Segnalazione di due casi attuali e di notevole significato di Stella

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Segnalazione di due casi attuali e di notevole significato di Stella
Segnalazione di due casi attuali
e di notevole significato
di Stella Arena e Mila Grimaldi
Da circa un anno, dopo un’analoga esperienza per la FILCAMS
CGIL, prestiamo gratuitamente la nostra assistenza presso lo
«Sportello dei Diritti»: uno sportello legale che nasce a Napoli
nell’ambito delle attività svolte sul territorio dal Comitato Centro
Storico, che da anni denuncia come i meccanismi di governo del
territorio si traducano di fatto in esclusione sociale e frammentazione delle comunità territoriali con effetti di degrado delle stesse relazioni sociali.
L’esclusione sociale è diventata una colpa da trattare come
questione di ordine pubblico e di sicurezza, e poco importa se a
provocarla siano: l’espulsione dal mondo del lavoro o della
scuola; la condanna ad un precariato senza fine; il ricatto di un
lavoro privo di alcun forma di reale tutela; la sistematica negazione dei diritti di cittadinanza e l’impossibilità di integrazione di
chi è giunto nel nostro paese in cerca di una vita migliore.
La situazione già drammatica degli immigrati irregolari si è
naturalmente aggravata in seguito alle nuove restrizioni imposte
dal governo in materia di immigrazione clandestina in quanto al
sempre presente pericolo di un’espulsione si è aggiunto il rischio
di vedersi contestato il reato di ingresso o soggiorno illegale sul
territorio dello Stato.
Tuttavia operando sul territorio ci siamo rese conto come
proprio la realtà napoletana caratterizzata da una forte economia
sommersa e dal lavoro nero abbia paradossalmente consentito,
dall’adozione della Bossi-Fini in poi, la possibilità di sopravvivenza anche a chi, privo di un regolare permesso di soggiorno,
non avrebbe altrove avuto alcun accesso al lavoro.
Sebbene l’esperienza sul campo dimostri come nel napoletano
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non vi sia stato un accanimento da parte dell’AG nel perseguire
la nuova fattispecie di reato di clandestinità, la sua introduzione
ha comunque creato dei veri e propri casi limite, paradossi giuridici, in cui lo stesso legale fa fatica a districarsi…
Si tratta in particolare di quelle situazioni coperte dal divieto di
espulsione di cui all’art. 19 del TU sull’Immigrazione ed in ordine
alle quali la Corte Costituzionale nella recente pronuncia sulla legittimità costituzionale del reato di clandestinità ha taciuto.
La sposa clandestina
In base all’art. 19 del TU sull’immigrazione il coniuge straniero di cittadino italiano non è soggetto ad espulsione. Fino all’adozione del pacchetto sicurezza il matrimonio, in quanto istituto
riconosciuto dalla Costituzione all’art. 29, sanava qualsiasi situazione di irregolarità anche se ad essere tutelato era il diritto alla
libera scelta del coniuge da parte del cittadino italiano e non
certo lo straniero cui non era riconosciuto alcun diritto: ciò comportava che il rilascio del permesso soggiorno fosse legato non
solo all’effettività del sorgere della communio coniugalis, ma addirittura al consenso ed alla firma del coniuge italiano. In non pochi casi il non automatismo nel rilascio del permesso di soggiorno determinava quindi tra il coniuge straniero e l’italiano un vero e proprio rapporto di sudditanza e non poche volte si sono riscontrate situazioni in cui il marito italiano per impedire alla
moglie straniera di allontanarsi liberamente o di iniziare una
qualsiasi attività lavorativa o non, si rifiutasse di apporre in Questura la tanto agognata firma.
Nel caso che ci apprestiamo a raccontare, tuttavia, non siamo
di fronte né ad un marito «padrone» né ad una donna che tenta
di emanciparsi, ma ad una coppia mista del tutto affiatata che
per semplice noncuranza a causa delle nuove norme in materia
di immigrazione viene a trovarsi in una situazione kafkiana.
Una donna di nazionalità senegalese giunta in Italia dopo il
2002 e priva del permesso di soggiorno, dopo un lungo periodo
vissuto nell’irregolarità, conosce e si innamora, ricambiata, di un
cittadino italiano che, nonostante le difficoltà dovute alla mancanza di documenti di lei, decide di sposarla. Non essendo ancora in vigore le norme che impediscono agli immigrati irregolari
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l’accesso ai certificati di stato civile, il matrimonio viene regolarmente celebrato e gli sposi danno inizio, come ogni coppia che si
rispetti, alla loro vita coniugale. A questo punto la questione del
permesso di soggiorno passa per entrambi i coniugi in secondo
piano: sottoporsi a file estenuanti, compilazione di documenti,
controlli, necessità della presenza del coniuge italiano al cui consenso è legato il rilascio del documento, sembra essere una inutile fatica per chi ritiene di vivere nella legalità. Pertanto dopo il
primo rilascio il titolo di soggiorno viene lasciato scadere nella
convinzione che ciò non comporti alcuna conseguenza per il prosieguo della vita in Italia da parte della moglie straniera.
