo su. Con quella loro leggerezza. Senza aver la faccia da eroi, ma intanto tengono su la baracca. Sono fatti così. Bartleboom, lui, era fatto così. Per dire: era uno capace di prenderti sottobraccio, un giorno qualsiasi, per strada, e dirti in gran segreto — Io una volta ho visto gli angeli. Stavano sulla riva del mare. Con tutto che lui non ci credeva, in Dio, era uno scienziato, e per le cose di chiesa non aveva una gran predisposizione, se capite cosa voglio dire. Ma aveva visto gli angeli. E te lo diceva. Ti prendeva sottobraccio, un giorno qualsiasi, per strada e con la meraviglia negli occhi, te lo diceva. — Io una volta ho visto gli angeli. […] CALVINO – LE CITTÀ INVISIBILI - Gli altri ambasciatori mi avvertono., di carestie, di concussioni, di congiure, oppure mi segnalano miniere di turchesi nuovamente scoperte, […] E tu? - chiese a Polo il Gran Kan. - Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa. A che ti serve, allora, tanto viaggiare? [...] Il veneziano sapeva che quando Kublai se la prendeva con lui era per seguire meglio il filo d'un suo ragionamento; e che le sue risposte e obiezioni trovavano il loro posto in un discorso che già si svolgeva per conto suo, nella testa del Gran Kan. […] Marco Polo immaginava di rispondere (o Kublai immaginava la sua risposta) che più si perdeva in quartieri sconosciuti di città lontane, più capiva le altre città che aveva attraversato per giungere fin là, e ripercorreva le tappe dei suoi viaggi, e imparava a conoscere il porto da cui era salpato, e i luoghi familiari della sua giovinezza, e i dintorni di casa, e un campiello di Venezia dove correva da bambino. A questo punto Kublai Kan l'interrompeva o immaginava d'interromperlo, o Marco Polo immaginava d'essere interrotto, con una domanda come: - Avanzi col capo voltato sempre all'indietro? - oppure: - Ciò che vedi è sempre alle tue spalle? - o meglio: - Il tuo viaggio si svolge solo nel passato? Tutto perché Marco Polo potesse spiegare o immaginare di spiegare o essere immaginato spiegare o riuscire finalmente a spiegare a se stesso che quello che lui cercava era sempre qualcosa davanti a sé, e anche se si trattava del passato era un passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del viaggiatore cambia a seconda dell'itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. [...] Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi; al posto di quell'uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel tempo tanto tempo prima, […]. Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un'altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. […]. - Viaggi per rivivere il tuo passato? - era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: - Viaggi per ritrovare il tuo futuro? E la risposta di Marco: - L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà. (Cantico dei Cantici) Lo sposo Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme, per le gazzelle, o per le cerve dei campi, non destate, non scuotete dal sonno l'amore finché non lo voglia ….[ALESSANDRA]........ Eccoti bella, amica mia, eccoti bella Come un filo di porpora son le tue labbra E la tua bocca è soave; come spicchio di melagrana è la tua gota entro i riccioli tuoi. Come torre di David è il tuo collo Costruita per l'armi: mille scudi pendon da lei, armature tutte di prodi. I tuoi due seni come due caprioletti gemelli di gazzella che pasturan fra i gigli. Prima che soffi il giorno E s'allunghino l'ombre Me ne andrò al monte della mirra E al colle dell'incenso. Tutta bella tu sei, amica mia, né v'è difetto in te. Con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano, vieni ! Scendi dalla cima dell'Amana, dalla cima del Senir e dell'Hermon dalle tane dei leoni, da' monti dei leopardi............... Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme .........[Anna]....................... Tu m'hai fatto impazzire, sorella mia sposa, sposa tu m'hai fatto impazzire con un solo tuo sguardo, co' una perla sola del tuo collo! Quanto sono belli i tuoi amori, sorella mia, sposa, e miele e latte sotto la tua lingua e l'odore delle tue vesti è come odore del Libano. Orto racchiuso, sorella mia, sposa, sorgente chiusa, fontana suggellata. I tuoi germogli, un giardino di melagrane, coi frutti più deliziosi, fiori di cipro con nardo, nardo e croco, cannella e cinnamomo con ogni specie d'alberi da incenso, mirra ed aloe con tutti i più preziosi aromi: fontana di giardini, polla d'acque vive e che scendono dal Libano............ Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme …......[Lucia e poi Elisabetta]......... "Volgiti, volgiti, o Shulammita Volgiti, volgiti ed ammirati, saremo in te" "Che cosa ammirerete nella Shulammita nella danza a due schiere?" "Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, o nobile figlia, le curve delle tue cosce, come monili lavoro di mano d'artista; la tua vulva, coppa rotonda mai priva di vino temprato; il tuo ventre mucchio di grano circondato da gigli; i tuoi seni come due caprioletti gemelli di gazzella; il collo tuo come torre d'avorio i tuoi occhi, vasche di Hesebon presso la porta di Bath-rabbim; il tuo naso come la torre del Libano prospicente in faccia a Damasco. Il tuo capo è su te come il Carmelo E la chioma del capo tuo come la porpora: un re è rimasto preso alle trecce. O mia colomba che stai nei rifugi della roccia, nei nascondigli dei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro! Io vi scongiuro, o figlie di Gerusalemme, per le gazzelle, o per le cerve dei campi, non destate, non scuotete dal sonno l'amore finché non lo voglia da Regione Regina di Giovanni Soldati Ogni volta che torno a Genova, mi stupisco e mi chiedo, scherzosamente, che bisogno possa aver sentito il Piemonte di conquistare l'Italia mentre aveva già la Liguria. Tutto ciò che di italiano manca a Torino, ce l'ha, e ce l'aveva, Genova. E quando, settanta e più anni fa, ogni estate, lasciavo Torino per le vacanze e attraversavo Genova e la riviera, era tutta l'Italia, di colpo, che mi appariva. Anzi: per un bambino, per un ragazzo come me, nato e vissuto sempre a Torino, sarebbe più giusto dire che Genova e le due riviere della Liguria erano addirittura un concentrato di tutto il resto del mondo fuori Torino. […] Sorta con ragionato intuito in una vastissima pianura tra le Alpi a nord-ovest abbastanza lontane da non incombere e le Colline a nord-est abbastanza vicine da rallegrare: aperta lungo il corso del Po come un immenso ventaglio che ha potuto e ancora può espandersi, dilatarsi senza fine: attraversata da una quantità di piccoli fiumi e torrenti che si gettano nel Po ortogonalmente: Torino è un hapax legomenon, un unicum assoluto. Calcolata, accentrata, militare, industriale, monarchica, religiosa, deve la sua esistenza al rigoroso sviluppo, per venti successivi secoli, di una struttura a scacchiera: l'accampamento di una legione romana ai tempi di Augusto Imperatore. Si può capire, dunque, che cosa provai la prima volta che vidi Genova e la Liguria. Faccio un conto approssimativo, ne deduco che deve essere accaduto nel luglio del 1910 o 1911: […] Sì, mi ricordo che quell'anno, negli ultimi giorni prima della fine delle scuole, mia madre mi andava dicendo: Vedrai, Mario, vedrai il mare, vedrai Genova, vedrai le navi nel porto, vedrai la spiaggia a Alassio, andrai in barca, imparerai a nuotare, ecc. ecc. In barca ero già andato sul Po e sul