IL DISCO SI POSO`

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IL DISCO SI POSO`
Il disco si posò sulla campagna veneta, tra uomini burberi e montagne amiche
tesi: Buzzati ci parla della fragile condizione umana che, proprio perché così precaria, è costretta a
trovare un senso nell’apertura verso l’altro, e la consolazione tra amicizie, amori e montagne familiari.
Una sera di quelle fredde, con il cielo limpido e i colli in lontananza a fare da orizzonte, la campagna
già mezza addormentata e gli uomini rientrati nelle case, don Pietro, il parroco di un piccolo paese, udì,
mentre era seduto beato in poltrona a leggere fumando il toscano, un rumore davvero insolito e si
affacciò: ebbene due marziani, sì (così li avrebbe definiti nel racconto confuso e contraddittorio con cui
rassicurò i fedeli che poi gli si fecero attorno a interrogarlo), proprio due marziani, erano atterrati sul
tetto della sua chiesa, di fianco alla canonica. Il prete non aveva avuto alcuna particolare reazione: né
imbarazzato né intimidito era rimasto lì, tranquillo ad osservare il grande disco volante, e, quando si era
aperto lo sportello, gli era bastato allungare il braccio e afferrare la sua doppietta che pendeva dal
muro, lasciando uscire i due dal loro abitacolo azzurro di ferraglia aliena e guardandoli avanzare dritti
dritti verso la croce posta sulla facciata. La osservavano come fosse un’antenna e nascondesse qualche
miracolo elettronico. Quando gli stranieri gli erano sembrati troppo pericolosamente vicini, sempre
impassibile, il sacerdote aveva detto con la sua voce rimbombante: - Ehi, giù di là giovanotti! Chi siete?
Parevano alti poco più di un metro ed elastici, però, allungabili. La loro forma era simile a zampilli di
fontana, scopette, più grosse in cima e strette in fondo, che si agitavano e illuminavano quando qualcosa
di particolarmente interessante o strano capitava sul loro cammino. I due alieni cominciarono a
parlottare tra di loro. Non si capivano le parole, più che altro un interrotto rumorino elettrico, ma
stranamente il sacerdote comprendeva bene cosa dicevano: gli stavano spiegando che era da tempo che
osservavano gli uomini, sapevano tutto di loro; solo una cosa non capivano: come mai quell’antenna
fosse ovunque. Non se ne spiegavano né la funzione né l’importanza. Il prete disse solenne che era il
simbolo di Gesù Cristo, figlio di Dio, morto in croce e che serviva a tutte le anime del paese. Poi
infervorato, posata la doppietta, si mise a spiegare ai due la storia di quel simbolo, con la recondita
speranza, magari, di convertirli mediante lettura della Genesi. I marziani si accomodarono sul suo
materasso e lui si sedette allo scrittoio. Don Pietro lesse e raccontò tutto da principio e cioè da quando il
frutto dell’albero della conoscenza era stato mangiato dall’uomo e aveva provocato il male presente
sulla terra. I marziani lo interruppero dicendo che anche nel loro mondo esisteva un albero del genere,
ma che, a differenza degli uomini, essi non ne avevano mai mangiato il frutto in quanto vietato dalla
legge. Don Pietro allora si sentì sopraffare dalla vergogna e umile umile, mortificato, cadde in
ginocchio coprendosi il volto. Erano dei puri, i due, senza difetti, quasi dei piccoli angeli del cielo!
Maggiore vergogna gli derivò poi a raccontare come Gesù fosse sceso sulla terra per salvarli, gli
uomini, ma come questi, invece di accoglierlo bene, con tutti gli onori…..
I marziani subito indovinarono: lo avevano ucciso! E a quel punto non poterono trattenersi dal chiedere
a cosa fosse servito tutto ciò, la discesa di Gesù, la sua stessa morte in croce?! Don Pietro si vergognò
allora più che mai per l’umanità, si inginocchiò e si mise le mani sul volto. Gli alieni, quasi pronti a
ripartire, gli fecero ancora una domanda: cosa stava facendo in quella posizione? Il parroco si stupì,
disse che stava pregando.
I due stranieri non conoscevano quella pratica e poi, per che mai avrebbero dovuto pregarlo Dio?
Il prete, che fino a quel punto si era sentito un verme, si ritrovò improvvisamente sollevato e se ne
rallegrò! Dio preferiva certamente gli uomini, “porci, avidi, turpi, mentitori”, piuttosto che gli alieni,
quei primi della classe dalla logica ferrea, che non gli rivolgevano mai la parola: “sapienti incensurati,
(…) maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio”. La religione vista come luogo di
incontro universale e di dialogo con la divinità, la croce proprio come una antenna di trasmissione,
invece di essere soltanto il simbolo di una regola obbligatoria: come si sentiva improvvisamente
leggero!