In realtà con l’entrata in vigore del c.d. Pacchetto sicurezza le
cose cambiano radicalmente. Tuttavia, senza alcuna apprensione,
ma ritenendo trattarsi di una pura formalità, la moglie spinge il
marito ad accompagnarla in Questura per rinnovare il titolo di
soggiorno: ed è qui, con enorme sorpresa di entrambi, che alla
donna viene contestato il reato di cui all’art. 10-bis del TU come
modificato dalla l. 94/2009 che punisce «lo straniero che fa ingresso ovvero si trattiene nel territorio dello stato in violazione
delle disposizioni del TU sull’Immigrazione».
Ciò per quanto paradossale è reso possibile, al di là di ogni
valutazione sulla legittimità della fattispecie di reato, dalla mancanza di una moratoria che mette sullo stesso piano chi non ha
mai avuto un permesso di soggiorno e chi incolpevolmente lo ha
lasciato scadere pur in presenza dei presupposti per il rinnovo.
Clandestini senza colpa
L’assurdità di una fattispecie di reato che sostanzialmente punisce non una condotta, ma uno status diventa ancor più eclatante
in relazione alla situazione dei minori stranieri nati sul territorio
dello Stato o giunti in Italia in tenera età al seguito dei genitori.
Si tratta di soggetti che non hanno scelto la condizione di «irregolarità» in cui sono costretti a vivere, ma che la subiscono inconsapevolmente essendo d’altronde privi giuridicamente della possibilità di scegliere.
L’art. 19 del TU sull’immigrazione, nel disporre che «non è
consentita l’espulsione degli stranieri minori di anni diciotto salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi», consente
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ai minori stranieri il diritto a soggiornare sul territorio nazionale
essendo prevalente nel nostro ordinamento la tutela dei soggetti
minori d’età. Nulla però dispone il legislatore sul futuro dei minori che al raggiungimento della maggiore età si trovano ancora
sul territorio italiano, non è prevista alcuna possibilità di regolarizzazione (salvo una farraginosa procedura per i c.d. non accompagnati) a nulla valendo il fatto di essere cresciuti ed essersi
formati nel nostro paese.
La situazione non muta per gli stranieri nati in Italia poiché
l’art. 4 co. 2 della legge 91/92 in materia di cittadinanza prevede
soltanto una limitata introduzione dello ius soli laddove afferma
che: «Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore
età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data». Tale possibilità di
acquisto della cittadinanza italiana attraverso una semplice manifestazione di volontà resa dinanzi all’ufficiale di stato civile,
trattandosi di un diritto pieno, è però di fatto frustrata nell’applicazione pratica perché viene data preponderanza assoluta al requisito della residenza legale che, come scritto in una pubblicazione del Ministero dell’Interno, è il cardine intorno a cui ruota
l’intera procedura di acquisto della cittadinanza.
Ma cosa si intende per residenza legale? L’art. 1 del d.p.r.
572/93, regolamento di esecuzione della legge 91/92, stabilisce:
«Ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana […] si considera
legalmente residente nel territorio dello Stato chi vi risiede
avendo soddisfatto le condizioni e gli adempimenti previsti dalle
norme in materia di ingresso e di soggiorno degli stranieri in
Italia e da quelle in materia di iscrizione anagrafica». Pertanto,
secondo il legislatore del ’92, per il conseguimento dello status civitatis non basta la mera residenza abituale sul nostro territorio
ma occorre anche l’assolvimento di tutti gli obblighi inerenti all’ingresso ed al soggiorno.
Nasce a questo punto un primo problema: spesso il soggetto
nato in Italia da genitori stranieri non riesce a soddisfare i requisiti richiesti dalla legge perché i genitori hanno omesso di provvedere alla regolarizzazione o perché hanno provveduto ad assolvere agli adempimenti prescritti solo molto tempo dopo la sua
nascita. In tal caso la dimostrazione dell’ininterrotta permanenza
in Italia, pur valida ai fini dell’art. 43 c.c., non basta a rendere
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produttiva di effetti la dichiarazione di elezione di cittadinanza
entro l’anno dal compimento della maggiore età.
La legge, quindi, fa ricadere sui figli del tutto incolpevoli l’inadempimento dei genitori. In primo luogo va sottolineato che allo
stato essi non hanno alcuna possibilità di accedere alla cittadinanza prima del raggiungimento della maggiore età e sono destinati a rimanere in una sorta di limbo pur crescendo e trascorrendo la loro esistenza nel paese di cui assumono cultura e costumi. Inoltre, il loro destino è per così dire legato indissolubilmente alla condizione di regolarità o irregolarità dei genitori secondo uno schema che nella maggior parte dei casi determina il
perpetuarsi della clandestinità.
Nella nostra esperienza lavorativa sono diversi i casi di minori,
nati in Italia e qui vissuti, che non sono in grado di soddisfare i
requisiti richiesti dalla legge e che pertanto non riescono a lasciarsi alle spalle la condizione di precarietà che ha accompagnato la vita dei loro genitori. Si tratta di persone che, pur avendo frequentato le scuole in Italia, pur essendo state in alcuni casi
seguite dai servizi sociali e dagli organismi preposti a tutela
dell’infanzia, al compimento del diciottesimo anno per il nostro
ordinamento cessano di esistere e vanno ad ingrossare le file degli «irregolari». Non possono avere documenti, non possono accedere al mercato del lavoro, non possono sposarsi, non possono
lasciare il territorio dello Stato, non hanno alcun diritto, semplicemente non esistono ed oggi addirittura si vedono contestata la
commissione di un reato di cui a stretto rigore giuridico non si
ravvisano gli elementi né soggettivo (volontà) né oggettivo (condotta).
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