laghetto di Avigliana. [...] Ma ciò che provai, poi, fu profondamente diverso. Questo effetto-[concetto] di assoluta totale sbalorditiva diversità, questo altro mondo diverso da Torino, […] cominciò soltanto poco dopo Novi Ligure, ultimo paese piemontese, nel momento che il treno imboccò la prima galleria dei Giovi. Nessuno aveva pensato a avvertirmi che quando il treno entrava nel tunnel si sarebbe rimasti al buio. Ero con mia madre, con mia nonna e con mio nonno. […] Ecco, adesso ricordo. All'improvviso il treno mandò un fischio lungo, molto lungo. Mio nonno, accanto al quale sedevo vicino, si sporse a guardare, lateralmente, al finestrino. «Ecco» disse: «tra poco cominciano i Giovi» . [...] Mio nonno non aveva detto, e nessun altro nemmeno: la Galleria dei Giovi, il tunnel dei Giovi. E io non osavo accertarmi. I Giovi era un misto: forse un esperimento particolare collegato con la natura ma anche con la strada ferrata e con qualche ostacolo che dovevamo affrontare, e che avremmo superato. Probabile che tutto si sarebbe risolto bene, probabile, si, ma non proprio sicuro. I Giovi! Non si sa mai, coi Giovi, come sarebbe andata a finire. Di colpo, con un altro fischio, brevissimo e fortissimo, quasi un grido di avviso, rimanemmo al buio, in un'oscurità totale, e subito il rumore del treno aumentò, era assordante, per parlare bisognava urlare. Afferrai la mano di mio nonno, per sentire che era sempre lì, vicino a me. […]. Finché potevo stringere la mano di mio nonno, mi dissi che non dovevo, no, avere paura. Andò così che, al ritorno della luce normale, i boschi nel sole che di colpo apparvero ai finestrini mi delusero. Tutto qui? Ma tornò il buio. Mio nonno gridò: «Eh, i Giovi sono lunghi... prima che finiscano!» E capii, allora, o almeno credetti di capire che questi Giovi erano una cosa che non si poteva, in nessun caso, prendere leggermente ! Di nuovo era la luce, ma fu il buio di nuovo, e a poco a poco, con una crescente velocità, sempre più lunghi i tratti di luce, sempre più brevi i tratti al buio. Di nuovo senza che nessuno mi avvertisse tutto cambiò: apparvero al finestrino, nel sole, dei tetti grigi, tutti grigi, uno dopo l'altro, e case, case, tetti grigi, che vedevo per la prima volta, di cui nessuno mi aveva mai detto niente, e qualche cosa, tra i tetti e sotto i tetti, nei muri, nelle finestre, nelle persiane o negli scuretti alle finestre aperte o chiuse, qualche cosa di strano, di duro, di acuto, di penetrante, spazi che non avevo mai visto prima nei paesi della campagna vicino a Torino: qualcosa di molto diverso da quei casoni larghi, bassi, di un giallo-beige caldo, rassicurante, e coi tetti colore del vino vecchio. No, era un'altra terra, un altro mondo. Il treno parve accelerare, come se avesse preso la rincorsa. «Genova!» gridò mio nonno «Siamo già a Genova!» E io balzai al finestrino, schiacciai il naso contro il vetro. Non fu così forte la mia sorpresa né la mia commozione neppure quando, venticinque anni dopo, balzai alla murata del Biancamano avendo udito da qualcuno gridare «New York! I grattacieli!» Vorrei, anzi, dire che la novità assoluta, rivoluzionària, che provai, bambino, alla prima vista di Genova, lo stupore che provai allora, bambino, alla prima vista di Genova, superava quello che provai, dopo, vedendo per la prima volta i grattacieli: lo superava perché, in qualche modo, lo conteneva. […] . Tutte e due erano, certamente, sensazioni amorose: ma quella di New York me la aspettavo e la riconobbi e quella di Genova no, mi arrivò di sorpresa e restò in me come l'amore più forte e più vero di tutti gli altri possibili amori: l'amore per la creatura che sposeremo per sempre senza mai riuscire a conoscerla