Quando il disco volante fu lontano, ormai un puntino in mezzo al cielo, don Pietro per la gioia gli sparò
dietro un colpo di fucile.
L’ambiente in cui si svolge questa storia è di campagna: gli uomini che si ritirano in famiglia dopo il
lavoro nei campi; il silenzio fuori, a parte il rumore degli animali di sottofondo, la rana, i pipistrelli;
l’odore del fumo che esce dai camini; la calma della sera. Nelle case antiche sembra di sentire i passi
felpati degli spiriti, la natura sembra respirare, svelando ogni tipo di segreto.
Buzzati, anche in questo inizio, è come sempre molto bravo a cogliere il mistero che sta attorno a noi,
che magari non percepiamo più, solo perché ci abbiamo fatto l’abitudine a questa vita che rimane
invece un incredibile miracolo.
La breve descrizione iniziale, velata da “lanugini di nebbia” che si leva dalle valli, non può non
ricordare i luoghi veneti del bellunese in cui visse l’autore da ragazzo, almeno durante le vacanze: c’è
tutta la magia dell’immaginazione infantile, un’atmosfera ovattata, misteriosa come nelle fiabe, e nello
stesso tempo la realtà conosciuta intimamente nei rumori e nei sapori, con l’attenzione con cui solo i
bambini sanno percepire ciò che li circonda e la precisione di un ricordo che non potrà cancellarsi mai
più. C’è la chiesa alla sommità del paese, col suo parroco, l’imperterrito don Pietro, tranquillo ma
determinato, intrepido eppure sospettoso, prevenuto, ma interessato e curioso davanti alla novità,
profondamente cristiano, eppure consapevole dei limiti e rassegnato alla debolezza umana, una figura
che ci sembra di conoscere, tipica di questa terra veneta abitata da gente che non si fa tante illusioni né
cede a fiammate d’ entusiasmo, ma da sempre, col suo modo burbero, è a contatto con gli stranieri, i
‘foresti’, i marziani, prima perché ha dovuto emigrare, ora perché li deve accogliere e lo fa magari
mugugnando, col muso duro ‘e la bareta fracà’, ma lo fa.
Lo stile della narrazione assomiglia al ‘tipo veneto’: questo tono all’apparenza dimesso, il lessico
semplice, chiaro, con paragoni inaspettati, ma costruiti facendo riferimento al mondo comune (la
navicella è ‘una lenticchia mastodontica’ e gli intrusi sono ‘due scopette’), gli aggettivi concreti e
precisi nelle descrizioni, mai però troppo lunghe, fatte di poche parole selezionate, col narratore che
scivola nel discorso indiretto libero, dando un effetto di immediatezza e semplicità alla vicenda, che ci
sembra proprio di sentirla raccontare da chi l’ha vissuta, tanto da farci dimenticare tutta la sua
stranezza.
La religione è il tema principale del racconto, per il parroco è la cosa più importante, gli dedica la vita,
eppure sa benissimo che non è mai vissuta con il rigore che richiederebbe. Il messaggio quindi più che
di assoluto ci parla di limite: ci dice che la nostra esistenza non avrebbe senso se fosse infinita, perfetta,
obbediente, solo buona, se non esistessero il male, il rimorso, il pianto, la disperazione. Ciò che vi
capita acquista significato proprio perché sappiamo che ci sarà un punto di fine: siamo ‘per’ la morte,
direbbe il filosofo Heidegger1, la quale ci umanizza e ci fa prendere coscienza dell’ unicità di quanto ci
accade (il biglietto è di sola andata), del nostro tempo che non sarà eterno, ma proprio per questo dovrà
essere sensato, non disperato, ma neanche insulso, come se si pensasse di esserci per sempre, in un
delirio di onnipotenza, dove tutto però alla lunga si assomiglia ed è intercambiabile. L’uomo così
limitato dovrà superare la solitudine e la debolezza nell’incontro, nella comunicazione, nella speranza,
nella preghiera anche: per chiedere scusa o aiuto a chi non gli assomiglia, per trasformare la fragilità in
risorsa, la paura in dialogo e arrivare a trascorrere una vita sempre più umana, aperta e coraggiosa.
Insomma: il peccato, la malattia, l’errore più che mai danno intensità alla nostra esistenza, mentre quei
marziani perfetti, educati e garbati, che non sbagliano mai e sanno quasi tutto, non possono conoscere
neanche il cambiamento, la crescita morale o spirituale; non sono capaci di parlare con il loro creatore,
sono muti del sentimento verso Dio, non possono godere della dolcezza del perdono, apprezzare la
grandezza di un sacrificio, non si domandano nemmeno perché credere, né perché stare al mondo: in
definitiva sono degli esseri inutili, interessati magari sì ad accumulare conoscenza, ma poco filosofi.
Sono attaccati al concreto, rispettano le leggi senza chiedersi perché e magari sono anche felici o
almeno sereni, ma restano insulsi, quasi come il loro Dio, un po’ insulso anche quello o almeno
indifferente e lontano.
Questo tema esistenzialista è costante nell’opera di Buzzati. In molti altri racconti tratta l’argomento
‘morte’, ad esempio ne I sette piani, in cui viene descritta una clinica dove i pazienti, ricoverati per
1
M. Heidegger, Essere e tempo, 1985
malattie inizialmente di poco conto, ben presto, al di là delle illusorie scuse e giustificazioni dei medici,
si accorgono di essere destinati ad uscire solo quando saranno arrivati al piano terra, ma per andare al
camposanto; oppure ne Le gobbe del giardino, in cui si formano strane cunette, gobbe appunto, nel
prato attorno alla casa, ma non si tratta di talpe: il fenomeno è in relazione ogni volta alla morte di
qualche amico caro, ma anche alla sua sopravvivenza nel ricordo fedele.
Stesso tema è trattato in Poema a fumetti dove un moderno Orfeo con la chitarra prova a riprendere
negli Inferi la sua Euridice. Un cappotto vuoto che lo conduce gli spiega che i morti “non conoscono
più la speranza”, “non hanno dolore” e soprattutto non hanno più “la libertà di morire”. Sarà proprio
quel cappotto a chiedere a Orfi di cantargli tutto ciò che alle anime manca della vita:
“i posti, le ore, i palpiti, i segreti, la paura, il temuto tonfo, i batticuori, i ricordi, i presentimenti, le
disperazioni, l’amore, supremo bene, non allegro, mai, perché sarebbe zero se mancasse nel fondo quel
pensiero che tutto finirà (…) Non capivi che solo questa angoscia era la bellezza, la luce, il sale della
vita?”.
Buzzati è un autore che parla agli uomini di tutti i tempi e luoghi. Le sue storie non sono
contestualizzate, nonostante la precisione apparente, valgono per ciascuno di noi, a qualsiasi latitudine,
in un tempo indeterminato. Per questo ci sembrano strane e surreali e per questo smuovono la coscienza
di tutti.
Si fa fatica quindi a trovarci dei caratteri ‘veneti’, ma senz’altro, se di un carattere veneto si tratta, si
sente la pulsione morale vissuta con equilibrio, come dice Antonia Arslan2. Buzzati non si mette a fare
una critica al potere religioso per i suoi abusi, non gli interessa questo aspetto, come neanche altri
legati alla storia, alla politica, ai cambiamenti sociali: sembra uno di quei soldati di Rigoni Stern che
avevano scelto di rimanere in Russia perché nel gelo e nell'assurdità di quell’ impresa avevano
riconosciuto qualcosa che sta prima della storia: l'umanità della fatica nel lavoro dei campi, di un canto
di ragazze che filano la canapa, di un piatto di zuppa calda o di una scodella di latte e miglio. Saper
godere di una vita così, piena di momenti semplici eppur straordinari, è anche l’aspirazione dell’autore
bellunese, consapevole che invece si rischia di farla passare senza nemmeno accorgersene, oppressi
aspettando chissà quale battaglia memorabile, o in fuga da chissà quale nemico, con il tempo che
scorre via apparentemente lento, in realtà inesorabile, consumato ancor prima di rendersene conto,
come in Ragazza che precipita (da un grattacielo, simbolo della vita stessa, senza che il resto delle
2
A. Arslan, F. Volpi, La memoria e l’intelligenza.Letteratura e filosofia nel Veneto che cambia, 1989.
persone ci faccia poi tutto ‘sto caso) o come capita a Giovanni Drogo, protagonista de Il deserto dei
Tartari: solo alla fine, dopo aver aspettato per anni e anni un attacco alla fortezza Bastiani, questo
soldato saprà di essere pronto, non più proiettato in avanti e al di fuori, ma capace di affrontare a pie’
fermo il suo presente mortale. Medesima cosa succede a Stefano, ne Il Colombre, nome di un pesce più
o meno fantastico che ha fuggito per tutta la vita e che affronta solo l’ultimo giorno. Per usare una
metafora cara a Buzzati, appassionato di giro d’Italia3,solo al traguardo, insomma, si capisce chi di noi
ha corso da campione.