davvero. [...] Genova con la sua riviera di Ponente e con la sua riviera di Levante: era. come ho già detto, tutto ciò che, in Italia e nel mondo intero. non era e non sarà mai Torino: era, per esempio, um architettura non militare, non geometrica, non ripetitiva, non ricca di simmetrie, non cerebrale, non astratta: ma un'architettura insieme antichissima e modernissima cioè fortemente ispirata e collegata alle bizzarrie stesse della natura. Non une spazio omogeneo e vuoto su cui disegniamo immagini ideali; ma uno spazio, o piuttosto una serie di spazi che hanno le forme folli e variate delle onde marine, del vento, delle rocce che noi cerchiamo di sfruttare dopo averne studiato la vitalità organica: così era nata, secoli e secoli addietro, una civiltà collegata ai commerci, ai viaggi, ai rapporti con altre civiltà lontanissime, ad uno spirito di avventura, alla curiosità di tutto ciò che è diverso, al rispetto dell'individuo umano in ogni caso, a un istinto di fraternità, una passione invincibile per la libertà di ciascuno e di tutti. Chiaro, la civiltà di Torino è, fondamentalmente, il contrario: disciplina, organizzazione, amore per quanto ci è simile bisogno di ordine e diffidenza per l'avventura. Ma Piemonte e Liguria sono, da sempre, confinanti: e non c'è dubbio che liguri abbiano capito la necessità di imitare in parte le virtù raziocinanti dei loro tranquilli vicini. Non soltanto vicini, erano ma cugini stretti, gli uni e gli altri di razza celta. [...] Proprio il mio sfrenato amore per la Liguria mi impedisce di immaginare con sufficiente sicurezza quale sia, quali forme prenda l'amore che molti genovesi hanno per Torino, e in quale modo_i piemontesi affascinino i liguri. […] Posso soltanto dire: adesso ancora, tal e quale come da bambino, tutte e volte, appena odo quella strana, forte, veloce, inquieta, sibilante, sferzante, insinuante cadenza piena di u e di i, mi sento rimescolare il sangue. La cadenza genovese serpeggia come una frusta e come la via di Pré: oscura, invita alla vita, odorosa e fetida evoca il mare e i porti di tutto il mondo... Ex voto a San Zorzo» «L'arco d'Amore, una fetta d'anguria, un amuleto, mezzaluna cristiana incurvata sul mare che essa domina con tutti i suoi santuari appesi come lampadari ai declivi terrazzati delle sue due lunghe Riviere — ecco, questa è la forma della Liguria, piccolo ritaglio privilegiato di quel grande gioco di pazienza, o di squisita impazienza che è la Geografia. [...] «I treni percorronoxun lungo portico marino, un muro bianco i tratto in tratto tagliato dalla picchiettata nerezza dei tunnel Libertà Noi Zingari abbiamo una sola religione: la libertà. In cambio di questa rinunciamo alla ricchezza, al potere, alla scienza ed alla gloria. Viviamo ogni giorno come se fosse l'ultimo. Quando si muore si lascia tutto: un miserabile carrozzone come un grande impero. E noi crediamo che in quel momento sia molto meglio essere stati Zingari che re. Non pensiamo alla morte. Non la temiamo, ecco tutto. Il nostro segreto sta nel godere ogni giorno le piccole cose che la vita ci offre e che gli altri uomini non sanno apprezzare: una mattina di sole, un bagno nella sorgente, lo sguardo di qualcuno che ci ama. E' difficile capire queste cose, lo so. Zingari si nasce. Ci piace camminare sotto le stelle, (avvio fisarmonica) Si raccontano strane cose sugli Zingari. Si dice che leggono l'avvenire nelle stelle e che possiedono il filtro dell'amore. La gente non crede alle cose che non sa spiegarsi. Noi invece non cerchiamo di spiegarci le cose in cui crediamo. La nostra è una vita semplice, primitiva. Ci basta avere per tetto il cielo, un fuoco per scaldarci e le nostre canzoni, quando siamo tristi. (Spatzo)