L’altro tema presente qui e tipico dell’autore in esame è quello del viaggio, col desiderio di
esplorazione e avventura, ma anche metafora sempre della vita che deve diventare ‘esistenza’, per non
trascorrere casuale e inutile, con l’animo oppresso dall’angoscia per l’inevitabile sconfitta finale e dalla
noia, in balia dell’infinito e del mistero, con la tentazione di tornare indietro e la speranza che giunga
l’ora del riscatto o ci siano riservate almeno delle novità o una via di fuga da ciò che il fato ha invece
riservato proprio a noi. L’uomo viene rappresentato come una creatura sensibile e indifesa, spinta a
voler anche qui oltrepassare il limite, andare lontanissimo, conoscere tutto (“un’ansia inconsueta da
qualche tempo si accende in me alla sera (…) l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi
dirigo”4), ma alla fine solo troppo distante dalle persone care, con lo spavento nel cuore per ciò che può
capitare o non capitare, anche nell’apparente normalità, per colpa di minime varianti, come una goccia
d’acqua che sale le scale invece di scenderle5.
Le ambientazioni, come quella più famosa del deserto dei Tartari, rendono proprio questa angoscia e
questa solitudine. Solo il ricordo degli affetti, la foto che rimane nel cuore senza ingiallire, dà un po’ di
consolazione: “Era il mio amico caro della giovinezza che se n’era andato, fra lui e me c’erano state
tante verità, insieme avevamo scoperto il mondo, la vita e le cose più belle, insieme avevamo esplorato
la poesia, i quadri, la musica, le montagne”6. E poi ci sarebbe l’amore, inafferrabile però, sempre un po’
sfasato e stonato: “Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera. Vorrei anche andare con te
d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo delle cose più semplici. (…) Ma tu preferisci le
luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa
da me (…) Ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una
calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti -Che bello!, ma altre
3
D. Buzzati, Dino Buzzati al Giro d’Italia, 1981.
D. Buzzati, I sette messaggeri, 1942.
5
D. Buzzati, La goccia d’acqua, 1968.
6
D. Buzzati, Le gobbe nel giardino, 1968.
4
povere cose che a me non importano”7. Perciò il viaggio della vita non può essere sempre
accompagnato da qualcuno che capisca e condivida, viene magari considerato un’inutile perdita di
tempo, eppure la solitudine è peggio: “Mi basterà averti vicina (…). Avrò pazienza se non capirai ciò
che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno
la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche dell’amore. Ma io ti avrò vicina” 8.
Perché valga la pena vivere bastano in definitiva cose molto semplici: una passeggiata insieme di
domenica, risate camminando nei boschi, “fermandosi sui ponti di legno a guardare l’acqua che passa,
(…) distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplando (..) le bianche nuvolette (…) e le cime delle
montagne”9.
E’ insomma a questo paesaggio di casa, a queste montagne amiche che Buzzati chiede un po’ di pace,
rotta magari ogni tanto “dal richiamo della rana solitaria”o dall’allegro irriverente colpo di un fucile che
spara in aria contro la perfezione, cui risponde “dai remoti colli” l’ululio familiare dei cani.
7
D. Buzzati, Inviti superflui, 1949.
Ibidem.
9
Ibidem.
8
1.nero = valentino
2.marrone rossiccio = luca a.
3.blu scuro= davide b.
4.arancione = edoardo b.
5.verde oliva= luca b.
6.verde= matteo b.
7.verde acqua = roberto
8.blu= edoardo c.
9.fucsia= giacomo
10.azzurro= francesco d. b.
11.prugna= andrea g.
12.grigio = vincenzo
13.lilla= maria
14.rosa= giada
15. viola = luisa
16. blu chiaro= luca s.
17. blu scuro= elena
18. rosso = marcella
19. viola scuro= giorgia
20. turchese= marta
21. verde scuro=matteo z.
22. ciclamino= annamaria
23. oro= andrea d.
24. pervinca= francesco d’o.
BIBLIOGRAFIA
I racconti di Dino Buzzati esaminati sono stati letti in classe nella raccolta La boutique del mistero,
1968;
alcuni studenti si sono invece occupati del romanzo principale Il deserto dei Tartari, 1940, che
hanno letto a casa e presentato ai compagni;
uno di loro, appassionato di ciclismo, ha letto Dino Buzzati al Giro d’Italia, 1981;
un altro Poema a fumetti, 1969.
L’insegnante ha preparato le lezioni utilizzando i seguenti testi:
M. Sambugar, G. Salà, Generi, autori, opere, temi, vol. 3°, pp. 818-825;
M. Heidegger, Essere e tempo, 1985;
F. Savater, Etica per un figlio, 1991;
A. Arslan, F. Volpi, La memoria e l’intelligenza. Letteratura e filosofia nel Veneto che cambia,
1989.